“Il 10 giugno 1924 Giacomo Matteotti viene rapito e assassinato dai fascisti”, intervento di Gianni D’Amo per Città Comune

“Io, il mio discorso l’ho fatto, ora preparate il discorso funebre per me”

Giacomo Matteotti, secondo di sette figli (quattro dei quali morti di tisi in tenera età), nasce a Fratta Polesine (Rovigo) nel 1885. Il nonno era stato calderaio. Il padre, tra l’altro consigliere comunale socialista, sviluppa un fiorente commercio di ferro e rame, raggiungendo una solida posizione economica, che gli consente di far studiare i figli. Giacomo si laurea in Giurisprudenza a Bologna nel 1907 e ben presto si avvicina alla politica, nel solco paterno. Il giovane Matteotti è in prima fila nel sostenere le lotte bracciantili e apprezzato amministratore locale. Convinto antimilitarista, si schiera contro la guerra di Libia. Durante la Grande guerra, in cui non viene arruolato in quanto unico figlio superstite di madre vedova, è attivamente neutralista e perciò condannato a tre anni di confino presso Messina. Nel 1916 sposa col solo rito civile la poetessa Velia Titta e nel ‘18 nasce a Roma il loro primo figlio Giancarlo (cui seguiranno Matteo e Isabella).Nel dopoguerra emerge come una delle personalità rilevanti del socialismo riformista italiano, da subito tra i più lucidi e decisi oppositori del nascente fascismo. Eletto deputato nel ‘19 e nel ‘21 (circoscrizione di Ferrara e Rovigo), ben prima della marcia su Roma denuncia lo squadrismo finanziato dagli agrari nell’«Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia». Dalla fine del 1922 è segretario del Partito socialista unitario, che riunisce i riformisti allontanati dalla maggioranza massimalista del Psi, da cui già si era staccato nel gennaio del 1921 il Partito Comunista d’Italia. Nel 1923 pubblica «Un anno di dominazione fascista», prontamente tradotto in francese e in inglese. Nel luglio dello stesso anno, durante il primo governo Mussolini (voluto da re, agrari e industriali, sostenuto da nazionalisti e ampi settori liberali), l’antifascista Don Sturzo, su pressione del Vaticano, si dimette da segretario del Partito popolare: ne segue presto la benevola astensione dei deputati popolari sulla nuova legge elettorale Acerbo (a cui Sturzo si era sempre opposto), che elimina il proporzionale e assicura, a chi raggiunga il 25% dei votanti, il 65% degli eletti. Matteotti esprime la sua profonda preoccupazione in una lettera a Turati precedente le elezioni del 1924: «È necessario prendere, rispetto alla dittatura fascista, un atteggiamento diverso da quello tenuto fin qui; la nostra resistenza al regime dell’arbitrio deve essere più attiva, non bisogna cedere su nessun punto. (…) Nessuno può lusingarsi che il fascismo dominante deponga le armi e restituisca spontaneamente all’Italia un regime di legalità e libertà». I risultati del 6 aprile consegnano al listone di Mussolini la grande maggioranza dei seggi alla Camera, dopo una campagna elettorale caratterizzata da intimidazioni, violenze, brogli, che Matteotti, rieletto per la terza volta, documenta e denuncia con grande fermezza nella seduta del 30 maggio. «Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni», dice Matteotti. E rivolto ai vocianti parlamentari fascisti: «Per vostra stessa conferma nessun elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà… Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo con la forza, anche se a esso il consenso mancasse». Al termine si rivolge ai compagni di partito: «Io, il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me». Il 10 giugno Matteotti è rapito e brutalmente assassinato da un gruppo di squadristi, direttamente collegati ad alti gerarchi del fascismo. Seppellito in un bosco nelle vicinanze di Roma, viene ritrovato due mesi dopo. Nonostante l’ondata di sdegno, che coinvolge anche strati moderati e conservatori della società italiana, nonché le principali capitali europee, le forze antifasciste si dimostrano incapaci e divise. Mussolini, ricevuta la fiducia al Senato il 25 giugno (col voto favorevole dei liberali, proposto da Croce), approfitta della scelta delle opposizioni di disertare la Camera (“Aventino”) per varare i decreti contro la libertà di stampa, giungendo più forte che mai alla seduta del 3 gennaio 1925, nella quale così si esprime: «Dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica di tutto quanto è avvenuto. (…) Se il fascismo è stato una associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere».Piero Gobetti fu tra i pochi a cogliere subito che il fascismo aveva individuato «in Matteotti l’avversario vero, l’oppositore più intelligente e più irreducibile tra i socialisti unitari, il più giovane d’anni e d’animo. (…) Nulla di fortuito dunque nel suo assassinio». Nello stesso articolo (17 giugno 1924), ne descrive le qualità essenziali in questi termini: assenza di ogni demagogia, competenza in materia economica, capacità organizzativa, energia, determinazione. Ben più pericolosa di tanti proclami massimalistici e rivoluzionari si era rivelata, per il fascismo, l’assoluta intransigenza del riformista Matteotti.

“Il fascismo non è un’opinione, è un crimine”

Andrea Costa (1851 – 1910), aderente all’Internazionale anarchica prima, al P.S.I. poi, primo socialista eletto in Parlamento

Andrea Antonio Baldassarre Costa (1851 – 1910) è stato tra i fondatori del socialismo in Italia, primo deputato socialista della storia d’Italia. Aderì nel 1872 all’Internazionale anarchica di Bakunin. Incarcerato nel 1874 e condannato a due anni di prigione per un progettato piano di insurrezione, nel 1879 si tasferì in Svizzera a Lugano con Anna Kuliscioff. Qui, probabilmente influenzato dalle discussioni politiche con la sua compagna, scrisse la lettera intitolata Ai miei amici di Romagna, in cui indicava la necessità di una svolta tattica del socialismo, che doveva passare dalla “propaganda per mezzo dei fatti” a un lavoro di diffusione di principii, che non avrebbe presentato risultati immediati, ma avrebbe ripagato sul medio periodo. La presa di posizione di Costa determinò nel movimento socialista italiano una prima separazione dei socialisti dagli anarchici, che fu definitivamente sancita nel 1892 a Genova al Congresso di fondazione del Partito dei Lavoratori Italiani (che poi divenne il Partito Socialista Italiano). Inizialmente Costa mantenne autonomo il suo movimento, ma poi, a seguito della sconfitta del suo Partito Socialista Rivoluzionario Italiano alle elezioni del novembre 1892, confluì l’anno seguente nel Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI), che, nel Congresso di Parma del 1895, mutò definitivamente il suo nome in Partito Socialista Italiano.

Costa collaborò a periodici e riviste di carattere politico, tra cui “Fascio operaio“, “La plebe“, “Il martello“. Il primo maggio del 1880 fondò con i socialisti de “La plebe” la “Rivista internazionale del socialismo“, la cui pubblicazione fu interrotta dopo pochi mesi; nell’aprile del 1881 fondò ad Imola il settimanale socialista “Avanti!…“, la cui redazione venne trasferita a Roma nel 1884.

Nel 1882 Costa fu candidato alla Camera dal suo partito, in alleanza con il Partito Operaio Italiano, nei collegi di Imola e di Ravenna. Fu eletto in quest’ultima città, diventando così il primo deputato di idee socialiste nel parlamento italiano. Dopo quella prima elezione, venne sempre riconfermato, a partire dal 1895 nelle file del Partito Socialista Italiano, fino alla sua morte nel 1910.

Nel febbraio del 1887, nel corso del vivace dibattito parlamentare seguito al massacro di Dogali, coniò la parola d’ordine “né un uomo né un soldo” per l’impresa africana.

Il 5 aprile 1889 il Tribunale di Roma lo condannò a tre anni di reclusione per “ribellione alla forza pubblica”, a seguito dei disordini scoppiati durante una manifestazione in memoria di Guglielmo Oberdan.

Nel marzo 1890 fu nuovamente condannato per “ribellione”, avendo partecipato a Roma alle agitazioni degli operai edili.

Nel 1898 fu coinvolto nei moti di Milano, repressi a cannonate dal generale Bava Beccaris; arrestato con altri esponenti socialisti, ma la Camera dei deputati negò l’autorizzazione a procedere e venne liberato.

Anna Kuliscioff, socialista per l’emancipazione delle donne: le donne devono avere il lavoro, rendersi indipendenti, ottenere di conseguenza la parità dei diritti, compreso quello del voto

Anna Kuliscioff, il cui vero nome è Anja Rosenstein, nasce in Crimea, il 9 gennaio tra il 1853 e il 1857, in una famiglia benestante di commercianti ebrei. Amante dello studio, a circa 18 anni decide di seguire i corsi di Filosofia presso l’università di Zurigo, una città posta al centro dell’Europa con facoltà universitarie, anche tecniche, aperte alle donne e in cui si respirava una grande libertà di pensiero e dove Anna trova il suo ambiente ideale e dove la sua vita comincia a contrassegnarsi da una continua lotta per le libertà. Costretta a rimpatriare dalla Svizzera per ordine dello zar, aderisce alla cosiddetta “andata verso il popolo”: è il periodo dell’utopia rivoluzionaria, durante il quale la Kuliscioff, come reazione al dispotismo zarista, si convince della necessità dell’uso della violenza nella lotta politica. Ma nel tempo le sue posizioni saranno sempre meno estremiste e sempre più di matrice legalitaria.

1877 – Anna abbandona definitivamente la Russia, si stabilisce in Svizzera: qui incontra Andrea Costa, stabilendo da subito con lui una totale coincidenza di idee e trasferendosi con lui in Francia.

1878 – Arrestata, viene espulsa dalla Francia, e si trasferisce in Italia, dove pochi mesi dopo è processata anche a Firenze con l’accusa di cospirare con gli anarchici. Nuovo trasferimento in Svizzera.

1880 – la Kuliscioff e Costa rientrano clandestinamente in Italia, dove vengono arrestati nell’aprile dello stesso anno a Milano. Nell’agosto dello stesso anno Anna viene scarcerata e accompagnata al confine svizzero: si stabilisce a Lugano fino all’anno dopo. Rientra in Italia, raggiunge Andrea Costa a Imola e diventa madre di Andreina.

Gli anni ‘80 costituiscono per la Kuliscioff un periodo decisivo e nello stesso tempo di transizione, anche affettiva: in questo arco di tempo si tiene lontana dalla scena politica essendo fagocitata dal suo ruolo di madre e dalla sofferenze derivanti dallo stato di salute – aveva contratto la tubercolosi a seguito del periodo in carcere a Firenze – e dalla solitudine provocata dalla crisi del suo rapporto con Costa, rapporto che Anna chiude dolorosamente. Sono questi gli anni della sua iscrizione alla Facoltà di Medicina, dei suoi studi, delle conseguenti specializzazioni in ginecologia prima a Torino e poi a Padova. Con la sua tesi scopre l’origine batterica delle febbri puerperali aprendo la strada alla scoperta scientifica delle cause delle morti post partum. Anna Kuliscioff a Milano comincia la sua attività di medico, di “dottora dei poveri” come la chiamano i milanesi, trovando così, non senza difficoltà, un collegamento tra attività professionale e fede politica, fede politica che divide quotidianamente con Filippo Turati, incontrato mentre raccoglie fondi per esuli russi e con il quale, dopo alcuni dubbi, si lega sentimentalmente.

Nel 1889 fonda con Turati e Lazzari la Lega Socialista milanese.

Nel 1890: in una sala gremita al Circolo Filosofico milanese, dove diviene la prima donna protagonista al Circolo, tiene una Conferenza sul tema del rapporto uomo-donna. Il tema dell’incontro è Il monopolio dell’uomo. Opinione della Kuliscioff è che solo il lavoro sociale e egualmente retribuito potrà portare la donna alla conquista della libertà, della dignità e del rispetto.

1891: Nasce il “Salotto di Anna Kuliscioff”. Trasferitasi con Filippo Turati in un appartamento di Portici Galleria al numero 23, trasforma il salotto di casa in studio e redazione di “Critica sociale”: mucchi di giornali e plichi di libri circondano Anna e Filippo che lavorano insieme e nel salotto c’è un piccolo divano verde dove la Kuliscioff riceve i visitatori ad ogni ora del giorno: personaggi della cultura, della politica milanese, persone più umili e le “sartine” che trovano in Anna un’amica e una confidente. Ma il lavoro nel salotto più famoso di Milano viene bruscamente interrotto l’8 maggio 1898 quando un gruppo armato irrompe ed arresta Anna con l’accusa di reati di opinione e di sovversione. A dicembre viene scarcerata per indulto, mentre il suo compagno Filippo dovrà aspettare un anno.

1901 – il Partito Socialista, per tramite di Turati, presenta al Parlamento la legge Carcano, legge a tutela del lavoro minorile e femminile, elaborata dalla Kuliscioff, legge che sarà approvata . Anna Kuliscioff è convinta dell’importanza di trattare con il ministero di Giolitti e spinge Turati a rompere con gli intransigenti come Salvemini e Labriola, contrari a ogni forma di collaborazione col governo.

1908 – La questione fondamentale su cui ci si deve battere per Anna Kuliscioff: le donne devono avere il lavoro, rendersi indipendenti, ottenere di conseguenza la parità dei diritti, compreso quello del voto. I socialisti invece, nella lotta per il suffragio maschile, temono che allargare la richiesta a favore del voto alle donne, rischi di prolungare all’infinito la risoluzione della questione.

La Kuliscioff, ancora più spronata dall’atteggiamento negativo dei socialisti e anche di Turati, e sostenuta dal fatto che altri partiti socialdemocratici europei hanno fatto della questione femminile la propria bandiera, mette tutto il suo impegno perché il partito socialista italiano accolga nel suo programma generale la causa della donna.

1911 – nasce il Comitato Socialista per il suffragio femminile con il contributo ed il sostegno di Anna Kuliscioff

1912- La Kuliscioff fonda la rivista “La difesa delle lavoratrici” a cui collaborano tutte le migliori penne del socialismo femminile italiano, che, sempre in casa di Anna, direttrice del giornale, stabiliscono con successo un rapporto di comunicazione diretta con le lavoratrici – operaie e contadine – rendendole consapevoli della loro condizione, dei loro diritti, tra cui ovviamente il diritto al voto.

1912 – il governo dice no alle donne con una legge di Giolitti. Inizia per Anna Kuliscioff un periodo di scoraggiamento ed è allo stesso tempo un periodo di disorientamento anche per gli stessi socialisti e in cui si cominciano a intravedere le prime avvisaglie di un movimento antisocialista e nazionalista a tratti violento, di cui Anna, con la sua sensibilità e lungimiranza, ne percepisce, tutta la portata.

1925 – I fatti e la storia danno ragione ad Anna Kuliscioff, che scompare il 27 dicembre. Il suo funerale – 29 dicembre 1925 – sarà accompagnato dalla violenza per le strade di Milano, violenza scatenata da alcuni fascisti che si scagliano contro le carrozze, strappando drappi, bandiere e corone.

Fonte: fondazioneannakuliscioff.it

Filippo Turati, socialista riformista (Canzo,1857 – Parigi,1932)

 Turati, di formazione democratica, aderì al marxismo e fu tra i fondatori della rivista Critica sociale (1891) e del Partito socialista dei lavoratori italiani (1892). In età giolittiana promosse l’ascesa del movimento operaio per via gradualista e parlamentare. Leader dei riformisti, fu espulso dal PSI (1922). In esilio a Parigi, promosse la nascita della Concentrazione antifascista e la riunificazione del partito (1930) diviso in tre realtà (P.S.I. a maggioranza massimalista, P.C.d’I. aderente all’Internazionale comunista, Partito Socialista Unitario riformista).

Figlio di un alto funzionario statale, intraprese gli studi giuridici, laureandosi nel 1877 presso l’univ. di Bologna. Trasferitosi con la famiglia a Milano, iniziò la carriera di pubblicista come critico letterario. Negli anni successivi si avvicinò agli ambienti operai e socialisti e attraverso Anna Kuliscioff, cui si unì dal 1885, entrò in contatto con esponenti della socialdemocrazia tedesca. A questo periodo risale l’adesione al marxismo, che si innestò sulla sua precedente formazione democratica. Nel 1889, insieme alla Kuliscioff, fondò la Lega socialista milanese, con l’obiettivo di creare un punto di raccolta e di chiarificazione delle forze socialiste, primo passo verso la formazione di un partito autonomo della classe operaia. Questa azione, nel cui ambito si collocò la pubblicazione della rivista Critica sociale, culminò nel 1892 nella fondazione del Partito socialista dei lavoratori italiani (che dal 1895 assunse la denominazione PSI), cui Togliatti diede un contributo decisivo. Deputato dal 1896, fu arrestato in occasione dei moti del 1898; condannato a dodici anni di reclusione, fu liberato l’anno successivo. A capo della corrente riformista, di fronte alla nuova fase politica avviata da Giolitti, sostenne la necessità di appoggiare la borghesia liberale e di adottare una strategia gradualistica, convinto della possibilità dell’instaurazione pacifica del socialismo nel quadro di un generale progresso economico. Antimilitarista, avversò la guerra di Libia (1911) e l’intervento italiano nel conflitto mondiale; nel dopoguerra il suo ruolo all’interno del PSI, ormai guidato dalla componente massimalista, andò progressivamente scemando.

Al Congresso del 1921 (quello della scissione da parte dei comunisti) intervenne affermando il profondo dissenso ideologico che lo separava dai comunisti: egli dichiarò il suo netto rifiuto di ogni soluzione rivoluzionaria violenta e s’impegnò in una strenua difesa del riformismo socialista e della sua “opera quotidiana di creazione della maturità delle cose e degli uomini“, che sarebbe sopravvissuta al “mito russo”: “ciò che ci distingue non è la generale ideologia socialista – la questione del fine e neppure quella dei grandi mezzi (lotta di classe, conquista del potere ecc.) – ma è la valutazione della maturità della situazione e lo apprezzamento del valore di alcuni mezzi episodici“.

La sua disponibilità al confronto dialettico continuo con il governo dei liberali face sì che Turati fosse attaccato da tutti: dai comunisti, che già allora lo consideravano un “traditore” della classe operaia per non aderire alle indicazioni che venivano dalla Russia sovietica; dai fascisti e infine dagli esponenti massimalisti del suo stesso partito. Così, nel 1922 venne espulso dal partito insieme a tutti i componenti della corrente riformista e diede vita, con Giacomo Matteotti, al PSU.

Il PSU di Turati fu, forse, il partito più perseguitato dal regime fascista. Oltre alla barbara uccisione del suo segretario Matteotti, fu il primo a essere sciolto d’imperio, il 14 novembre 1925, a causa del fallito attentato a Mussolini da parte del suo iscritto Tito Zaniboni, avvenuto il 4 novembre precedente. Tuttavia, già il 26 novembre 1925 si costituì un triumvirato, composto da Claudio Treves, Giuseppe Saragat e Carlo Rosselli che, il 29 novembre successivo, ricostituì clandestinamente il PSU come Partito Socialista dei Lavoratori Italiani (PSLI).

Nel 1926, a un anno dalla morte della sua compagna Anna Kulishoff, dopo una fortunosa fuga organizzata da Parri, Rosselli e Pertini, si stabilì a Parigi. Nei primi tempi del suo soggiorno parigino il grande vecchio del socialismo italiano fu conteso dalla stampa di sinistra. In un’intervista rilasciata all’organo radicale “Oeuvre”, negò di aver lasciato Milano perché la sua vita fosse in pericolo: “Non avrebbero osato toccare il vecchio Turati. Solo che avevo nell’ingresso di casa mia poliziotti in continuazione (…). Alla fine mi sono sentito soffocare. Non ne potevo più di vivere così. È per questo che sono partito“. Alla domanda se prevedesse di poter rientrare in patria in tempi brevi rispose: “Ho lasciato laggiù i miei, la mia casa, i miei libri. È stato uno sradicamento. L’ho fatto, rassegnato a non vederli sicuramente più“.

