Ogni sabato pomeriggio, alle 16:00 in punto, il mondo poteva anche crollare: loro si sarebbero comunque sdraiati sul divano, con la lana tra le mani e i cruciverba sul pavimento.
Ma quel sabato, qualcosa cambiò.
Lei era alle prese con il suo ennesimo gomitolo color lavanda, intento a diventare una sciarpa che probabilmente nessuno avrebbe mai indossato, e Lui… beh, Lui cercava da venti minuti un sinonimo di “ostinato” su un cruciverba del ’97.
La tv era accesa, ma nessuno la ascoltava.
In sottofondo, una replica di un programma di cucina, condito da risate finte e padelle antiaderenti.
Lui si alzò improvvisamente. Lei sollevò un sopracciglio.
«Sei impazzito?» chiese.
Lui non rispose. Fece due passi indietro, si mise un vecchio asciugamano legato al collo come mantello e inforcò la mascherina per dormire come se fosse una maschera da supereroe.
«Signora… prepari il cuore!» disse con tono teatrale. «Sta per essere baciata dal mitico… AmoreMan!»
Lei scoppiò a ridere. «Hai 78 anni, un’ernia del disco e sei vestito con le pantofole a forma di gatto. Se sei un supereroe, allora io sono la Donna Uncinetto.»
«Perfetto!» ribatté Lui, salendo goffamente sul divano, «Salviamo il mondo con un bacio!»
E lo fece. Lento, buffo, vero.
Restarono lì, incastrati in quell’abbraccio, mentre il gomitolo rotolava via, lasciando una scia di lana tra le pantofole.
«Sai che ti amo anche quando perdi la vista e la dignità?» sussurrò lei.
«Lo so. È questo il mio superpotere.»
E così, tra pigiami slabbrati e giornali sgualciti, Lei e Lui salvarono, ancora una volta, il loro piccolo universo dal grigiore.
Nessuno li avrebbe mai messi su un poster, ma ogni sabato, sul loro divano, due supereroi vincevano la battaglia più grande: quella di non smettere mai di scegliersi.
Nonna mi telefona per chiedere se posso accompagnare lei e Nonno in un posto importante
Nonno urla che ci terrebbe moltissimo ci fosse anche bimbetto con loro
Nonna aggiunge che porta qualche panino.
Vado a prendere i Nonni.
Nonno è vestito più elegante del solito e anche Nonna indossa un bel vestito a fiori.
Nonno mi guida.
Nonna urla di andare piano perché lei una volta ha guidato una macchina e conosce bene i pericoli di quelle diavolerie moderne.
Dopo un breve viaggio arriviamo in cima a una collina.
Nonno scende e apre la portiera a Nonna.
Io scendo da solo perché nessuno mi apre la portiera.
Facciamo un breve tratto a piedi dove inspiegabilmente nessuno si lamenta per la camminata.
Arriviamo davanti a un monumento ai caduti nella seconda guerra mondiale.
Nonno stende un asciugamano.
Nonna prende il cestino con i panini.
Chiedo ai nonni cosa facciamo lì.
Nonno mi spiega che alcuni nomi tra quelli elencati sul monumento erano loro amici.
Nonna racconta che loro erano troppo giovani ma quelli che sono andati a combattere non erano poi molto più vecchi di loro.
Nonno si commuove e dice che tanti amici, affetti, persone care non sono più tornate.
Nonna mi porge un panino crudo e mozzarella e si alza per andare ad accarezzare i nomi sul monumento.
Su ogni nome Nonna si sofferma e sussurra qualcosa che non riesco a sentire.
Nonno si alza e le mette la giacca sulle spalle per ripararla dal vento.
Nonno si gira verso di me e mi dice che loro sono gli ultimi ad aver vissuto direttamente quei giorni, dopo che loro se ne saranno andati l’unica speranza è che chi ha ascoltato i racconti li abbia memorizzati abbastanza bene per passarli a chi verrà dopo.
Nonna mi indica un nome e dice che lui era un suo grande amico e gli voleva molto bene.
Nonno si chiude in un momento di raccoglimento.
Nonna mi porge un altro panino ma mi si è chiuso lo stomaco.
Nonno dice che sono stati giorni tremendi con le persone cui voleva bene che morivano intorno a lui.
Nonna sottolinea che non passava momento in cui aveva paura di ricevere brutte notizie e non riusciva a dormire.
Nonna ha il respiro affannoso come se stesse rivivendo quei momenti.
Nonno le prende la mano.
Nonno mi chiede di continuare a raccontare quei giorni come me li hanno raccontati loro anche quando non ci saranno più.
Nonna mi dà 5 euro.
Io prometto che a modo mio cercherò di mantenere vivo ciò che loro e tanti come loro hanno fatto per noi.
In uno strano silenzio torniamo a casa senza che nessuno abbia mangiato granché.
Amavo la musica classica, in fondo ero un pianista con tanto di diploma al conservatorio.
Lei, invece, era una metallara convinta, di quelle “pesanti”.
La portai a teatro a sentire Beethoven, un classico che confidavo l’avrebbe avvicinata al mio mondo.
Esterrefatto, la vidi uscire dalla sala dopo appena venti minuti, scuotendo la testa come se avesse un tic.
Non mi diedi per vinto e ci riprovai con Mozart e Bach.
Niente da fare.
Stesso epilogo.
L’amavo ed ero convinto che anche lei mi amasse.
Tuttavia, i nostri due “mondi musicali” sembravano non aver alcun punto in comune.
A me il rock piaceva, ma non quello pesante.
Ascoltavo i Beatles, gli Stones, i Doors. I Led Zeppelin rappresentavano quanto di più duro fossi disposto a farmi piacere.
Lei invece “ci andava giù senza mezzi termini”.
Metallica, Black Sabbath, Iron Maiden, e Judas Preist.
Fino ad arrivare al “Death Metal”, quello urlato, lo chiamavo io.
Questa faccenda della musica ci stava dividendo, e io non ero disposto a perderla.
Le proposi di andare insieme a “uno di quei festival” dove si beveva birra tutto il giorno e si faceva penzolare la testa avanti e indietro, cercando di stare al passo con la doppia cassa della batteria della band di turno.
Un astemio amante della classica a un festival Metal.
Cosa non si faceva per amore!
Lei ci pensò su qualche secondo, poi sorrise.
