Il 10 giugno 1924 il deputato e segretario del PSU Giacomo Matteotti, dieci giorni dopo il suo discorso di denuncia delle violenze e dei brogli perpetrati dai fascisti nelle elezioni appena celebrate pronunciato il 30 maggio alla Camera dei deputati, venne rapito e ucciso da una squadraccia fascista, la cosiddetta CEKA di Amerigo Dumini, che rispondeva agli ordini della direzione del Partito Nazionale Fascista ed era finanziata direttamente dall’ufficio stampa del presidente del Consiglio Benito Mussolini.
Giacomo Matteotti (Fratta Polesine, 22 maggio 1885 – Roma, 10 giugno 1924) è stato segretario del Partito Socialista Unitario, formazione nata da una scissione del Partito Socialista Italiano al Congresso di Roma dell’ottobre 1922.
Fu rapito e assassinato da una squadra fascista capeggiata da Amerigo Dumini probabilmente per volontà di Benito Mussolini, a causa delle sue denunce dei brogli elettorali e del clima di violenza messi in atto dalla nascente dittatura nelle elezioni del 6 aprile 1924 e delle sue indagini sulla corruzione del governo, in particolare sulla vicenda delle tangenti della concessione petrolifera alla Sinclair Oil. Matteotti, nel giorno del suo omicidio (10 giugno) avrebbe dovuto infatti presentare un nuovo discorso alla Camera dei deputati, dopo quello sui brogli del 30 maggio, in cui avrebbe rivelato le sue scoperte riguardanti lo scandalo finanziario coinvolgente anche Arnaldo Mussolini, fratello minore del Duce. Il corpo di Matteotti fu ritrovato circa due mesi dopo, dal brigadiere Ovidio Caratelli.
In ogni caso, il 3 gennaio 1925, di fronte alla Camera dei deputati, Benito Mussolini si assunse pubblicamente la “responsabilità politica, morale e storica” del clima nel quale l’assassinio si era verificato.
Matteotti fu eletto in Parlamento per la prima volta nel 1919. Fu rieletto nel 1921 e nel 1924, e veniva soprannominato Tempesta dai suoi compagni di partito per il suo carattere battagliero ed intransigente. In pochi anni, oltre a preparare numerosi disegni di legge e relazioni, intervenne 106 volte in Aula, con discorsi su temi spesso tecnici, amministrativi e finanziari. Nel 1920 a Ferrara divenne il nuovo segretario della camera del Lavoro cittadina, e questo produsse un rinnovato impegno nella sua lotta antifascista, con frequenti denunce delle violenze che venivano messe in atto. Nel 1921 pubblicò una famosa “Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia”, in cui si denunciavano, per la prima volta, le violenze delle squadre d’azione fasciste durante la campagna elettorale delle elezioni del 1921.
Nell’ottobre del 1922 Matteotti fu espulso dal Partito Socialista Italiano con tutta la corrente riformista legata a Filippo Turati. I fuoriusciti fondarono il nuovo Partito Socialista Unitario di cui Matteotti divenne segretario. Nel 1924 venne pubblicata a Londra, dove Matteotti si era recato in forma strettamente riservata nell’aprile di quell’anno, la traduzione del suo libro Un anno di dominazione fascista in cui riportava meticolosamente gli atti di violenza fascista contro gli oppositori.
Nell’introduzione del libro esplicitamente ribatteva alle affermazioni fasciste, che affermavano l’uso della violenza squadrista utile allo scopo di riportare il paese a una situazione di legalità e normalità col ripristino dell’autorità dello Stato dopo le violenze socialiste del biennio rosso, affermando la continuazione delle spedizioni squadriste contro gli oppositori anche dopo un anno di governo fascista. Inoltre sosteneva che il miglioramento delle condizioni economiche e finanziarie del paese, che stava lentamente riprendendosi dalle devastazioni della guerra, era dovuto non all’azione fascista, quanto alle energie popolari. Tuttavia, ancora secondo Matteotti, a beneficiarne sarebbero stati solo gli speculatori ed i capitalisti, mentre il ceto medio e proletario ne avrebbe ricevuto una quota proporzionalmente bassa a fronte dei sacrifici.