Nell’aprile 1927 fu uno dei fondatori della Concentrazione Antifascista, che raggruppava tutti i movimenti e i partiti antifascisti italiani in esilio a Parigi, con l’autoesclusione dei comunisti, ligi alla dottrina sovietica del socialfascismo. S’impegnò, assieme a Giuseppe Saragat, nell’unificazione socialista in esilio: il 19 luglio 1930, in occasione del XXI Congresso socialista, tenutosi in esilio a Parigi, la maggioranza del PSI, guidata da Pietro Nenni, abbandonò definitivamente l’ala massimalista guidata da Angelica Balabanoff e si riunificò con il PSULI, assumendo assieme la denominazione di “Partito Socialista Italiano – Sezione dell’I.O.S – Internazionale Operaia Socialista“.

Pure convinto della necessità di una solidarietà fra tutte le forze antifasciste, continuò a denunciare il carattere totalitario e liberticida del comunismo sovietico.

Filippo Turati si spense nella capitale francese il 29 marzo 1932, nella capitale francese, Turati si spense. Ai suoi funerali parteciparono tutti gli esponenti antifascisti italiani in esilio in Francia (con l’esclusione dei comunisti che, anzi, in omaggio alla dottrina del cosiddetto “socialfascismo” imposta da Mosca, gli dedicarono epitaffi definendolo “traditore” dei lavoratori) e i rappresentanti dei partiti socialisti e socialdemocratici europei, oltre a una grande marea di popolo.

Il pensiero politico

Filippo Turati si definiva marxista, ma interpretava la dottrina di Marx in maniera non dogmatica: l’emancipazione del proletariato costituisce l’obiettivo, ma si deve mirare a ottenerla attraverso le riforme. Tutto ciò che può portare a un miglioramento delle condizioni di vita dei lavoratori è buono, anche se calato dall’alto; il socialismo è la stella polare della società, ma sino al suo avvento è bene cooperare con il capitalismo. Vi sono situazioni in cui la cooperazione non va rifiutata dai socialisti, le riforme possono essere più positive della contrapposizione di classe; vi sono tanti socialismi, che possono e devono adeguarsi ai vari stati e alle varie epoche.

Quello di Turati era un socialismo che rifiutava ogni suggestione del tutto e subito. Turati era, comunque, un socialista a tutti gli effetti, perché aveva come obiettivo il trasferimento della proprietà dei mezzi di produzione in mano pubblica, ma in maniera graduale. Il proletariato non si può emancipare di colpo, non si può credere nell'”illuminazione” rivoluzionaria: non rivoluzione, ma evoluzione graduale.

Il tempo del socialismo è un lungo tempo storico fatto di mediazione e di ragionevolezza: il proletariato raggiungerà la maturità attraverso le riforme; il riformismo è lo strumento per arrivare alla consapevolezza e deve abituare il proletariato alla sua futura evoluzione. Compiti del riformismo sono quelli di educare le coscienze, di creare reale solidarietà tra le classi subalterne.

Per Turati, se il proletariato è ancora immaturo, la rivoluzione sarebbe dannosa: il massimalismo significa contestazione, non migliora la condizione del proletariato, non è detto che porti a dei risultati evocare una selvaggia lotta di classe; anzi, tale lotta di classe porterebbe alla distruzione dell’economia, costringendo il proletariato a una miseria ancora più cruda.

In un suo brano del 1900 egli spiega la sua concezione di “rivoluzione”: “ogni scuola che si apre, ogni mente che si snebbia, ogni spina dorsale che si drizza, ogni abuso incancrenito che si stradica, ogni elevamento del tenore di vita dei miseri, ogni legge protettiva del lavoro, se tutto ciò è coordinato ad un fine ben chiaro e cosciente di trasformazione sociale, è un atomo di rivoluzione che si aggiunge alla massa. Verrà il giorno che i fiocchi di neve formeranno valanga. Aumentare queste forze latenti, lavorarvi ogni giorno, è fare opera quotidiana di rivoluzione, assai più che sbraitare pei tetti la immancabile rivoluzione che non si decide a scoppiare“.

Turati era un pensatore pacifista: la guerra non può risolvere alcun problema. Era avversario del fascismo, ma anche fortemente critico nei confronti della rivoluzione sovietica, che riteneva un fenomeno geograficamente limitato e non esportabile e che non faceva uso di intelligenza, libertà, e civiltà.

Per Turati il fascismo non era solo mancanza di libertà, ma una minaccia per l’ordine mondiale: egli individuava elementi comuni tra fascismo e bolscevismo perché entrambi ripudiavano i valori del parlamentarismo. In quest’ottica, vale la pena di fare un pezzo di strada assieme. al liberalismo per difendere la libertà

Fonte: treccani.it e wikipedia.it

La scissione socialista, Antonio Gramsci tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, il riconoscimento del partito guida bolscevico, il delitto Matteotti, l’attentato a Mussolini, la cattura di Gramsci, la morte

 Antonio Gramsci nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, divenendone esponente di primo piano e segretario dal 1924 al 1927, ma nel 1926 venne rinchiuso dal regime fascista nel carcere di Turi. Nel 1934, in seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita.

Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo e tra i massimi esponenti del marxismo occidentale, nei suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista, Gramsci analizzò la struttura culturale e politica della società. Elaborò in particolare il concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l’obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne.

Maturata la scelta socialista nel 1913 in seguito, rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città futura, uscito l’11 febbraio 1917. Qui mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce, superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo» – scriverà – «il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e io ero tendenzialmente crociano».

Nel marzo 1917 lo zar di Russia Nicola II è facilmente rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee, che chiedono pane: viene instaurato un moderato governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani «borghesi» sostengono che si tratta dell’avviamento di un processo di democratizzazione in Russia, sull’esempio della grande Rivoluzione francese, mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è […] un atto proletario ed essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista […] ».

Con il ritorno in Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. Gramsci è convinto che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo». Gramsci nega esplicitamente la necessità dell’esistenza di condizioni obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi «sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale».

I bolscevichi avevano intanto preso il potere in Russia il 7 novembre 1917, ma per settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate, finché il 24 novembre l’edizione nazionale dell’Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La rivoluzione contro il Capitale, firmato da Gramsci, collaboratore da Torino che, di fatto, esprimeva una forte critica nei confronti dei dirigenti socialisti europei e italiani in particolare. Lui, come altri giovani socialisti torinesi (Togliatti, Terracini) avvertiva l’esigenza di novità nell’attività politica non rappresentate dalla Direzione Nazionale del Partito. Diventò collaboratore della rivista Ordine Nuovo portandola su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all’ordine del giorno la necessità d’introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica, sull’esempio dei Soviet russi. Nel progetto degli ordinovisti, i Consigli dovevano occuparsi non tanto dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel settembre 1919, alla FIAT furono eletti i primi Consigli con la partecipazione di tutti gli operai. Naturalmente l’opposizione della Confindustria e di industriali torinesi come Olivetti, De Benedetti e Agnelli fu totale portando a scontri, licenziamenti, scioperi e serrate e alla fine gli operai ne uscirono senza nulla in mano. Responsabili, per Gramsci e gli ordinovisti, i sindacalisti della Camera del Lavoro e gli stessi socialisti riformisti che, col loro atteggiamento, portavano il Partito “ad assistere da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un’opinione sua da esprimere […] non lancia parole d’ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l’azione rivoluzionaria […] il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese […]”. Dunque, dito puntato contro la mancanza di omogeneità nel Partito dove continuavano ad essere presenti riformisti ed opportunisti contrari agli indirizzi della III Internazionale che limitavano l’azione della maggioranza rivoluzionaria trasformando il Partito in un mero organismo burocratico. Sostiene che “l’esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato […] è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet […] il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito […]“. Tuttavia al Congresso del P.S.I. convocato a Bologna nel 1919 i massimalisti ebbero la maggioranza ma la risoluzione dell’Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti l’allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista Italiano.

L’occupazione delle fabbriche

In Italia, le rivendicazioni salariali, rese necessarie dall’elevato indice d’inflazione, non trovavano accoglienza presso gli industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a seguito della serrata dell’Alfa Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli operai: la FIOM appoggiò l’iniziativa, ordinando l’occupazione di tutte le fabbriche metalmeccaniche d’Italia, con la speranza che una tale, estrema iniziativa provocasse l’intervento del governo a favore di una soluzione delle trattative. All’inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d’Italia erano occupate da mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale; alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell’ufficio di Giovanni Agnelli prese possesso l’operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario (una tesi fortemente sostenuta da Gramsci). Tuttavia la maggioranza massimalista del Partito (all’interno della quale gli ordinovisti rappresentavano una frazione) non aveva intenzione di prolungare l’agitazione dichiarando l’occupazione di tutte le fabbriche del Paese. Venne scelta la linea di un accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti, liberale, capo del governo. A questo punto Gramsci scrive che “la costituzione del Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l’opera nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili, liberati dall’assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro positivo, all’espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà“. A conseguenza, nell’ottobre 1920 si riunì a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e Amadeo Bordiga, Luigi Repossi, Bruno Fortichiari, Gramsci, Nicola Bombacci, Francesco Misiano e Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito Socialista.

La fondazione del Partito comunista

La scissione si realizzò il 21 gennaio 1921, nel Teatro San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d’Italia, sezione italiana dell’Internazionale». Dal 1º gennaio 1921 Gramsci diresse l’Ordine nuovo, divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste e Il Comunista di Roma, quest’ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto deputato alle elezioni del 15 maggio: non è un gran oratore e non gode di particolare popolarità.

Il 12 febbraio 1924 uscì a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista l’Unità . Il titolo del giornale, da lui scelto, venne giustificato dalla necessità dell’«unità di tutta la classe operaia intorno al partito, unità degli operai e dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo».

Il 10 giugno di quello stesso 1924 un gruppo di fascisti rapì e uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti segretario del Partito Socialista Unitario, il Partito dei riformisti espulsi dal P.S.I:; sembrò allora che il fascismo stesse per crollare per l’indignazione morale che in quei giorni percorse il Paese, ma non fu così. Gramsci dicharò che “il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alla storia nell’ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che nell’ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi“. Un’analisi sostanzialmente giusta ma fuori tempo e fuori realtà.

Il Congresso di Lione

Dal 20 al 26 gennaio 1926 si svolse clandestinamente a Lione il III Congresso del Partito che approvò le Tesi elaborate da Gramsci e Togliatti, votando lo stesso Gramsci segretario nazionale.

Con un capitalismo debole e l’agricoltura base dell’economia nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale omogenea e organizzata rispetto alla piccola borghesia urbana e rurale, che ha interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, “come l’unico elemento che per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società.” Secondo Gramsci il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga, l’espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l’espressione della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, “di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana” che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria, una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del Nord e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, sostiene, il Partito andrà bolscevizzato, ossia organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una “disciplina di ferro” negando al suo interno la possibilità dell’esistenza delle frazioni. Di rilievo la posizione rispetto alla socialdemocrazia che “sebbene abbia ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un’ala destra del movimento operaio, ma come un’ala sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata“. Nelle stesse Tesi si evidenzia che spetta “al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale comunista… La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file… La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti socialdemocratici.

L’arresto e il processo

Nel frattempo in Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata da Trotskij, Zinov’ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del ‘socialismo in un solo paese’ che porterebbe all’involuzione del movimento rivoluzionario. Il dissidio si era fatto sempre più aspro con la costituzione in frazione della minoranza e si era esteso anche all’interno del Partito comunista tedesco, provocando una scissione. Gramsci rileva che “i compagni Zinov’ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione […] sono stati tra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell’attuale situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato centrale del partito comunista dell’URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta a evitare le misure eccessive. L’unità del nostro partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali. Ma il tempo incalza, ben altri avvenimenti caratterizzano l’Italia: il 31 ottobre 1926, Mussolini subì a Bologna un attentato senza conseguenze personali che però costituì il pretesto per l’eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia: il 5 novembre il governo sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. L’8 novembre, in violazione dell’immunità parlamentare, Gramsci venne arrestato nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Dopo un periodo di confino a Ustica, il 7 febbraio 1927 fu detenuto nel carcere milanese di San Vittore. L’istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà a montare su di lui accuse credibili: fu anche fatto avvicinare da due agenti provocatori – prima un tale Dante Romani e poi un certo Corrado Melani – ma senza successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda, iniziò finalmente a Roma il 28 maggio 1928; Mussolini aveva istituito il 1º febbraio 1927 il Tribunale Speciale Fascista. Presidente è un generale, Alessandro Saporiti, giurati sono cinque consoli della milizia fascista, relatore l’avvocato Giacomo Buccafurri e accusatore l’avvocato Michele Isgrò, tutti in uniforme; intorno all’aula, un doppio cordone di militi in elmetto nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna. Gramsci è accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò concluse la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: “Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per venti anni“; e infatti Gramsci, il 4 giugno, venne condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione; il 19 luglio raggiunse il carcere di Turi, in provincia di Bari.

Il carcere e la morte

L’8 febbraio 1929, nel carcere di Turi, il detenuto 7.047 ottenne finalmente l’occorrente per scrivere e iniziò la stesura dei suoi Quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di 16 argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora svolti solo in parte. Intanto, il VI Congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi a Mosca dal luglio al settembre 1928, aveva stabilito l’impossibilità di accordi con la socialdemocrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso fascismo. Era la tesi del dittatore Stalin il quale, liquidata l’opposizione di Trockij, eliminava anche l’influenza di Bucharin. Da parte sua Il Partito comunista d’Italia si adeguò alle scelte dell’Internazionale, espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma con l’accusa di trotskismo, prima, il 30 marzo del 1930, Bordiga, poi, il 9 giugno, fu la volta di Alfonso Leonetti, Pietro Tresso e Paolo Ravazzoli. Gramsci, da parte sua, parlava di una via intermedia per la conquista del potere con una prima fase di alleanza tra la classe operaia, i contadini del Meridione, la piccola borghesia (compresi i socialisti riformisti). Per questo proponeva una Costituente che innanzitutto superasse la Monarchia: “La lotta per la conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi […] il primo passo attraverso il quale bisogna condurre questi strati sociali è quello che li porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L’inutilità della Monarchia è ormai compresa da tutti i lavoratori […] a questo obiettivo deve improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d’ordine della Costituente“, tesi che per alcuni lo ponevano esterno al Partito Comunista. Sicuramente da osservare lo sviluppo di un costante confronto e di una grande amicizia con Sandro Pertini, esponente del PSI e detenuto a sua volta nella Casa Penale di Turi e Pertini, nonostante i pensieri politici differenti, anche dopo la scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le tristi condizioni di salute che lo stroncavano. Dal 1931 Gramsci, oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall’infanzia, fu colpito da arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cercò di reagire alla detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni politiche, filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute continuarono a peggiorare e in agosto ebbe un’improvvisa e grave emorragia. A marzo 1933 ebbe una seconda grave crisi, con allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, venne trasferito nell’infermeria del carcere di Civitavecchia e il 7 dicembre in clinica a Formia. Il 25 ottobre 1934 Mussolini accolse la richiesta di libertà condizionata ma solo il 14 agosto 1935 poté essere trasferito nella clinica “Quisisana” di Roma, dove giunse in gravi condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e all’arteriosclerosi soffriva di ipertensione e di gotta. Il 21 aprile 1937 Gramsci passò dalla libertà condizionata alla piena libertà, ma era ormai in gravissime condizioni: morì all’alba del 27 aprile, a quarantasei anni, di emorragia cerebrale, nella stessa clinica Quisisana. Il giorno seguente la cremazione si svolsero i funerali, cui parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana: le ceneri, inumate nel cimitero del Verano, furono trasferite l’anno seguente nel Cimitero acattolico di Roma, nel Campo Cestio.

L’omicidio di Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista Unitario,

Il 10 giugno 1924 il deputato e segretario del PSU Giacomo Matteotti, dieci giorni dopo il suo discorso di denuncia delle violenze e dei brogli perpetrati dai fascisti nelle elezioni appena celebrate pronunciato il 30 maggio alla Camera dei deputati, venne rapito e ucciso da una squadraccia fascista, la cosiddetta CEKA di Amerigo Dumini, che rispondeva agli ordini della direzione del Partito Nazionale Fascista ed era finanziata direttamente dall’ufficio stampa del presidente del Consiglio Benito Mussolini.

Giacomo Matteotti (Fratta Polesine, 22 maggio 1885 – Roma, 10 giugno 1924) è stato segretario del Partito Socialista Unitario, formazione nata da una scissione del Partito Socialista Italiano al Congresso di Roma dell’ottobre 1922.

Fu rapito e assassinato da una squadra fascista capeggiata da Amerigo Dumini probabilmente per volontà di Benito Mussolini, a causa delle sue denunce dei brogli elettorali e del clima di violenza messi in atto dalla nascente dittatura nelle elezioni del 6 aprile 1924 e delle sue indagini sulla corruzione del governo, in particolare sulla vicenda delle tangenti della concessione petrolifera alla Sinclair Oil. Matteotti, nel giorno del suo omicidio (10 giugno) avrebbe dovuto infatti presentare un nuovo discorso alla Camera dei deputati, dopo quello sui brogli del 30 maggio, in cui avrebbe rivelato le sue scoperte riguardanti lo scandalo finanziario coinvolgente anche Arnaldo Mussolini, fratello minore del Duce. Il corpo di Matteotti fu ritrovato circa due mesi dopo, dal brigadiere Ovidio Caratelli.

In ogni caso, il 3 gennaio 1925, di fronte alla Camera dei deputati, Benito Mussolini si assunse pubblicamente la “responsabilità politica, morale e storica” del clima nel quale l’assassinio si era verificato.

Matteotti fu eletto in Parlamento per la prima volta nel 1919. Fu rieletto nel 1921 e nel 1924, e veniva soprannominato Tempesta dai suoi compagni di partito per il suo carattere battagliero ed intransigente. In pochi anni, oltre a preparare numerosi disegni di legge e relazioni, intervenne 106 volte in Aula, con discorsi su temi spesso tecnici, amministrativi e finanziari. Nel 1920 a Ferrara divenne il nuovo segretario della camera del Lavoro cittadina, e questo produsse un rinnovato impegno nella sua lotta antifascista, con frequenti denunce delle violenze che venivano messe in atto. Nel 1921 pubblicò una famosa “Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”, in cui si denunciavano, per la prima volta, le violenze delle squadre d’azione fasciste durante la campagna elettorale delle elezioni del 1921.

Nell’ottobre del 1922 Matteotti fu espulso dal Partito Socialista Italiano con tutta la corrente riformista legata a Filippo Turati. I fuoriusciti fondarono il nuovo Partito Socialista Unitario di cui Matteotti divenne segretario. Nel 1924 venne pubblicata a Londra, dove Matteotti si era recato in forma strettamente riservata nell’aprile di quell’anno, la traduzione del suo libro Un anno di dominazione fascista in cui riportava meticolosamente gli atti di violenza fascista contro gli oppositori.

Nell’introduzione del libro esplicitamente ribatteva alle affermazioni fasciste, che affermavano l’uso della violenza squadrista utile allo scopo di riportare il paese a una situazione di legalità e normalità col ripristino dell’autorità dello Stato dopo le violenze socialiste del biennio rosso, affermando la continuazione delle spedizioni squadriste contro gli oppositori anche dopo un anno di governo fascista. Inoltre sosteneva che il miglioramento delle condizioni economiche e finanziarie del paese, che stava lentamente riprendendosi dalle devastazioni della guerra, era dovuto non all’azione fascista, quanto alle energie popolari. Tuttavia, ancora secondo Matteotti, a beneficiarne sarebbero stati solo gli speculatori ed i capitalisti, mentre il ceto medio e proletario ne avrebbe ricevuto una quota proporzionalmente bassa a fronte dei sacrifici.

La contestazione delle elezioni del 1924

Il 30 maggio 1924 Matteotti prese la parola alla Camera dei deputati per contestare i risultati delle elezioni tenutesi il precedente 6 aprile. Mentre dai banchi fascisti si levavano contestazioni e rumori che lo interrompevano più volte (un deputato fascista, Giacomo Suardo, abbandonò l’aula per protesta) Matteotti, denunciando una nuova serie di violenze, illegalità ed abusi commessi dai fascisti per riuscire a vincere le elezioni, pronunciava un discorso che sarebbe rimasto famoso.

Terminato il discorso disse ai suoi compagni di partito: “Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”.