– Prima, però, dobbiamo rifarti il look – disse.
Quando mi guardai allo specchio, scoppiai a ridere.
Fu soprattutto la parrucca a farmi scendere le lacrime dagli occhi.
Lei invece rimase molto seria.
– Sei perfetto – sussurrò soddisfatta.
– Quindi è questo l’uomo che saresti disposta ad amare? – le chiesi.
– Io amo te, anche quando ti siedi al pianoforte o quando ascolti la musica classica – rispose, – ma così… – fece scorrere la mano lungo il mio corpo dall’alto verso il basso – …così sei davvero una bomba.
Il concerto fu uno spasso.
Mi divertii come non facevo da tempo.
Conobbi un sacco di persone interessanti.
Tizi e tizie che divennero amici e per le quali suonai Rachmaninov nel soggiorno di casa nostra.
Alcuni, i più fedeli alla linea, agitarono la testa avanti e indietro per il tutto il tempo.
Non ci amavamo più, ma nessuno dei due sembrava avere il coraggio di ammetterlo.
In fondo anche non amarsi, ma di comune accordo, poteva essere una soluzione di compromesso, soprattutto dopo tanti anni di convivenza.
Una convivenza felice, per la verità.
Obiettivi raggiunti, soddisfazioni, vittorie e qualche sconfitta.
Normalità.
Confortante, intima, a volte persino stucchevole la normalità che condiva la nostra esistenza, come un delicato velo d’olio su una pietanza già saporita a sufficienza.
Lei era quella di sempre, e io pure.
Eravamo ancora noi due ma, in un certo senso, non lo eravamo più.
Il nostro amore aveva perso colpi, senza dare troppo nell’occhio, come il motore di un’auto leggermente fuori giri.
Al calare del sole i nostri problemi di coppia divenivano ancor più evidenti, più di quanto non lo fossero nel corso della giornata, dove il lavoro, la casa, i soliti impegni irrinunciabili, riuscivano in qualche modo a distrarci da noi.
Non avere figli, per una coppia non più capace di amarsi, era una benedizione, ma allo stesso tempo suonava anche come una condanna.
Senza figli e senza amore, una coppia non aveva più ragion d’essere.
Tentai di farmi un’amante, così da poter avere un alibi inattaccabile da gettare sul tavolo quando sarebbe arrivato il momento, quello che avrebbe segnato l’inizio della fine.
Fallii miseramente.
A ridosso dei cinquanta infatti, certi atteggiamenti e automatismi da predatore, sembravano essere finiti nel dimenticatoio.
Così, dopo un paio di figuracce al pub, decisi di concedermi la birra quotidiana in salotto, da solo, con la tv accesa e sintonizzata sulla partita di calcio. Una qualsiasi.
Lei andava a dormire presto, le dieci, massimo le dieci e mezza, mentre io bivaccavo sul divano con un libro in mano e l’idea di scrivere un romanzo.
Quando entravo in camera da letto avevo il terrore che lei fosse ancora sveglia, e soprattutto che avesse il coraggio di chiedermi perché stavamo mandando tutto alla malora senza avere il coraggio di farlo davvero.
Mi stendevo sul letto un poco per volta, cercando di non fare rumore, poi chiudevo gli occhi e cominciavo a contate animali di ogni specie.
L’importante era prendere sonno il prima possibile e gettarsi alle spalle l’ennesima giornata inutile.
La nostra non era più una vita (di coppia), ma una morte di coppia.
Marito e moglie alla ricerca di un atto di coraggio, una sorta di eutanasia coniugale in grado di liberare le nostre anime da un peso divenuto insostenibile.
Quella notte ci addormentammo e non ci svegliammo più.
I giornali scrissero che fu a causa di una fuga di gas, una di quelle accidentali che ogni anno mietevano vittime un po’ ovunque.
Ma non fu affatto così che andarono le cose.
Anche se la faccenda, soprattutto ora, non ha più molta importanza.
Perché quassù (o forse quaggiù) si vive bene anche soli, senza nessuno da dover amare a tutti i costi.
Perché quassù (o forse quaggiù), l’amore è considerato un reato e, per un tizio come me, stanco morto e senza grandi pretese, può anche andare bene così.
Che volersi bene, poi, in fondo è la cosa più importante.
Al diavolo gli sguardi torvi e le facce schifate.
Al diavolo tutti quelli che non sanno riconoscere l’amore vero.
Molti, in realtà.
Credetemi, l’amore non è come il calcio: non ha categoria.
Serie A, B e C non significano nulla, non quando due persone si amano.
Eppure, noi due sembravamo condannati a dover militare nell’ultima categoria disponibile, la “Z”, quella di cui ci si doveva vergognare, e dove vincere non era permesso.
Un’eterna striscia di inutili pareggi e sconfitte clamorose.
Ecco com’era vista la nostra storia da chi si prendeva il disturbo “di darci un’occhiata”, sempre e comunque dall’alto verso il basso.
Una famiglia come le altre, fosse addirittura meglio… delle altre.
Noi ci consideravamo così, e speravamo che nel futuro, magari a ridosso della fine di questo ventesimo secolo che aveva visto nascere così tante rivoluzioni culturali, il nostro essere “diversi” – diversi poi da cosa, continuavamo a chiederci – avrebbe finito per perdere valore.
Sì, proprio così: con la fine del “millenovecento-e-qualcosa” e all’arrivo “duemila-e-qualcos-altro”, sarebbe cambiato tutto.
L’amore avrebbe finito per essere SOLO amore.
Nonostante lui continuasse a ripetermi che dovevo andarci piano con le calorie, il sole e l’odore di salsedine mi fece venire voglia di patatine fritte.
Passeggiammo sul canale fino a quando non trovai un chiosco adatto alle mie esigenze.
Presi una confezione maxi di patatine e due forchette.
– Finirai divorato dal colesterolo – mi disse lui.
– L’importante è che ci sia tu al mio fianco a tenermi la mano quando sarà finita.
Lui scosse la testa, poi, però, dividemmo le calorie a metà, come una vera famiglia… la nostra…. diversa.
C’era una volta un vecchio nonno, ma tanto vecchio, che non ci vedeva quasi più e le mani gli tremavano, non aveva più denti, e quando mangiava, la minestra gli ricadeva dalla bocca sulla tovaglia. E per questo, suo figlio e sua nuora non lo vollero più a tavola con loro e il povero vecchio, solo e malinconico, mangiava la sua zuppa nel canto del fuoco.