La contestazione delle elezioni del 1924
Il 30 maggio 1924 Matteotti prese la parola alla Camera dei deputati per contestare i risultati delle elezioni tenutesi il precedente 6 aprile. Mentre dai banchi fascisti si levavano contestazioni e rumori che lo interrompevano più volte (un deputato fascista, Giacomo Suardo, abbandonò l’aula per protesta) Matteotti, denunciando una nuova serie di violenze, illegalità ed abusi commessi dai fascisti per riuscire a vincere le elezioni, pronunciava un discorso che sarebbe rimasto famoso.
Terminato il discorso disse ai suoi compagni di partito: “Io il mio discorso l’ho fatto. Ora voi preparate il discorso funebre per me”.
La proposta di Matteotti di far invalidare l’elezione almeno di un gruppo di deputati – secondo le sue accuse, illegittimamente eletti a causa delle violenze e dei brogli – venne respinta dalla Camera con 285 voti contrari, 57 favorevoli e 42 astenuti. Renzo De Felice ha definito “assurda” l’interpretazione di questo discorso come una richiesta di Matteotti basata su una realistica possibilità di ottenere un successo: secondo lo storico, Matteotti non mirava realmente all’invalidamento del voto, bensì a dare il via dai banchi del parlamento ad un’opposizione più aggressiva nei confronti del fascismo, accusando in un colpo solo sia il governo fascista che i “collaborazionisti” socialisti.
In questa sua intransigenza – tuttavia – Matteotti non riusciva a trovare un collegamento con l’operato e l’ideologia dei comunisti, che vedevano tutti i governi borghesi uguali fra loro e quindi da combattere indifferentemente: “Il nemico è attualmente uno solo, il fascismo. Complice involontario del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata dall’uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della dittatura in atto dell’altro“.
Il discorso del 30 maggio – secondo lo storico Giorgio Candeloro – “diede a Mussolini e ai fascisti la sensazione precisa di avere di fronte in quella Camera un’opposizione molto più combattiva di quella esistente nella Camera precedente e non disposta a subire passivamente illegalità e soprusi“.
Il rapimento e l’omicidio
Il 10 giugno 1924, intorno alle ore 16.15, Matteotti uscì di casa a piedi per dirigersi verso Montecitorio decidendo di percorrere il lungotevere Arnaldo da Brescia (per poi tagliare verso Montecitorio), piuttosto che incamminarsi lungo la via Flaminia per poi raggiungere il Corso attraverso gli archi di Porta del Popolo. Qui, secondo le testimonianze dei due ragazzini presenti all’evento, era ferma un’auto con a bordo alcuni individui, poi in seguito identificati come i membri della polizia politica: Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo.
Due degli aggressori, appena si accorsero del parlamentare social-unitario, gli balzarono addosso. Ciononostante Matteotti riuscì a divincolarsi buttandone uno a terra e rendendo necessario l’intervento di un terzo che lo stordì colpendolo al volto con un pugno. Gli altri due intervennero per caricarlo in macchina. In seguito i due ragazzini identificarono anche la vettura, da altri testimoni descritta semplicemente come “un’automobile, nera, elegante, chiusa”, per una Lancia Kappa. I due ragazzini, avvicinatisi al veicolo, furono allontanati rudemente, poi la macchina ripartì ad alta velocità.
Nel frattempo all’interno della vettura scoppiò una rissa furibonda e dall’abitacolo della vettura Matteotti riuscì a gettare fuori il suo tesserino da parlamentare che fu ritrovato da due contadini presso il Ponte del Risorgimento. Non riuscendo a tenerlo fermo Giuseppe Viola, dopo qualche tempo, estrasse un coltello e colpì Matteotti sotto l’ascella e al torace uccidendolo dopo un’agonia di diverse ore. Per sbarazzarsi del corpo i cinque girovagarono per la campagna romana, fino a raggiungere verso sera la Macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano, a 25 km da Roma. Qui, servendosi del cric dell’auto, seppellirono il cadavere piegato in due. Poi ritornarono a Roma dove lasciarono la vettura in un garage privato. Subito informarono Filippelli e De Bono degli avvenimenti e poi si allontanarono cercando di nascondersi.