La proposta di Matteotti di far invalidare l’elezione almeno di un gruppo di deputati – secondo le sue accuse, illegittimamente eletti a causa delle violenze e dei brogli – venne respinta dalla Camera con 285 voti contrari, 57 favorevoli e 42 astenuti. Renzo De Felice ha definito “assurda” l’interpretazione di questo discorso come una richiesta di Matteotti basata su una realistica possibilità di ottenere un successo: secondo lo storico, Matteotti non mirava realmente all’invalidamento del voto, bensì a dare il via dai banchi del parlamento ad un’opposizione più aggressiva nei confronti del fascismo, accusando in un colpo solo sia il governo fascista che i “collaborazionisti” socialisti.

In questa sua intransigenza – tuttavia – Matteotti non riusciva a trovare un collegamento con l’operato e l’ideologia dei comunisti, che vedevano tutti i governi borghesi uguali fra loro e quindi da combattere indifferentemente: “Il nemico è attualmente uno solo, il fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell’altro“.

Il discorso del 30 maggio – secondo lo storico Giorgio Candeloro – “diede a Mussolini e ai fascisti la sensazione precisa di avere di fronte in quella Camera un’opposizione molto più combattiva di quella esistente nella Camera precedente e non disposta a subire passivamente illegalità e soprusi“.

Il rapimento e l’omicidio

Il 10 giugno 1924, intorno alle ore 16.15, Matteotti uscì di casa a piedi per dirigersi verso Montecitorio decidendo di percorrere il lungotevere Arnaldo da Brescia (per poi tagliare verso Montecitorio), piuttosto che incamminarsi lungo la via Flaminia per poi raggiungere il Corso attraverso gli archi di Porta del Popolo. Qui, secondo le testimonianze dei due ragazzini presenti all’evento, era ferma un’auto con a bordo alcuni individui, poi in seguito identificati come i membri della polizia politica: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo.

Due degli aggressori, appena si accorsero del parlamentare social-unitario, gli balzarono addosso. Ciononostante Matteotti riuscì a divincolarsi buttandone uno a terra e rendendo necessario l’intervento di un terzo che lo stordì colpendolo al volto con un pugno. Gli altri due intervennero per caricarlo in macchina. In seguito i due ragazzini identificarono anche la vettura, da altri testimoni descritta semplicemente come “un’automobile, nera, elegante, chiusa”, per una Lancia Kappa. I due ragazzini, avvicinatisi al veicolo, furono allontanati rudemente, poi la macchina ripartì ad alta velocità.

Nel frattempo all’interno della vettura scoppiò una rissa furibonda e dall’abitacolo della vettura Matteotti riuscì a gettare fuori il suo tesserino da parlamentare che fu ritrovato da due contadini presso il Ponte del Risorgimento. Non riuscendo a tenerlo fermo Giuseppe Viola, dopo qualche tempo, estrasse un coltello e colpì Matteotti sotto l’ascella e al torace uccidendolo dopo un’agonia di diverse ore. Per sbarazzarsi del corpo i cinque girovagarono per la campagna romana, fino a raggiungere verso sera la Macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano, a 25 km da Roma. Qui, servendosi del cric dell’auto, seppellirono il cadavere piegato in due. Poi ritornarono a Roma dove lasciarono la vettura in un garage privato. Subito informarono Filippelli e De Bono degli avvenimenti e poi si allontanarono cercando di nascondersi.

Le ricerche e le indagini

L’assenza di Matteotti in Parlamento non fu immediatamente notata, ma già il giorno dopo, 11 giugno, la notizia della scomparsa era sui giornali. Più tardi Mussolini sostenne di aver appreso della morte di Matteotti soltanto la sera dell’11 giugno e di esserne stato, fino ad allora, del tutto ignaro.

Intanto, due giorni dopo il rapimento fu individuata l’auto che risultò proprietà del direttore del Corriere Italiano Filippo Filippelli grazie alla testimonianza di Ester Erasmi e del marito Domenico Villarini che, insospettiti da strani movimenti avvenuti la sera prima, avendo notato la vettura sospetta, si erano annotati la targa. Da questo importante episodio nacquero le prime indagini, intentate dal magistrato Mauro Del Giudice, intransigente giurista, difensore dell’indipendenza della magistratura di fronte al potere esecutivo, il quale, assieme al giudice Umberto Guglielmo Tancredi, fin dall’inizio individuò in Dumini la mano dell’assassino. In breve tutti i rapitori furono identificati ed arrestati, ma dopo pochissimo e dietro diretto interesse del Duce, l’incarico gli venne tolto e le indagini vennero fermate. Fu questa comunque l’occasione in cui Cesare Rossi deporrà il suo memoriale. Del Giudice invece fu successivamente allontanato dalla capitale e qualche anno dopo, portato al pensionamento forzato.

Il 17 giugno Mussolini impose le dimissioni a Cesare Rossi e ad Aldo Finzi che erano indicati dall’opinione pubblica e anche dalle indagini del magistrato Del Giudice, come i più coinvolti a causa delle note frequentazioni con gli uomini di Dumini. Fu dimissionato anche il capo della polizia Emilio De Bono e il giorno seguente anche Mussolini rinunciò alla guida del ministero dell’interno che affidò a Luigi Federzoni.

I socialisti unitari vicini a Filippo Turati nel frattempo diramarono un comunicato stampa che accusava il governo: “L’autorità politica assicura solerti indagini per consegnare alla giustizia i colpevoli, ma la sua azione appare totalmente investita dal sospetto di non volere, né potere colpire le radici profonde del delitto, né svelare l’ambiente da cui i delinquenti emersero“.

Il 22 giugno, si costituirono spontaneamente il Segretario amministrativo del PNF Giovanni Marinelli, ricercato come mandante del sequestro e il vicesegretario politico Cesare Rossi, dopo essere stati latitanti. Cesare Rossi si recò direttamente al carcere di Regina Coeli invece che in Questura, “per evitare la curiosità dei giornalisti, gli obiettivi fotografici e il trasporto a Regina Coeli“. Lo stesso giorno, a Bologna, fu convocata da Dino Grandi un’imponente adunata in sostegno a Mussolini cui parteciparono circa cinquantamila fascisti.

Il 24 giugno fu riunito il Senato che, a larga maggioranza, riconfermò la fiducia a Mussolini con 225 voti favorevoli su 25. Gli unici tre senatori a denunciare le responsabilità di Mussolini, nonostante le minacce ricevute, furono Carlo Sforza, Mario Abbiate e Luigi Albertini.

Il 27 giugno 1924 i parlamentari dell’opposizione si riunirono in una sala di Montecitorio, oggi nota come sala dell’Aventino, decidendo comunemente di abbandonare i lavori parlamentari finché il governo non avesse chiarito la propria posizione a proposito dell’omicidio Matteotti.

Il giorno dopo alcuni parlamentari socialisti si recarono in pellegrinaggio sul luogo in cui Matteotti era stato rapito dove deposero una corona d’alloro. Lo stesso giorno Filippo Turati commemorò Matteotti alla Camera. Questo discorso fu da alcuni storici considerato come l’inizio effettivo della Secessione dell’Aventino. L’obiettivo era quello di ottenere la caduta del governo e poter andare a nuove elezioni

L’8 luglio il governo, approfittando dell’assenza dell’opposizione, varò nuovi regolamenti restrittivi relativi alla stampa, rafforzati due giorni dopo dall’obbligo per ciascun giornale di nominare un direttore responsabile. Costui poteva essere diffidato se contravveniva le leggi e il giornale messo in condizione di non poter più pubblicare. Il 24 luglio Roberto Farinacci in una lettera dichiarò di accettare l’incarico di avvocato della difesa nella causa contro Dumini e compagni che aveva precedentemente rifiutato.

Il ritrovamento del corpo e funerali

Nonostante le ricerche continuassero il corpo di Matteotti fu ritrovato per caso solo il 16 agosto, tra le 7:30 e le 8 del mattino, dal cane di un brigadiere dei Carabinieri in licenza, Ovidio Caratelli, nella macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano. Il corpo fu trasferito momentaneamente nel cimitero di Riano dove il 18 si procedette all’identificazione da parte dei cognati. Il cadavere era ormai in avanzata fase di decomposizione quindi fu necessaria una perizia odontoiatrica. Il 20 agosto, alle ore 18, quindi solo quattro giorni dopo il ritrovamento, partiva da Monterotondo (paese a 15 chilometri circa da Riano) il treno che avrebbe riportato a Fratta Polesine la bara con la salma di Matteotti. Mussolini ordinò al ministro degli Interni Luigi Federzoni che i funerali si tenessero direttamente a Fratta Polesine, città natale di Matteotti, in modo da non dare troppo nell’occhio.

La popolazione del piccolo centro partecipò numerosa al funerale di colui che era affettuosamente chiamato il “Capo dei lavoratori”. Il 12 settembre 1924 a Roma, Giovanni Corvi, al grido di “Vendetta per Matteotti!”, uccise il deputato fascista Armando Casalini. Dopo i funerali, il corpo di Matteotti venne sepolto nella tomba di famiglia del cimitero del suo comune natale.

La responsabilità diretta di Mussolini

Fin dai primissimi momenti successivi al sequestro e, ancor più dopo la scoperta che il rapimento era degenerato in omicidio, presso la gran parte della pubblica opinione si diffuse la convinzione che Mussolini fosse il responsabile ultimo dei fatti. Mussolini stesso, il 31 maggio 1924, giorno seguente al discorso del deputato socialista alla Camera di denuncia dei brogli elettorali, scrisse sul Il Popolo d’Italia che la maggioranza era stata troppo paziente e che la mostruosa provocazione di Matteotti meritava qualcosa di più concreto di una risposta verbale.

Secondo una delle ricostruzioni, accreditata dal Ministero dell’interno italiano, il presidente del Consiglio, rientrato al Viminale dopo il famoso discorso del deputato socialista si rivolse a Giovanni Marinelli (a capo, insieme a Rossi, della polizia segreta fascista Ceka, capitanata dallo squadrista Amerigo Dumini) urlandogli: “Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare […] .

Il fatto che queste parole fossero effettivamente una chiara e ben compresa autorizzazione di Mussolini, è sostenuto dalla maggior parte delle teorie storiografiche.

Tale esplicita intenzione e la conseguente responsabilità diretta di Mussolini quale mandante dell’omicidio è messa in dubbio da quella parte degli storici più vicina alle posizioni allora sostenute dal partito fascista, giocando sulla sottigliezza delle parole di Mussolini. Esse sarebbero state arbitrariamente intese da Marinelli come un ordine, in base al quale questi avrebbe autorizzato poi Dumini a uccidere Matteotti.

Rapporti tra Mussolini, Dumini e Otto Thierschwald

L’intenzionalità del delitto Matteotti sarebbe dimostrata dal fatto che, Amerigo Dumini, in data 31 maggio 1924 – giorno successivo al discorso di denuncia di Giacomo Matteotti alla Camera – scrisse al direttore del carcere Poggioreale di Napoli di rilasciare il detenuto Otto Thierschwald. Essendo austriaco, Thierschwald parlava perfettamente il tedesco. Il 2 giugno successivo Dumini lo incontrò a Roma e gli dette istruzioni di pedinare Matteotti e di seguirlo in Austria dove l’uomo politico avrebbe partecipato ad un congresso socialista. Pochi giorni dopo (il 5 giugno), fu improvvisamente concesso a Matteotti il permesso per recarsi a Vienna, sino ad allora costantemente negato. Nella capitale austriaca era stata preparata una trappola mortale per Matteotti, il cui assassinio sarebbe dovuto apparire come una faida interna al movimento socialista. L’organizzazione del delitto quindi era già stata avviata alcuni giorni prima del 10 giugno, se non che Matteotti preferì rinunciare al suo viaggio a Vienna: da ciò sarebbe nata l’improvvisazione oggetto delle argomentazioni di chi nega ogni premeditazione.

Amerigo Dumini, nel “processo farsa” intentatogli dal regime (vedi appresso) fu condannato per omicidio “preterintenzionale” a cinque anni, undici mesi e venti giorni, di cui quattro condonati in seguito all’amnistia generale del 1926. Poco dopo la sua scarcerazione si presentò alla presidenza del Consiglio pretendendo di parlare con Mussolini: «Sono qui per lavarmi dal sangue di Matteotti». Per questo episodio, il Tribunale di Viterbo lo condannò, il 9 ottobre 1926, a quattordici mesi di detenzione per porto abusivo d’armi e oltraggio a Mussolini. Tuttavia, nel 1927 era di nuovo libero, per grazia sovrana, e si trasferì poi in Somalia nell’estate 1928, con una pensione garantita di cinquemila lire al mese, che per l’epoca era una somma altissima. Anche qui però Dumini riprese a delinquere e in ottobre venne nuovamente arrestato, rispedito in Italia e condannato a cinque anni di confino. Tra gli altri luoghi, scontò parte del confino alle Isole Tremiti.
Nel 1933, di nuovo in carcere, fece sapere a Emilio De Bono di aver consegnato a dei notai texani un manoscritto con la verità sul delitto Matteotti. Il ricatto ancora una volta funzionò e venne posto di nuovo in libertà su ordine di Mussolini, con un indennizzo di cinquantamila lire.

Su proposta del capo della polizia Bocchini, nella primavera del 1934 Dumini si trasferì in Cirenaica, dove si diede all’attività di imprenditore agricolo e commerciale, ricevendo ingenti finanziamenti dal governo italiano, ammontanti, fra il 1935 e il 1940, a più di due milioni e mezzo di lire.

A supporto dell’ipotesi di un diretto coinvolgimento del Duce nel delitto Matteotti ci sarebbe, quindi, la pressoché immediata scarcerazione, dopo la condanna penale, del capo della squadra responsabile dell’assassinio del deputato socialista e il sostegno economico e politico fornitogli, a fronte delle sue minacce ricattatorie di divulgare il ruolo di Mussolini nella decisione dell’omicidio.

Assunzione della responsabilità di Mussolini stesso

Il 3 gennaio 1925, alla Camera, Mussolini respinse inizialmente l’accusa di un suo coinvolgimento diretto nel delitto Matteotti, sfidando anzi i Deputati a tradurlo davanti alla Suprema Corte in forza dell’articolo 47 dello Statuto Albertino. Successivamente, con un improvviso cambio di tono, si assunse personalmente, in due vicini passaggi del suo discorso, la responsabilità sia dei fatti avvenuti e sia di aver creato il clima di violenza in cui tutti i delitti politici compiuti in quegli anni erano maturati, trovando anche parole per riaffermare, di fronte ad alleati ed avversari, la sua posizione di capo indiscusso del fascismo.

Infine Mussolini denunciò l’Aventino come sedizioso e concluse con una dichiarazione minacciosa verso l’opposizione.

Nella notte Luigi Federzoni, ministro dell’Interno, inviò ai prefetti due telegrammi riservati che traducevano in pratica i propositi autoritari di Mussolini. Le disposizioni invitavano, in particolare, le autorità ad esercitare la sorveglianza più vigile su circoli, associazioni, esercizi pubblici che potessero costituire pericolo per l’ordine pubblico e, se del caso, ad attuarne la chiusura forzata. Le autorità erano altresì autorizzate ad avvalersi senza scrupoli del fermo temporaneo nei confronti degli oppositori politici. Inoltre i prefetti venivano invitati ad applicare con rigore assoluto il decreto legge atto a “reprimere gli abusi della stampa periodica”, approvato durante il Consiglio dei ministri del 7 luglio 1924, ma fino a questo momento usato quasi esclusivamente nei confronti della stampa di ispirazione comunista. Il decreto conferiva ai prefetti, ossia al governo, il potere di diffidare o addirittura sequestrare il giornale che diffondesse “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”.

Una successiva circolare interpretativa del ministro Federzoni aveva subito sgombrato il campo dagli equivoci: il giornale poteva essere sequestrato anche se la notizia pubblicata si fosse rivelata vera.

Successivamente Mussolini ebbe a dire del rapimento e poi del delitto che era «una bufera che mi hanno scatenato contro proprio quelli che avrebbero dovuto evitarla» (alla sorella Edvige) in chiaro riferimento ad alcuni suoi collaboratori (De Bono, Finzi, Marinelli e Rossi, con frequentazioni massoniche). In un’altra occasione ebbe a definire il delitto “un cadavere gettato davanti ai miei piedi per farmi inciampare.

L’influenza culturale

Sandro Pertini, eletto consigliere comunale di Stella, il suo paese natale, il 24 ottobre 1920, in una lista composta da esponenti dell’Unione Liberale Ligure, dell’Associazione Liberale Democratica, del Partito dei Combattenti e del Partito Popolare Italiano, si sarebbe iscritto al Partito Socialista Unitario, presso la federazione di Savona, il 18 agosto 1924, proprio sull’onda dell’emozione e dello sdegno per il ritrovamento, due giorni prima, del cadavere di Matteotti, che di quel partito era il Segretario.

Durante la Resistenza Italiana il PSI-PSIUP costituì le Brigate Matteotti, la cui azione più nota e clamorosa fu a Roma il 24 gennaio 1944 la liberazione dal carcere di Regina Coeli di due dei suoi principali esponenti, i futuri presidenti della Repubblica Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, insieme a Luigi Andreoni e ad altri quattro militanti socialisti, in un’azione dai connotati rocamboleschi ideata e diretta da Peppino Gracceva e Giuliano Vassalli.
L’evasione dei sette antifascisti salvò con tutta probabilità la loro vita: non v’è dubbio infatti che, se ancora detenuti alla data del 24 marzo 1944, i loro nominativi sarebbero stati inclusi nell’elenco dei Todeskandidaten (condannati a morte o colpevoli di reati passibili di condanna a morte) da fucilare per rappresaglia alle Fosse Ardeatine.

Riconoscimenti

Monumenti e musei

Sul luogo del ritrovamento del corpo di Matteotti è stato eretto un monumento in ricordo. Gli sono state inoltre intitolate diverse strade e piazze in gran parte delle principali città italiane e un Premio.

Nel comune natale di Fratta Polesine è situata la tomba del deputato presso il cimitero comunale, meta ancora oggi della visita e dell’omaggio di molti cittadini e personalità della politica.

La “Casa museo Giacomo Matteotti”

Dopo la scomparsa dei figli di Matteotti la casa di famiglia nel piccolo paese del Polesine è rimasta chiusa al pubblico per molti anni e lasciata in stato di abbandono e disordine. Soltanto in anni recenti si è avviata un’importante opera di recupero di ambienti e mobili ad opera dell’Accademia dei Concordi di Rovigo, proprietaria della casa, e del Comune di Fratta Polesine, che ne ha la gestione. Nell’aprile 2012 l’abitazione viene riaperta al pubblico al termine dei lavori di restauro e trasformata in Casa Museo Giacomo Matteotti. L’edificio ospita al piano terra e al primo piano una ricostruzione fedele degli ambienti così come si presentavano negli anni venti, completi di mobili e cimeli di famiglia restaurati in maniera conservativa. Il secondo piano ospita una mostra fotografica e multimediale sulla vita e il martirio del deputato. La villa, che è il centro delle celebrazioni che ogni 10 giugno si svolgono a Fratta Polesine, è stata riconosciuta nel 2018 monumento nazionale dal Presidente della Repubblica Mattarella. La Casa Museo è dotata di un Comitato scientifico che ha promosso la creazione di un sito web (www.casamuseogiacomomatteotti.it) nel quale sono stati riversati gli scritti di Matteotti (discorsi politici, testi giuridici, saggi economico-sociali, interventi sul fascismo), del fratello Matteo e della moglie Velia Titta e molte testate di giornale relative ai mesi del rapimento e dell’assassinio. Inoltre un’ampia antologia di studi sul Polesine tra secondo Ottocento e primo Novecento, cioè sull’ambiente in cui Matteotti visse ed operò.

Fonte: Wikipedia

La dittatura fascista, le leggi fascistissime, l’imperialismo, il razzismo, il nazifascismo, la Repubblica Sociale Italiana

Fondamentalmente il fascismo rifiuta la democrazia; esso non considera sé stesso un’esigenza temporanea, ma un sistema politico a sé stante a tutti gli effetti: la “terza via” contrapposta tanto alla destra reazionaria quanto alla sinistra marxista.

