Quando come fulmine a ciel sereno cadde dal cielo la notizia della decisione della Regione di costruire un nuovo ospedale a Piacenza e tutti stupiti siamo caduti dal pero

330 milioni e forse alla fine 550 per un ospedale nuovo e per quanto ai piacentini del territorio…”Si curi chi può”

Riassumiamo: nel 2015 quasi come un fulmine a ciel sereno piove sula città la notizia dalla Regione della decisione di costruire un nuovo ospedale a Piacenza. Tutti i piacentini, compresi quelli che contano, che hanno potere decisionale sulle cose di casa nostra, cadono letteralmente dal pero. All’inizio alla cosa segui il silenzio dei più con la sola opposizione dei (pochi) rappresentanti locali del M5S ben presto smentiti addirittura dal livello romano per bocca addirittura dell’allora in auge Di Maio. Sempre più restando a bocca aperta si prese atto che lentamente tutta la politica locale condivideva e ringraziava. Erano del resto tanti soldini, perché rinunciarci? Certo, peccato però che i problemi della sanità piacentina erano ben altri, soprattutto legati ad una organizzazione di servizi sul territorio praticamente ospedalecentrica con ad esempio pochi ambulatori decentrati, scarso personale, servizi di prevenzione sottodimensionati e con gli stessi ospedali periferici in lento ma inesorabile declino. Nessun problema: “faremo un bel piano di sviluppo dei servizi territoriali, domiciliari, alternativi o sostitutivi del ricovero ospedaliero“. Grande idea! Così i piacentini giù a votare per confermare i politici al governo regionale. Certo, sosteneva qualche bastian contrario (compreso il sottoscritto) aggirandosi solitario di bar in bar, comunque passate le elezioni del nuovo ospedale non si parlerà più. Profeta del malaugurio: infatti addirittura sempre dall’alto arrivò (qualche anno dopo) la notizia che governo e regione mettevano a disposizione i 220 milioni necessari. Intanto il tempo passava e i piacentini (almeno i più) si dicevano contenti, appagati dalla generosità dei buoni governanti, quelli romani, quelli regionali e anche quelli comunali e soprattutto quelli dell’azienda sanitaria. “Finalmente avremo il parcheggio!” (perché il problema per molti ancora oggi non sarebbe tanto sanitario quanto del parcheggio), “Finalmente l’ospedale abbandonerà il centro e la caotica via Taverna” (perché per quelli della provincia, da San Polo a Ziano, il problema sarebbe la viabilità della caotica via Taverna) e via così, altri mille finalmente. E i servizi sul territorio, e gli ospedali della provincia e il personale da assumere? Silenzio. Dall’alto. Dai vertici di chi ha il potere di decidere delle cose nostre, del nostro presente, del nostro futuro. Intanto il tempo è passato, i costi sono lievitati, oggi arrivano a 330 milioni e, secondo qualche iettatore, alla fine – tra 10 anni – arriveranno a 500 milioni, forse 550! “Però ci saranno grandi eleganti vetrate e all’ingresso una reception degna del migliore degli alberghi con tanto di elegante signorina addetta alla più gentile e cortese accoglienza col dovuto smagliante sorriso hollywoodiano“. Sì, va bene, ma il parcheggio? “Da mille posti auto“. Tutto bene, allora. Certo. E macchinari scientifici che in Italia e forse in Europa sono sconosciuti e medici da tutto il mondo e infermieri, tutto nel nuovo grande magnifico avveniristico fantasmagorico ospedale piacentino. E i soldi, quelli ulteriori per tutto quanto s’aggiunge? “Ma non cavilliamo, spezialino, sembri un farmacista, ragioni come un droghiere“. Poi, improvvisamente i nodi iniziano a venire al pettine. I 330 milioni non ci sono e comunque il governo ne garantisce 130 cioè 90 in meno con un bel buco di 160 milioni (calcolato su un investimento di 290 milioni col resto forse a carico del bilancio comunale). Brutta sorpresa ma intanto si avvicinano nuove elezioni regionali e quindi, “no problem“: I 160 milioni li metterà a disposizione l’impresa che avrà l’appalto per la costruzione del nuovo ospedale. Pare ci sia già una lunga coda di imprenditori aspiranti al titolo di generosi benefattori: a loro saranno sicuramente aperte le porte del cielo. Nel frattempo qualche giorno fa sono stato nella Casa della salute a Podenzano (una delle se non sbaglio 9 attive nei 47 Comuni della provincia oltre a quella del capoluogo) per un ecocolordoppler, prenotato pochi giorni prima. Sono arrivato accompagnato da mia moglie. Nella sala d’attesa eravamo in 5. Erano le 17.40. Due pazienti sono entrati in un ambulatorio, una donna è entrata in quello preposto per le ecografie. Alle 18.00 come da prenotazione, uscita la signora, sono entrato a mia volta. Nel frattempo da un altro locale dove si trovano altri ambulatori sono usciti due uomini e una ragazza in gravidanza. Tutti sorridenti, tutti a salutare passando. Clima di assoluta serenità, l’impressione è che sia “pienamente raggiunto l’obiettivo di rispondere all’esigenza dei cittadini di avere i servizi di cure primarie vicino al proprio luogo di residenza” (che nel mio caso significa a 10 km dalla mia abitazione ma non sottilizziamo, non sarà la spesa della benzina consumata a rovinare il mio bilancio familiare). Sempre qualche giorno prima sono stato nel Polichirurgico piacentino, nella palazzina con diversi ambulatori. In sala d’attesa eravamo in 10, nessuno sorrideva, tutti aspettavano più o meno pazientemente d’essere chiamati, guardando nervosamente l’orologio, lamentando con l’accompagnatore che “l’ora della prenotazione é ormai passata da tempo” e l’accompagnatore allargava le braccia sconsolatamente invitando alla pazienza. Giorni prima alle 17 circa avevo accompagnato mia moglie in radiologia sempre al Polichirurgico sempre per un’ecografia. L’ho aspettata sedendomi in sala d’attesa mentre lei entrava nel corridoio del reparto. Dopo poco l’addetta alla reception del servizio ricevendo un paziente ha commentato “purtroppo hanno avuto problemi, hanno una buona mezz’ora di ritardo sul programmato“. Diavolo, lo stesso dell’occasione precedente, mesi prima. Per fortuna m’ero portato un libro da leggere tuttavia quel giorno non avevo comprato i quotidiani ritenendo d’avere il tempo di farlo all’uscita dall’ospedale una volta eseguito l’esame. Niente da fare, ore 19 l’edicola nei pressi di casa già chiusa. Del resto a ben guardare, colpa nostra: avessimo prenotato alla radiologia di Bobbio (45 km) avremmo avuto l’esame probabilmente prima dell’ora della prenotazione come avvenuto in altre occasioni ma non sempre si può giocare alla pallina da flipper che rimbalza di qua e di là. Ho pensato che invece di un faraonico nuovo ospedale si potrebbe intervenire ristrutturando e ampliando il nostro attuale Polichirurgico realizzato e inaugurato nel non certo lontano 1994 e che il piano della Regione vorrebbe addirittura abbattere. Ho pensato che il palazzo nel quale abito risale addirittura al 1964 eppure non è decrepito e neppure diroccato o pericolante. Ho ricordato che un gruppo di tecnici piacentini (per conto di quel Comitato SalviamOspedale da un paio d’anni unica voce di dissenso) ha elaborato un progetto che prevede appunto l’intervento di ristrutturazione e ampliamento dell’attuale ospedale, progetto che comprende realizzazione di parcheggi, progetto che inoltre prevederebbe (avessimo ancora a disposizione i 220 milioni inizialmente previsti dal governo e dalla Regione) addirittura la realizzazione di altre Case della Salute e sicuramente di altri interventi di sviluppo delle strutture e dei servizi necessari sul territorio dove addirittura invece ultimamente vengono ridotte le attività dei Pronto Soccorso. Ma questa è fantasia, visto che comunque 90 milioni sono spariti e i generosi imprenditori sempre in coda in via Taverna sicuramente non sarebbero interessati al finanziamento delle suddette strutture territoriali (pare inidonee per aprire le predette porte del cielo). Ma non solo. Tre giorni fa sono stato in ospedale per una delle consuete visite di controllo post Covid alle quali sono tenuto dopo i giorni dell’infezione nell’ormai lontano 2020 (ai quali, fortunatamente per me, sono sopravvissuto). A questo proposito un altro pensiero m’è frullato nella mente: che avrei potuto fare, senza la sanità pubblica, in questi 5 anni? Ricoveri, visite a non finire (inizialmente anche tre alla settimana), esami l’uno dietro l’altro nelle più diverse discipline specialistiche, farmaci, medicamenti, medicazioni. Senza l’assistenza della sanità pubblica, come mi sarei potuto permettere tutto questo? Beh detto questo, alla visita di tre giorni fa ho sottolineato che sta scadendomi l’esenzione dall’obbligo della cintura di sicurezza in auto resa necessaria per motivo di patologia sanitaria specifica. Beh il medico ha rilevato che non è più opportuna. Me ne sono rallegrato altrimenti in questi giorni avrei dovuto prenotare una visita dal medico della medicina legale. Che ha l’ambulatorio alla Casa della salute di piazzale Milano in città. Dove è stato trasferito (già da tempo) anche tutto il servizio della diabetologia allontanandolo dall’ospedale di via Taverna. Sempre in conseguenza del Covid e dei tanti suoi effetti “secondari” attualmente ho ancora mobilità limitata: uso una stampella e scarpe speciali, per spostarmi devo usufruire del trasporto da parte di altri (mia moglie o mio figlio in primis). Quindi prenotare la visita e andare alla Casa della salute di piazzale Milano sarebbe stato un problema: dove parcheggiare? Già, perché i decisori che governano le cose pubbliche della città hanno ben pensato di realizzare un parcheggio interrato nella vicina piazza Cittadella dove fermavano i mezzi pubblici al servizio in particolare degli studenti, spostandone il punto di sosta nel parcheggio di fatto finora a disposizione del centinaio di dipendenti dell’ASL e degli stessi pazienti in visita appunto nella Casa della salute di piazzale Milano. Che quindi se hanno necessità di parcheggiare che faranno? S’attaccano al tram? Ora, in verità il problema per quanto mi riguarda sarebbe limitato ma per quanto ai diabetici molti necessitano di trasporto da parte del parente di turno, hanno capacità di deambulazione non solo limitata ma nulla. Sono in carrozzina e comunque necessitano di assistenza da parte dell’accompagnatore che di conseguenza deve posteggiare l’auto. Che fanno dunque? I governanti decisori di piazzale Mercanti assicurano che il problema verrà studiato. Ma intanto? Intanto il parcheggio non esiste più e i cittadini s’arrangino. Non si poteva studiare il problema parcheggio prima di dare il via ai lavori in piazza Cittadella (peraltro già fermi per la protesta di migliaia di cittadini)? Ma questo a prima vista può sembrare poco c’azzecchi con la questione nuovo ospedale. Beh, considerato che il problema parcheggi in piazzale Milano si trascina sin dall’inizio anni fa (eravamo agli inizi del nuovo millennio) della decisione di realizzare sul posto una struttura sanitaria e che ora il problema è ingigantito oltre misura ma appunto non è nuovo, andava studiato sin dall’inizio ma con decisori che danno prove del genere, come non dubitare, come non guardare con sospetto alla presunta coda di imprenditori pronti a investire 160 milioni a fondo perduto? Beh, fuor di celia è chiaro che non sarebbe a fondo perduto, che ogni imprenditore bada alla copertura dell’investimento con tanto di ampio margine di utile, di guadagno. E questo chi lo paga? Ovvio: sior Pantalone, i cittadini, la comunità. Tutta la comunità provinciale che per mancanza di fondi inevitabilmente vedrà ridotti i servizi viciniori e per ogni necessità sanitaria o anche solo per portare saluto o conforto al parente ricoverato dovrà scendere in città dove tra dieci anni troverà un ospedale in periferia con 1000 posti auto, una reception con grandi vetrate e la famosa signorinella sorridente che in verità nel frattempo sarà invecchiatella. E in via Taverna? Chissà nel frattempo un nuovo supermercato e le strutture del vecchio “Civile”, il “Guglielmo da Saliceto” abbandonate e sempre più fatiscenti. Sento già, da chi ha avuto la forza e la pazienza di leggere questo lungo e disarticolato post: “ma un ospedale nuovo senza che nessun onere ricada sulle casse degli enti pubblici locali è una gran cosa“. Probabilmente questa è la convinzione di fondo di tutti i Sindaci della provincia (escluso il Sindaco di Rottofreno, unica voce di dissenso), quelli convinti della bontà del progetto regionale e quelli semplicemente silenti. Può essere abbaiano ragione ma si potrebbe sapere perché non si fa come di regola si deve una comparazione tra le due ipotesi in campo? Perché nessuno prende in considerazione il citato progetto elaborato dai tecnici del Comitato SalviamOspedale spiegando perché e percome non risulta adeguato o comunque per quale ragione risulta preferibile la scelta della costruzione di una nuova struttura da adottare senza se e senza ma assecondando e allineandosi al pensiero unico della politica locale, regionale, nazionale e forse chissà – Putin permettendo che si sa mai – interplanetaria. Bene, in assenza di adeguata motivata risposta, detto ai candidati alle prossime elezioni regionali (e in attesa della successiva tornata elettorale localistica): NOT IN MY NAME.