Un giorno, che le mani gli tremavano più del solito, ecco che la scodella gli scivola di mano e si rompe in mille pezzi. La nuora colmò il vecchio di rimproveri e la sera a cena, gli versò la zuppa in una ciotola di legno: “Almeno, questa non la romperete”.
Quand’ebbe finito di cenare, ecco che il nipotino, un bimbo di pochi anni, si mise a giocare sul pavimento della cucina, e i suoi genitori videro che egli cercava di rimettere insieme i cocci della scodella rotta dal nonno.
“Che cosa fai?” gli domandarono.
E il bimbo rispose: “Accomodo la scodella per dar da magiare al babbo e alla mamma, quando saranno vecchi”.
I genitori si guardarono, fecero il viso rosso e vennero loro le lacrime agli occhi. Sì, era giusto che fosse così. Anche loro, da vecchi, sarebbero stati trattati dal figlio, com’essi avevano trattato il povero vecchio.
Si pentirono del loro cattivo cuore e ripresero a tavola il nonno e da allora in poi ne ebbero cura.
In una notte cupa, resa ancora più lugubre da un’opprimente foschia, Frank guidava con circospezione procedendo lentamente, quasi a passo d’uomo per non rischiare un incidente a causa della visibilità ridotta. All’improvviso Frank ebbe un sussulto: gli era parso di scorgere nella nebbia una figura femminile. Aguzzò la vista ed immediatamente frenò: era effettivamente una ragazza quella che gli si parava davanti. Bionda, con addosso un abito da sera chiaro che quasi si confondeva tra le volute lattiginose della foschia: un vestito decisamente poco adatto per una serata fredda ed umida come quella. La ragazza aveva il pollice della mano destra alzato nell’inequivocabile segno dell’autostop. Frank abbassò il finestrino e le chiese: “Serve aiuto?”. “La prego, mi dia un passaggio!”, implorò la ragazza. “È tardi ed ho tanto freddo! Sarebbe così gentile da darmi uno strappo in città?”. Frank non ci pensò due volte: aprì lo sportello e fece accomodare la bionda autostoppista nell’abitacolo della sua lussuosa Buick anni Cinquanta. Sicuramente sarà stata mollata dal suo boyfriend dopo una lite, pensò, e in fondo la città dista non più di un paio di miglia. La ragazza disse di chiamarsi Mary e di avere perso la corriera di ritorno da una festa da ballo. Si era incamminata da poco quando aveva visto i fanali dell’auto di Frank farsi largo nella foschia. Pallidissima, sembrava battere i denti dal freddo. Frank si tolse la pesante giacca di lana che indossava e la diede alla ragazza, rimanendo in maniche di camicia: faceva freddino effettivamente, ma era l’occasione giusta per dimostrarsi galante con la bella autostoppista. “Ha freddo, signorina? Indossi questa, la scalderà!”. “Non si disturbi, lei è stato sin troppo gentile!”, rispose Mary. Ma Frank era ben deciso a sostenere sino in fondo la parte del perfetto cavaliere: “Non si preoccupi signorina, lei ne ha certamente bisogno più di me!”. La ragazza abbozzò un timido sorriso: “Lei è davvero una persona squisita!”, disse stringendosi nella giacca dell’uomo.
Frank si compiacque del commento: la sua graziosa ospite sembrava apprezzare le sue premure, e dentro di sé l’uomo cominciava già a progettare un seguito per quell’incontro così casuale. Improvvisamente, alle porte della città, Mary gli disse: “Io sono arrivata, devo scendere!”. Frank strabuzzò gli occhi, cercando di vederci meglio nella nebbia che ormai era diventata un’impenetrabile muraglia grigia: “Come, è arrivata!? Ma qui c’è solo… il cimitero!”. Si voltò sulla sua destra per chiedere lumi alla ragazza, ma Mary era scomparsa, lasciando la giacca di Frank sul sedile del lato passeggero. Folle di terrore, Frank lanciò un urlo disumano e perse il controllo dell’auto, che andò a schiantarsi contro un albero posto in prossimità del viale adiacente l’ingresso del cimitero. Alle prime luci dell’alba un carro attrezzi si recò sul luogo dell’incidente ed i soccorritori scorsero il cadavere di Frank, sbalzato fuori dall’auto, che aveva una smorfia di indescrivibile orrore dipinta sul volto.
Dissolvenza. Colonna sonora triste ed inquietante. Titoli di coda. Fabio spense la tv col telecomando, accese la luce e sbuffò: “Mica tanto originale, ‘sto film. C’è tutta una letteratura sui casi dei fantasmi autostoppisti, è una storia vecchia come il cucco!”. Giorgio annuì: “E poi quel nome, Mary. La trama è copiata pari pari dalla storia di “Resurrection Mary”, la conoscete?”. Stefano, che era il più appassionato dei racconti dell’orrore, fu il più veloce a rispondere: “Certo, e chi non la conosce? La storia della ragazza di Chicago morta investita mentre tornava da una festa, il cui fantasma si fa dare un passaggio fino all’ingresso del cimitero. Praticamente è il prototipo delle storie sui fantasmi autostoppisti. Ne hanno parlato anche Charles Berlitz nel “Libro dei fatti incredibili ma veri” e Jan Brunvand nel suo saggio sulle leggende metropolitane!”. “Beh, mica potete pretendere di vedere un inedito ogni sabato sera!”, sentenziò Massimo. In effetti quello era l’immutabile programma del sabato per i quattro amici: dopo il classico “giro” in birreria, si tornava a casa di Fabio per vedere i film dell’orrore che le private trasmettono in seconda serata. A sedici anni, se non hai molti quattrini in tasca, anche una grande città come Milano può offrire poche alternative. E poi in fondo a loro andava bene anche così: appassionati dei fumetti di Dylan Dog, dei libri di Stephen King e dei film di Dario Argento e George Romero, erano dei veri cultori del genere horror. Soprattutto Stefano, che non perdeva occasione di fare sfoggio della sua conoscenza, con quella sua aria fastidiosa da primo della classe. Fabio cominciò a punzecchiarlo: “Figurati se Stefano perdeva l’occasione di fare il secchione anche qui! Non bastasse a scuola…”.