Il fascismo sostiene che le “autoproclamatesi” democrazie siano in realtà effettivamente regimi plutocratici, sorta di dittature massoniche basate sulla manipolazione della volontà popolare.

Questa considerazione viene da un aspetto dell’origine del fascismo, che è riassunta nel famoso discorso di Benito Mussolini nella frase: “Noi ci permettiamo di essere aristocratici e democratici, conservatori e progressisti, reazionari e rivoluzionari, legalisti e illegalisti, a seconda delle circostanze di tempo, di luogo e di ambiente“.

Assumono carattere totalitario così sia le leggi che hanno provveduto a eliminare (o “fascistizzare”) le libertà liberali quali quelle di associazione, di stampa, di espressione etc., sia le leggi cosiddette “fascistissime”, ossia:

  • legge 24 dicembre 1925: il potere esecutivo passa completamente nelle mani di Mussolini che non deve più rispondere al parlamento ma rimane responsabile solo verso il re;
  • legge 31 gennaio 1926: al potere esecutivo viene data la facoltà di emanare norme giuridiche;
  • legge 5 novembre 1926: viene creato il “tribunale speciale” (e, fra l’altro, ripristinata la pena di morte);
  • legge 9 dicembre 1928: il Gran Consiglio del Fascismo diventa, da vertice gerarchico del partito, organo dello Stato, sovrapposto ai poteri e agli istituti designati dallo Statuto;
  • Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 6 maggio 1926: viene ripristinato il confino di polizia, rivolto in particolare agli oppositori politici.

Queste leggi – altrimenti tipiche di qualunque autoritarismo – considerate nel contesto organico dello sviluppo del fascismo, permettono di approfondire ulteriormente i caratteri totalitari del fascismo, ovvero:

  • un’ideologia ufficiale improntata da una filosofia assolutistica che prevede l’identificazione dell’individuo con lo Stato e la subordinazione dell’individuo allo Stato in tutti gli aspetti della vita (e per questo è legittimata la repressione nei confronti di qualsiasi opposizione);
  • Un sistema politico atto a sfruttare e sviluppare i caratteri della società di massa, dominato da un partito unico i cui vertici si identificano con le massime cariche del legislativo e dell’esecutivo;
  • L’organizzazione capillare delle forze di polizia a fini di controllo della vita privata dei cittadini e di repressione del dissenso in ogni sua forma (e, conseguente a ciò, un’ampia discrezionalità di tali forze nel fermare, imprigionare, interrogare qualsiasi cittadino da esse ritenuto sospetto di devianza politica nonché collusione palese tra polizia e magistratura nel trattamento giuridico e penitenziario di esponenti, veri o presunti tali, dell’opposizione).

Altro aspetto totalitario del regime si trova nella volontà appunto “totalitaria” di costringere ogni cittadino nell’ambito di un organismo collettivo (il cosiddetto “Armonico Collettivo”); l’individuo viene così inserito forzatamente, a prescindere dalla sua volontà, all’interno di strutture di partito le quali si occupano di “integrarlo” e inquadrarlo “dalla culla alla tomba” in formazioni educative, paramilitari, politiche, culturali, sindacali, corporative e assistenziali.

Accanto alle organizzazioni di partito, il fascismo intese anche dominare i mezzi di comunicazione di massa, avendo intuito Mussolini che il controllo capillare di stampa, radio e cinema era “l’arma più forte” per facilitare la trasmutazione fascista della società italiana; vi fu quindi un controllo rigoroso della circolazione delle informazioni sia attraverso il monopolio statale dei mezzi di informazione di massa (giornali, cinegiornali e radio), sia attraverso il controllo e l’uso della censura preventiva sugli altri mezzi di comunicazione di massa (teatro, cinema, musica leggera, fumetti) culminato nel 1939 con l’estensione del visto di censura preventivo anche per le opere musicali.

Ulteriore carattere totalitario del regime fu il costante uso della violenza e della repressione – oltre che il costante richiamo all’odio, al disprezzo e alla denigrazione – verso i partiti e i movimenti antifascisti o antinazionali (socialisti, riformisti, comunisti, neutralisti, bolscevichi, pacifisti, democratici), teso a imporre l’idea fascista su quelle dei suoi nemici (fin dall’inizio), nonché (dal 1938) verso gli ebrei, tramite l’approvazione dei provvedimenti di segregazione razziale. Alla luce di questi elementi, il fascismo inteso come forma di stato “totalitaria” si contraddistingue per la presenza di un partito unico che pervade la società in ogni suo aspetto, tramite un’incisiva e mirata propaganda tesa a imporre il volere del partito unico a ogni individuo, e tramite l’uso delle forze di polizia e della Milizia Volontaria per la Sicurezza Nazionale atte a scoraggiare qualsiasi atto contrario al regime, nonché con l’identificazione di un “nemico” da additare al popolo (socialisti, comunisti, partiti antifascisti, democratici, pacifisti, e dal 1938 anche ebrei).

La volontà del fascismo di incidere nella storia si manifestò anche con l’istituzione della cosiddetta era fascista, ossia una particolare numerazione degli anni che faceva riferimento al giorno della marcia su Roma. Il primo anno dell’Era fascista comincia quindi il 28 ottobre 1922 e termina il 27 ottobre 1923. Il riferimento diretto era al nuovo calendario istituito dalla rivoluzione francese, della quale secondo gli intellettuali del regime il movimento fascista costituiva una moderna evoluzione.

Il calendario in uso rimaneva quello gregoriano, mentre venivano indicati in maniera diversa solo gli anni. In genere, era adottata una doppia numerazione: in cifre arabe l’anno secondo l’Era cristiana e in cifre romane quello secondo l’Era fascista. L’anno cristiano continuava a far data dal 1º gennaio, mentre l’anno fascista partiva dal 28 ottobre (ad esempio, il 27 ottobre 1933 è l’ultimo giorno dell’XI E.F. e il 30 ottobre 1933 il terzo del XII E.F.).

L’era fascista fu istituita ufficialmente il 27 ottobre 1927 ma divenne vigente già dal 25 dicembre 1926 quando il capo del governo espresse, in seguito alla proposta epistolare inoltrata il 26 novembre 1926 dal Ministro della Pubblica Istruzione, Pietro Fedele, il desiderio che in tutti gli atti ufficiali venisse aggiunta sempre alla data del calendario civile quella “dell’annuale dell’assunzione al Potere del Governo Fascista”; il suo uso diventò obbligatorio negli atti pubblici dal 29 ottobre 1927 (secondo giorno dell’anno VI dell’Era fascista). La doppia datazione rimase in vigore durante tutto il governo Mussolini e oltre, nella Repubblica sociale italiana, fino all’aprile del 1945.

Il Manifesto degli intellettuali fascisti, pubblicato il 30 marzo 1925 fu il primo documento ideologico della parte della cultura italiana che aderì al regime fascista e il tentativo di indicare le basi politico-culturali dell’ideologia fascista. Anche la letteratura italiana durante il fascismo fu influenzata dal regime.

L’Istituto Nazionale di Cultura Fascista (INCF) fu fondato nel dicembre 1925 e preposto alla diffusione e allo sviluppo degli ideali fascisti e della cultura italiana. Fu alle dirette dipendenze del Segretario del Partito e fu sottoposto all’alta vigilanza di Mussolini.

Sempre nel 1925 nasce l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana a opera di Giovanni Treccani e Calogero Tumminelli, con direttore scientifico il filosofo Giovanni Gentile. Le sue principali opere furono dal 1929 l’Enciclopedia Italiana diretta da Gentile e nel 1940 il Dizionario di politica, diretto dal filosofo del linguaggio Antonino Pagliaro. Nel 1926 fu fondata la Reale Accademia d’Italia con il compito di “promuovere e coordinare il movimento intellettuale italiano nel campo delle scienze, delle lettere e delle arti”. Prese il via nel 1929. Dopo il Manifesto degli intellettuali fascisti del ’25, Mussolini e Gentile firmarono la voce fascismo dell’Enciclopedia Italiana, definita un “centone pragmatista” da Federzoni.

La Scuola di mistica fascista Sandro Italico Mussolini, fondata nel 1930 a Milano da Niccolò Giani e da Arnaldo Mussolini, si proponeva in particolare di essere il centro di formazione politica dei futuri dirigenti del Fascismo. I principi-chiave sui quali l’insegnamento si basava erano l’attivismo volontaristico, la fede nell’Italia dalla quale si riteneva derivasse quella in Benito Mussolini e nel Fascismo, l’anti-razionalismo, un certo connubio tra religione e politica, la polemica con la liberal-democrazia e il socialismo, il culto della “romanità”.

I Littoriali dello Sport, della Cultura e dell’Arte e del Lavoro erano manifestazioni culturali, artistiche e sportive destinate ai migliori universitari dei GUF, svoltesi in Italia tra il 1932 e il 1940. Erano organizzati dalla Segreteria nazionale del Partito Nazionale Fascista.

Razzismo e antisemitismo

Alla fine degli anni trenta il fascismo cominciò a elaborare una serie di teorie razziste e antisemite, in parte a imitazione di ciò che stava avvenendo parallelamente in Germania. Nell’autunno 1938, nel quadro di una grande azione razzista già tempo prima, il governo Mussolini varò la “normativa antiebraica sui beni e sul lavoro”, ovvero la spoliazione dei beni mobili e immobili degli ebrei residenti in Italia. In seguito a una feroce campagna di stampa (in parte pagata segretamente da agenti tedeschi incaricati da Goebbels) si giunse ad approvare in fasi successive delle leggi discriminatorie nei confronti degli ebrei e delle popolazioni non indoeuropee delle colonie. In queste ultime si puntò alla realizzazione di una sorta di sviluppo separato (apartheid) del genere praticato in quel periodo già in alcune colonie britanniche e negli Stati del sud degli Stati Uniti. In seguito i provvedimenti discriminatori si estesero anche ai cittadini italiani e libici di religione israelita, con un progressivo allontanamento della maggioranza di essi dalla vita pubblica italiana nonché con l’internamento in vari campi di concentramento fascisti.

Il razzismo fascista prese varie forme, nel tentativo di distinguersi da quello nazista, e in esso convissero sia la convinzione del razzismo biologico sia quella del razzismo spirituale, invece generalmente assente nei razzismi nazista e in quelli di altri paesi. Un importante contributo all’antisemitismo fascista venne anche da taluni ambienti cattolici, sebbene il Vaticano non abbia mai né approvato, né appoggiato ufficialmente i provvedimenti antisemiti. Nessun documento proverebbe invece pressioni ufficiali e dirette da parte tedesca durante la genesi dei provvedimenti razziali.

A differenza degli altri razzismi del suo tempo, quello fascista è solo tangente alle politiche eugenetiche condotte dal regime, che erano fondamentalmente razziste nella Germania nazista e invece assenti nei razzismi coloniali e post-schiavisti rispettivamente britannico e statunitense. Infatti sebbene i provvedimenti per la difesa della razza prevedessero l’apartheid degli ebrei e dei non-indoeuropei rispetto agli italiani ariani, tutte le provvigioni e le iniziative a carattere eugenetico (ginnastica, colonie per l’infanzia, sanatori, Opera Maternità e Infanzia etc.) proposte e imposte dal regime continuarono ad applicarsi anche ai sudditi di cittadinanza libica e a quelli dell’AOI, almeno fino al 1942.

Il rapporto col nazismo

Il nazionalsocialismo si presenta, soprattutto dal punto di vista ideologico, come una particolare forma di “socialismo fascista”. Nei fatti tuttavia l’aspetto “socialista” del regime tedesco era fondamentalmente una trovata propagandistica. L’interpretazione più diffusa è che il nazismo fu anch’esso una forma di fascismo; il regime tedesco si ispirava apertamente a Mussolini e condivideva col fascismo italiano impostazione economica, politica e sociale, nonché la politica estera aggressiva e i tratti ideologici caratteristici del fascismo fattosi regime.

L’idea di impero (neoghibellinismo)

Il continuo ritorno a un’idea di romanità portò come logica conseguenza l’affermarsi di teorie filosofiche neo-ghibelline, ovvero propugnanti la ricostituzione di un Sacro Romano Impero che si ricongiungesse in qualche misura con una mistica tradizione ancestrale, e alla fine proponesse il superamento del fascismo in una forma di nuovo imperialismo spirituale e supernazionale, a carattere essenzialmente anticristiano.

Secondo la teoria di Julius Evola, il fascismo si configurerebbe come una delle tante manifestazioni storiche del concetto più ampio di Tradizione, ovvero di una società basata sui valori di gerarchia, militarismo e misticismo. In quest’ottica diverrebbero forme di Fascismo in senso lato le più disparate esperienze storiche: da Sparta e Roma alle società celtiche, nordiche e germaniche, al Sacro Romano Impero.

Il fascismo nella RSI

Il profilo delle personalità del fascismo rifondato nel Partito Fascista Repubblicano al Congresso di Verona si distinse da quello del ventennio per il protagonismo di numerosi personaggi degli ambienti squadristi, via via emarginati da Mussolini dopo la Marcia su Roma. I vecchi squadristi, che per lunghi anni spesso erano stati relegati a incarichi di secondo piano, tornarono alla ribalta, prendendo l’iniziativa sin dall’annuncio dell’armistizio e prima della proclamazione della Repubblica Sociale Italiana il 27 settembre 1943.

Un’altra caratteristica del fascismo repubblicano fu l’importanza assunta dalle componenti volontarie, che si vennero coagulando sin da prima della fondazione della repubblica e poi ne costituirono un tratto significativo, nelle proprie formazioni sia militari sia civili. Questo sforzo si lega al recupero della tradizione “movimentista” del primo fascismo. Ciò nonostante la RSI dovette ricorrere a numerosi bandi di leva al fine di mobilitare alcune centinaia di migliaia di italiani. Solo con la reiterazione dei bandi – che includevano la minaccia di passare per le armi i renitenti – si riuscì in fasi successive e ad arruolare un numero complessivamente calcolato da fonti reducistiche in sette-ottocentomila uomini, dei quali, sempre secondo le stesse fonti fasciste, un numero oscillante attorno ai duecentomila volontari, in buona parte giovanissimi (anche minorenni). La maggioranza della popolazione mantenne un atteggiamento di indifferenza e freddezza (la cosiddetta “zona grigia”) o di ostilità (la “Resistenza disarmata” nelle fabbriche con centinaia di migliaia di scioperanti e sabotaggi continui dello sforzo bellico, nelle campagne, nei campi di internamento tedeschi (col rifiuto degli italiani internati di aderire alle forze armate della RSI) verso il rinato fascismo, consentendo al contempo lo sviluppo e il sostentamento della lotta armata antifascista.

Nel corso dei 600 giorni di durata della Repubblica Sociale, a partire dalla Carta di Verona, i dibattiti interni al Fascismo si orientarono essenzialmente su:

  • la critica al passato regime, ai suoi compromessi con la monarchia, la Chiesa e l’establishment industriale[, ritenuti ostacoli che avevano impedito la completa realizzazione della “rivoluzione fascista”;
  • la socializzazione delle imprese, che divenne tanto un propagandistico “ritorno alle origini” del fascismo quanto una maniera revanscista per colpire le classi sociali alto-borghesi, ritenute dal fascismo squadrista disfattiste, antifasciste se non in aperta combutta col nemico;
  • la nuova veste istituzionale da dare allo stato, se accettare l’introduzione di elementi democratici nella costituzione dello Stato e se consentire un regime pluripartitico o monopartitico;
  • la nuova forma da dare alle Forze Armate, interamente volontarie oppure mantenendo una continuità con il vecchio esercito monarchico di coscritti, nonché sulla loro apoliticità oppure sulla necessità di dar loro una veste politica;
  • il problema del “dopo” tanto in prospettiva di una vittoria dell’Asse (ritenuta ancora possibile grazie alle “armi segrete” di cui si pensava disponesse il Reich) sia quando la sconfitta divenne certa.

Fra le componenti psicologiche e politiche che mossero la RSI e il Fascismo Repubblicano se ne possono evidenziare alcune come emergono dalla memorialistica:

  • il desiderio di preservare la continuità del regime fascista e del suo collocamento bellico al fianco della Germania;
  • il desiderio di vendetta contro quegli elementi ritenuti esiziali per il vecchio fascismo: “i nemici di dentro e di fuori” che avevano impedito il completamento della “rivoluzione”, avevano sabotato lo sforzo bellico facendo intelligenza col nemico, e avevano tradito Mussolini, identificati con la massoneria, gli ebrei, la plutocrazia, la monarchia, ecc.;
  • il cupio dissolvi, dettato dal desiderio di cercare “la bella morte” e concludere con essa un’esperienza politica e umana condannata alla sconfitta.
  • il desiderio di rendere un servizio alla nazione italiana nel suo momento ritenuto più buio (riscattandone l’onore, secondo i fascisti compromesso dall’armistizio dell’8 settembre). Da parte di taluni si è cercata una giustificazione della RSI nel tentativo – evidentemente fallito, visti gli esiti – di “ammorbidire” l’occupazione germanica e di mantenere in piedi l’apparato dello Stato per consentire la sopravvivenza del popolo durante la guerra.

Significato concettuale del fascismo

Nell’ambito storiografico italiano il termine “fascismo” è usato soprattutto in riferimento al regime di governo e all’ideologia promossi e attuati da Benito Mussolini tra il 23 marzo 1919 e il 28 aprile 1945.

Alcuni storici ritengono improprio l’utilizzo del termine “fascista” in riferimento alla Germania nazionalsocialista e ai regimi autoritari formatisi in Europa negli anni trenta e quaranta, considerati derivazioni del caso nazista più che di quello fascista (se si eccettuano il Portogallo di António de Oliveira Salazar, la Grecia di Ioannis Metaxas e il cosiddetto Austrofascismo, che tuttavia presentano somiglianze più che altro superficiali col fascismo italiano) o casi a sé stanti (come per la Spagna di Francisco Franco, il cui movimento e regime sono definiti Franchismo per distinguerli da fascismo e nazismo).

In tal senso, anche il termine “nazifascismo” è considerato scorretto da chi sostiene la specificità del fascismo italiano, perché non consentirebbe di cogliere le differenze avutesi tra i due movimenti. Questi studiosi contestano l’utilizzo del medesimo termine in riferimento a regimi autoritari post-bellici, uso che peraltro risulta essere effettuato in modo incoerente e, talora, con funzione di mero insulto (il termine “fascista” è usato, in tale accezione impropria, col significato astoriografico di “inumano, crudele, oppressivo”): in tal modo “fascista” è stato utilizzato tanto per indicare spregiativamente regimi quali quello di Augusto Pinochet in Cile (privo di una reale base ideologica), nonché regimi di segno ideologico opposto (quali quello comunista cinese e russo) oppure la democrazia americana.

Il punto di vista anglo-americano

Nei Paesi anglofoni il termine fascism viene usato:

  • per definire propriamente il regime fascista italiano;
  • per definire i regimi autoritari di destra sorti a imitazione del fascismo italiano (nazismo e franchismo);
  • per definire generalmente regimi nei quali lo stato sia asservito a interessi di gruppi privati;[114]
  • per indicare i movimenti simpatizzanti per il fascismo sorti nel Regno Unito (British Union of Fascists) e negli Stati Uniti (Legione d’argento d’America);
  • genericamente ogni regime di tipo militarista, conservatore o reazionario, con accezione spregiativa;
  • sempre con accezione di epiteto, come sinonimo di “prepotente”:
  • per definire i partiti politici italiani che si ispirano al partito fascista e spesso vedono o hanno visto tra le proprie file personaggi legati al partito fascista (sui giornali anglofoni sia il MSI sia AN erano chiamati “fascist party”).

Nel corso della Seconda guerra mondiale, la propaganda alleata tendeva a utilizzare indistintamente il termine fascist per definire tutti i paesi dell’Asse.

L’intellettuale Noam Chomsky parla di regimi “sub-fascisti” per indicare regimi militari sostenuti dalla CIA e dal Pentagono quali quello di Augusto Pinochet in Cile o altri dittatori del Sud America che utilizzando sistemi violenti e anti democratici (tortura, negazione dei diritti civili, repressione con la violenza di ogni forma di opposizione, uccisione di civili innocenti) hanno garantito agli Stati Uniti il controllo commerciale del mercato dei paesi sud americani e il saccheggio sistematico delle risorse di questi paesi.