Senza un’adeguata politica anche di offerta economica ai professionisti sanitari, le strutture ambulatoriali dei paesi della provincia sono destinati alla chiusura

“Abbiamo gridato al sole nascente”, lirica di Stefano Ghigna, poeta della Val Perino

Abbiamo gridato sulla roccia 
di fronte al sole nascente.
Con chiacchiere e parole
adornammo l'inesistente.

Il mattino spalancò le braccia
ci immerse nella limpida goccia:
credemmo di essere cosa,
vitello felice, sapore di foglia..

A lungo rotolò l'illusione
fino al vuoto maestoso
all'arida soglia...

Piegate le spalle, uncini infilati di buio,
gettiamo richiami
contro frontiere di muro.

“Il medievale porto sul Po di Veratto (Santimento), luogo di dogana”, un intervento del ricercatore storico Umberto Battini

L’attraversamento del Po approdava su di una golena dove una via detta “strada regia di Veratto” conduceva verso Monticelli Piacentino (oggi pavese)

Tra i molteplici luoghi di porto sul Grande Fiume piacentino, notevole è anche quello nel territorio di Santimento, nella antica località Veratto vecchio. Per la precisione, le località con questo toponimo sono due: Veratto Coletta e quello detto degli Arcelli. La documentazione più importante si trova all’Archivio di Stato di Milano nel fondo del monastero benedettino di San Salvatore di Pavia, in quanto questi monaci possedevano terre proprio al di qua ed al di là del Po in questi luoghi. Notevole però anche il fondo mappe piacentino, dove viene evidenziato il luogo di questo porto assai importante e dal quale si evincono non pochi dati. Scopriamo intanto che il porto di Veratto era detto “di Cainfango” ma abbiamo letto anche che fosse censito come “Caifango” o “Cachinfango”, probabilmente perché la zona abbastanza sortumosa creava un fango “caino”, che cioè intrappolava e rendeva difficile il tragitto. Una strada “bianca” di ghiaia veniva costantemente tenuta in buone condizioni, addirittura una mappa ci mostra “la strada nuova di Sarmato che va al porto” e che quindi conduceva in direzione del traghetto di Cainfango. Infatti il paese di Sarmato usufruiva di questo passaggio fluviale in maniera notevole, così come anche tutti coloro che provenivano da Rottofreno e luoghi circostanti. Il porto era ubicato nella località di Veratto Arcelli di Santimento ma venne poi spostato a metà del ’700 alla foce in Po del torrente Tidone, dopo che venne tagliato il torrente per “addrizzare il corso” con una lunga diatriba in tribunale a Piacenza. Dalle mappe del ’500 e ’600 abbiamo appurato che il Tidone anticamente costeggiava l’ansa di Po destra ed aveva foce poco oltre la località di Soprarivo di Calendasco. Con il taglio del torrente, il porto venne spostato alla foce dalla parte del Veratto Coletta, le mappe sono chiare al riguardo: qui era anche la “Dogana” cioè il casottino dove gli esattori piacentini chiedevano la famosa gabella di traghetto. L’attraversamento del Po approdava su di una golena dove una via detta “strada regia di Veratto” conduceva verso Monticelli Piacentino (oggi pavese) ed anche qui ritroviamo un casotto del dazio ben indicato sulle mappe. Con il tempo il Veratto dalla parte di Sarmato venne nomato “dei Volpe Landi” e solo nell’800 venne dotato di una chiesa, mentre al Veratto vecchio la chiesa era molto antica. Purtroppo essa è andata completamente diroccata, ma dalle mappe consultate siamo comunque riusciti a “leggere” dove fosse collocata con precisione ed è una buona ipotesi che nel periodo medievale la chiesa al porto di “Cainfango” fosse di proprietà del benedettini pavesi. Infatti ancora nel ’700 possedevano terre al ridosso del Po proprio in quel luogo, sulle due sponde e come altri documenti indicano già erano possessori “ab antiquo” anche della piccola chiesa nel luogo della Bastia, che solo secoli dopo diverrà un oratorio sottoposto alla parrocchiale di Santimento. Al porto di Cainfango del Veratto al servizio di Sarmato, erano anche presenti sulla sponda piacentina, alcuni mulini natanti che pagavano regolare tassa a Piacenza. Uno dei tanti porticcioli sul Grande Fiume piacentino, che univa in maniera stabile le due sponde, con le sue genti e le sue strade, e qui una era detta addirittura “regia”.