Nebbia sui Navigli
Ridendo e scherzando si era ormai fatta notte: Fabio, Giorgio e Massimo accompagnarono alla fermata della metropolitana Stefano, che abitava praticamente dalla parte opposta della città. Come spesso accade a Milano in autunno, le strade erano avvolte da una fitta coltre di nebbia. Il cazzeggio quella sera era durato più del solito, ed ormai Stefano aveva perduto l’ultima corsa. “Merda, e ora come faccio a tornare a casa?”, sbottò. I tre amici – che, beati loro, abitavano tutti nei paraggi – lo presero in giro: “Prova a fare l’autostop! Se non ti scambiano per un fantasma autostoppista può darsi che ti caricano su!”. Fabio si fece più serio e gli disse: “Dai, se vuoi puoi dormire da me, tanto mio fratello questo fine settimana resta a fare il “botto” in caserma!”. Stefano scosse la testa: “Sì, poi i miei mi ammazzano. Non posso manco telefonare, a quest’ora stanno già ronfando beatamente…”. “Per una volta potresti anche evitare di fare il bravo figliolo come al solito!”, disse Giorgio con tono di scherno. Massimo, che era il più scazzato di tutti, sorrise beffardamente: “Mi sa che ti tocca proprio l’autostop. Dai, se sei fortunato un fesso lo trovi. Basta che non abbia mai letto il libro del tuo amico Austerlitz, Asterix, o come cacchio si chiama lui…”. “Charles Berlitz!”, esclamò Stefano con una punta di sdegno. “Vabbé, quello là”, ribatté Massimo che aggiunse: “Visto che sei così esperto, magari gli puoi anche fare uno scherzetto al tipo che ti carica… Sui tuoi libri non è scritto anche come si fa a sparire all’improvviso?”. “Quello farei meglio a chiederlo a te”, disse Stefano. “Tutte le volte che non hai studiato e ti caghi sotto per la fifa dell’interrogazione, è come se diventassi invisibile! Non c’è una volta che la prof ti abbia beccato… Ma come cacchio fai?”. “Basta volerlo!”, disse Massimo con la sua solita aria da spaccone. “Io desidero ardentemente di diventare invisibile e… puff! Sparito! E la prof se la cucca qualche altro!”. Forse risentito per la risposta di Stefano, Massimo decise, con la cattiveria tipica degli adolescenti, di tirare uno scherzo all’amico: ci fu un vociare sommesso con Fabio e Giorgio, e i tre improvvisamente si allontanarono nella nebbia. Massimo disse: “Allora, tutto chiaro? Appena qualcuno ti rimorchia basta che tu desideri di sparire e… ciao!”. Stefano ebbe, forse per la prima volta, un brivido di paura quando vide i suoi amici che si dileguavano nella notte: “Ehi, dove cazzo andate? Non mi lasciate da solo a quest’ora!”. Gli rispose solo la voce di Massimo nella foschia sempre più fitta: “Buona notte Stefano, salutami Asterix!”. “Oh, merda!!!”, esclamò Stefano sferrando un calcio rabbioso ad una lattina vuota. Capì che non aveva scelta, doveva farsela a piedi fino a casa o magari sperare che un’anima buona si fermasse a raccoglierlo in quella notte piena di nebbia. L’idea di dover attraversare Milano a quell’ora già non gli sarebbe andata a genio in condizioni meteorologiche normali, figurarsi con quel nebbione londinese! “Begli amici del cazzo quei tre stronzi!”, pensò ad alta voce. Certo gli avevano fatto proprio un bello scherzetto, abbandonandolo al suo destino in una notte così!
Cominciò lentamente a camminare nelle vie di Milano avvolte dalla nebbia. Di tanto in tanto qualche auto gli sfrecciava vicino, senza dare però la minima idea di volersi fermare. Del resto, pensava Stefano, chi mai potrebbe darmi uno strappo a quest’ora, in un simile scenario da film horror? Dopo venti minuti, però, la stanchezza cominciava a farsi sentire; la nebbia andava diradandosi e Stefano si disse che in fondo non aveva nulla da perdere: quando vide da lontano una Panda bianca drizzò il pollice e la macchina accostò con un buffo saltello. Il conducente gli disse: “Ehi ragazzo, mi sembra che tu sia nei pasticci! Sali a bordo!”. L’uomo indossava un giubbotto con uno stemma cucito all’altezza della spallina destra ed un berretto con la visiera: doveva essere una guardia della metronotte, o qualcosa del genere. Dallo specchietto retrovisore Stefano si accorse che sul lunotto della Panda c’era una grande quantità di vetrofanie, fra cui due in particolare colpirono la sua attenzione: era scritto “Nightmare” sulla prima e “Ghost” sulla seconda. Gli parve un buon argomento per attaccare discorso, e così Stefano dopo qualche secondo ruppe il silenzio rivolgendosi all’autista: “Lei deve essere proprio un tipo coraggioso!”. “Cosa te lo fa pensare?”, gli chiese l’uomo. “Beh, a parte gli adesivi sul vetro della macchina, che sono troppo tosti… Ma poi, dare un passaggio a uno sconosciuto, di notte, con questa nebbia…”. “Sarebbe il colmo se proprio io avessi paura di qualcuno!”, gli rispose. Stefano fu colpito dall’enfasi con cui il suo interlocutore sottolineò quelle due parole: “proprio io”. “Dopo tutto è normale che un metronotte sia coraggioso, no?”, pensò fra sé e sé, quasi meravigliandosi dell’ovvietà della sua considerazione. Dopo un breve attimo di silenzio aggiunse: “Probabilmente non le fanno paura nemmeno certe strane storie… Proprio stasera ne ho vista alla tele una del genere… Parlava di un fantasma che faceva l’autostop”. “Io non ho paura di queste cose!”, disse seccamente l’uomo. “Come mai? Lei è sicuro che qualcosa del genere non possa accadere?”, gli domandò Stefano. “Vedi ragazzo – rispose l’uomo senza distogliere lo sguardo dalla strada – questi racconti sono molto ripetitivi e parlano sempre di fantasmi che fanno l’autostop e poi scompaiono improvvisamente nel nulla. A nessuno viene mai in mente, per esempio, che il fantasma potrebbe essere il conducente!”. Sarà stato il freddo o la paura, ma Stefano si strinse nelle spalle, guardò oltre il finestrino alla sua destra e chiese senza troppa convinzione: “E come potrebbe essere possibile?”. Si girò dall’altro lato per avere una risposta, ma alla guida dell’auto non c’era nessuno. Stefano fece appena in tempo a lanciare un grido di terrore che la Panda, ormai senza controllo, cominciò a sbandare ed il ragazzo venne catapultato fuori dall’abitacolo, andando a battere violentemente il capo contro un albero posto lungo il ciglio della strada. La morte fu istantanea.