Il punto di vista marxista e socialista

A sinistra, il termine “fascista” è talvolta usato per indicare qualsiasi regime autoritario di destra, specie quelli alleati dell’Asse durante la seconda guerra mondiale, come il regime militarista giapponese o il franchismo spagnolo, o più spesso i loro seguaci. Per alcuni anni, Stalin e la III Internazionale definirono i socialdemocratici come “socialfascisti” (una posizione abbandonata nel 1935).

Dal punto di vista di molte scuole interpretative marxiste, tuttavia, il fascismo vero e proprio è quello dell’Italia e della Germania: un “regime reazionario di massa” secondo la definizione di Palmiro Togliatti, accettata anche dal trotskismo internazionale e in qualche modo vicina alla definizione gramsciana di “rivoluzione passiva”. In questo senso, non vengono fatte distinzioni di rilievo fra il regime hitleriano e quello di Mussolini, che vengono invece fatte rispetto a dittature prive di una base di mobilitazione di massa (come quella portoghese di Salazar o quella cilena di Pinochet). Il caso spagnolo è ambiguo, perché se pure esisteva un forte movimento fascista dal lato franchista, Franco non ne faceva parte e anzi si adoperò affinché venissero “riassorbite” in un generico “movimento nazionale” le forze che più apertamente si ispiravano a Hitler o a Mussolini (come la falange spagnola).

In generale, il termine è tuttora usato presso l’area culturale marxista o post-marxista come epiteto dispregiativo nei confronti della destra e in generale degli avversari politici. Un caso recente è stato quello del presidente venezuelano Chávez, che ha descritto il primo ministro spagnolo Aznar come “un fascista”.

Fonte: Wikipedia

Le elezioni politiche del 1924, i brogli elettorali, la denuncia di Giacomo Matteotti, segretario riformista del Partito Socialista Unitario, il suo omicidio

Le elezioni politiche italiane del 1924 per l’elezione della Camera dei deputati si svolsero il 6 aprile 1924. Furono le ultime elezioni multi-partitiche a sovranità popolare svoltesi in Italia prima dell’avvento della dittatura fascista.

La frammentazione elettorale delle precedenti elezioni (del 1921) spinse il Partito Nazionale Fascista a presentare un progetto di legge elettorale in nome della governabilità, La cosiddetta legge Acerbo, un proporzionale con voto di lista e premio di maggioranza, fu approvata in un clima intimidatorio come dimostra il discorso di Filippo Turati: “Sotto l’intimidazione non si legifera; non si legifera tra i fucili spianati e con la minaccia incombente delle mitragliatrici […] Una legge, la cui approvazione vi è consigliata dai 300 mila moschetti dell’esercito di dio e del suo nuovo profeta, non può essere che la legge di tutte le paure e di tutte le viltà. Quindi non sarà mai una legge. Voi continuate a baloccarvi, signori del Governo, in quella quadratura del circolo che è l’abbinamento del consenso e della forza. Or questo è l’assurdo degli assurdi. O la forza o il consenso. Dovete scegliere. La forza non crea il consenso, il consenso non ha bisogno della forza, a vicenda le due cose si escludono.”

La campagna elettorale e le elezioni furono segnate da un clima di intimidazione e da ripetute violenze da parte dei sostenitori del Partito Nazionale Fascista, denunciate nella seduta parlamentare del 30 maggio dal segretario socialista (PSU) Matteotti.

Il Partito Socialista Unitario dei riformisti aveva ottenuto 24 seggi, il Partito Socialista Italiano (che aveva aderito alla III Internazionale ed espulso i riformisti di Turati e Matteotti) 22 seggi, il Partito Comunista d’Italia 19 seggi, grazie al premio di maggioranza 355 i seggi conquistati dalle camicie nere di Mussolini (la Lista Nazionale).

In seguito al celebre discorso di denuncia dei brogli, Giacomo Matteotti, segretario del Partito Socialista Unitario, fu rapito e assassinato da una squadra fascista capeggiata da Amerigo Dumini. Matteotti, nel giorno del suo omicidio (10 giugno) avrebbe dovuto infatti presentare un nuovo discorso alla Camera dei deputati – dopo quello sui brogli del 30 maggio – in cui avrebbe rivelato le sue scoperte riguardanti lo scandalo finanziario coinvolgente anche Arnaldo Mussolini, fratello del duce. Il corpo di Matteotti fu ritrovato circa due mesi dopo.

L’anno dopo, nel 1925, Mussolini con il discorso col quale assume la responsabilità del delitto, di fatto inizia la dittatura fascista.

“Marcia su Roma, le responsabilità della sinistra nella presa di potere dei fascisti: a spianare la strada furono i socialisti del PSI”

Il 28 ottobre 1922 fu la giornata della Marcia su Roma (“e dintorni” come Emilio Lussu volle intitolare il racconto di quell’evento). L’organizzazione paramilitare del fascismo – sotto la guida del cosiddetto quadrumvirato, costituito il 16 ottobre, composto da Italo Balbo, Cesare Maria De Vecchi, Emilio De Bono e Michele Bianchi e stanziato a Perugia – iniziò a mobilitarsi il 27 con l’ordine di occupare le Prefetture, gli Uffici postali e telegrafici e le reti telefoniche. “L’esercito delle camicie nere” disponeva di un armamento raffazzonato e non sarebbe stato in grado di reggere uno scontro con le truppe regolari, scaglionate sulle strada di accesso alla Capitale agli ordini del comandante di quella piazza, il generale Pugliese.

La mattina del 28 Luigi Facta (il presidente del “nutro fiducia”) portò al sovrano il decreto sulla proclamazione dello stato d’assedio, ma Vittorio Emanuele III non lo volle firmare; così le squadre fasciste entrarono indisturbate a Roma (vi furono tuttavia degli scontri nel Quartiere di San Lorenzo), mettendo a sacco le sedi sindacali, socialiste e comuniste. Nei giorni immediatamente successivi intervennero alcuni tentativi di mediazione, respinti da Mussolini; il Re decise allora di convocare il Duce per conferirgli l’incarico di formare il governo.

Cosa che avvenne il 30 ottobre. Mussolini si presentò al Quirinale in camicia nera, scusandosi con il sovrano per non aver potuto indossare un abbigliamento più consono, in quanto – disse – “reduce dalla battaglia” (in verità Benito Mussolini, durante la parata delle sue squadre, si era ritirato a Milano, a un passo dalla Svizzera, dove intendeva rifugiarsi se l’avventura fosse fallita). Rivolgendosi al Re (quando era direttore dell’Avanti! lo definiva il signor Vittorio Savoia) affermò: “Porto a Vostra Maestà l’Italia di Vittorio Veneto, riconsacrata dalla vittoria e sono il fedele servo di Vostra Maestà“.  La Marcia su Roma fu l’epilogo di quello che gli storici definiscono il “biennio nero” (1921-1922), il periodo in cui cominciò a dilagare – incontrastata – la violenza fascista, con la complicità palese degli apparati dello Stato e il sostegno politico ed economico di ampi settori della borghesia, del mondo dell’impresa e dagli agrari. Il Partito socialista aveva sprecato la grande capacità di lotta che le masse operaie avevano espresso nel biennio precedente (“il biennio rosso”) culminato nell’occupazione delle fabbriche del settembre del 1920. Il gruppo dirigente non era stato in grado di far valere, sul versante istituzionale, il grande successo elettorale ottenuto nel novembre 1919, quando per la prima volta si votò col suffragio universale riconosciuto a tutti gli uomini che avevano compiuto 21 anni o, se più giovani, partecipato al conflitto bellico. Gli iscritti alle liste elettorali erano passati da 8,6 milioni a più di 11 milioni.

Le diverse componenti liberali ottennero 178 seggi contro i 310 del 1913; i socialisti massimalisti 156 seggi contro i 52 precedenti; i popolari – al primo cimento elettorale – 100 deputati (il PPI era stato fondato da don Sturzo nel gennaio 1919); 39 i radicali, 27 i socialisti riformisti, 20 gli ex combattenti e 9 i repubblicani. I fascisti si presentarono solo a Milano ma ottennero circa 5mila voti e non elessero alcun parlamentare. Dopo le elezioni amministrative del 1920 in occasione delle quali i socialisti conquistarono più di 2mila comuni (1600 i popolari), nella successiva competizione politica, svoltasi il 15 maggio 1921, già si poteva intravvedere l’inizio del declino del Psi che ottenne 123 seggi (vi era già stata all’inizio del 1921, al Congresso di Livorno, la scissione del Pc d’I che elesse 15 deputati), mentre i popolari guadagnarono 8 eletti in più. I fascisti conquistarono 35 seggi, 10 i nazionalisti (coalizzati nei cosiddetti blocchi nazionali insieme alle liste liberali). Questi risultati del voto sono la prova che il Pnf costituiva una minoranza del Paese e che solo la violenza dello squadrismo e la benevolenza dei poteri economici aprirono a questo partito le porte del potere.

Ma enormi furono gli errori e gli ostacoli incontrati dai socialisti e dai popolari a presentarsi come una reale alternativa. Se i popolari dovettero fare i conti con la Chiesa cattolica interessata alla linea di conciliazione offerta da Mussolini e ovviamente ostile al “pericolo rosso”, i socialisti fecero tutto da sé (anche se è innegabile che le milizie fasciste avevano usato il pugno di ferro contro il Partito e la Cgl). A cominciare dalla richiesta di aderire alla III Internazionale. Il loro programma consisteva nel “fare come la Russia”, istituire la Repubblica socialista e la dittatura del proletariato, socializzare i mezzi di produzione e di scambio e quant’altro passava il convento del “mito bolscevico”. Pertanto, nel nome della rivoluzione proletaria, veniva respinto, dalla maggioranza massimalista, ogni possibile intesa con altre forze. A testimonianza dell’impotenza settaria che esprimeva allora il Psi, basterebbe leggere gli atti del XIX Congresso nazionale svoltosi a Roma dall’1 al 4 ottobre 1922 (ossia poche settimane prima della Marcia su Roma) e prendere atto dell’ordine del giorno con cui era stato convocato: “Situazione interna del Partito e sua attività politica nel Paese e nel Parlamento. Appoggio a indirizzo di Governo e partecipazione al potere nell’attuale regime”. Ballando ormai sull’orlo del precipizio, i socialisti portarono a termine quella scissione che era nelle cose da tempo (che era stata evitata a Livorno e a Milano).

I massimalisti decisero di espellere la corrente riformista e quella centrista in ossequio ai diktat della III Internazionale (“Il partito socialista, eliminato dal suo seno il blocco riformista-centrista, rinnova la sua adesione alla III Internazionale”). Gli esiti del voto (32mila per i massimalisti contro 29mila per gli unitari) spaccarono il Partito a metà. Il dibattito si caratterizzò per le accuse contro i riformisti (e i loro interventi di difesa). Le prime critiche vennero già nella relazione del segretario Fioritto, il quale attribuì agli avversari interni la responsabilità dell’insuccesso dello sciopero generale del 30 luglio (uno sciopero politico per chiedere alle autorità di contrastare le violenze fasciste): “I riformisti (il gruppo dirigente della CGL, ndr) proclamando tale sciopero all’inizio della crisi e sospendendolo alla sua conclusione e definendolo legalitario, lo avevano fatto apparire al proletariato come uno strascico montecitoriale, snervando le masse più accese“. Dopo il segretario intervenne Giacinto Menotti Serrati: “Il nostro compito non è quello di aiutare la borghesia a risolvere la propria crisi, ma quello di trarre dalla crisi i vantaggi rivoluzionari“. Per i riformisti Modigliani ironizzò: “Se i riformisti erano colpevoli di aver impedito la rivoluzione, non si sarebbe dovuto aspettare tanto tempo per espellerli“.

Poi, l’oratore in polemica con Serrati – come è scritto nei resoconti – negò l’esistenza di una crisi del sistema capitalista e borghese, sottolineando la necessità di distinguere fra ristretti gruppi plutocratici (…) e la borghesia democratica. Lazzari, poi, preconizzò che al Partito si apriva un campo d’azione nuovo e illimitato; deplorò l’autonomia del gruppo parlamentare chiedendo una severa punizione per i deputati che avevano trasgredito. I massimalisti criticavano, in particolare, Filippo Turati perché aveva accettato l’invito del sovrano a recarsi al Quirinale per consultazioni. A nulla servirono le argomentazioni di Claudio Treves, il quale smentì che i riformisti volessero cercare una collaborazione permanente con altre forze con le quali sarebbe stata tuttavia possibile una alleanza temporanea per “impedire che la reazione finisse per distruggere le conquiste e il patrimonio del proletariato”.

Dopo Giacomo Matteotti, era di nuovo intervenuto Serrati sostenendo che “la logica del collaborazionismo avrebbe portato coloro che di esso si facevano fautori a collaborare col fascismo verso il quale andavano in quel momento le forze della borghesia“. La mozione approvata riprendeva questo concetto e deliberava che “tutti gli aderenti alla frazione collaborazionista e quanti approvano le direttive segnate nel manifesto e nella mozione anzidetta, sono espulsi dal Psi“. Il discorso di addio venne svolto da Filippo Turati: “Mentre noi ce ne andiamo rientra il comunismo“. A Turati rispose Serrati: “Il discorso di Turati ha dimostrato quanto l’operazione fosse necessaria“. La mattina del 4 ottobre i riformisti si riunirono e fondarono il PSU, eleggendo segretario Giacomo Matteotti; intanto, il XIX Congresso proseguiva all’insegna del delirio e del compiacimento per la pur tardiva “operazione chirurgica”, avendo la “malattia trascurata per un biennio provocato un danno incalcolabile all’organismo del Partito”.

Nel prosieguo del dibattito Giacinto Menotti Serrati fece notare – è scritto nel resoconto – che, indipendentemente dalla pressione reazionaria (tanti municipi governati dai socialisti erano stati attaccati e distrutti, ndr) il Partito non poteva più condividere le responsabilità politiche dei Comuni con i partiti estranei. Per quanto riguardava il sindacato, i Comitati sindacali socialisti erano invitati a portare avanti politiche “per le quali il concetto di classe e di espropriazione economica e politica delle classi dominanti devono essere preminenti“. Pochi giorni dopo la Marcia su Roma Menotti partì per partecipare al IV Congresso dell’Internazionale comunista che iniziò a Pietroburgo il 5 novembre.

Giuliano Cazzola

Fonte: ilriformista.it

La scissione di Livorno del 1921, la nascita del Partito Comunista d’Italia in conformità con i 21 punti definiti da Lenin per essere ammessi alla Terza Internazionale, l’espulsione nel 1922 dei riformisti e la nascita del Partito Socialista Unitario

Il 15 gennaio 1921 a Livorno si aprì il XVII Congresso Nazionale del Partito socialista che terminò con la scissione della componente comunista che il 21 gennaio diede vita al Partito comunista d’Italia. Tra i fondatori del nuovo partito vi furono personaggi di spicco messisi in evidenza durante i moti come Amadeo Bordiga e Antonio Gramsci.

In pratica nello stesso anno le diverse anime del movimento socialista si separarono a seguito della rivoluzione russa e della nascita dello Stato sovietico, dando vita a tre differenti partiti. Nel Congresso di Livorno, dopo giorni di dibattito serrato, i massimalisti unitari di Giacinto Menotti Serrati raccolsero 89 028 voti, i comunisti puri di Amadeo Bordiga e di Antonio Gramsci 58 783 e i riformisti concentrazionisti di Filippo Turati 14 695.

I comunisti di Bordiga uscirono dal congresso e fondarono il Partito Comunista d’Italia (PCD’I), al fine di adeguarsi ai “21 punti” dell’Internazionale Comunista. Lenin aveva invitato il PSI a conformarsi ai suoi dettami e a espellere la corrente riformista di Turati, Claudio Treves e Camillo Prampolini, ricevendo tuttavia il diniego da parte di Menotti Serrati, che non intendeva rompere con alcune delle voci più autorevoli, seppur minoritarie, del partito.

I 21 punti di Lenin per essere ammessi alla Terza Internazionale comunista

I 21 punti della Terza Internazionale erano le condizioni da rispettare per essere ammessi in quest’ultima, approvate il 7 agosto 1920. Il documento, ispirato in massima parte dal leader bolscevico Vladimir Lenin, è una pietra miliare nella storia del socialismo perché sancisce in modo inequivocabile e definitivo la frattura tra le sue versioni moderate e quella comunista. La stessa organizzazione si chiamava ufficialmente “Terza  Internazionale Comunista”, dopo le prime due “socialiste”. Una differenza non da poco.

Comunismo contro socialismo riformista

La differenza tra socialismo e comunismo è spesso molto difficile da afferrare. Entrambe le parole, in generale, designano una filosofia che ha il fine di socializzare i mezzi di produzione, cioè di renderli proprietà della collettività anziché dei privati. Nel sentire collettivo, il comunismo è spesso visto come una forma estremista del socialismo. Quanto c’è di corretto in questa frase?

La risposta possono darcela proprio i 21 punti. Infatti, essi sono pervasi da una netta contrapposizione tra il comunismo della Terza Internazionale da un lato e il socialismo e la socialdemocrazia dall’altro. Con questi ultimi due termini, infatti, si identificano i partiti riformisti che, secondo i comunisti, hanno abbandonato la via della lotta rivoluzionaria e tradito, così, la classe proletaria.

Per capire questa accusa, dobbiamo ricordare che alla versione estremista del socialismo, così come propagandata dai bolscevichi e dalla Terza Internazionale, si erano quasi da sempre contrapposte sue interpretazioni più moderate, che non rifiutavano a priori, ad esempio, l’esistenza dello Stato o il dibattito parlamentare. Basti pensare che la Seconda Internazionale (“Socialista”, non a caso) aveva espulso, a suo tempo, coloro che invece mantenevano tali posizioni oltranziste.

Dalla Seconda alla Terza Internazionale

Si tratta di un riformismo che, per i bolscevichi, non aveva nulla a che vedere con il vero socialismo. Essi, dunque, dopo che la Seconda Internazionale si sciolse in seguito alla prima guerra mondiale, ne convocarono una Terza nel 1919. Questa volta, però, avrebbe dovuto prevalere la loro interpretazione del socialismo: una filosofia oltranzista, rivoluzionaria e anti-legalista cui diedero, per differenziarla dalla tradizione precedente, il nome, appunto, di “comunismo”.

Quanto appena detto emerge molto bene leggendo proprio i 21 punti fissati dai bolscevichi per l’ammissione, adottati al Secondo Congresso. Per analizzarli al meglio, è possibile suddividerli in due gruppi principali: quelli dedicati alla lotta contro il riformismo e quelli, molto meno numerosi, che danno indicazioni su come organizzare l’attività rivoluzionaria.

I 21 punti contro il riformismo

I 21 punti colpiscono tutte le caratteristiche della tradizione riformista. L’1, ad esempio, chiede che ogni forma di propaganda abbia carattere schiettamente comunista e che tutte le pubblicazioni dei partiti siano subordinate ai loro organi direttivi. Il socialismo, al contrario, ammette da sempre molta più dialettica interna. Contro di esso, i 21 punti chiedono l’espulsione di tutti i riformisti anche revisionando periodicamente gli iscritti, l’abbandono di qualunque forma non solo di patriottismo, ma anche di pacifismo (6) e, in generale, di tutta la tradizione centrista (7). Quest’ultimo punto fa una serie di nomi espliciti, tra i quali figura anche Filippo Turati, uno dei fondatori del nostro Partito Socialista.

A tal proposito, il punto 17 impone, per sottolineare anche dal punto di vista onomastico la rottura con il passato, di adottare come nome “Partito comunista del tale paese – sezione dell’Internazionale comunista”.

Uno degli elementi più contestati della tradizione riformista sono le sue organizzazioni decentralizzate. Basti pensare che la Seconda Internazionale era più una federazione che un vero centro di coordinamento. La Federazione Internazionale dei Sindacati, ad esempio, ne era completamente indipendente. Il comunismo, al contrario ritiene che la guida della lotta operaia debba essere il più unificata possibile.