Barca natante sul Po

“Per vivere”, lirica di Grazio Pellegrino, poeta della penna verde in Ispra

..eterna terra
uomini disarmati
in ginocchio
il grano era maturo
a recidere con le falci
le spighe mature
quante speranze navigavano
in quella raccolta del grano
pochi uccelli volano
ancora sui rami
uomini e donne
tutti uniti in un canto
passano alcune nuvole
spinte dal vento
solo le pietre arse dal sole
aspettano la pioggia
per nascondere la loro storia
alberi di ulivo
si oppongono al vento
che muove i rami
fruscio di foglie
sulla fronte il sudore
dal sapore del sale
il pensiero cade sull'aia
battuto il grano
la messe ammucchiata
compare la vita

per vivere.
Vanga e latte, olio su tela di Teofilo Patini

“Santa Rosalia, compatrona di Racalmuto (Ag), tra cronaca e storia”, un articolo di Carmelo Sciascia in occasione della festa di oggi 4 settembre

Santa Rosalia vergine eremita del XII secolo devotamente della ‘Santuzza’: si sostiene che a Racalmuto fu costruita bel 1238 la sua prima chiesa ma la notizia non è confermata da documentazione storica

Nell’Anno Domine 1625, giungono a Racalmuto, in un reliquario d’argento, due frammenti costali di Santa Rosalia, grazie al cardinale di Palermo Giannettino Doria. Giannettino Doria, figlio del principe Gianandrea Doria e della principessa Zenobia del Carretto Doria, era nato a Genova nel 1573. Zenobia nasce Del Carretto ed i Del Carretto originari di Finale Ligure erano, grazie ai Doria, anche signori di Racalmuto. La principessa sarà ricordata  per le sue opere di beneficienza, da piacentino non posso non ricordare l’istituzione del Monte di Pietà nel comune di Ottone, comune dell’appennino ligure-emiliano, oggi in provincia di Piacenza, facente allora parte del Marchesato di Torriglia. Quindi, grazie alla madre, Giannettino Doria si era sentito legato da Cardinale di Palermo alla contea di Racalmuto, per questo probabilmente avrà fatto dono delle Reliquie di Santa Rosalia, scoperte a Palermo e da lui riconosciute come autentiche. Una pergamena dello stesso arcivescovo Giannettino  ci testimonia l’evento. Su questo episodio e del binomio Santa Rosalia-Racalmuto, hanno scritto in molti, Interessanti a proposito la ricerca di Giuseppe Nalbone “Delle Chiese di Racalmuto” ( edizioni Malgrado Tutto – 2004) ed il libro di Angelo Cutaia “Santa Rosalia-Racalmutese e Pellegrina” che aggiunge ulteriori  notizie, attraverso raccolte documentali e testimonianze dirette.

Dalla storia alla cronaca

Nell’Anno Domine 1980 si celebrava il matrimonio di un racalmutese e di una ragazza bivonese nella chiesa Madre di Cammarata. La scelta di Cammarata era stata dettata da questioni logistiche essendo a metà strada tra Racalmuto e Bivona. Occasione che dava modo agli invitati di ammirare un’opera del Monoculus Racalmutensis collocata in un altare di quella chiesa. Come da consuetudine, il fotografo si recava a casa della sposa per iniziare a riprenderla nell’abitazione della propria famiglia, premessa al servizio fotografico che avrebbe costituito l’album del matrimonio. Fu così che il fotografo Alfonso Chiazzese, che aveva seguito le orme paterne (suo papà Leonardo –lu zi Nardu-  classe 1910 era stato uno dei primi fotografi del paese ed anche padrino di cresima dello sposo), si recava a Bivona in compagnia dell’arciprete Alfonso Puma, prete scelto dagli sposi per celebrare a Cammarata la funzione religiosa. Era il 3 settembre, la scelta non era stata casuale, era infatti la vigilia dell’annuale festa di Santa Rosalia patrona di Bivona: suonava festosa la banda mentre le bancarelle avevano riempito i marciapiedi del corso principale, dove abitava la sposa. Santa Rosalia discendente della nobile famiglia del conte Sinibaldo Sinibaldi, signore di Monte delle Rose e Quisquina, era stata sicuramente a Bivona, essendo quelle terre possedimento della famiglia. La chiesa di Santa Rosalia a Bivona si dice sia stata costruita proprio per custodire il tronco cavo della quercia dove si sarebbe rifugiata la giovane Sinibaldi, in seguito alla sua scelta religiosa. Il culto della Santa a Bivona aveva preceduto il culto palermitano. La statua ed il fercolo, indiscussi capolavori lignei ricoperti di lamine d’oro, erano infatti stati  realizzati nel 1601, prima della famosa peste palermitana. Tornando a noi, fatte le foto di rito: prima la sposa in casa sua, poi a casa della nonna presente la zia, suora agostiniana con il nome di suora Agnese. L’auto del fotografo con l’arciprete Puma, la sposa ed il padre, riprendeva la via del ritorno in direzione di Cammarata, dove erano attesi per la funzione religiosa. Superato Santo Stefano, la sposa suggeriva una breve sosta all’eremo della Quisquina per farlo visitare a padre Puma che, come secondo sua stessa affermazione, non aveva mai visto. Grande era stata la meraviglia del nostro arciprete che visitato l’eremo entrava per la prima volta nella grotta dove aveva soggiornato Santa Rosalia. Fu grazie a quella visita, improvvisa ed inaspettata, che padre Puma ricordò come la Santa fosse stata patrona anche di Racalmuto. Paese dove se ne era persa memoria. Santa Rosalia era stata vittima sacrificale di una damnatio memoriae voluta probabilmente dall’alta gerarchia ecclesiastica palermitana che aveva imposto una sua biografia: la nascita di Rosalia avvenuta nel 1130 si affermava essere avvenuta a Palermo. A Racalmuto intanto aveva soppiantato l’antico culto di Santa Rosalia l’immagine di Santa Maria del Monte con la sua leggendaria epopea che  vedeva la statua di scuola gaginesca scoperta in Africa dal principe di Castronovo Eugenio Gioeni e rimasta a Racalmuto per volontà del conte Ercole Del Carretto, per volontà del popolo e soprattutto per proprio desiderio divino.