Quando, di lì a poco, un’autopattuglia avvistò il corpo ormai senza vita di Stefano, fu difficilissimo risalire alle cause della morte. Non c’era alcuna auto o moto nei paraggi, né tracce di frenata o qualunque indizio che facesse pensare ad un incidente. L’autopsia rivelò che Stefano era morto per la frattura della base cranica a seguito dell’impatto con l’albero, ma nessuno riuscì a capire la dinamica: era come se lo sventurato ragazzo fosse stato scaraventato fuori da un’auto in corsa che non si era fermata. Fabio, Giorgio e Massimo, distrutti dal dolore e dal rimorso, si recavano spesso al cimitero sulla tomba dell’amico scomparso, ed un giorno si resero conto che, accanto a Stefano, era sepolto un uomo poco sopra la trentina. Sulla foto indossava un giubbotto scuro ed un cappello con la visiera. Chiesero informazioni al custode, il quale rivelò che si trattava di un metronotte deceduto a seguito di un incidente stradale: la sua auto, una Panda bianca, si era schiantata proprio contro l’albero dove Stefano aveva trovato la morte in quella notte maledetta.
Siro Palladino, nato nel 1970 a Foggia, è giornalista pubblicista e vive a Margherita di Savoia (FG). Grande appassionato dei racconti horror e della serie TV “Ai confini della realtà” di Rod Serling, è attualmente redattore del settimanale “La nuova Provinci@” di Andria e collabora con il quotidiano “La Grande Provincia” di Foggia.
Che la solitudine, poi, a pensarci bene la si può sconfiggere con armi semplici semplici.
Un sorriso regalato a uno sconosciuto, per esempio, oppure una carezza a chi ne ha più bisogno.
La solitudine, io, me la sono gettata alle spalle grazie a “un sacco di pulci” sottratto alla dura legge della strada, quella dove vince sempre il più forte, che poi spesso è anche il più cattivo.
Ciò che rimane di me, ora, è un vecchio sovrappeso con pochi capelli “da spendere”, condannato a vivere in una grande casa per il resto dei suoi giorni.
Lui, invece, è un bestione dal pelo corto e il nasone a patata che ho ribattezzato Birillo, come il cane di Rocky Balboa.
Non che io sia un pugile, intendiamoci.
Anzi, tutt’altro.
Ho lavorato in fabbrica per quarant’anni, con i piedi ben piantati sulla stessa mattonella “ottanta per ottanta”, e con l’ingrato compito di assemblare le membra dell’auto di lusso per eccellenza, quella col cavallino rampante.
Già, la Ferrari.
Gran bella azienda, non c’è dubbio.
Anche se… ma lasciamo perdere, tanto ormai sono in pensione.
Birillo ha ridato linfa vitale alla mia casa, la stessa dove un’imperatrice pelle e ossa ha dettato legge per più di settant’anni, e che ora è stata promossa a dirigere questioni ultraterrene.
E’ intelligente, Birillo.
Più di molta gente che conosco e che si considera “veramente intelligente”, come se un avverbio buttato là a occhi chiusi avesse il potere di fare impennare il QI di un povero diavolo.
Ci piace guardare la tv insieme, soprattutto vecchi film in bianco e nero.
Lo so che sembra strano, ma i cani come Birillo hanno preferenze particolari riguardo all’intrattenimento.
Ad esempio odia il calcio, forse perché del vero calcio, oggi, ne è rimasto ben poco.
E poi sembra aver sviluppato un intolleranza per i talk show, quelli dove i soliti politici da strapazzo tentano di scusarsi per le loro malefatte millantando chissà quali promesse, impossibili da mantenere fin dalla prima sillaba.
Birillo ringhia contro tutti, quelli di destra e quelli di sinistra, senza tralasciare “i tizi collocati al centro” di qualcosa che un centro non ce l’ha per definizione.
A noi piacciano i film di Charlie Chaplin, dove le parole non servono, e le emozioni trasmesse da un gesto semplice bucano lo schermo della tv.
Spesso ci addormentiamo, io e Birillo.
In fondo siamo vecchi.
Io, con i miei “ottanta e spiccioli”, e lui con i suoi undici che, vista la stazza, valgono quanto i miei, forse addirittura di più.
Questa sera abbiamo deciso di goderci “Il Grande Dittatore”, un classico senza tempo.
Birillo sale sulle mie gambe e si accuccia, e io sento sinistri scricchiolii prendere vita all’altezza delle ginocchia.
Sorrido, poi do il via alla proiezione, e prima che il barbiere faccia il suo ingresso in scena, mi rendo conto che sto, anzi, che stiamo sprofondando nel sonno.
Non me la prendo granché, e nemmeno Birillo mi sembra darsi pena, in fondo abbiamo ancora tutta la vita per ridere insieme a quel geniaccio di Chaplin.
E da quando siamo di nuovo in due (lo dico piano per non portare iella), quel “per tutta la vita” mi auguro duri per sempre.
Buonanotte a tutti.