Le ricerche e le indagini
L’assenza di Matteotti in Parlamento non fu immediatamente notata, ma già il giorno dopo, 11 giugno, la notizia della scomparsa era sui giornali. Più tardi Mussolini sostenne di aver appreso della morte di Matteotti soltanto la sera dell’11 giugno e di esserne stato, fino ad allora, del tutto ignaro.
Intanto, due giorni dopo il rapimento fu individuata l’auto che risultò proprietà del direttore del Corriere Italiano Filippo Filippelli grazie alla testimonianza di Ester Erasmi e del marito Domenico Villarini che, insospettiti da strani movimenti avvenuti la sera prima, avendo notato la vettura sospetta, si erano annotati la targa. Da questo importante episodio nacquero le prime indagini, intentate dal magistrato Mauro Del Giudice, intransigente giurista, difensore dell’indipendenza della magistratura di fronte al potere esecutivo, il quale, assieme al giudice Umberto Guglielmo Tancredi, fin dall’inizio individuò in Dumini la mano dell’assassino. In breve tutti i rapitori furono identificati ed arrestati, ma dopo pochissimo e dietro diretto interesse del Duce, l’incarico gli venne tolto e le indagini vennero fermate. Fu questa comunque l’occasione in cui Cesare Rossi deporrà il suo memoriale. Del Giudice invece fu successivamente allontanato dalla capitale e qualche anno dopo, portato al pensionamento forzato.
Il 17 giugno Mussolini impose le dimissioni a Cesare Rossi e ad Aldo Finzi che erano indicati dall’opinione pubblica e anche dalle indagini del magistrato Del Giudice, come i più coinvolti a causa delle note frequentazioni con gli uomini di Dumini. Fu dimissionato anche il capo della polizia Emilio De Bono e il giorno seguente anche Mussolini rinunciò alla guida del ministero dell’interno che affidò a Luigi Federzoni.
I socialisti unitari vicini a Filippo Turati nel frattempo diramarono un comunicato stampa che accusava il governo: “L’autorità politica assicura solerti indagini per consegnare alla giustizia i colpevoli, ma la sua azione appare totalmente investita dal sospetto di non volere, né potere colpire le radici profonde del delitto, né svelare l’ambiente da cui i delinquenti emersero“.
Il 22 giugno, si costituirono spontaneamente il Segretario amministrativo del PNF Giovanni Marinelli, ricercato come mandante del sequestro e il vicesegretario politico Cesare Rossi, dopo essere stati latitanti. Cesare Rossi si recò direttamente al carcere di Regina Coeli invece che in Questura, “per evitare la curiosità dei giornalisti, gli obiettivi fotografici e il trasporto a Regina Coeli“. Lo stesso giorno, a Bologna, fu convocata da Dino Grandi un’imponente adunata in sostegno a Mussolini cui parteciparono circa cinquantamila fascisti.
Il 24 giugno fu riunito il Senato che, a larga maggioranza, riconfermò la fiducia a Mussolini con 225 voti favorevoli su 25. Gli unici tre senatori a denunciare le responsabilità di Mussolini, nonostante le minacce ricevute, furono Carlo Sforza, Mario Abbiate e Luigi Albertini.
Il 27 giugno 1924 i parlamentari dell’opposizione si riunirono in una sala di Montecitorio, oggi nota come sala dell’Aventino, decidendo comunemente di abbandonare i lavori parlamentari finché il governo non avesse chiarito la propria posizione a proposito dell’omicidio Matteotti.
Il giorno dopo alcuni parlamentari socialisti si recarono in pellegrinaggio sul luogo in cui Matteotti era stato rapito dove deposero una corona d’alloro. Lo stesso giorno Filippo Turati commemorò Matteotti alla Camera. Questo discorso fu da alcuni storici considerato come l’inizio effettivo della Secessione dell’Aventino. L’obiettivo era quello di ottenere la caduta del governo e poter andare a nuove elezioni
L’8 luglio il governo, approfittando dell’assenza dell’opposizione, varò nuovi regolamenti restrittivi relativi alla stampa, rafforzati due giorni dopo dall’obbligo per ciascun giornale di nominare un direttore responsabile. Costui poteva essere diffidato se contravveniva le leggi e il giornale messo in condizione di non poter più pubblicare. Il 24 luglio Roberto Farinacci in una lettera dichiarò di accettare l’incarico di avvocato della difesa nella causa contro Dumini e compagni che aveva precedentemente rifiutato.