Quando la cronaca e la storia coincidono

Quelli della mia generazione ed ancora di qualche secolo prima nulla hanno mai saputo di Santa Rosalia, l’unica patrona era considerata solo la Madonna del Monte. La  visita alla grotta della Quisquina aveva continuato a farsi strada nella mente dell’arciprete Puma fino ad imporsi nella comunità ed essere condivisa. Fu così che veniva, in questo nuovo millennio, costituito un comitato per riprendere a distanza, qualcuno dice di qualche decennio, a mio avviso di qualche secolo, la festa del quattro settembre dedicata a Santa Rosalia, riconosciuta e festeggiata oggi come compatrona della religiosa comunità racalmutese. Racalmuto deve tanto all’arciprete Alfonso Puma, “l’ultimo dei preti e l’ultimo dei peccatori” come amava definirsi. Lo zio di un intero paese per il suo rivolgersi a tutti con il termine di Nipù (nipote): tanti ne aveva battezzati, cresimato e sposato. Agli sposati era solito rilasciare una pergamena con una poesia composta per l’occasione, io che ho sempre simpatizzato per gli eretici (a testimonianza il mio ultimo libro riguarda “L’eretico don Paolo Miraglia”) più che per i preti, tengo a futura memoria (perché il futuro abbia memoria) ben esposta la sua pergamena, gradito regalo di nozze. Una pergamena disegnata di suo pugno che rappresenta Penelope ed Ulisse e contiene una lunga poesia in lingua siciliana. È probabile che grazie a padre Puma che in seguito a quel matrimonio e per la casualità degli eventi (le vie del Signore sono infinite) ci troviamo a festeggiare anche a Racalmuto questo quattro settembre 2024 la Santa compatrona che ricorda il profumo delle rose e la purezza del giglio!

Popolo in festa a Racalmuto per Santa Rosalia

“Tra il silenzio e il tuono”, romanzo epistolare autobiografico di Roberto Vecchioni, Einaudi editore, 2024

Tra il silenzio e il tuono è un diario e un testamento nel quale vita esteriore e vita interiore si intrecciano e convivono rappresentando l’uomo Vecchioni, professore, poeta, cantante, scrittore e soprattutto latinista che rivela il passato di studente liceale. Ovviamente, liceo classico. In altre parole, la crema della formazione culturale cosa che sicuramente incide sullo scrittore e sull’uomo che qui, con 53 ipotetiche lettere datate dal 1950 al 2023 si espone e si racconta. Lettere, alcune scritte al nonno da un giovane Roberto, altre dal nonno stesso che non risponde mai al nipote ma scrive ad altri personaggi più o meno noti o immaginari. Naturalmente nipote e nonno sono in realtà sempre Vecchioni che parla a se stesso, si racconta alla propria anima attraverso il tempo passato e il tempo presente. Successi, sogni, sconfitte, amori, dolori. L’ascesa di Vecchioni come cantautore e i duri anni della gavetta scrivendo canzoni per gli altri fino alla recente esperienza di Sanremo. L’amore con Daria che, tra alti e bassi, continua a tenerli legati. La morte del figlio Arrigo con il senso di colpa per averlo trascurato in vita. Sono arrivato alla fine di questo romanzo, scorrendo velocemente e golosamente le pagine dove si parla di cinema, di musica, di Chiamami ancora amore e soprattutto di Samarcanda. Non nego, di quanto ho trovato urticanti le pagine nelle quali il professore si diletta con l’amore per il greco e il latino, lingue estranee al mio vissuto culturale ma alla fine quel che conta è il messaggio finale che l’uomo e lo scrittore vuole lasciarci: l’insieme delle esperienze che noi viviamo, tanto quelle gradite quanto quelle urticanti (nel mio caso il greco e il latino e quindi il Vecchioni nella sua veste di esimio professore latinista), ci ricordano quanto siamo fortunati a essere vivi, nonostante tutto. Insomma, la vita è bella, viva la vida.

Marta Mariano, Viva la vida, olio su tela,“Un appello alla vita, alla bellezza, all’amore” 

“E verrà un altro inverno”, romanzo noir di Massimo Carlotto, Rizzoli editore, 2024. Una denuncia della società dei “maggiorenti” che pensano di poter dominare le vite altrui nel nome del loro profitto

Bruno Manera, vedovo dell’adorata moglie Annabella, è un ricco cinquantenne che fa l’imprenditore immobiliare in una città del nord. Qui conosce Federica, trentacinquenne, unica erede della dinastia Pesenti, ricchi imprenditori della valle limitrofa appartenenti ai “maggiorenti” cioè a quelle famiglie che detengono il potere economico e lo utilizzano per fare letteralmente “il bello e il cattivo tempo” di tutti e di tutto senza mettere in discussione i loro diritti acquisiti, anzi, pensano di meritare la gratitudine delle persone che sfruttano, perché senza le loro fabbriche e le loro imprese non avrebbero nemmeno quello straccio di lavoro che consente di tirare avanti. Anche senza amore Federica sposa Bruno perché questo matrimonio risulta essere, agli occhi della famiglia, decisamente conveniente per dare una nuova svolta economica ai Pesenti che ultimamente, a causa di investimenti rivelatisi catastrofici in Indonesia, sono caduti in disgrazia. Federica però impone il trasferimento in valle e Bruno, innamorato, l’accontenta. L’arrivo del forestiero all’inizio viene accolto dai paesani con benevolenza ma in seguito ad alcuni atti intimidatori che hanno il preciso scopo di fargli capire una volta per tutte che deve lasciare il paese per tornare in città, tutti incominciano a non gradire più la sua presenza ritenendo che gli avvertimenti subiti dal povero Bruno siano da collegarsi ad una sua (presunta) collusione con la criminalità organizzata e con un suo probabile passato non troppo limpido. In realtà a incaricare delle intimidazioni i due giovani cugini Robi e Michi, costretti a “lavoretti sporchi” per mantenere le famiglie in un momento di disoccupazione è Stefano Clerici, consulente fiscale già fiamma giovanile di Federica ed ora suo amante. Ordina di tendere un agguato a Bruno, per bucargli le gomme e picchiarlo ma mal ne coglie ad affidarsi a dilettanti: la situazione degenera e i due ragazzi sparano. Bruno sopravvive ma a questo punto a dare manforte alle dicerie paesane ci mette del proprio anche il maresciallo Piscopo, che è un omone grezzo e dai modi decisamente poco leciti e comunque che mostrano il suo servilismo nei confronti dei ‘potenti’, e se i ‘padroni della Valle’ sostengono che Bruno ha qualcosa da nascondere ed è quindi poco gradito, Bruno se ne deve andare. L’unico che sembra essere dalla parte di Bruno Manera è la guardia giurata Manlio Giavazzi dipendente della Valle Securitas. Quest’ultimo, “un uomo anonimo che era diventato invisibile, integrato nell’arredo urbano come una panchina” inizierà, sia perché convinto che certe faccende vadano risolte tra paesani sia come rivalsa personale contro il nemico storico Piscopo che considera la sua divisa come di serie B, ad atteggiarsi a “uomo della provvidenza” e a manovrare la situazione provocando in realtà la degenerazione della vicenda. Insomma, prima ancora che un noir, Carlotto propone una denuncia contro la nostra società nella quale ognuno pensa solo al proprio tornaconto, non c’è un barlume di scrupolo morale, niente è come sembra, ovunque ci sono segreti e mezze verità, nessuno gioca del tutto pulito e quindi nessuno è del tutto innocente. Soprattutto in una piccola comunità nella quale gli imprenditori sfruttano, lucrano e dispongono con disinvoltura dei beni e delle vite degli altri. Possono tutto: inquinare le prove di un delitto, mettere a tacere i testimoni, contare sull’appoggio di forze dell’ordine compiacenti. Un commento del lettore? Meglio vivere altrove, lontano da certe ricche Valli anche se alla fine i ‘potenti’ sono ovunque, a qualunque latitudine.