Pastore che dorme supino steso nell’erba, con cane e capre, di Filippo Palizzi
Vivevo solo, in una stanza vuota, fatta eccezione per il giradischi e una bottiglia di vino che mi premuravo di tenere "sempre viva", piena al punto giusto. Musica e alcool, gli unici amici rimasti ancora disposti a passare del tempo con me. Mi ero licenziato dopo aver preso a pugni il mio capo. Anzi, mi avevano licenziato. E sulla mia testa pendeva una denuncia per aggressione che mi avrebbe portato di fronte a un giudice a spiegare perché avevo messo le mani addosso a quello stronzo del mio capo ufficio. Che poi era quello che avrebbero voluto fare tutti i miei colleghi, anche se nessuno di loro aveva mai trovato il coraggio dai fare, perché il lavoro... insomma... le bollette, il mutuo e le rate della macchina non tenevano conto della stronzaggine di un tizio che ti urlava contro dalla mattina alla sera. Disoccupato, solo e sulla via dell'alcolismo. Che bel quadretto. Grande conoscitore di musica, però, che non è mica poco! Non mi ero mai sposato, nemmeno fidanzato, per la verità. In compenso, avevo pagato fior fior di soldi per garantirmi una vita sessuale di tutto rispetto. E' che io con in sentimenti non ci sapevo fare, e con le donne... intendo con le "donne non a pagamento", i sentimenti sono importanti. Mi lasciai cadere sulla sedia ormai logora, la seduta dura come il marmo, e presi a fissare la parete vuota di fronte a me, quasi potesse darmi una dritta su come raddrizzare la mia vita. Che poi cosa vorrebbe dire raddrizzare? Farla diventare come quella di tutti quelli che escono di casa alla mattina col sorriso con le labbra dopo aver preso a male parole moglie e figli? Raddrizzare la mia vita potrebbe significare ricevere in dono mille bottiglie di vino e centomila vinili. Già, alcool e musica all'ennesima potenza. Il giradischi mi parve così lontano che avrei preso volentieri un taxi. Arraffai la bottiglia e bevvi l'ultimo sorso rimasto, chiusi gli occhi. Quando li riaprii, mi ritrovai disteso in un letto. Al mio fianco una donna che ero certo di conoscere ma della quale al momento non ricordavo il nome. La porta della stanza si aprì all'improvviso e due bambini urlanti irruppero nella stanza e presero a saltare sul letto. Non ci stavo capendo niente. Poi il maschietto, capelli biondi e sorriso sdentato, mi chiamò "babbo", e subito dopo la femminuccia fece lo stesso. - Buongiorno - disse la donna di fianco a me, la sua mano sulla mia spalla a regalarmi una carezza. Nessuna stanza vuota, nessun giradischi e nessuna bottiglia di vino sempre piena al punto giusto. Al loro posto una famiglia... due figli e una moglie. Chiusi di nuovo gli occhi e cominciai a piangere.
Il 30.09.2024 esce “Non ci Resta che il Vinile”, ultimo capitolo della Trilogia del Vinile dopo “Fedeli al Vinile” e “Febbre da Vinile”. Disponibile su Amazon in tutti i formati. Per gli amanti degli ebook, il romanzo è già prenotabile su Amazon a questo link: http://bit.ly/4dXWvnJ
A Roma, quella sera di maggio la primavera baciava con insolita dolcezza i giardini di Villa Borghese. Sulla chioma del grande leccio era convocata l’assemblea plenaria del Gran Consiglio della World Cricket Organization, che riuniva i rappresentanti di tutte le sottospecie della famiglia delle Gryllidae, provenienti da tutto il mondo, con all’ordine del giorno un unico argomento: azioni urgenti per contrastare l’estinzione della specie. La notizia era apparsa sui principali quotidiani degli umani che si erano già impossessati di molte larve di grillo e le avevano rinchiuse in appositi allevamenti nei quali i malcapitati erano condannati a riprodursi e poi ad essere eliminati in un processo di trasformazione per ottenere farina per la produzione di pane, pasta, biscotti e simili, di cui peraltro gli umani erano molto ghiotti. Alla convocazione urgente, diramata dal presidente, il Grillo Parlante, avevano risposto tutti i membri del Gran Consiglio, convinti che non fosse più possibile procrastinare una presa di posizione ferma, prima che la situazione divenisse irrecuperabile. Erano infatti ormai trascorsi più di dieci anni da quando la società degli umani aveva stabilito di cibarsi di insetti e la specie delle Gryllidae era stata inclusa tra quelle ritenute edibili. Erano presenti due rappresentanti della sottospecie dei grilli campestri, detti anche grilli canterini, con la pelle di colore scuro, il corpo tozzo e le ali, con il classico colore che dal giallo sfuma verso il marrone scuro e il nero, che, anche se non sono utilizzate per volare, sono indispensabili per il maschio che le sfrega per ottenere il famoso cri-cri che anima i campi nelle belle serate estive. C’erano i rappresentanti dei grilli domestici, detti anche i grilli del focolare con il corpo di colore giallo tendente al marrone, maggiormente slanciato rispetto ai grilli campestri, che vivono nelle crepe dei muri delle case di campagna e si cibano di provviste alimentari, stoffe o lana. C’erano anche rappresentanti di altre specie di insetti, che avevano portato la loro solidarietà agli amici grilli. Così, le cicale avevano mandato una loro delegazione di tre rappresentanti; si erano messe un po’ in disparte in un angolo e avevano lo sguardo triste, perché la stagione estiva si approssimava e poi sarebbe arrivato l’autunno a porre fine alla loro breve esistenza; quella forse sarebbe stata la loro ultima missione. Avevano di che pensare al loro triste destino, ma non avevano voluto esimersi dal portare la loro solidarietà agli amici grilli, con i quali dividevano l’animazione delle giornate degli umani: infatti ai grilli era demandato il compito di far risuonare il loro poetico canto nelle notti d’estate, mentre le cicale scatenavano la loro frenetica musica durante le assolate ore della giornata. Alle cicale gli umani avevano riservato una parte nelle favole per i bambini, anche se a loro era sempre riservato il ruolo dei fannulloni, di quelli che stanno sempre lì a cantare e a divertirsi senza preoccuparsi di rendersi utili e di lavorare, per provvedere alle necessità famigliari, mentre riservavano la bella figura a quelle antipatiche delle formiche, sempre impegnate ad alzarsi presto la mattina e mettersi lì a lavorare tutto il santo giorno senza godersi la vita. Eh, già! Che ne sanno della vita quelle secchione delle formiche? C’era poi un nutrito gruppo di rappresentanti delle cavallette che erano molto interessate alla discussione che si sarebbe sviluppata, considerando che loro erano diventate cibo per gli umani anni prima dei grilli e avevano già tentato con scarso successo di ribellarsi, infestando i campi e le colture. Purtroppo per loro però, gli umani avevano sviluppato armi micidiali per combattere questa loro sollevazione e ormai quasi si stavano rassegnando al loro triste destino. Eh, ormai non erano più i tempi delle piaghe d’Egitto: allora erano state loro ad infliggere agli umani una dura punizione, che se la sarebbero ricordata per secoli e qualcuno avrebbe tramandato nei libri; cosa che, del resto, era avvenuta. Chissà che i cugini grilli non avessero qualche idea brillante da suggerire. C’erano anche due rappresentanti delle api con i loro eleganti abiti