Il ritrovamento del corpo e funerali
Nonostante le ricerche continuassero il corpo di Matteotti fu ritrovato per caso solo il 16 agosto, tra le 7:30 e le 8 del mattino, dal cane di un brigadiere dei Carabinieri in licenza, Ovidio Caratelli, nella macchia della Quartarella, un bosco nel comune di Riano. Il corpo fu trasferito momentaneamente nel cimitero di Riano dove il 18 si procedette all’identificazione da parte dei cognati. Il cadavere era ormai in avanzata fase di decomposizione quindi fu necessaria una perizia odontoiatrica. Il 20 agosto, alle ore 18, quindi solo quattro giorni dopo il ritrovamento, partiva da Monterotondo (paese a 15 chilometri circa da Riano) il treno che avrebbe riportato a Fratta Polesine la bara con la salma di Matteotti. Mussolini ordinò al ministro degli Interni Luigi Federzoni che i funerali si tenessero direttamente a Fratta Polesine, città natale di Matteotti, in modo da non dare troppo nell’occhio.
La popolazione del piccolo centro partecipò numerosa al funerale di colui che era affettuosamente chiamato il “Capo dei lavoratori”. Il 12 settembre 1924 a Roma, Giovanni Corvi, al grido di “Vendetta per Matteotti!”, uccise il deputato fascista Armando Casalini. Dopo i funerali, il corpo di Matteotti venne sepolto nella tomba di famiglia del cimitero del suo comune natale.
La responsabilità diretta di Mussolini
Fin dai primissimi momenti successivi al sequestro e, ancor più dopo la scoperta che il rapimento era degenerato in omicidio, presso la gran parte della pubblica opinione si diffuse la convinzione che Mussolini fosse il responsabile ultimo dei fatti. Mussolini stesso, il 31 maggio 1924, giorno seguente al discorso del deputato socialista alla Camera di denuncia dei brogli elettorali, scrisse sul Il Popolo d’Italia che la maggioranza era stata troppo paziente e che la mostruosa provocazione di Matteotti meritava qualcosa di più concreto di una risposta verbale.
Secondo una delle ricostruzioni, accreditata dal Ministero dell’interno italiano, il presidente del Consiglio, rientrato al Viminale dopo il famoso discorso del deputato socialista si rivolse a Giovanni Marinelli (a capo, insieme a Rossi, della polizia segreta fascista Ceka, capitanata dallo squadrista Amerigo Dumini) urlandogli: “Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare […] “.
Il fatto che queste parole fossero effettivamente una chiara e ben compresa autorizzazione di Mussolini, è sostenuto dalla maggior parte delle teorie storiografiche.
Tale esplicita intenzione e la conseguente responsabilità diretta di Mussolini quale mandante dell’omicidio è messa in dubbio da quella parte degli storici più vicina alle posizioni allora sostenute dal partito fascista, giocando sulla sottigliezza delle parole di Mussolini. Esse sarebbero state arbitrariamente intese da Marinelli come un ordine, in base al quale questi avrebbe autorizzato poi Dumini a uccidere Matteotti.
Rapporti tra Mussolini, Dumini e Otto Thierschwald
L’intenzionalità del delitto Matteotti sarebbe dimostrata dal fatto che, Amerigo Dumini, in data 31 maggio 1924 – giorno successivo al discorso di denuncia di Giacomo Matteotti alla Camera – scrisse al direttore del carcere Poggioreale di Napoli di rilasciare il detenuto Otto Thierschwald. Essendo austriaco, Thierschwald parlava perfettamente il tedesco. Il 2 giugno successivo Dumini lo incontrò a Roma e gli dette istruzioni di pedinare Matteotti e di seguirlo in Austria dove l’uomo politico avrebbe partecipato ad un congresso socialista. Pochi giorni dopo (il 5 giugno), fu improvvisamente concesso a Matteotti il permesso per recarsi a Vienna, sino ad allora costantemente negato. Nella capitale austriaca era stata preparata una trappola mortale per Matteotti, il cui assassinio sarebbe dovuto apparire come una faida interna al movimento socialista. L’organizzazione del delitto quindi era già stata avviata alcuni giorni prima del 10 giugno, se non che Matteotti preferì rinunciare al suo viaggio a Vienna: da ciò sarebbe nata l’improvvisazione oggetto delle argomentazioni di chi nega ogni premeditazione.