Due miei libri presenti sui banchi della Settimana della Letteratura a Bobbio strappano un sorriso ma già un altro futuro bussa alla porta

“Il soffio del vento – Da Chernobyl a Caorso trent’anni dopo” pubblicato nel 2016 con le edizioni Pontegobbo ricordando il 1° Maggio del 1986 quando la nube radioattiva da Chernobyl è arrivata sulla pianura padana

Dico la verità, non lo nego, sono piccole piacevolezze. La scorsa settimana due miei libri presenti ai banchi della Settimana della Letteratura a Bobbio nel Chiostro dell’Abbazia di San Colombano. Uno, “Il soffio del vento”, dedicato ai giorni dell’arrivo sulla nostra pianura padana della nube radioattiva proveniente da Chernobyl, pubblicato dall’editrice Pontegobbo nel 2016. La nube arrivo’ nei nostri cieli il 1° Maggio del lontano 1986 ed io, quel giorno, non ho acquistato giornali. La Repubblica aveva invitato a restare prudenzialmente in casa ed io, ignaro, tranquillamente nelle ore del primo pomeriggio sono andato a Roncaglia, nei giardino pubblico annesso alla parrocchia. Potevo ammirare, non troppo lontano, la struttura della centrale nucleare di Caorso: di bene in meglio. Da quell’episodio parecchi anni dopo nasceva il libro poi presentato in anteprima proprio a Bobbio nella suggestiva location del Chiostro dell’Abbazia di San Colombano nel contesto dell’edizione di allora sempre della Settimana della Letteratura promossa all’epoca da Bruna Boccaccia e attualmente portata avanti dalla figlia Daniela Gentili. Rivederlo innegabilmente mi ha gratificato considerando che attualmente dal governo, nonostante due referendum contrari all’uso del nucleare (in quanto energia a basso livello di sicurezza), arriva la voglia di un riutilizzo della stessa laddove nessuna certezza sembra emergere circa un possibile maggior livello di affidabilità. Ma, di questo, se i progetti governativi andranno avanti, se ne riparlerà. Invece la seconda annotazione dei giorni bobbiesi in questo 2024 è stata invece la presenza all’altro banco, quello della libreria Fahrenheit 451 di Sonia ed Enrico del mio ultimo libro, pubblicato con Lir edizioni in occasione del mio 70° compleanno a febbraio scorso, sintesi del mio percorso nel settore della poesia, usata come mezzo di espressione delle mie idee, dei miei anni di impegno sociale, delle mie speranze di equità, giustizia e naturalmente pace, contro ogni guerra, #sempredallapartedellapace. A dire il vero nessuno dei due (ciascuno presente in copia unica) ha trovato acquirenti ma questo poco importa: nelle cinque serate della Settimana di proposte letterarie, altri erano i libri protagonisti e naturalmente l’attenzione dei visitatori non poteva che concentrarsi (salvo pochissime eccezioni) su quelli. Dunque comunque anche la sola presenza sui banchi, la selezione tra migliaia di titoli da parte dei librai per lo scrittore è motivo di soddisfazione. Del resto quei due libri di fatto hanno già vissuto i loro giorni migliori. Oggi è tempo di nuove imprese. Così ieri sono passato dalla prossima editrice per prendere la bozza del libro previsto in stampa entro il prossimo settembre: una raccolta particolare di racconti scritti da 26 narratori dedicati ai fatti (vissuti, di fantasia, reali) che si collocano in questa nostra realtà provinciale … all’ultimo km della via Emilia. Una raccolta della quale sono il curatore ma ne riparleremo tra un mesetto circa. No, ancora non è finita. A fatica finalmente sono a pagina 96 del prossimo romanzo (a contenuto storico). Non so quando arriverò alla fine, non so se troverò un editore disponibile, non so se mai lo vedrò nella vetrina di qualche libreria. Non so. Ma intanto scrivo, pagina dopo pagina, rileggendo, correggendo, cancellando, aggiungendo, cambiando, documentando, ricercando, rettificando. Accompagnato dall’ascolto via YouTube di canzoni del folclore italiano, dai valzer alla tarantella, musica alla quale mai mi sono avvicinato nei 70 anni di vita e ora …. che sia indice di vecchiaia, di riscoperta dei valori dei miei nonni e dei miei genitori? Nostalgia dei tempi passati che in verità non erano i miei? Mah. Dalila ha detto l’altra sera, passando nella stanza dove scrivo, “ti lascio alla tua Festa dell’Unità”. Ripeto: mah, pensare che non ho mai voluto imparare a ballare il lissio, c’era il rock e il lissio (oggi si dice il folk) era roba per vecchi. Beh, forse s’adatta al periodo storico di riferimento del libro e comunque sia m’ispira e tanto basta. I miei libri (finora sono nove) come dicevo sono nati partendo dal mio vissuto. Questo sarebbe il numero dieci e, appena finito, potrò finalmente mettere mano a quegli appunti (ormai impolverati) dove sono raccolte le basi per quello che dovrebbe essere il numero undici. Che dirvi, dunque, se non augurare … buona lettura a chi sarà curioso.

“Alla fine amare”, lirica gotica di Stefano Drakul Canepa, poeta dark in Pavia

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Alla fine
tutte le cose si somigliano
e il giorno sembra
un film già visto

che non piange più
per il dolore
o per le frasi rubate
all'oscurità che muore.

Alla fine
amare diventa difficile
e il cuore sogna
una sera senza parole

vicino al cielo
in attesa del silenzio
fino a una nuova alba
che porti al perdono

o a una nuova notte.
Amore gotico

“Nelle golene estive inabitate del Po, tra sabbia e colonie di ibis”, un intervento di Umberto Battini

Sponde assolate, in un agosto che sta per finire, buttando l’occhio sulla parte più affascinante del Grande Fiume: gli “abitanti” volatili delle rive dove l’acqua si dirada e scorre lenta. Ed è proprio qui che si sviluppa quell’humus fatto di larve, insetti lacustri, “vongole” di Po (non commestibili per l’uomo) pronti a diventare ottimo cibo per le non poche specie di volatili. È un ambiente ideale, fatto di silenzi e inconsuete spiagge sabbiose, non fruibili facilmente (e per fortuna) da chiunque, al massimo si vedono passare più o meno veloci piccole barche di giovani pescatori. Ed è appunto qui dove il Po si stende che abbiamo potuto osservare, da debita distanza, alcune varietà di uccelli che vivono in simbiosi con queste acque. Si tratta di bianche garzette, aironi grigi e bianchi, occhioni, gallinelle d’acqua e immancabili gabbiani reali. A stormi di buon numero, ed un poco meno visibili, almeno in quest’estate, i famigerati cormorani neri, e dove l’acqua è quasi ferma notiamo gruppi di corriere piccolo e qualche cavaliere d’Italia. Ma quello che ormai è consueto è l’avvistamento dell’ibis sacro, divenuto stanziale in vere e proprie colonie sulle rive piacentine del Po come pure in buona parte dell’asta fluviale fino alla foce. I grandi ibis si muovono a gruppi tra la golena e le rive morbide, dove l’acqua stagna, con il loro divertente becco ricurvo per scavare, a caccia di insetti ed invertebrati. Qui la loro grande diffusione è stata definita “invasiva” ma, a differenza dell’Egitto, dove pare sia quasi del tutto estinto, va precisato che recenti studi di ricerca hanno accertato come questo grande pennuto non stia al momento creando impatto sull’ecosistema naturale. Il Grande Fiume, per questa ed altre ragioni, merita d’esser sempre tutelato perché questo fragile ecosistema continui a mostrarci, nei suoi meandri più isolati, una vitalità quasi “sacra”, appunto come l’ibis.

Fonte: ILPiacenza.it

“Fiorenzuola, da ospedale a servizio di prossimità: ci si lamenta per la mancanza di medici ma quale politica si attua per trattenerli?”, intervento di Paolo Isola presidente Commissione Sanità del Comune di Fiorenzuola

Ospedale di Fiorenzuola

Vorrei chiarire il mio pensiero, come tecnico, relativamente alla situazione della Sanità in provincia. In tutti questi anni a partire dal 2013, la sistematica contrapposizione dell’Ausl con il territorio, specialmente provinciale ed in particolare con il Distretto di Levante, ha registrato un decadimento del sistema ed una perdita delle capacità di offrire i servizi ai cittadini che ha le sue radici già negli anni 2000, con la perdita di professionisti formati che scelsero altre strade per mancanza di prospettive. La demolizione del Blocco B dell’Ospedale di Fiorenzuola, avendolo prima svuotato dei suoi contenuti, ha consentito alla Regione, per la legge in vigore, di azzerare ogni spinta di ripresa delle attività ospedaliere ( così come invece era stato fatto credere ai cittadini), relegandole ad un ruolo di Servizi di Prossimità. Rifugiandosi dietro al dito del “non ci sono medici ed infermieri” e le“risorse economiche non sono sufficienti”, si è sempre tergiversato nelle risposte che l’Amministrazione di Fiorenzuola ha sempre posto in questi anni, sia all’Ausl sia alla Regione. Inizialmente l’Amministrazione Comunale di Fiorenzuola può essere considerata rea di aver partecipato in modo costruttivo e collaborativo alla linea Ausl, per ottenere la costruzione del nuovo complesso ospedaliero. Ma è stata la stessa amministrazione comunale a denunciare poi la colpevole mancanza di contenuti che la stessa Ausl, malgrado proclami chiassosi sul giornale locale, ha sempre disatteso (seguendo la linea tracciata dalla precedente Direzione Sanitaria). Mi riferisco in particolare agli annunci sulla ripresa di tutte le precedenti attività, come la costruzione e messa in opera delle sale operatorie, del Pronto Soccorso H24 e di una terapia subintensiva a gestione Anestesiologica.

