19 giugno, Carpaneto piacentino, terra di lavoro nei campi, quando la poesia di un amico diventa ricordi, emozioni, valori condivisi: presentazione di “Comu crusta a la muddica”, liriche in siciliano di Francesco Saverio Bascio
Emozione alle stelle, mercoledì 19 giugno nella sala BOT del castello di Carpaneto con gli affreschi futuristi realizzati nel ventennio da Osvaldo Barbieri in arte BOT, salone monumentale dove nell’occasione si presentava il libro di poesie in lingua siciliana dell’amico Francesco Saverio Bascio. Poeta degli umili, dei lavoratori della terra, dei braccianti che per pochi soldi e senza diritti si spaccavano la schiena sotto il sole della Trinacria. Francesco e la moglie, Emilia, novelli sposini, gestivano un negozio di frutta e verdura a Campobello di Mazara (TP) che di punto in bianco hanno abbandonato per non piegarsi alla “bussatina”, per non piegarsi di fronte al sistema malavitoso che dominava la vita nella loro Sicilia al prezzo della rinuncia all’onesta’ e alla dignità di un uomo libero. Così, per loro, è iniziata una vita da migranti che li ha portati in Olanda prima, Svizzera poi per arrivare infine nella nostra Carpaneto, paese della ricca pianura padana a vocazione agricola. Essere al tavolo degli oratori, su invito di Francesco, insieme ad Alberto Brenni (della redazione di TeleLibertà) e Arturo Croci, poeta e giornalista, per me una vera carezza al cuore. Innanzitutto per il piacere di sostenere l’amico Francesco lungo il suo percorso con il racconto in versi della bellezza del suo mare, del suo caldo sole, del sudore della sua gente, della povertà di chi non aveva altro che le braccia per lavorare al servizio dei latifondisti grandi proprietari raccogliendone al massimo di ché vivere, di ché mangiare almeno un misero pasto al giorno.
Il mondo del lavoro nei campi, a ben guardare il mondo di Carpaneto e soprattutto di quella Val Chero che proprio qui inizia nel suo cammino verso l’Appennino e dove, al chilometro 10, girando a. destra, si attraversava il torrente sul ponte di legno, salendo quindi sulla collina a mezza costa e si arrivava alla “Bora”, un gruppetto di cinque case, tre portici, tre stalle, una pianta di fichi, dove mio nonno e mia nonna a loro volta lavoravano la vigna, un campo di grano, un pascolo a monte, un bosco oltre torrente per la raccolta di legna per il camino. Erano gli anni ’60, quando papà comprò una Vespa 150 e mi portava con mamma appunto a trovare i nonni, a “respirare l’aria buona”, quella della campagna, quella dei cani che di notte s’abbaiavano da una fattoria all’altra lungo la valle. E lo zio Giovanni che faceva il muratore e ogni mattina partiva in moto verso la pianura. In valle però girava in macchina, con una Topolino a due posti e un piccolo spazio dietro il sedile dove mi mettevo con uno sgabello di legno, quello della stalla utile per mungere la vacca (che buono raccogliere col mestolo dal secchio il latte appena munto). Girava solo in valle perché non aveva patente: costava troppo o forse l’avevano bocciato più volte e comunque per far colpo sulle ragazze la moto faceva già la sua utile figura, soprattutto se andava al mercato di Carpaneto dove c’erano i Carabinieri e farsi vedere in macchina senza patente non gli conveniva per nulla. Insomma, ricordi della mia gioventù, delle notti a dormire con mio cugino stesi sulla paglia sotto le stelle, della pesca di frodo con la polvere da sparo nella ‘buca’ dove l’acqua era profonda, della mia mamma e i suoi ricordi dei giorni da contadinella, dei giorni, tanti anni dopo, in quella casa con Dalila in attesa del primo figlio, tanti ricordi, motivi in più di gratitudine e di emozione per l’invito di Francesco. Che in modo molto personale ho voluto onorare presentandomi per una volta non solo come scrittore e poeta ma soprattutto come giornalista (pubblicista), un titolo guadagnato anni fa grazie alla corrispondenza con l’Avanti!, giornale del socialismo italiano, dalla parte dei lavoratori e della giustizia sociale: anche se alla fine le vicende e i bisogni economici della vita mi hanno portato a svolgere in via prevalente altra attività, lo considero una medaglia da esibire pubblicamente nelle occasioni speciali, quando ne vale la pena e la serata a Carpaneto dedicata alla poesia di Francesco si presentava proprio come una di quelle occasioni.
Ma non basta. Già superato l’androne dell’ingresso, entrato nel cortile del castello che oggi ospita il municipio, l’emozione del ricordo: era l’anno 2006, l’assessore alla cultura mi aveva inserito nel calendario degli eventi estivi per una nuova rap-presentazione delle mie poesie. Seguita a quella precedente d’inizio anno quando la responsabile della biblioteca mi aveva invitato per una rap-presentazione anche allora in Sala BOT sempre con i dipinti di Osvaldo Barbieri all’epoca da poco restaurati (dipinti d’epoca fascista che comunque rappresentano una fase vissuta della nostra Storia, un passato che va comunque conosciuto per evitare di ripeterne gli errori che tanto dolore e tante morti hanno causato). Tra l’altro quella sera del 2006 mi aveva seguito Francesco Bonomini, ha ascoltato le prime poesie, si è sentito in linea con il mio linguaggio (lui che poi, come ha confessato, “del linguaggio poetico di regola non capisco niente”, forse riferendosi ai versi che bisogna studiare in una scuola ferma all’Ottocento), le ha accompagnate suonando l’organetto diatonico (così inaugurando un sodalizio che continua ancora oggi) e lo stesso ha fatto ancora qui a Carpaneto su invito di Francesco Saverio.
Tutto questo è entrato come base del mio intervento di illustrazione delle liriche di Francesco Saverio Bascio che cantano della cultura contadina, di povertà, la povertà che spesso ha spinto all’emigrazione. Poesia infine di giustizia, equità, pace. In altre parole, perfetta analogia con la mia poesia. Dunque, una volta che Francesco mi ha passato il microfono ho colto l’occasione per ringraziare lui, Carpaneto, il Sindaco Andrea Arfani e soprattutto per rivolgere, di fronte alla parete esaltante la Grande Guerra del 15-18, un omaggio alle migliaia di giovani contadini che volevano solo lavorare la loro terra e amare le loro ragazze e che invece furono chiamati e obbligati a combattere pur senza avere nemici da odiare e ammazzare mentre le donne che restavano a casa rischiavano la fame, i campi andavano in rovina, tutto per una guerra utile solo alle mira di potere e agli interessi di un Re che, mentre i soldati stavano nel fango sotto il fuoco delle mitraglie e le bombe dei cannoni, se ne stava nella sua reggia al sicuro. Così, ho concluso il mio intervento certo della comunanza di messaggio con la poesia di Francesco Saverio, oggi come ieri “BASTA GUERRA, BASTA INVIO ARMI, BASTA GENOCIDIO”.
#sempredallapartedellapace