tradizionali gialli e neri. Per la verità, avevano un atteggiamento che appariva un tantino sussiegoso, forse perché, pur se anche loro erano a rischio estinzione, avevano trovato presso gli umani intere categorie di persone che si erano mobilitate a lanciare campagne per la salvaguardia delle api con la storia del mantenimento della biodiversità e della conservazione della natura, che per gli umani parevano di grande importanza. Addirittura c’era chi sosteneva che, se le api si fossero estinte, l’intero mondo avrebbe potuto smettere di funzionare e sarebbe andato incontro alla sua fine. Si sosteneva che la nascita di nuovi germogli e la produzione continua da parte della natura siano possibili solo grazie all’impollinazione, che appunto le api sono in grado di garantire. Persino l’ONU, un’importante organizzazione degli umani a livello mondiale, si era mossa per promuovere una giornata apposita da dedicare alla salvaguardia delle api. Che bella fortuna! Purtroppo, non siamo tutti uguali! Anche nel mondo degli animali c’è chi ha tutto e chi non ha niente … o quasi. Beh, a dire il vero, c’erano pure quelle antipatiche delle mosche, così testarde e fastidiose. Nei secoli, gli umani se ne erano inventate di tutti i colori per togliersele di torno: dalla carta moschicida al flit, ma niente, non c’era stato verso e ormai pareva che avessero deciso, pur a malincuore di tollerarle, limitandosi a scacciarle con appositi ventagli o anche con un semplice movimento della mano. Comunque, anche i rappresentanti delle mosche furono ammessi di buon grado a partecipare all’assemblea, considerando il fatto che la gravità della situazione imponeva la maggior unità possibile per contrastare i piani degli umani. In realtà, all’assemblea era presente, in via eccezionale, anche un rappresentante, un po’ particolare, degli umani: il Grillo Parlante in persona aveva voluto invitare Pinocchio, che, pur essendo un burattino, magari avrebbe potuto spiegare meglio agli umani le istanze dei grilli. Il Grillo Parlante l’aveva fatto accomodare accanto a lui, pur se si rendeva conto degli sguardi torvi che tutti gli rivolgevano e benché sapesse benissimo che Pinocchio era un tipo che aveva la testa dura ed era refrattario a seguire i suggerimenti di chi era più saggio di lui. Quando tutti i partecipanti all’assemblea si furono sistemati, il Grillo Parlante tenne la sua relazione e, in chiusura, disse: «Per avere qualche probabilità di spingere gli umani a cambiare atteggiamento nei nostri confronti, avremo bisogno del contributo di tutti voi, amici! Noi da soli non ce la potremmo fare. Dobbiamo fare in modo che gli umani comprendano che, senza gli insetti, ciascuno con le proprie caratteristiche, il mondo sarebbe più brutto e magari potrebbe anche autodistruggersi. Chiedo quindi a ciascuno di mettere in atto ogni azione che possa spingere al raggiungimento di questo obiettivo». Quando il Grillo Parlante terminò la sua relazione, si diffuse tutt’intorno un gran brusìo: i rappresentanti delle varie specie d’insetti si chiedevano cosa avrebbero potuto fare per la causa comune, ma avevano anche timore di quali avrebbero potuto essere le reazioni degli umani, che possedevano armi molto potenti contro le quali sarebbe stato difficile opporsi, senza subire gravi perdite. I gruppi dei rappresentanti delle varie specie d’insetti si riunirono in punti diversi per discutere tra loro e concordare il contributo che ciascuno avrebbe potuto portare alla protesta dei grilli. Dopo animate discussioni in quasi tutti i gruppi, alla ripresa dei lavori, ciascuno presentò la sua proposta, ad eccezione delle api, che non volevano scatenare una reazione degli umani contro di loro, proprio adesso che il loro atteggiamento nei confronti delle api era diventato così favorevole ed erano in corso colloqui di pace con l’Ape Regina. Si stabilì che il Grillo Parlante in persona avrebbe assunto la guida dell’operazione speciale che avrebbe avuto inizio entro la fine del mese e avrebbe avuto il nome in codice di “La mossa del grillo”. Il primo giorno del mese successivo l’operazione speciale ebbe inizio. Senza che i sistemi di sorveglianza degli umani potessero rilevarli, stormi di cavallette, con un’azione coordinata, piombarono inattesi sui raccolti dei campi distruggendoli. Le cicale organizzarono turni anche notturni durante i quali perpetravano incessantemente il loro frinire, così che nessun umano riusciva più a dormire e tutti si trascinavano stancamente come ‘zombie’ senza riuscire nemmeno a lavorare. Le mosche si divisero in piccole squadre di sabotatori che planavano in picchiata sui piatti degli umani mentre stavano mangiando, arrivando a lambire il cibo con il loro corpo schifoso, mentre altre squadriglie arrivavano improvvise e insistenti a sfiorare il viso degli umani mentre stavano per prendere sonno o si crogiolavano al sole sulla spiaggia. Molte altre azioni di disturbo furono messe in atto contemporaneamente da tutte le altre specie di insetti, così che la vita degli umani era diventata faticosa e problematica, ma il colpo più duro venne dall’azione decisa dei grilli, che all’unisono smisero di cantare le loro dolci melodie nelle notti d’estate, così che gli umani innamorati non potevano più fare i loro sogni più belli e trovare l’ispirazione per le loro parole d’amore. Il Grillo Parlante da parte sua ordinò a tutti i grilli delle favole per bambini di ritirare la loro presenza e lui stesso scomparve dalla favola di Pinocchio; tutti gli altri insetti delle fiabe fecero la stessa cosa, così che tutti i libri di favole erano diventati illeggibili e nessun bambino alla sera riusciva più ad addormentarsi, perché nessun genitore riusciva più a leggere una favola prima di dormire e tutti i bambini ormai piangevano senza sosta. Insomma, tra bambini che piangevano e cicale che frinivano anche di notte, gli umani non riuscivano proprio più a raccapezzarsi. I bambini organizzarono anche cortei di protesta contro la legislazione che consentiva l’utilizzo degli insetti come cibo, perché, sostenevano, degli insetti c’era più bisogno nei campi e nelle favole; per la farina e altri scopi c’erano già il grano e i cereali e insomma ce n’era d’avanzo, senza bisogno di distruggere la bellezza delle favole e della natura. Incominciarono così un po’ dovunque nei vari paesi le interrogazioni parlamentari e le mozioni per cercare di risolvere la situazione …Mattia si svegliò di soprassalto e si girò subito verso il comodino, allungando la mano verso il libro che raccontava le avventure di Pinocchio; lo aprì e incominciò a sfogliarlo con il cuore in gola … Mah! Sembrava tutto a posto; le pagine erano complete, come la sera precedente quando la mamma gli aveva letto qualche pagina prima di dormire. Ma allora … era stato solo un brutto sogno? Si alzò contento e andò in cucina a fare colazione; la mamma aveva già preparato il latte e i biscotti. Mattia si sedette e … «Con cosa sono fatti questi biscotti?» chiese alla mamma sospettoso. «Con la farina e il latte e le uova e … ma perché me lo chiedi?» fece la mamma stupita. «E … la farina … di cosa è fatta?» chiese ancora lui. «Di grano;» rispose la mamma sorridendo «di cosa vuoi che sia fatta?».