Un Ps degno di questo nome

L’Amministrazione di Fiorenzuola ha sempre cercato di spingere l’Ausl a riaprire un Pronto Soccorso H24 degno di questo nome e la ripresa della chirurgia almeno quale scolmatore di quelle patologie programmabili a bassa intensità di cura, come più volte annunciato e confermato dalla Dott.ssa Ceda alla seduta della Commissione Sanità del 12 maggio 2022. Invece, dietro la prosopopea giornalistica del faremo, si nascondono Ambulatori di Primo livello chirurgico al posto delle Sale Operatorie e il Cau al posto del Pronto Soccorso. La consapevolezza che pazienti del Polo Riabilitativo, necessitino di cure polispecialistiche stanziali e non a chiamata, è ed attiene alla sicurezza ed all’etica di trattamento. Tutto questo non può essere sottaciuto alla popolazione da parte mia, quale monito alla propaganda Ausl che non ha espresso, attraverso le parole, i veri obiettivi. Basta con il gioco delle tre carte, dove da un lato ci si lamenta per la mancanza di medici ed operatori sanitari, ma non si sviluppa una politica finalizzata a trattenere medici e personale Infermieristico formato che si sposta verso il privato. Dall’altro ci si rivolge ad altre strutture ( vedi il Rizzoli) per cercare di colmare le perdite di professionisti con le stesse capacità di chi si è rivolto altrove, con la conseguenza che gli unici che veramente pagano le conseguenze sono i Pazienti/ Utenti. Al Consiglio comunale dell’ 11 Settembre 2023, ci è stato detto che non sarà possibile parlare di un nuovo Pronto Soccorso non prima di almeno sei/sette anni fino a che la situazione della mancanza di medici di emergenza – urgenza sarà rientrata. Ci chiediamo se si stanno mettendo in campo la programmazione e le azioni necessarie ad intraprendere un percorso che vada in questa direzione e verso il quale siamo, ovviamente, disponibili partendo, quantomeno, dal ripristino del PPI in fascia diurna come primo passo nel medio termine. Al contrario, significa che si vuole unicamente fare fronte alla situazione attuale senza mettere in campo le necessarie azioni correttive in una logica di lungo periodo a beneficio dell’utenza. Per non parlare dell’ipocrita consapevolezza che le liste di attesa sono fatte diminuire spostando pazienti verso altri punti nosocomiali, scordandosi che tali pazienti per la maggioranza sono o disabili o con difficoltà alla guida e pertanto necessitano di assistenza sia famigliare che del volontariato.

Colpevole immobilità 

La colpevole immobilità della Regione e dell’Ausl piacentina, che pensa a costruire (chissà quando) un nuovo nosocomio nel capoluogo e tralascia i bisogni di una popolazione di circa 103mila abitanti, spesso locati nelle colline e non più giovanissimi, ai quali la Sanità serve e permette loro di non abbandonare la campagna per trasferirsi in luoghi più protetti. Così medici ed infermieri non sono attratti da posti depressi e senza prospettiva di sviluppo professionale, per rivolgersi a strutture più attrattive, che trovano nel privato, dove allo stipendio si affianca una qualità di vita e di professionalità migliore. In buona sostanza, non mi sento di mostrare benevolenza nei confronti di chi come la Regione ha, per troppo tempo ha mistificato la realtà e ha scientemente portato la Sanità Pubblica al default. Io stesso ho scelto una via professionale diversa, non più in giovane età, proprio per cercare di non mortificare la mia professione e salvare quel poco che resta dell’impegno sanitario. Purtroppo lo dico con rammarico, perché avrei preferito dare a tutti e non solo a chi oggi può scegliere.

Pronto Soccorso di Fiorenzuola? Declassato a Cau, secondo il Comitato dei cittadini per la difesa della salute in val d’Arda riunito in assemblea lo scorso 5 luglio

“La lanterna, l’ancora e … il Po – Ventotto storie piacentine di Luigi Galli, Diabasis edizioni, 2002

Nostalgia di un tempo che fu. Questo, in sintesi, il libro scritto da Luigi Galli dedicato al suo ambiente. Nostalgia e ricordi. Di un fiume che era frequentato dai piacentini affollanti spiagge e isolotti. Del figlio di quel commerciante tirchio come pochi ma generosissimo nei confronti del ragazzo tanto da acquistargli, in quei lontani anni ’60, una piccola Topolino che lo rende un privilegiato: gli amici al più viaggiano in scoter e spesso in bicicletta. Ma il ragazzo è generoso, invita tre amici per un’avventura di quelle che all’epoca poi non si sarebbero scordate mai: caricano la macchinetta e, due seduti davanti, due ad arrangiarsi nell’angusto spazio dietro, partono destinazione Liguria prima, Francia poi e infine Barcellona dove li attende l’angosciante spettacolo della corrida. Personalmente ho vissuto l’avventura di un viaggio con la Topolino dello zio Giovanni. In campagna, lungo la Val Chero, lui davanti con la zia Rosa, io seduto dietro su uno sgabello utile per mungere le vacche. Avevo forse sei forse sette anni mentre lo zio … non aveva la patente, più volte bocciato all’esame di guida ma tanto nella valle era molto difficile che arrivassero Carabinieri o poliziotti. Quando alla fine la patente arrivò, lo zio cambiò macchina ma questa è un’altra storia. Ma torniamo invece alle storie di Luigi Galli. Si racconta della Piacenza popolaresca, dei ragazzacci di Cantarana che tentavano d’agganciare le ragazzine di Borghetto. Sia mai! Riuniti in bande, inevitabili gli scontri a mano armata. “Sassaiola!”, il grido di battaglia e via, sfida all’ultimo sangue. Succedeva. Ricordo quando abitavo in via Campi e con i ragazzi di via IV Novembre si superavano le mura cittadine, si raggiungeva il facsal e giù botte con i ragazzacci delle case popolari di viale Patrioti. Tra gli ultimi racconti di Galli, infine, quella notte in montagna, a 1100 metri, 15 case in prossimità del bosco. Grande agitazione di tutti gli animali nelle stalle. Sì, perché quando qualcuno muore o qualcuno nasce un’atmosfera magica nell’aria ne è l’annuncio e gli animali quell’atmosfera la sentono, la percepiscono. Insomma, 28 racconti di un tempo che non è più, un tempo povero, semplice, naturale, senza troppe macchine con i bambini a giocare per le strade e, alla sera, qualcuno che piazzava una cassetta in mezzo a via Manfredi per permettere di giocare a briscola in santa pace.

Quando il Po era la spiaggia dei piacentini contro il gran caldo

Nuovo Ospedale? Per Stefano Pareti (ex Sindaco di Piacenza) “Conti fragili e la norma sulla priorità di adeguare strutture esistenti”

24 dicembre 2018: il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte firma il decreto col quale sono stati stanziati 230 milioni per la realizzazione del nuovo Ospedale di Piacenza che attualmente sarebbero ridotti a 136 milioni. Che fine han fatto 90 milioni?