Amerigo Dumini, nel “processo farsa” intentatogli dal regime (vedi appresso) fu condannato per omicidio “preterintenzionale” a cinque anni, undici mesi e venti giorni, di cui quattro condonati in seguito all’amnistia generale del 1926. Poco dopo la sua scarcerazione si presentò alla presidenza del Consiglio pretendendo di parlare con Mussolini: «Sono qui per lavarmi dal sangue di Matteotti». Per questo episodio, il Tribunale di Viterbo lo condannò, il 9 ottobre 1926, a quattordici mesi di detenzione per porto abusivo d’armi e oltraggio a Mussolini. Tuttavia, nel 1927 era di nuovo libero, per grazia sovrana, e si trasferì poi in Somalia nell’estate 1928, con una pensione garantita di cinquemila lire al mese, che per l’epoca era una somma altissima. Anche qui però Dumini riprese a delinquere e in ottobre venne nuovamente arrestato, rispedito in Italia e condannato a cinque anni di confino. Tra gli altri luoghi, scontò parte del confino alle Isole Tremiti.
Nel 1933, di nuovo in carcere, fece sapere a Emilio De Bono di aver consegnato a dei notai texani un manoscritto con la verità sul delitto Matteotti. Il ricatto ancora una volta funzionò e venne posto di nuovo in libertà su ordine di Mussolini, con un indennizzo di cinquantamila lire.
Su proposta del capo della polizia Bocchini, nella primavera del 1934 Dumini si trasferì in Cirenaica, dove si diede all’attività di imprenditore agricolo e commerciale, ricevendo ingenti finanziamenti dal governo italiano, ammontanti, fra il 1935 e il 1940, a più di due milioni e mezzo di lire.
A supporto dell’ipotesi di un diretto coinvolgimento del Duce nel delitto Matteotti ci sarebbe, quindi, la pressoché immediata scarcerazione, dopo la condanna penale, del capo della squadra responsabile dell’assassinio del deputato socialista e il sostegno economico e politico fornitogli, a fronte delle sue minacce ricattatorie di divulgare il ruolo di Mussolini nella decisione dell’omicidio.
Assunzione della responsabilità di Mussolini stesso
Il 3 gennaio 1925, alla Camera, Mussolini respinse inizialmente l’accusa di un suo coinvolgimento diretto nel delitto Matteotti, sfidando anzi i Deputati a tradurlo davanti alla Suprema Corte in forza dell’articolo 47 dello Statuto Albertino. Successivamente, con un improvviso cambio di tono, si assunse personalmente, in due vicini passaggi del suo discorso, la responsabilità sia dei fatti avvenuti e sia di aver creato il clima di violenza in cui tutti i delitti politici compiuti in quegli anni erano maturati, trovando anche parole per riaffermare, di fronte ad alleati ed avversari, la sua posizione di capo indiscusso del fascismo.
Infine Mussolini denunciò l’Aventino come sedizioso e concluse con una dichiarazione minacciosa verso l’opposizione.
Nella notte Luigi Federzoni, ministro dell’Interno, inviò ai prefetti due telegrammi riservati che traducevano in pratica i propositi autoritari di Mussolini. Le disposizioni invitavano, in particolare, le autorità ad esercitare la sorveglianza più vigile su circoli, associazioni, esercizi pubblici che potessero costituire pericolo per l’ordine pubblico e, se del caso, ad attuarne la chiusura forzata. Le autorità erano altresì autorizzate ad avvalersi senza scrupoli del fermo temporaneo nei confronti degli oppositori politici. Inoltre i prefetti venivano invitati ad applicare con rigore assoluto il decreto legge atto a “reprimere gli abusi della stampa periodica”, approvato durante il Consiglio dei ministri del 7 luglio 1924, ma fino a questo momento usato quasi esclusivamente nei confronti della stampa di ispirazione comunista. Il decreto conferiva ai prefetti, ossia al governo, il potere di diffidare o addirittura sequestrare il giornale che diffondesse “notizie false e tendenziose atte a turbare l’ordine pubblico”.