I 21 punti condannano allora la suddetta “internazionale di Amsterdam dei sindacati gialli” (10) e chiedono ai partiti membri di subordinare tutti i loro parlamentari ai loro organi direttivi (11), avere organizzazioni centralizzate (12) e, coerentemente, essere del tutto sottomessi alle Terza Internazionale. Essa deve approvare i loro programmi (15), può prendere decisioni per essi vincolanti (16) e tutti i suoi documenti ufficiali devono sempre essere pubblicati dai loro organi di stampa (18). Il punto 21 è ancora più categorico: “Quei membri del partito che respingono (…) le condizioni e le tesi esposte dall’Internazionale comunista debbono essere espulsi”.

Gli altri punti

Il secondo gruppo dei 21 punti affronta questioni di natura organizzativa. I partiti vengono esortati a crearsi una rete illegale per prepararsi alla rivoluzione che, all’epoca, sembrava imminente in tutta Europa. Viene, inoltre, ricordato il valore della propaganda e dall’agitazione non solo tra le fila dell’esercito ma anche tra i contadini. Quest’ultimo è un punto che differenzia il comunismo leninista dalle teorie di Marx che, invece, assegnavano un ruolo privilegiato alle avanguardie operaie.

Degli ultimi quattro punti, due, il 19 e il 20, trattano delle modalità tecniche di ammissione dei partiti, mentre i restanti, cioè l’8 e il 14, vertono su temi centrali per la storia della dottrina comunista. Il primo, infatti, parla dell’imperialismo e di come esso debba essere contrastato in ogni maniera.

Questo argomento è da sempre uno dei più discussi dalle filosofie socialiste, e in particolare dalla tradizione leninista. Il punto 14, infine, è una sorta di profezia, in quanto anticipa perfettamente il futuro del comunismo. Esso, infatti, impone ai partiti dell’Internazionale “appoggio incondizionato alla repubblica sovietica nella sua lotta contro le forze controrivoluzionarie”. Una spia di quella che sarà la successiva identificazione tra il comunismo e un Paese specifico, per l’appunto l’Unione Sovietica.

Fonte: lacooltura.com (articolo di Francesco Robustelli)

Il XIX Congresso del Partito Socialista nel 1922, l’espulsione dei riformisti, la nascita del PSU

Abbiamo visto che il segretario del Partito al Congresso di Livorno rifiutò l’espulsione dei riformisti ma nell’estate del 1922 Turati, in contrasto con la disciplina del partito, si recò dal re Vittorio Emanuele III per le rituali consultazioni in occasione della crisi di governo, nella quale non fu possibile raggiungere un accordo fra i socialisti e Giolitti, per cui il re diede l’incarico di presidente del Consiglio a Luigi Facta.

Per aver violato il divieto di collaborazione con i partiti borghesi, nel corso del XIX congresso del 3 ottobre 1922 la corrente riformista venne espulsa dalla maggioranza massimalista, pochi giorni prima della marcia su Roma di Mussolini.

Turati e i suoi diedero quindi vita al Partito Socialista Unitario (PSU), di cui fu nominato segretario il deputato del Polesine Giacomo Matteotti.

1920-1921: Biennio rosso e violenza delle squadracce fasciste sostenute dagli industriali

Dopo la fine della Prima Guerra Mondiale, anche l’Italia soffrì di gravi difficoltà economiche. La disoccupazione, la riconversione industriale da militare a civile, il ritorno dei reduci furono problemi giganteschi per il nostro paese. I ceti medi e le classi a reddito fisso furono particolarmente colpite dalla crisi economica, anche perché danneggiate più delle altre dall’inflazione causata dalle enormi spese militari) e deluse a causa del mancato aumento degli stipendi.

Nel gennaio 1919, i Cattolici diedero vita al Partito Popolare Italiano, il primo vero partito di ispirazione cattolica. Fondatore e ispiratore della nuova formazione fu Don Luigi Sturzo. Intanto il 23 marzo del 1919 Mussolini fondava i fasci di combattimento, a Milano. Le elezioni politiche del ’19 dimostrarono la voglia di novità del popolo italiano, facendo registrare: il netto declino dei liberali; la crescita del partito popolare di don Sturzo; l’enorme forza del partito socialista.

Il Partito socialista ottenne 156 deputati in confronto ai 48 del 1913, il Partito popolare ne ebbe 100 in confronto ai 33 cattolici eletti nel 1913. I liberali persero la maggioranza. Ottennero infatti poco più di 200 deputati rispetto agli oltre 300 eletti nel 1913.

Nel periodo successivo, tra il 1919 e il 1920, la classe operaia esplose con scioperi, dimostrazioni ed agitazioni a livelli impressionanti nelle fabbriche italiane, contro il taglio degli stipendi e le serrate. Tra le cause di questa ondata di scioperi ci furono la crisi economica conseguente alla guerra appena terminata, ma ebbe un ruolo importante anche il mito della rivoluzione russa e il sogno di fare come in Russia. Agli scioperi causati dalle difficoltà economiche e volti a ottenere migliori condizioni di lavoro e salari più alti, si aggiunsero manifestazioni di contenuto dichiaratamente politico. Così i due motivi, le richieste economiche e la pressione rivoluzionaria, finirono col mescolarsi e confondersi. Si diffusero parole d’ordine come le fabbriche agli operai e la terra ai contadini. Nel mezzogiorno gruppi di braccianti tentarono di occupare le terre incolte.

Intanto cresceva il partito dei nazionalisti e dei reduci della guerra. La “vittoria mutilata”, ovvero il sentimento di scontentezza per l’esito degli accordi di pace di Versailles (l’Italia ottenne il Trentino, l’Alto Adige, la Venezia Giulia, Trieste e l’Istria; restarono invece aperte la questione della città di Fiume e quella della Dalmazia). I reduci della Prima Guerra mondiale videro che il loro ruolo non era valorizzato dallo Stato.

Le preoccupazioni della classe politica liberale allora dominante erano sostanzialmente due: fermare il revanscismo dei dannunziani e prevenire in ogni modo la possibilità di una rivoluzione comunista, del tipo di quella avvenuta in Russia pochi anni prima. La seconda preoccupazione era particolarmente sentita anche dagli industriali e dai possidenti agricoli, che detenevano gran parte delle ricchezze del paese. La cronica indecisione dei governanti italiani fece il resto.

L’Italia si trovò di fronte ad un bivio, e scelse la tragica strada del fascismo credendo portasse lontano, verso un futuro migliore.

Come iniziò il biennio

La storia del Biennio Rosso iniziò a Torino il 13 settembre 1919 con la pubblicazione sulla rivista Ordine Nuovo del manifesto Ai commissari di reparto delle officine Fiat Centro e Brevetti, nel quale si ufficializzava l’esistenza e il ruolo dei Consigli di fabbrica quali nuclei di gestione autonoma delle industrie da parte degli operai. Già tre mesi prima Gramsci e Togliatti avevano affrontato il problema, sempre sulla stessa rivista, in un articolo chiamato Democrazia operaia.

Torino, culla dell’industrializzazione italiana, si prefigurava così come il centro propulsore del bolscevismo, in quanto la struttura dei Consigli proposta dagli ordinovisti ricalcava, seppur con peculiarità proprie, quella dei Soviet russi. Le proteste iniziarono nelle fabbriche di meccanica, per poi continuare nelle ferrovie, trasporti e in altre industrie, mentre i contadini occupavano le terre. Le agitazioni si diffusero anche nelle campagne della pianura padana, innescando duri scontri fra proprietari e braccianti, con violenza da una parte e dall’altra, soprattutto in Emilia e Romagna. Gli scioperanti, però, fecero molto più che un’occupazione, sperimentando per la prima volta forme di autogestione operaia: 500.000 scioperanti lavoravano, producendo per se stessi. 

Il fenomeno si estese rapidamente ad altre fabbriche del Nord, coinvolse il movimento anarchico ma venne solo in parte appoggiato dal P.S.I., che in quel momento era diviso tra riformisti e massimalisti.

Dal 28 marzo 1920 si delinearono i due blocchi, da una parte gli operai con lo sciopero ad oltranza, dall’altra i proprietari, che adottarono la serrata come reazione alle richieste operaie. Dopo alcuni mesi di trattative sugli aumenti salariali, sempre respinti dalla Confederazione Generale dell’Industria, si ritornò all’inasprimento dei contrasti, con l’occupazione armata delle fabbriche da parte degli operai, il 30 agosto del 1920.

Guardie rosse armate all’interno di una fabbrica occupata (1920) e la risposta violenta delle squadracce fasciste finanziate dagli industriali

Mentre il Partito Socialista tentava la trattativa con il governo presieduto da Giolitti, gli industriali e i latifondisti, più pragmatici, cominciarono a garantire il loro appoggio economico alle squadre dei “ras” fascisti.

E così agli scioperi agrari nella Pianura Padana, allo sciopero generale dei metallurgici in Piemonte e all’occupazione delle fabbriche in molte città italiane il fascismo rispose con la violenza. Squadre fasciste  intervennero per spezzare gli scioperi aggredendo i partecipanti, pestando deputati e simpatizzanti socialisti. A novembre, in occasione dell’insediamento del nuovo sindaco di Bologna, un socialista di estrema sinistra, partirono pistolettate e bombe a mano che provocarono la morte di nove persone nella piazza, mentre un consigliere nazionalista venne ucciso in pieno Consiglio comunale. Le spedizioni punitive estesero il loro raggio d’azione alla Toscana, al Veneto, alla Lombardia e all’Umbria. Vennero assaltate le Case del Popolo, le sedi delle amministrazioni comunali socialiste e le leghe cattoliche. In Venezia Giulia giovani squadristi assalirono e incendiarono le sedi di associazioni e giornali sloveni. In Alto Adige simili attenzioni vennero rivolte alla popolazione tedesca, di cui i fascisti auspicavano una forzata italianizzazione (“dobbiamo estirpare il nido di vipere tedesco“, disse Mussolini). Prefetti, commissari di polizia e comandanti militari tolleravano e in alcuni casi agevolavano le “operazioni” della squadre fasciste contro il ‘sovversivismo rosso’. “Sono dei fuochi d’artificio, che fanno molto rumore ma si spengono rapidamente“, disse Giolitti minimizzando il problema.

La sconfitta del movimento operaio

Giolitti rifiutò di far intervenire la polizia e l’esercito nelle fabbriche e aspettò che il movimento si esaurisse da sé, che terminassero le scorte di materie prime nei magazzini delle aziende occupate, che gli stessi operai si rendessero conto che l’occupazione non portava a nulla. Nello stesso tempo favorì le trattative fra gli industriali e sindacati e, praticamente, obbligò gli industriali a concedere ai lavoratori i miglioramenti di salario richiesti. Così all’inizio di ottobre del 1920 Giolitti riuscì a far accettare un compromesso tra le parti sociali. A tal uopo presentò anche un progetto di legge per controllo operaio su fabbriche, mai attuato.

Le agitazioni operaie ebbero in conclusione risultati economici positivi: i lavoratori ottennero miglioramenti nel salario e nelle condizioni di lavoro; la durata massima della giornata lavorativa passò da 10-11 ore a 8 ore.

Ebbero tuttavia anche degli effetti politici negativi, perché spaventarono fortemente la borghesia: non solo i grandi proprietari di industrie o di terre ma, ancora di più, il ceto medio, i piccoli borghesi che cominciavano a costituire una classe sociale decisamente numerosa. Il timore di una possibile rivoluzione li avrebbe presto spinti ad appoggiare il fascismo di Benito Mussolini. Così come fece la classe politica liberale. Fu lo stesso Giolitti a favorire l’ascesa del fascismo quando, in occasione delle elezioni del maggio 1921, cercando di assorbire i fascisti nella normale prassi parlamentare, li inserì nei Blocchi nazionali da opporre ai partiti di massa (popolare, socialista, comunista): ne furono eletti 35, con alla testa Mussolini.

Gli industriali e le squadre fasciste

La violenza fascista continuò anche dopo il biennio rosso, anzi si intensificò. Nella sola pianura padana, nei primi sei mesi del 1921, gli attacchi operati dalle squadre fasciste furono 726. Gli obiettivi di questa violenza mostrano chiaramente che le squadre fasciste volevano colpire e da quali interessi erano sostenute: 59 case del popolo, 119 camere del lavoro, 107 cooperative, 83 leghe contadine, 141 sezioni socialiste, 100 circoli culturali, 28 sindacati operai, 53 circoli ricreativi operai. Gli organi dello Stato che avrebbero dovuto mantenere l’ordine, non intervennero per reprimere le illegalità. In alcuni casi, le forze di polizia si affiancarono alle squadre fasciste. Comunisti e anarchici reagirono con la creazione delle squadre degli Arditi del Popolo (epica fu, ad esempio, la difesa di Parma, assalita da migliaia di fascisti nell’agosto del 1922).

Conclusioni

Il Biennio Rosso rappresentò quindi l’incubatrice di due tendenze opposte, entrambe nate da una scissione del partito socialista: il rivoluzionarismo di stampo bolscevico, che poi si concretizzerà nella fondazione, avvenuta nel gennaio del 1921, al Congresso di Livorno, del P.C.I., un soggetto politico destinato a lasciare un’indelebile impronta nella vita italiana, e contemporaneamente il fascismo reazionario e violento, altrettanto determinante per la storia d’Italia nel XX secolo.

Fonte: storiaxxisecolo.it

Gli scioperi del 1920, la rivolta dei Bersaglieri per la libertà del popolo albanese, l’occupazione delle fabbriche, la negazione della prospettiva rivoluzionaria, la fine del Biennio Rosso

Il movimento rivendicativo che aveva caratterizzato il 1919 si intensificò ulteriormente nel 1920, quando vi furono in Italia più di 2.000 scioperi e più di 2.300.000 scioperanti; nello stesso anno, i lavoratori organizzati in sindacati ammontavano a più di 3.500.000, di cui 2.150.000 nella sola C.G.d.L.. In parallelo il padronato industriale e agrario si organizzò a livello nazionale: la Confederazione generale dell’industria, che era stata fondata il 5 maggio 1910, nel 1919 spostò la propria sede a Roma, e nel dicembre 1920 nacque la Confederazione generale dell’agricoltura.

Gli operai della Fiat di Torino scioperano ma sono isolati a livello nazionale

Nel marzo 1920 scoppiarono importanti scioperi, in particolare, presso la FIAT di Torino, il cosiddetto sciopero delle lancette, cosiddetto per l’episodio che diede origine alla vertenza. Gli operai di Torino della FIAT avevano chiesto alla direzione dello stabilimento, in concomitanza con l’entrata in vigore dell’ora legale, di posticipare di un’ora l’ingresso al lavoro. Dopo il diniego da parte della proprietà, la Commissione interna dell’officina Industrie Metallurgiche aveva proceduto, di sua iniziativa, a spostare di un’ora indietro l’orologio della fabbrica. In seguito a ciò, la direzione licenziò tre membri della Commissione interna; gli operai risposero con uno sciopero di solidarietà che, il 29 marzo 1920, coinvolse tutte le officine metallurgiche di Torino ed al quale gli industriali risposero a loro volta con una serrata, pretendendo, come condizione per riprendere il lavoro negli stabilimenti, che venissero sciolti i Consigli di fabbrica. Lo sciopero generale, indetto alla metà di aprile, coinvolse circa 120.000 lavoratori di Torino e provincia. Tuttavia, tanto la direzione nazionale della CGdL quanto quella del Partito socialista si rifiutarono di dare il loro appoggio al movimento torinese, né vollero estendere la vertenza al resto d’Italia mediante la proclamazione di uno sciopero generale. Inoltre in quei giorni il governo inviò a presidiare la città una truppa di circa 50.000 militari. Isolati a livello nazionale e sotto la minaccia delle armi, gli operai di Torino dovettero capitolare: la vertenza si chiuse con un concordato che prevedeva un forte ridimensionamento dei Consigli di fabbrica. Lo sciopero terminò così il 24 aprile senza che i lavoratori coinvolti avessero visto riconosciute le proprie richieste, fra cui il riconoscimento, da parte degli industriali, dei Consigli di fabbrica.

Lo sciopero contro l’aumento del prezzo del pane provoca le dimissioni del governo Nitti

Il 1º maggio, in occasione della festa dei lavoratori furono indetti cortei nelle principali città che in alcuni casi furono dispersi dalla polizia come a Torino e a Napoli. Un nuovo sciopero indetto contro l’aumento del prezzo del pane indebolì il secondo governo Nitti, che si dimise il 9 giugno 1920 per lasciare il posto all’ottantenne Giovanni Giolitti che formò il suo quinto esecutivo. Manifestazioni e cortei proseguirono ininterrotti per lungo tempo con vittime sia tra i militari che tra i manifestanti.

La rivolta dei Bersaglieri contro l’occupazione dell’Albania, per l’autodeterminazione e la libertà dei popoli

Uno degli eventi più significativi di tutto il biennio rosso fu la rivolta dei Bersaglieri che scoppiò ad Ancona nel giugno del 1920, preceduta da una di minore entità a Trieste l’11 giugno, in cui un gruppo di arditi di un reggimento d’assalto in attesa di imbarcarsi per l’Albania usò le armi contro gli ufficiali, causando due morti e diversi feriti.

Anche ad Ancona la scintilla che provocò la rivolta fu l’ammutinamento dei bersaglieri di una caserma cittadina che non volevano partire per l’Albania, dove era in corso un’occupazione militare decisa dal governo Giolitti. Al contrario di altre manifestazioni del biennio, la Rivolta dei Bersaglieri fu una vera ribellione armata e coinvolse truppe di varie forze che solidarizzarono con i ribelli; dopo la resa dei bersaglieri della caserma, la rivolta continuò nelle piazze, sostenuta da una fetta della popolazione civile, unita dal motto “Via da Valona”, chiedendo la fine del Protettorato italiano dell’Albania, visto come un attacco alla libertà dei popoli.

Da Ancona la rivolta divampò in tutte le Marche, in Romagna (fino al suo cuore, Forlì), in Umbria (Terni e Narni), in Lombardia (Cremona e Milano) e a Roma. Quando il re, ordinò l’invio delle guardie regie per ristabilire l’ordine, fu indetto uno sciopero nazionale da parte del sindacato dei ferrovieri per impedire che i militi potessero arrivare ad Ancona.

Infine il moto fu sedato solo grazie all’intervento della marina militare, intervenuta per bombardare la città.

Il fatto però convinse il governo italiano a rinunciare all’occupazione: con il Trattato di Tirana (20 luglio 1920) e il successivo trattato di amicizia con gli albanesi (2 agosto 1920), l’Italia riconobbe l’indipendenza e la piena sovranità dello Stato albanese e le truppe italiane lasciarono il Paese. Inoltre il trattato sancì il ritiro italiano da Valona, con il mantenimento dell’isolotto di Saseno, a garanzia del controllo militare italiano sul canale di Otranto.

Di fronte alle richieste salariali della FIOM Confindustria risponde con la serrata

Il 18 giugno 1920 la FIOM presentò alla Federazione degli industriali meccanici e metallurgici un memorandum di richieste, che fu seguito da analoghi memoriali da parte degli altri sindacati operai. Tutti i memoriali concordavano nella richiesta di significativi incrementi salariali volti a compensare l’aumentato costo della vita. L’atteggiamento degli industriali di fronte a tali richieste fu di assoluta e totale chiusura; a detta degli imprenditori, il costo derivante dagli aumenti salariali sarebbe stato insostenibile per un settore produttivo che versava già in stato di crisi. A ciò i sindacalisti della F.I.O.M. risposero ricordando gli ingentissimi profitti accumulati durante la guerra dalle industrie meccaniche e metallurgiche grazie alle commesse belliche.

Il 13 agosto 1920 gli industriali ruppero le trattative.

La F.I.O.M. deliberò a questo punto di procedere all’ostruzionismo: evitando ogni forma di sabotaggio, gli operai avrebbero dovuto ridurre la produzione, rallentando l’attività, astenendosi dal cottimo e applicando minuziosamente le norme sulla sicurezza del lavoro. Qualora gli imprenditori avessero risposto con la serrata, gli operai avrebbero dovuto occupare gli stabilimenti.