Quando ero in Comune, la Regione Emilia Romagna ci obbligò a vendere tutti i fondi rustici che l’ospedale civile possedeva grazie a donazioni, beneficenze, testamenti, lasciti, eccetera, per la costruzione del Polichirurgico inaugurato poi nel 1994. Era un patrimonio costruito nei secoli dalla nostra comunità di cui siamo stati privati. Ed è anche per questo che non posso rimanere indifferente di fronte al progetto di abbandonare questo edificio. I piacentini si chiedono se occorra o no un nuovo ospedale. E nel caso dovesse occorrere, se sono state osservate tutte le disposizioni normative che disciplinano questa contestata opzione. Riconosco però che la realizzazione e la dismissione di una tale struttura incida profondamente nella trasformazione territoriale sia in termini di impatti logistico/ambientali che socio/ economici. Vanno dunque considerati tutti gli aspetti negativi (secondo me prevalenti) ma anche quelli positivi.

L’indirizzo del 2018

Voglio ricordare innanzitutto che il Consiglio Comunale il 25/06/2018 ha deliberato – quasi all’unanimità – che qualunque scelta sull’ubicazione dell’area destinata al nuovo ospedale e sull’approvazione della progettazione dello stesso fosse condizionata alla definizione effettiva della destinazione della struttura dell’attuale nosocomio con un piano certo di interventi. Tale importante e condivisa decisione è stata “smarrita” negli atti successivi, o che sono in atto, senza nemmeno prevedere una espressa e motivata revoca di ta-le decisione. Due sono le condizioni che la Giunta Barbieri ha voluto chiaramente esplicitate nella delibera, quali elementi imprescindibili per la stipula dell’accordo di programma tra Regione Emilia-Romagna, Provincia e Comune di Piacenza e Azienda Usl: “la corretta individuazione ed imputazione dei costi, in modo tale che non ricadano sul Comune oneri di non sua stretta competenza, anche con riferimento a opere quali, ad esempio, quelle viabilistiche di adduzione alla struttura ospedaliera, alla viabilità esistente e ai necessari potenziamenti delle infrastrutture tecnologiche e la definizione puntuale riguardante l’utilizzo, l’idonea riconversione e la destinazione della sede dell’attuale ospedale civile”.

Un nuovo accordo nel 2024

Il nuovo accordo è stato sottoscritto nella mattinata del 22 aprile scorso nella sala dei Teatini da Comune, Provincia di Piacenza e Regione Emilia Romagna. Proprio la Regione si impegna a reperire le risorse necessarie, nel limite massimo di 17 milioni di euro, per la realizzazione delle opere viabilistiche. Il Comune di Piacenza sarà chiamato a progettare e realizzare alcuni interventi: risezionamento delle vie Goitre e Bubba, del tratto urbano di strada Farnesiana, nuova viabilità di collegamento tra via Bubba e strada Farnesiana, percorsi ciclopedonali a nord e sud, nel parco e sulla strada Farnesiana, dune anti rumore e barriere acustiche, opere a verde e presidi idraulici per la laminazione delle acque, opere a verde con protezione anti fonica, reti tecnologiche. Ma con quali costi a carico dei cittadini di Piacenza? Sono state fatte le necessarie stime? E si possono consultare? Quali erano i costi per tali opere stimati dalla società incaricata dal Comune per analizzare la “convenienza economica” tra le due aree 5 e 6 che hanno poi condizionato le scelte del Consiglio Comunale? Si direbbero proprio molto ma molto inferiori. Sono mai stati previste, progettate o quantomeno preliminarmente ipotizzate le destinazioni e le opere di rigenerazione urbana degli spazi abbandonati? Sono stati previsti i tempi di intervento anche sulle strutture abbandonate e previsti i relativi necessari finanziamenti? Sono stati analizzati gli aspetti sociali, economici e urbanistici derivanti dalla probabile chiusura di tutti quegli esercizi di vicinato esistenti attorno all’attuale nosocomio che vivono proprio per tale vicinanza e che non troveranno spazio nel nuovo ospedale? ( a meno che non si preveda una loro realizzazione all’interno dell’insediamento come controparte economica per interessare il coinvolgimento economico dei privati nonostante la presenza del vicino centro commerciale ). Nessuno di questi elementi è stato evidenziato negli atti amministrativi che hanno portato al nuovo accordo territoriale e quindi neppure portati a conoscenza del Consiglio Comunale.

Il decreto ignorato

Non ci dimentichi infine che con il decreto 11 ottobre 2017 del ministro Gian Luca Galletti, (ministro dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare, prima nel governo Renzi e poi nel governo Gentiloni), vengono stabiliti “Criteri ambientali minimi per l’affidamento di servizi di progettazione e lavori per la nuova costruzione, ristrutturazione e manutenzione di edifici pubblici”, nel quale si rilevano alcuni aspetti normativi che devono quindi applicarsi anche al caso di un nuovo ospedale. In particolare: al punto 1 – Premessa – si dice: “Prima della definizione di un appalto la stazione appaltante deve effettuare un’attenta analisi…. valutando la reale esigenza di costruire nuovi edifici, a fronte della possibilità di adeguare quelli esistenti…”. al punto 1.3 – Tutela del suolo e degli habitat naturali – si dice: “Prima di procedere a un appalto di lavori pubblici al fine di contenere il consumo di suolo, l’impermeabilizzazione del suolo ……è necessario verificare …. se non sia possibile ricuperare edifici esistenti…”. Sembrerebbe che la giunta in carica e i consiglieri comunali vogliano ignorare un preciso dettato di legge.

Come annunciato dalla Regione, il finanziamento pubblico è ridotto a 136 milioni mentre per i restanti 160 milioni oggi necessari si pensa ad un finanziamento privato. Paola Galvani, Sindaco di Rottofreno, in Conferenza socio-sanitaria nello scorso marzo ha preso le distanze, affermando che “sarebbe stato più onesto dire che i soldi per Piacenza non ci sono più” e che “La Regione pubblicamente dovrebbe però dire che fine hanno fatto i soldi di Piacenza promessi nel corso degli anni”.

San Rocco guaritore dalla peste e l’oratorio scomparso. Intervento dello storico Umberto Battini in IlPiacenza.it in occasione delle numerose feste come sempre celebrate il 16 agosto lo