Una successiva circolare interpretativa del ministro Federzoni aveva subito sgombrato il campo dagli equivoci: il giornale poteva essere sequestrato anche se la notizia pubblicata si fosse rivelata vera.
Successivamente Mussolini ebbe a dire del rapimento e poi del delitto che era «una bufera che mi hanno scatenato contro proprio quelli che avrebbero dovuto evitarla» (alla sorella Edvige) in chiaro riferimento ad alcuni suoi collaboratori (De Bono, Finzi, Marinelli e Rossi, con frequentazioni massoniche). In un’altra occasione ebbe a definire il delitto “un cadavere gettato davanti ai miei piedi per farmi inciampare.
L’influenza culturale
Sandro Pertini, eletto consigliere comunale di Stella, il suo paese natale, il 24 ottobre 1920, in una lista composta da esponenti dell’Unione Liberale Ligure, dell’Associazione Liberale Democratica, del Partito dei Combattenti e del Partito Popolare Italiano, si sarebbe iscritto al Partito Socialista Unitario, presso la federazione di Savona, il 18 agosto 1924, proprio sull’onda dell’emozione e dello sdegno per il ritrovamento, due giorni prima, del cadavere di Matteotti, che di quel partito era il Segretario.
Durante la Resistenza Italiana il PSI-PSIUP costituì le Brigate Matteotti, la cui azione più nota e clamorosa fu a Roma il 24 gennaio 1944 la liberazione dal carcere di Regina Coeli di due dei suoi principali esponenti, i futuri presidenti della Repubblica Giuseppe Saragat e Sandro Pertini, insieme a Luigi Andreoni e ad altri quattro militanti socialisti, in un’azione dai connotati rocamboleschi ideata e diretta da Peppino Gracceva e Giuliano Vassalli.
L’evasione dei sette antifascisti salvò con tutta probabilità la loro vita: non v’è dubbio infatti che, se ancora detenuti alla data del 24 marzo 1944, i loro nominativi sarebbero stati inclusi nell’elenco dei Todeskandidaten (condannati a morte o colpevoli di reati passibili di condanna a morte) da fucilare per rappresaglia alle Fosse Ardeatine.
Riconoscimenti
Monumenti e musei
Sul luogo del ritrovamento del corpo di Matteotti è stato eretto un monumento in ricordo. Gli sono state inoltre intitolate diverse strade e piazze in gran parte delle principali città italiane e un Premio.
Nel comune natale di Fratta Polesine è situata la tomba del deputato presso il cimitero comunale, meta ancora oggi della visita e dell’omaggio di molti cittadini e personalità della politica.
La “Casa museo Giacomo Matteotti”
Dopo la scomparsa dei figli di Matteotti la casa di famiglia nel piccolo paese del Polesine è rimasta chiusa al pubblico per molti anni e lasciata in stato di abbandono e disordine. Soltanto in anni recenti si è avviata un’importante opera di recupero di ambienti e mobili ad opera dell’Accademia dei Concordi di Rovigo, proprietaria della casa, e del Comune di Fratta Polesine, che ne ha la gestione. Nell’aprile 2012 l’abitazione viene riaperta al pubblico al termine dei lavori di restauro e trasformata in Casa Museo Giacomo Matteotti. L’edificio ospita al piano terra e al primo piano una ricostruzione fedele degli ambienti così come si presentavano negli anni venti, completi di mobili e cimeli di famiglia restaurati in maniera conservativa. Il secondo piano ospita una mostra fotografica e multimediale sulla vita e il martirio del deputato. La villa, che è il centro delle celebrazioni che ogni 10 giugno si svolgono a Fratta Polesine, è stata riconosciuta nel 2018 monumento nazionale dal Presidente della Repubblica Mattarella. La Casa Museo è dotata di un Comitato scientifico che ha promosso la creazione di un sito web (www.casamuseogiacomomatteotti.it) nel quale sono stati riversati gli scritti di Matteotti (discorsi politici, testi giuridici, saggi economico-sociali, interventi sul fascismo), del fratello Matteo e della moglie Velia Titta e molte testate di giornale relative ai mesi del rapimento e dell’assassinio. Inoltre un’ampia antologia di studi sul Polesine tra secondo Ottocento e primo Novecento, cioè sull’ambiente in cui Matteotti visse ed operò.
Fonte: Wikipedia