Le direttive della F.I.O.M. vennero eseguite con zelo dagli operai e condussero ad un calo molto significativo della produzione. Il 30 agosto si ebbe la prima contromossa da parte padronale: le Officine Romeo & C. di Milano iniziarono la serrata, benché il Prefetto del capoluogo lombardo avesse espressamente chiesto all’ing. Nicola Romeo di non assumere tale iniziativa. Lo stesso giorno la sezione milanese della F.I.O.M. deliberò l’occupazione delle officine metallurgiche della città. Poche ore dopo anche gli opifici della Isotta Fraschini vennero occupati e i dirigenti sequestrati negli uffici. Tra loro anche i fondatori e proprietari Cesare Isotta e Vincenzo Fraschini. Il 31 agosto la Confindustria ordinò la serrata a livello nazionale. La stessa deliberazione era stata assunta, il giorno precedente, dagli industriali metallurgici inglesi.

L’occupazione delle fabbriche

Ovunque, la serrata fu puntualmente seguita dall’occupazione degli stabilimenti da parte degli operai. Fra l’1 e il 4 settembre 1920 quasi tutte le fabbriche metallurgiche in Italia furono occupate. Gli operai coinvolti furono più di 400.000 e salirono poi a circa 500.000 quando l’occupazione si estese ad alcuni stabilimenti non metallurgici.

L’occupazione delle fabbriche avvenne (e proseguì) quasi ovunque pacificamente, anche grazie alla decisione, presa dal governo Giolitti, di non tentare azioni di forza; le forze dell’ordine si limitarono a sorvegliare dall’esterno gli stabilimenti senza intervenire. Giolitti intendeva infatti evitare un conflitto armato, che sarebbe potuto sfociare in una guerra civile, e confidava nella possibilità di mantenere il confronto tra operai e imprenditori su di un piano puramente sindacale, in cui il governo avrebbe potuto fungere da mediatore. Su questo punto Giolitti si trovò d’accordo con la dirigenza nazionale della C.G.d.L., che era di orientamento riformista.

Nei primi giorni di occupazione, tuttavia, un fatto di sangue avvenne a Genova; il 2 settembre le guardie regie che presidiavano un cantiere navale spararono contro gli operai che cercavano di occuparlo; il calderaio trentacinquenne Domenico Martelli rimase ucciso e altri due operai furono gravemente feriti. Alcune guardie regie fra quelle che avevano aperto il fuoco furono arrestate, ma vennero scarcerate il giorno successivo.

Nelle fabbriche occupate la produzione continuò, anche se in misura ridotta a causa delle difficoltà di approvvigionamento e dell’assenza del personale tecnico e impiegatizio. Torino fu la città in cui l’organizzazione operaia (basata sul sistema dei Consigli di fabbrica) si rivelò più efficiente; furono creati presso la Camera del Lavoro vari organismi (comitati) per coordinare a livello cittadino la produzione, gli scambi, i rifornimenti, e funzionò anche un comitato militare. In almeno un caso (l’officina Fiat Centro) la produzione raggiunse ragguardevoli livelli, toccando il 70 per cento dell’output di prima della vertenza.

A Torino e a Milano, gli operai, tramite le locali Camere del lavoro, tentarono di assicurarsi i necessari mezzi di sostentamento mediante la vendita dei prodotti delle fabbriche occupate; ma i risultati furono trascurabili. Più efficaci a questo scopo furono l’aiuto da parte delle Cooperative (sotto forma di finanziamenti in denaro ed elargizione di generi alimentari) e la solidarietà degli altri lavoratori, che si manifestò mediante collette, allestimento di “cucine comuniste” per gli occupanti e altre iniziative di sostegno.

Durante l’occupazione corsero, sull’armamento operaio, notizie incontrollate che destarono preoccupazione anche in ambito governativo; tuttavia sembra che, generalmente, la forza e la capacità militare degli occupanti non siano andate oltre la mera difesa degli stabilimenti occupati, tranne forse che a Torino, dove gli operai erano, anche militarmente, meglio organizzati che altrove. All’interno delle officine della Società Piemontese Automobili si iniziarono anche a produrre bombe a mano.

Gli operai organizzarono comunque servizi armati di vigilanza, disposti a scendere allo scontro anche con l’esercito, che assunsero il nome di Guardie Rosse. A favore degli scioperanti intervennero spesso i sindacati dei ferrovieri che organizzarono picchetti armati presso i nodi ferroviari per impedire l’intervento delle guardie regie. Inoltre i sindacati dei ferrovieri collaborarono spesso con gli occupanti, assicurando loro rifornimenti di materie prime e di combustibili.

La conclusione della vertenza

Benché nato come vertenza sindacale, il movimento di occupazione delle fabbriche ebbe fin dall’inizio una tale estensione e una tale risonanza da fare sorgere l’esigenza di una sua soluzione politica. Mentre gli industriali ponevano lo sgombero degli stabilimenti come pregiudiziale per una ripresa delle trattative con gli operai, gli organismi dirigenti di questi ultimi decisero sul da farsi in una serie di tese e drammatiche riunioni che ebbero luogo a Milano fra il 9 e l’11 settembre 1920.

Il 9 settembre si riunì il Consiglio direttivo della C.G.d.L., ove venne in discussione l’ipotesi di un’iniziativa insurrezionale (cui comunque i vertici del sindacato, come si è detto, erano contrari); erano presenti due dirigenti del P.S.I. torinese, uno dei quali era Palmiro Togliatti che, a una precisa domanda, rispose che, in ogni caso, non sarebbero stati gli operai di Torino a cominciare da soli l’insurrezione. Gli ordinovisti temevano, in effetti, che una loro eventuale sortita sarebbe stata sconfessata, a livello nazionale, sia dal partito sia dal sindacato (come del resto era già accaduto in aprile in occasione dello sciopero delle lancette), cosicché il movimento torinese, rimasto ancora una volta isolato, sarebbe stato schiacciato militarmente.

Il 10 settembre, in una riunione congiunta fra la direzione della C.G.d.L. e quella del P.S.I., i massimi dirigenti del sindacato manifestarono l’intenzione di dimettersi qualora il partito volesse assumersi la responsabilità di avocare a sé la guida del movimento per condurlo a un esito rivoluzionario. Ma la segreteria del P.S.I., di fatto, lasciò cadere la proposta, demandandone la decisione al Consiglio nazionale della C.G.d.L. che si sarebbe riunito l’indomani.

Fu così che, l’11 settembre 1920, ebbe luogo la cruciale seduta in cui il Consiglio nazionale della C.G.d.L. fu chiamato a deliberare su due mozioni contrapposte: una prevedeva di demandare “alla Direzione del Partito l’incarico di dirigere il movimento indirizzandolo alle soluzioni massime del programma socialista, e cioè la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio“; l’altra mozione, proposta dalla stessa segreteria della C.G.d.L., prevedeva invece, quale obiettivo immediato della lotta, non la rivoluzione socialista bensì solamente “il riconoscimento da parte del padronato del principio del controllo sindacale delle aziende”. Prevalse a maggioranza quest’ultima mozione, che sanciva la rinuncia a fare dell’occupazione la prima fase di un più ampio moto rivoluzionario.

Anche dopo il voto, il P.S.I. avrebbe potuto (in base al patto d’alleanza stipulato con la C.G.d.L. nel 1918) assumersi d’autorità la guida del movimento, esautorando il sindacato. Ma il segretario del P.S.I. Egidio Gennari dichiarò che il suo partito non intendeva per il momento avvalersi di tale facoltà.

Intanto nelle fabbriche occupate la tensione rimaneva alta. La notte del 13 settembre un industriale torinese, in uno scontro a fuoco, uccise a fucilate i due operai Raffaele Vandich e Tommaso Gatti.

Quando fu chiaro che i massimi organi dirigenti del movimento operaio italiano avevano di fatto rinunciato ad ogni ipotesi rivoluzionaria, Giovanni Giolitti ebbe campo libero per spiegare la sua attività di mediazione fra la Confindustria e la C.G.d.L. (essendo ormai il P.S.I. fuori dal gioco). Si arrivò così, non senza resistenze da parte confindustriale, all’accordo di massima siglato a Roma il 19 settembre 1920, accordo che fu per gli operai, sul piano strettamente sindacale, un buon successo (perché stabiliva significativi aumenti salariali e miglioramenti normativi in materia di ferie, di licenziamenti ecc.), ma allo stesso tempo una netta sconfitta politica, perché prevedeva lo sgombero delle fabbriche occupate e impegnava soltanto il governo ad approntare un disegno di legge sul controllo operaio (disegno di legge che peraltro non fu mai approvato).

L’efferato omicidio di Mario Sonzini e di Costantino Scimula da parte delle Guardie rosse

I giorni a ridosso dell’accordo fra industriali e sindacato furono caratterizzati da un acuirsi della tensione a Torino, dove, il 19 settembre, un operaio rimase ucciso in uno scontro fra Guardie rosse e forze dell’ordine; il 22, in altri scontri a fuoco, morirono un brigadiere dei carabinieri, una guardia regia e un passante; il 23 settembre venne alla luce un grave fatto di sangue: furono rinvenuti i cadaveri di un giovane nazionalista e di una guardia carceraria. Più precisamente, si scoprì che l’impiegato oleggese Mario Sonzini, sindacalista e membro della commissione interna alle Officine Metallurgiche, era stato sequestrato dalle Guardie rosse e, dopo una sorta di processo sommario, era stato ucciso a pistolettate, sorte condivisa a poche ore di distanza anche dalla guardia carceraria Costantino Scimula. Dalle seguenti indagini si venne a scoprire che i due uccisi non erano stati gli unici sequestrati dalle Guardie rosse in quei giorni a Torino. La dinamica di questo delitto, che presentava caratteri di particolare efferatezza, fu poi chiarita dal processo penale che ebbe luogo nel 1922 e che si concluse con la condanna di undici imputati a pene che andarono da un anno a trenta anni di reclusione. Le indagini e il processo furono seguiti con grande enfasi dalla stampa, e il tragico caso di Sonzini e Scimula divenne, in quegli anni, uno dei cavalli di battaglia della propaganda anticomunista.

Fra il 25 e il 30 settembre gli occupanti sgomberarono pacificamente le fabbriche, riconsegnandole agli industriali. Il 27 settembre, quando l’occupazione si poteva già considerare conclusa, l’edizione torinese dell’Avanti! pubblicò un editoriale in cui, oltre ad ammettere la sconfitta degli operai, si accusavano i dirigenti riformisti di essere responsabili della medesima. Dopo la ratifica dell’accordo da parte delle rispettive organizzazioni, i dirigenti della F.I.O.M. e della Confindustria firmarono il concordato definitivo a Milano il 1º ottobre 1920.

Gli esiti politici

Le occupazioni, intese come l’inizio di un processo rivoluzionario, non riuscirono a produrre cambiamenti sensibili, soprattutto a causa della mancanza di strategia della classe dirigente socialista e dell’incapacità di diffusione del movimento nel resto della società. Giolitti assunse un atteggiamento neutrale, nonostante le pressioni degli industriali per sgomberare le fabbriche con l’esercito, presumendo che gli operai, non essendo in grado di gestire le fabbriche, avrebbero prima o poi accettato di trattare.

Giovanni Giolitti sintetizzò così la sua linea politica nei confronti dell’occupazione delle fabbriche: “Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l’apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni”.

Del tutto opposta la valutazione offerta, alcuni anni dopo i fatti, da un altro protagonista della vicenda, Antonio Gramsci, il quale affermò che, nei giorni dell’occupazione, la classe operaia aveva dimostrato la sua capacità di autogovernarsi, aveva saputo mantenere e superare i livelli produttivi del capitalismo, e aveva dato prova di iniziativa e di creatività a tutti i livelli; la sconfitta era stata determinata, secondo l’opinione di Gramsci, non da una presunta “incapacità” degli operai, bensì da quella dei loro dirigenti politici e sindacali. Una valutazione che di fatto annuncia la scissione e la nascita del Partito Comunista.

La vicenda dell’occupazione delle fabbriche ingenerò rabbia e frustrazione negli industriali, i quali, per quasi un mese, si erano visti spossessati dei propri stabilimenti, e che avevano dovuto alla fine accettare le richieste sindacali operaie, e alimentò i loro propositi di rivalsa, anche nei confronti del governo e dello stesso Stato liberale che (secondo loro) non li aveva sufficientemente tutelati; la classe operaia, invece, subì un contraccolpo psicologico di delusione e di scoraggiamento, in quanto aveva dovuto restituire agli industriali il possesso delle fabbriche senza ottenere alcun reale avanzamento politico. La conclusione della vicenda portò inoltre ad una crisi il Partito socialista, che si divise tra coloro che ritenevano opportuno continuare la lotta e i dirigenti che avevano accettato l’accordo.

In seguito, la pubblicistica del fascismo dipinse l’occupazione delle fabbriche come emblematica di un’epoca di profondo disordine, caratterizzata da gravi e massicce violenze operaie e dal pericolo incombente di una rivoluzione bolscevica, pericolo che, in Italia, sarebbe stato sventato – secondo questa interpretazione – solo dall’avvento al potere di Mussolini. Dopo la caduta del fascismo, più di uno storico ha invece negato che l’occupazione delle fabbriche potesse avere realmente la possibilità di costituire l’occasione di una rivoluzione proletaria vittoriosa.

Le elezioni amministrative del novembre 1920 e la fine del Biennio Rosso

Il Partito socialista italiano ottenne ancora un successo nelle elezioni generali amministrative che si tennero nell’ottobre e novembre del 1920, raggiungendo la maggioranza in 26 dei 69 consigli provinciali e in 2 022 comuni su 8 346; in particolare, la maggior parte delle amministrazioni comunali dell’Emilia e della Toscana furono conquistate dai socialisti. In questi centri i sindaci e gli amministratori socialisti poterono esercitare una serie di importanti funzioni, fra cui l’assistenza sociale, la riscossione e l’impiego dei tributi locali e la gestione dei beni di proprietà del comune.

Tuttavia i risultati elettorali del P.S.I. furono meno brillanti di quelli conseguiti nelle elezioni politiche del novembre 1919. Nelle elezioni amministrative del 1920 si verificò inoltre la tendenza dei partiti borghesi a coalizzarsi in funzione antisocialista, nei cosiddetti “blocchi nazionali” o “blocchi patriottici” che spesso comprendevano anche i fascisti. Ciò fu indice del crescente orientamento di certi settori della borghesia verso soluzioni apertamente anti-socialiste e autoritarie.

L’avversione della piccola borghesia verso i moti operai era stata alimentata, fra l’altro, dall’atteggiamento di ostilità del partito socialista nei confronti degli ufficiali delle forze armate; questi reduci furono spesso insultati per strada, in quanto ritenuti responsabili dello scoppio della guerra. Ad esempio Piero Operti, che nell’ottobre 1920 a Torino era insieme ad altri reduci degenti nel locale ospedale, riferisce di aver subito un’aggressione da parte di militanti socialisti; secondo il suo resoconto, le medaglie gli furono strappate e, gettate al suolo, gli furono calpestate. Benché gli episodi di questo tipo fossero in realtà meno gravi e meno frequenti di quanto affermasse la pubblicistica antisocialista dell’epoca, essi contribuirono potentemente ad alienare al P.S.I. le simpatie di vasti strati della piccola e media borghesia, da cui provenivano la gran parte degli ex ufficiali e sottufficiali.

Di fatto, verso la fine del 1920, dopo la conclusione della vicenda dell’occupazione delle fabbriche e dopo le elezioni amministrative, il movimento fascista, che fino ad allora aveva avuto un ruolo piuttosto marginale, iniziò la sua tumultuosa ascesa politica che fu caratterizzata dal ricorso massiccio e sistematico alle azioni squadristiche.

Un tentativo di quantificare i costi, in termini di vite umane, delle agitazioni del Biennio rosso fu compiuto da Gaetano Salvemini: questo storico, basandosi sulle cronache giornalistiche dell’epoca, calcolò in 65 le vittime complessive delle violenze operaie nel biennio, mentre nello stesso periodo 109 militanti di parte operaia morirono per mano delle forze dell’ordine durante scontri di piazza, e altri 22 furono uccisi da altre persone.

La repressione dei moti popolari fu particolarmente cruenta nelle campagne. Sicuramente l’episodio più efferato fu l’eccidio di Canneto Sabino in provincia di Rieti in cui restarono uccisi undici braccianti, tra cui due donne.

Si annunciava nel frattempo la convocazione del XVII Congresso del PSI, a Livorno, gennaio 1921.

Le elezioni del 1919, l’affermazione dei socialisti e dei popolari ma il massimalismo dei primi annulla il successo elettorale, i liberali espressione del sistema borghese, restano al governo

Le elezioni politiche italiane del 1919, che per la prima volta utilizzavano il sistema proporzionale, videro una forte affermazione del Partito socialista italiano che riscosse il 32,4% dei voti, mentre il Partito popolare ebbe il 20,6%; la maggioranza dei voti andò così ai due partiti di massa, mentre le varie liste liberali e liberaldemocratiche (che fino ad allora avevano dominato il parlamento italiano post-unitario) per la prima volta persero la maggioranza dei seggi alla Camera. Le liste di ex combattenti (presenti in diciotto collegi) ottennero il 3,37% del totale dei voti; i fascisti non ebbero nessun parlamentare eletto. I vari governi liberali che si succedettero fra il novembre 1919 e l’ottobre 1922 poterono reggersi solo grazie all’appoggio esterno del Partito Popolare.

La scelta “eversiva” fatta dal Partito Socialista Italiano con l’affermazione dei massimalisti (a partire da Amedeo Bordiga che al Congresso bolognese aveva proposto il cambio del nome in Partito Comunista), e la contestazione alle istituzioni lo poneva automaticamente all’opposizione senza possibilità di stabilire alleanze con gli altri partiti bollati come “borghesi” annullando di fatto il grande successo elettorale e scontentava parte dell’elettorato che desiderava imprimere un cambiamento nella politica nazionale.

Fonte: Wikipedia

5-8 ottobre 1919: al XVI Congresso del Partito Socialista a Bologna Amedeo Bordiga propone l’espulsione dei riformisti e il cambio del nome in Partito Comunista

Amadeo Bordiga fu il vincitore morale del congresso, infatti molte sue tesi furono assunte dalla maggioritaria corrente massimalista.

Il Partito Socialista Italiano tenne il suo sedicesimo congresso nazionale a Bologna tra il 5-8 ottobre 1919; considerato superato il vecchio Programma di Genova, in esso si fronteggiarono tre mozioni, quella dei massimalisti che erano maggioritari nel partito, quella del segretario nazionale Lazzari (su cui confluirono i riformisti di Turati) e quella della minoranza intransigente di Bordiga:

  1. la mozione dei massimalisti di Giacinto Menotti Serrati, che avevano come obiettivo immediato la creazione di una “repubblica socialista” su modello sovietico si distingueva da quella di Amadeo Bordiga per pochi particolari, infatti sia Serrati che Bordiga proponevano l’adesione del partito alla Terza Internazionale; tuttavia, mentre i massimalisti di Serrati ritenevano che la rivoluzione fosse comunque inevitabile e l’attendevano passivamente, l’estrema sinistra di Bordiga, in polemica con i massimalisti, e in modo più coerente con l’esempio sovietico, riteneva doveroso impegnarsi attivamente per la riuscita della rivoluzione.
  2. la mozione di Costantino Lazzari, che concordava con Serrati sull’obiettivo finale della rivoluzione proletaria da raggiungersi con l'”azione rivoluzionaria” e l’abbattimento del sistema democratico, riaffermava il principio secondo cui nel partito dovevano continuare ad avere cittadinanza anche i riformisti. La mozione di Lazzari era l’unica a non citare espressamente la Rivoluzione d’Ottobre e la Terza Internazionale anche se nel suo intervento congressuale la rivoluzione veniva definita come “la via che dobbiamo seguire anche a costo di essere ritenuti noi, socialisti italiani, i bolscevichi del nostro paese“. In ogni caso Lazzari dopo le reiterate proposte di ricorrere alla violenza per abbattere lo Stato borghese ribadì la necessità di ricorrere esclusivamente ai metodi legali.
  3. la mozione di Amadeo Bordiga, aderente ai principi della rivoluzione d’Ottobre, in cui vedeva la corretta rotta che avrebbe dovuto seguire il Partito Socialista Italiano, proponeva di cambiare il nome del partito con quello di “Partito Comunista” e di espellerne i “socialisti riformisti” di Turati. Infatti Bordiga, convinto dell’incompatibilità tra socialismo e democrazia, dato che “il proletariato poteva davvero impadronirsi del potere politico solo strappandolo alla minoranza capitalista con la lotta armata, con l’azione rivoluzionaria“, riteneva che il partito non avrebbe dovuto partecipare alle elezioni. La sua corrente fu detta “comunista astensionista“.