Non si contano le feste sanrocchine del 16 agosto in varie località della Diocesi piacentina, dal Po alla collina e su fino ai monti: riti sacri, processioni e momenti di festa “di forchetta” immancabili. Non si contano quadri e statue dedicati a san Rocco, riconoscibilissimi: un uomo in abiti da pellegrino, con bordone e una piaga mostrata sopra una gamba e con un piccolo cagnolino ai suoi piedi che tiene tra le mascelle un tozzo di pane. Rocco il santo della peste, sciagura medievale non rara, il santo che, se invocato, “liberava” da questa calamità e qui a Piacenza un miracolo “rocchiano” non indifferente avvenne addirittura nel 1630. Ce lo riporta ben descritto lo storico Campi nella sua “Dell’Historia Ecclesiastica di Piacenza” edita dal Bazachi nel 1662 dove ci racconta questo miracolo, un fatto pratico, d’emergenza e forse a legger bene tra le righe, anche “un’ultima spiaggia” per gli infettati. Leggiamo dalla “Vita Sancti Rochi” scritta in latino nel 1478 dal Diedo che infatti in quel medioevo “Placentia truci pestilentia vexata” cioè era Piacenza oppressa da una crudele pestilenza. L’antefatto: San Rocco dopo la sua “mal cacciata” da Piacenza nel 1327, perché ormai anche lui stesso piagato da un bubbone pestifero, si fermò qualche giorno al guado del fiume Trebbia presso il luogo detto già in antico “Casa di Rocco”. Si mise a vivere in una capanna nella vicinanza del fiume, l’acqua fresca corrente gli dava ampio sollievo alla piaga infetta, fino a che dopo pochi giorni passò il Trebbia e s’incamminò su quella che comunemente si chiamava “strada romea” in direzione Sarmato. E arriviamo quindi al ben memorato 1630, tempo nel quale in città e nel distretto incombeva “il mortifero morbo contagioso” che infettò e portò alla morte centinaia di persone. Leggiamo dal Campi che ancora in quel tempo “era a Case di Rocco un tugurio o meglio vogliamo dire capanna, secondo l’antica tradizione”, quindi da quel 1327 lì si conservava con venerazione da secoli il capanno dove dimorò il santo per pochi giorni. I piacentini, ricordando i fatti rocchiani, furono ripresi da “tal divozione verso il benedetto Santo” che alcuni d’essi, per tentarle tutte “entrati in detta capanna” ecco che “vi furono ivi rinchiusi e per molto tempo vi stettero”. E continua il racconto “per li meriti di quello restarono in vita e senza lesione alcuna del pestilenzial malore” anzi specifica il Campi che purtroppo il morbo “allhora vuotò quasi tutte le case dé Cittadini, e de gli habitanti ancora nel Contado” cioè causò molti morti. Ma ecco che scopriamo che quel tugurio venne trasformato in quel secolo, per il miracolo assodato, “in un picciolo Oratorio” voluto e pagato dal “Medico Collegiato il Dottore Girolamo Moraggi”. E così da allora pure in quel posto “si celebra ogn’anno la festa del Santo e una Messa ogni settimana”, ma purtroppo, cambiati i tempi, dell’Oratorio dedicato a San Rocco vicino al Trebbia ormai da immemore tempo anche ai giorni nostri non c’è più né l’ombra né il ricordo. Una curiosità storica ci viene invece dal libretto fatto stampare a Piacenza sempre nelle “stamperie ducali Bazachi”, riguardante “La Vita di S. Rocco” con una prefazione dedicatoria firmata da “Li Guardiani & Fratelli della Compagnia di San Rocco di Piacenza” datata 5 novembre 1604. Il prezioso piccolo testo riporta una stampa del santo dipinta mano (cosa rara e preziosa) ed è dedicato al vescovo di Piacenza mons. Claudio Rangoni, lo stesso che nel 1617 in curia approverà e firmerà il documento notarile che attesta della nascita fisica di san Corrado Confalonieri in Calendasco e non a Piacenza. Nel testo non si cita mai il paese di Sarmato ma una “valle e selva” a cui “era vicino un picciolo Castello, nel quale habitavano molti nobili uomini, tra i quali il più ricco era uno detto Gottardo, uomo di gran pietà e fede e perciò grato a Dio”. Anche circa il cognome di Gottardo, che alcuni poi diranno dei Pallastrelli, nell’antico testo non è scritto, tantomeno si legge di grotta ma piuttosto di “tugurio” dove abitò il santo. Sappiamo che altre “Vitae S. Rochi” ci parlano invece di Sarmato, di un rivo e che il santo della peste, venne preso “in custodia e amicizia” da tal nobile Gottardo residente nei paraggi, proprietario del cane che “allungava” il pane ogni giorno al povero santo piagato, rubandolo dalla tavola. Lo storico Campi ci dà date, luoghi e avvenimenti precisi di San Rocco in terra piacentina, lo stesso santo che si venera nell’oratorio a lui dedicato che è a cento metri dal duomo in città in via Legnano, fondato nel 1577 dalla Confraternita del santo. Insomma tra miracoli e narrazioni, qualche curiosità storica da approfondire compare sempre tra le righe, ma la certezza è che San Rocco rimane amato e ben conosciuto nell’immaginario collettivo piacentino, e specialmente nella sua bella festa agostana.

Daniela Gentili e Roberto Pasquali premiano i piacentini dell’anno a Bobbio

La Settimana della Letteratura conclude l’edizione 2024 con la consueta premiazione di due personaggi definiti “piacentini dell’anno”, individuati in Francesca Lipeti e Astutillo Malgioglio che saranno appunto premiati da Daniela Gentili dell’editrice Pontegobbo, Roberto Pasquali, Sindaco di Bobbio e Gaetano Rizzuto, già Direttore del quotidiano piacentino Libertà e conduttore della serata. Francesca Lipeti, medico piacentino, specializzato in Medicina tropicale a Liverpool (Gran Bretagna), dal 1994 si adopera con tenacia e laica vocazione per l’aiuto e la condivisione dei grandi problemi del popolo Maasai. Sino ad ottobre 2014 ha gestito il presidio sanitario di Lengesim, sperduto villaggio nella Savana sud-occidentale, a cinque ore di auto da Nairobi (Kenya). Un impegno che, nel 2004, le è valso il premio per la Pace della Provincia di Piacenza “Livia Cagnani”, nel 2006 “L’angil dal Dom”, assegnato dalla Fondazione di Piacenza e Vigevano ai piacentini che si sono distinti per la loro opera meritoria fuori dall’Italia. l 17 ottobre 2009 le è stato attribuito il premio “Cuore Amico” dell’Associazione di Brescia “Cuore Amico Fraternità Onlus”, un Nobel per i missionari italiani nel mondo. La dr.ssa Lipeti dal febbraio 2015 si è trasferita a Ilbissil, una cittadina situata sempre in Kenya, al confine con la Tanzania, per portare qui non solo la sua attività di medico missionario ma anche per promuovere iniziative sociali ed umanitarie a beneficio in particolare di donne, ragazze e bambini.

Astutillo Malgioglio è sposato con Raffaella e ha una figlia di nome Elena. A partire dal 1977, in seguito a una visita a un centro per disabili, si è occupato di assistenza ai portatori di handicap, fondando a Piacenza l’associazione Era77 per il recupero motorio dei bambini distrofici. A causa di problemi di salute di Malgioglio e della mancanza di fondi, l’associazione ha chiuso nel 2001. Per questo suo impegno nel 1995 ha ricevuto il premio Sportivo Più. Nel 2019 ha ricevuto il premio BUU – Brothers Universally United, istituito dall’Inter e destinato a figure che si sono messe in luce per meriti umanitari contro discriminazione e razzismo. Il 13 novembre 2021 è stato insignito dal presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, del titolo di Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica Italiana, «per il suo costante e coraggioso impegno a favore dell’assistenza e dell’integrazione dei bambini affetti da distrofia». Non l’ho conosciuto personalmente, avevo conosciuto invece qualche anno prima del loro matrimonio Raffaella, sorella minore di Roberto, mio coetaneo e amico. Di lui, professionista del pallone in Serie A, ho invece sempre avuto grande stima per quanto ‘sentito dire‘, appunto come calciatore e come uomo. Professionista con il Bologna prima, portiere titolare con il Brescia della promozione in serie A poi, uno dei migliori portieri del campionato nella stagione 1979-1980. Dopo due anni con la Roma come vice del portiere titolare Franco Tancredi, nel 1985 pur di tornare a giocare accetta di scendere in Serie B con la Lazio. Qui le cose gli vanno decisamente male come giocatore ma fanno letteralmente risplendere l’uomo. Infatti Malgioglio viene preso di mira dai tifosi laziali (e qui, come possiamo dimenticare il saluto fascista che il bomber Chinaglia negli anni ’70 rivolgeva ai suoi tifosi notoriamente di analoga fede politica? Per tacere dell’analogo saluto rivolto alla curva biancoceleste da Paolo Di Canio nel 2005), sia a causa dei trascorsi romanisti, sia per il suo impegno coi disabili. Così il 9 marzo 1986 allo stadio Olimpico, nella gara interna contro il L.R. Vicenza, persa per 4-3, viene duramente contestato a causa di alcune incertezze in occasione dei gol subiti. A fine partita Malgioglio — ulteriormente provato dalla recente morte del padre — reagisce ai cori rivolti dalla curva laziale contro la sua famiglia e i disabili, togliendosi la maglia e sputandoci sopra: sugli spalti era stato affisso uno striscione recante la scritta «Tornatene dai tuoi mostri». Malgioglio rescinde il contratto con la Lazio ed esprime l’intenzione di ritirarsi dal calcio. Invece, in quella stessa estate, chiamato da Giovanni Trapattoni, passa all’Inter dove resta per cinque stagioni fino al ’91 quando passa all’Atalanta senza tuttavia mai scendere in campo per problemi fisici che lo spingono al definitivo ritiro nel 1992, a 34 anni. Dunque, onore al merito all’organizzazione della Settimana della Letteratura per la scelta di individuare come ‘piacentino dell’anno’ l’uomo Astutillo Malgioglio.

Paolo Di Canio saluta i tifosi della Lazio, la squadra italiana più fascista, Si nota sul braccio anche il tatuaggio con la parola “DUX”