Delle tre mozioni, fu quella massimalista elezionista di Serrati ad ottenere la maggioranza assoluta dei voti e ad esprimere la direzione del partito; la minoritaria corrente riformista (i cui esponenti principali erano Filippo Turati e Claudio Treves), che non credeva nella possibilità di uno sbocco rivoluzionario della crisi, fece confluire i suoi voti sulla mozione di Lazzari ma l’approvazione avvenuta all’unanimità dell’adesione alla Terza Internazionale pose in sostanza i “socialisti riformisti” fuori dal partito.

Due furono sostanzialmente le novità introdotte nel Congresso bolognese: innanzitutto si individuò come punto di riferimento concreto la Rivoluzione di Ottobre elemento che prima mancava. Accettandone anche tutti i previsti sviluppi successivi destinati a sfociare nel “bolscevismo“. Si accettarono inoltre della Rivoluzione di ottobre anche la soppressione del Parlamento e la nascita della dittatura in Russia. Le poche voci discordi furono quelle dei socialisti riformisti guidati da Filippo Turati ma che furono sconfitti da una mozione di Serrati che impegnava il Partito Socialista Italiano a ergersi difensore dei “Soviet”. Inoltre la crisi delle democrazie indicava, secondo i socialisti, come l’unica soluzione da perseguirsi fosse quella “rivoluzionaria” che portava al socialismo e il modo per raggiungerla fosse la “guerra civile“.

La contestazione alla classe borghese, di cui la guerra era considerata un’espressione, all’interno del Partito si spinse a richiedere l’espulsione dei socialisti che erano stati interventisti o volontari di guerra. Il deputato Mario Cavallari che era stato interventista e volontario di guerra era già stato espulso nell’agosto. Al di fuori invece si decise di escludere in qualsiasi modo ogni rapporto con tutti i partiti non socialisti.

Notevole, inoltre, fu l’accettazione del ricorso alla violenza, considerata come necessaria “levatrice della storia“. Nel congresso di Bologna questo mutamento venne ufficialmente rivendicato e soprattutto questa deriva sancì la vittoria del massimalismo che puntava non ad una vittoria elettorale quanto all’abbattimento dello stato borghese per poter creare la “Repubblica socialista“.

Le tesi approvate nel Congresso di Bologna non giungevano nuove ma in realtà erano il frutto di un lungo processo iniziato già da alcuni anni e che aveva visto aumentare i consensi dei “massimalisti” e quindi si deliberò in base a ciò che già da mesi era nell’aria. Il Partito Socialista Italiano dopo Bologna si staccò nettamente dalla tradizione risorgimentale, cui pure aveva partecipato, mettendo in difficoltà anche i politici socialisti che in diverse città erano stati chiamati ad amministrare. L’isolamento del Partito Socialista Italiano, con le nuove deliberazioni, divenne totale. Nessuna delle correnti del Partito, pur richiamandosi più o meno genericamente all’esigenza di superare il capitalismo e instaurare il socialismo, seppe proporre alcun obiettivo concreto e immediato alle lotte in cui erano frattanto impegnati il movimento operaio e quello contadino, i quali rimasero pertanto sostanzialmente privi, durante tutto il Biennio rosso, di un’efficace direzione politica. In particolare, è stata spesso sottolineata l’inettitudine della direzione massimalista, la quale diede prova di un estremismo solamente verbale e di un rivoluzionarismo velleitario che non riuscì mai a far seguire alle parole i fatti.

Dice Angelo Tasca: “Il partito continua a ubriacarsi di parole, a redigere sulla carta dei progetti di Soviet, abbandonando a se stesse le commissioni di fabbrica nel Nord e i contadini affamati di terra nel Mezzogiorno.”

Fonte: Wikipedia

Le aperture ai socialisti del governo Nitti che allo sciopero del 20 e 21 luglio 1919 sfumano privilegiando i partiti e movimenti d’ordine tra i quali i Fasci Italiani di Combattimento

Il nuovo presidente del consiglio Francesco Saverio Nitti cercò di venire incontro alle istanze degli operai e dei contadini operando però un netto discrimine tra le agitazioni sociali. Distinguendo tra agitazioni economiche che le forze dell’ordine avrebbero dovuto mantenere nella legalità ma verso le quali il Governo intendeva cercare una mediazione e le agitazioni politiche considerate “sovversive” che non sarebbero state tollerate. L’intendimento di Nitti però si scontrò con il Partito Socialista che, accusandolo di essere “giolittiano“, si rifiutò di scendere a compromessi con rappresentanti della borghesia: “Siamo lieti di trovarci di fronte ad altro governo di coalizione borghese, perché ancora e sempre il nostro bersaglio non sarà l’uno o l’altro partito, ma tutti i partiti borghesi. E faremo altrettanto contro i governi che si ergeranno a sostituire l’attuale…“. L’intransigenza socialista portò il partito a convergere sempre più con gli anarchici ingenerando la convinzione nei contemporanei della nascita di un “bolscevismo italiano” in cui le bandiere rosse socialiste si affiancarono sempre più spesso le rosso-nere anarchiche. Uniti sul piano politico i socialisti e gli anarchici divergono nell’atteggiamento da tenere nei confronti dei tumulti. I socialisti fecero il possibile per mantenerli nei limiti della legge ed evitare le degenerazioni dei saccheggi mentre gli anarchici ritennero i tumulti un’occasione da sfruttare per arrivare alla “rivoluzione” e pertanto fecero il possibile per fomentarli. Pur in disaccordo con i metodi anarchici i socialisti non ne sconfessarono le azioni pubblicamente insistendo anzi sulle riviste socialiste sulla Rivoluzione imminente e denominando i comitati di fabbrica “soviet” secondo l’esempio russo.

Il 9 giugno 1919 fu indetta per il 20-21 luglio la prima grande manifestazione socialista in concomitanza con uno sciopero generale e i socialisti riuscirono a rintuzzare i tentativi degli anarchici di non fissare un termine allo sciopero. Ciononostante il clima incandescente nell’immaginario fece assumere allo sciopero una valenza “rivoluzionaria” e nonostante i toni cauti dell’Avanti! la base si convinse che stesse per scattare la “grande ora“. In realtà però lo sciopero generale si svolse in totale tranquillità grazie anche ai ripetuti appelli dei socialisti e quasi ovunque i servizi continuarono a funzionare. La mancata rivoluzione annunciata, dopo i ripetuti proclami degli anarchici e dei fogli socialisti legati al massimalismo, sfiduciò il proletariato e rinvigorì invece il fronte antisocialista. Secondo Salvemini il Governo Nitti fu quello che trasse il maggior vantaggio potendosi presentare al paese, dopo i ripetuti proclami rivoluzionari, come il garante dell’ordine, infatti Nitti, fermo alla sua politica di discrimine, aveva nei giorni precedenti provveduto a far arrestare preventivamente i capi anarchici senza toccare invece i socialisti. L’allarmismo, causato dai continui richiami rivoluzionari e dagli echi della Terza Internazionale, contribuì comunque a creare in seno alle forze armate e al governo una sostanziale avversione contro le iniziative definite “sovversive” nelle quali, indistintamente, venivano compresi sia i socialisti che gli anarchici. Per di più, proprio in occasione dello sciopero del 20-21 luglio numerose informative riservate segnalavano al Governo intenti rivoluzionari finalizzati alla conquista del potere da parte dei cosiddetti “sovversivi” e una pericolosa propaganda tra le truppe. Oltre a ciò si aggiunsero ulteriori segnalazioni circa l’arrivo in Italia di inviati del comintern con il compito di attuare un’insurrezione. Al fine di fronteggiare una possibile insurrezione, Francesco Saverio Nitti, già in data 14 luglio 1919 aveva dato disposizione ai prefetti del Regno di aprire i contatti con tutte le associazioni e i partiti politici d’ordine tra i quali Nitti comprese i Fasci Italiani di Combattimento come indicato in una circolare inviata ai prefetti il 14 luglio 1919.

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I socialisti nel dopoguerra, la crisi economica, i reduci, i Fasci di combattimento, la crisi economica, i riflessi della Rivoluzione russa, l’assalto fascista alla sede dell’Avanti!

Biennio rosso in Italia viene comunemente indicato il periodo della storia d’Italia compreso fra il 1919 e il 1920, caratterizzato da una serie di lotte operaie e contadine che ebbero il loro culmine e la loro conclusione con l’occupazione delle fabbriche nel settembre 1920.In tale periodo si verificarono, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, mobilitazioni contadine, tumulti annonari, manifestazioni operaie, occupazioni di terreni e fabbriche con, in alcuni casi, tentativi di autogestione. Le agitazioni si estesero anche alle zone rurali e furono spesso accompagnate da scioperi, picchetti e scontri.

L’espressione “biennio rosso” venne utilizzata da pubblicisti di parte borghese per sottolineare il grande timore suscitato, nelle classi possidenti, dalle lotte operaie e contadine che ebbero luogo nel 1919-20, e quindi per giustificare la reazione fascista che ne seguì.

La crisi economica

L’economia italiana si trovava in una situazione di grave crisi, iniziata già durante la guerra e che si protrasse a lungo; infatti, nel biennio 1917-1918 il reddito nazionale netto era sceso drasticamente, e rimase, fino a tutto il 1923, ben al di sotto del livello d’anteguerra, mentre il tenore di vita delle classi popolari era, durante la guerra, nettamente peggiorato; secondo una statistica, fatto pari a 100 il livello medio dei salari reali nel 1913, questo indice era sceso a 64,6 nel 1918. Nell’immediato dopoguerra si verificarono inoltre un ingentissimo aumento del debito pubblico, un forte aggravio del deficit della bilancia dei pagamenti, il crollo del valore della lira e un processo inflattivo che portò con sé la repentina diminuzione dei salari reali. Il peggioramento delle condizioni di vita delle classi popolari (già duramente provate dalla guerra) fu la causa immediata dell’ondata di scioperi e di agitazioni, iniziata nella primavera del 1919, alla quale non rimase estranea nessuna categoria di lavoratori, sia nelle città sia nelle campagne, compresi i pubblici dipendenti, cosicché l’anno 1919 totalizzò complessivamente in Italia oltre 1.800 scioperi economici e più di 1.500.000 scioperanti.

Il reducismo

Come in tutta l’Europa post-bellica, anche in Italia gli ex combattenti, costituiti in proprie associazioni, divennero un elemento importante del quadro politico. In Italia gli orientamenti politici degli ex combattenti furono vari. Solo una minoranza aderì ai Fasci di combattimento fondati nel 1919 da Mussolini; molti di più furono i reduci che diedero il proprio consenso alle idealità democratiche espresse dai “quattordici punti” del presidente statunitense Woodrow Wilson; l’Associazione Nazionale Combattenti, nel suo congresso di fondazione che ebbe luogo nell’aprile 1919, propose l’elezione di un’Assemblea Costituente che avrebbe avuto il compito di deliberare un nuovo assetto democratico dello Stato. Una parte della storiografia ha ritenuto che l’incomprensione e l’ostilità, che il Partito Socialista riservò in quegli anni alle istanze espresse dai reduci, abbiano contribuito a spingere questi ultimi a destra, verso il nazionalismo e il fascismo. Un’altra parte della storiografia ha rilevato, tuttavia, che l’atteggiamento socialista di opposizione alla guerra era in continuità con il pacifismo e il neutralismo che tale partito aveva già espresso prima e durante il grande conflitto, atteggiamento che era d’altronde largamente condiviso dai suoi elettori e che il partito molto difficilmente avrebbe potuto sconfessare a guerra finita. Peraltro, sia nel 1915 sia nel 1919 l’orientamento neutralista (che fosse di matrice cattolica, giolittiana o socialista) era quello ampiamente maggioritario in Italia, cosicché l’interventismo e il bellicismo finirono per assumere più facilmente un carattere antidemocratico.

Due furono, comunque, i principali orientamenti politici nei quali si articolò il movimento degli ex combattenti: uno più radicale, che trovò espressione nell’associazione degli arditi e nei nazionalisti estremisti come D’Annunzio, Marinetti e Mussolini; e un secondo orientamento più moderato, rappresentato dalla Associazione Nazionale Combattenti, la quale in politica estera non condivideva lo sciovinismo dei nazionalfascisti mentre in politica interna era piuttosto vicina alle posizioni di Nitti e di Salvemini.

Gli ex combattenti furono anche protagonisti, in quegli anni, di importanti lotte sociali, soprattutto nell’Italia meridionale: specialmente in Calabria, in Puglia e nel centro-ovest della Sicilia ebbero luogo rilevanti occupazioni di terre già facenti parti di latifondi, per un’estensione che è stata stimata fra i quarantamila e i cinquantamila ettari nel biennio 1919-20; questi movimenti furono spesso guidati dalle associazioni dei reduci, a differenza dell’Italia settentrionale, dove i moti contadini ebbero prevalente carattere bracciantile e furono perlopiù egemonizzati dai socialisti.

Riflessi in Italia della rivoluzione russa

La Rivoluzione russa che nel marzo 1917 aveva portato alla costituzione del Governo Provvisorio Russo sotto la guida di Aleksandr Kerenskij aveva subito ottenuto il sostegno morale dei socialisti italiani e dell’Avanti! che in essa intuivano già gli ulteriori sviluppi. L’Avanti! il 19 marzo scrisse: “la bandiera rossa issata dal proletariato di Pietrogrado ha ben altro significato che un’adesione delle masse della Russia lavoratrice alla presente situazione creata dagli imperialismi di tutti i paesi” La notizia degli avvenimenti russi giunse in Italia in un momento particolarmente difficile, sia sul fronte militare sia nel settore economico e già alla fine di aprile in parte ispirarono disordini soprattutto a Milano causati dalla carenza del riso. I socialisti accentuarono la richiesta di arrivare alla pace ma aggiungendo anche espliciti inviti alla ribellione. Ad agosto a Torino, in occasione della visita di una delegazione russa in Italia, vi furono manifestazioni di operai che accolsero i delegati al grido di “Viva Lenin” e che in poche settimane raggiunsero il culmine con la più violenta sommossa registrata in Italia durante la guerra. I moti ebbero luogo fra il 22 e il 27 agosto e si chiusero con un bilancio di circa cinquanta morti fra i rivoltosi, circa dieci fra le forze dell’ordine e circa duecento feriti; vi furono un migliaio di arrestati; di essi, varie centinaia furono condannati alla reclusione in carcere. La sommossa di Torino, indubbiamente spontanea in quanto causata dalla contingente mancanza di pane, era comunque frutto della intensa propaganda socialista e della sconfitta del Regio Esercito nella battaglia di Caporetto. Dunque aprì scenari che avrebbero favorito una rivoluzione in Italia. L’esaltazione di Lenin e della Russia, che fece molta presa nella classe operaia dell’epoca, fu soprattutto dovuta al direttore dell’Avanti! Giacinto Menotti Serrati e la rivoluzione russa, presso i massimalisti, fu considerata “uno sbocco necessario della situazione italiana”ma l’approdo rivoluzionario non era nelle volontà dei dirigenti socialisti tantoché l’ala riformista a seguito di Caporetto sentì il dovere di sostenere lo sforzo bellico contro l’invasione nemica. Note e significative sono le parole del leader riformista Filippo Turati al Parlamento: “L’onorevole Orlando ha detto: Al Monte Grappa è la Patria. A nome dei miei amici ripeto: Al Monte Grappa è la Patria“. La Rivoluzione d’ottobre in Russia in ogni caso rafforzò la corrente massimalista, ma soprattutto quella intransigente del Partito Socialista che aveva i suoi principali centri a Roma, Torino, Milano, Napoli e Firenze e di cui divenne la vera e propria avanguardia.

Il Congresso di Roma del 1-5 settembre 1918 sancì ufficialmente la nuova linea politica del Partito che avrebbe dovuto “esplicarsi esclusivamente sul terreno della lotta di classe” ed espulsione dal partito per chi “renda omaggio alle istituzioni monarchiche, partecipi od indulga a manifestazioni patriottiche o di solidarietà nazionale“.

Alla fine della Prima guerra mondiale e per buona parte del 1919 il peso dei socialisti intransigenti si manifestò più apertamente guadagnando sempre più posizioni. A Torino il PSI locale è guidato da Giovanni Boero, leader locale degli intransigenti, a Napoli divenne una figura di spicco Amadeo Bordiga che fondò il suo settimanale Soviet, a Roma è “intransigente” la federazione giovanile. Su posizioni estreme è anche il settimanale “La Difesa” di Firenze, città che il 9 febbraio 1919 vide la vittoria del gruppo intransigente all’interno della federazione socialista, così come a Milano l’11 marzo, nonostante che sindaco della città fosse il socialista moderato Emilio Caldara. Il prevalere degli intransigenti all’interno del Partito Socialista comportò una radicalizzazione delle posizioni e parole come “Repubblica socialista” e “Dittatura del proletariato” furono sempre più spesso usate. Le tesi di Lenin sulle guerre, viste solo come lotte tra imperialismi destinate infine a rinforzare esclusivamente le forze della reazione, evidenziano come lo scontro a questo punto per i socialisti possa essere solo tra “conservazione” e “rivoluzione”.
Un ruolo di rilievo nel radicalizzare le mobilitazioni popolari lo ebbe anche il rientro in Italia (dicembre 1919) dell’agitatore anarchico Errico Malatesta (salutato dalle folle come il Lenin italiano), la nascita a Milano (febbraio 1920) del quotidiano anarchico Umanità Nova, da lui diretto, e la nascita dell’Unione anarchica italiana.

La reazione antisocialista

La radicalizzazione delle posizioni politiche socialiste polemiche con la guerra appena conclusa giocava inoltre a favore delle organizzazioni nazionaliste che si ersero a difesa della vittoria e a custodi dell’ordine. L’antisocialismo dei nazionalisti, ribattezzato “antibolscevismo“, trovò nuova linfa nell’ostilità dimostrata dai socialisti nei confronti della “Vittoria” di una Patria definita come un'”inganno borghese” rendendo presso i nazionalisti il concetto di patriottismo indissolubilmente legato a quello di antisocialismo. Per tutto il 1918 e fino alla seconda metà di febbraio del 1919, a parte sporadiche polemiche antisocialiste, non vi fu un’effettiva contrapposizione. Le cose cambiarono il 16 febbraio 1919, dopo che un imponente corteo socialista svoltosi a Milano sfilò ordinato per il centro cittadino. Le forze interventiste reagirono chiamando all’unità di tutti i gruppi nazionalisti e Mussolini su Il Popolo d’Italia pubblicò un duro articolo intitolato “Contro la bestia ritornante…”. Le manifestazioni socialiste cominciarono a moltiplicarsi e oltre alla polemica contro la guerra si aggiunse la polemica contro i “combattenti” e sempre più presente divenne l’esaltazione di Lenin e del Bolscevismo che unita alla violenza verbale dei giornali socialisti e dell’Avanti! con dichiarazioni di guerra allo “Stato borghese” mischiate all’esaltazione della Rivoluzione d’Ottobre mettevano in allarme gli organi dello Stato.

La contrapposizione tra socialisti e interventisti scoppiò violenta a Milano il 15 aprile 1919 dopo una giornata di scontri, che culminò nell’assalto squadrista all’Avanti! tra manifestanti del Partito Socialista e contromanifestanti, arditi, futuristi (vicini agli anarchici) e i primi elementi fascisti dei neocostituiti Fasci italiani di combattimento che si fecero notare per la prima volta a livello nazionale. A partire dalla primavera del 1919 si costituirono numerose associazioni patriottiche e studentesche, di reduci oppure nazionaliste tutte accomunate dall’antisocialismo le quali iniziano a manifestare, pubblicare riviste oppure a organizzare riunioni. Alle associazioni combattentistiche antisocialiste, oltre alle formazioni più audaci e a carattere volontario degli arditi, presero parte soprattutto reduci animati anch’essi da patriottismo che si sentivano offesi dalle offensive svalutazioni fatte dall’Avanti!.

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