Sabino Napolitano è nato in un piccolo paese della provincia di Ferrara ed è cresciuto ad Andria, in Puglia, dove oggi vive con la famiglia. Ingegnere elettronico, dopo 40 anni tra sistemi informativi e management aziendale, scopre che gli è rimasta una voglia inespressa: quella di raccontare storie. Nel 2022 ha pubblicato il suo primo romanzo thriller dal titolo “Il destino del calamaro” per i tipi di PAV Edizioni. Nel 2023 il suo nuovo romanzo giallo inedito “Caccia all’uomo nero” è stato vincitore per il “miglior personaggio non protagonista” alla 4ª edizione del concorso letterario nazionale Giallo Festival 2022. Con il racconto fantastico “La protesta dei grilli” è stato finalista del Concorso “Fuga dalla realtà… con gli occhi della fantasya”.
Una vecchia signora in una veste nera mette un’offerta in una piccola ciotola sotto l’immagine di un santo in una chiesa.Olio su tela Firmato “Hübner”
Alla messa di domenica, il parroco ha chiesto ai fedeli, al termine dell’omelia:
“Quanti di voi sono riusciti a perdonare i propri nemici?” Tutti hanno alzato la mano, tranne una vecchietta in seconda fila.
“Maria, tu non sei disposta a perdonare i tuoi nemici?”, chiese il parroco. “Non ho nemici”, rispose dolcemente.
“Questo è molto raro!!!” – disse il prete. “Quanti anni hai?”
“108 anni”. Tutti i presenti si sono alzati ed hanno applaudito a lungo la piccola signora.
“Vieni a dirci come vivere 108 anni e non avere nemici” disse il parroco. La vecchia si alza a fatica, va all’altare, con mani tremanti tiene il microfono e, guardando l’assemblea, tutta commossa, dice:
Mentre impari a scrivere, pensi di poter dire la tua, ma impari solo ad ubbidire.
Scrivi, scrivi, scrivi, metti in fila tutte le lettere, riempi i quadretti, una pagina di A una di B e cosi fino alla Z.
Fai tutto con attenzione, resta nei margini non uscire dai bordi.
E poi diventi grande, e sei abituato ad obbedire.
Sai leggere e scrivere, ma è solo illusione, stai in fila, allineato e coperto, resta nel mucchio, resta inquadrato, marcia compatto, fai come ti viene ordinato e non discutere.
Ora combatti, colpisci, uccidi, non ti fare domande, non ti chiedere il perché.
Marcia compatto verso il tuo destino, esegui gli ordini, fai il tuo dovere, così è sempre stato, cosi è, e cosi sarà sempre.
Dalle pietre alle lance, dalle lance alle spade, dalle spade ai fucili, dai fucili ai cannoni e poi aerei, carri armati, missili, le “BOMBE” sono diventate intelligenti.
Ma l’uomo è rimato gretto ed ignorante, e privo di memoria.
Cosi che dopo millenni, siamo passati dalle pietre, alle bombe intelligenti, ed intere città si sgretolano come castelli di sabbia seppellendo vite.
Usciamo dai ranghi, rompiamo le righe, urliamo il dissenso.
Ricordiamo il passato e cambiamo il futuro.
NO MORE WAR
ALL WE NEED IS LOVE ( after the Beatles and Banksy ) di Thomas Dellert
Racconto contenuto nell’antologia ” La voce del cuore” assieme agli altri finalisti del concorso letterario “Oceano di carta ed. 2016” in vendita presso il sito della casa editrice Sensoinverso
Sfogliò il Pentamerone di Giovanni Basile, rimase un attimo con la penna sospesa sul foglio di carta, dal terrazzo il suo sguardo abbracciò il mare, che schiumoso s’infrangeva sugli scogli, quindi mise ordine ai suoi pensieri e riprese a scrivere.
La notte passata a lavorare sulla vettura, era stata lunga e faticosa. L’ennesima. Le contò mentalmente, otto notti, ma finalmente aveva finito. Aveva gli occhi arrossati dalla stanchezza, spense la luce e si chiuse la porta alle spalle. In cucina si versò, nella tazza azzurra l’ultimo goccio di caffè ormai freddo e lo bevve, prese una mela e l’addentò, quindi si stese sul letto, chiuse gli occhi e in un attimo si addormentò profondamente. La gatta lo svegliò miagolando e zampettandogli la faccia. Dopo la doccia fece colazione, si vestì e si accinse ad uscire, si fermò un attimo davanti alla macchina. Guardò con ammirazione la mitica Citroen Ds Pallas, vecchia ma con la carrozzeria pulita e scintillante. Mise in moto ed usci in strada assaporando l’aria frizzante che entrava dal finestrino abbassato. Dieci minuti dopo accostava al marciapiedi dove Sandra e Giovanna aspettavano impazienti. Le fece salire e riparti lentamente. “Questa macchina è un cimelio” disse Sandra sorridendo, l’autista la guardò nello specchietto retrovisore e sogghignò. “Dove andiamo?” chiese Giovanna.
“Sorpresa” fu la risposta. E ripartirono con le ragazze che s’interrogavano con lo sguardo e sorridevano divertite. Le ultime sparute case della città non erano più visibili e la macchina procedeva tranquilla sulla strada quando il silenzio fu interrotto dall’autista che, rallentando leggermente, disse “Questa è una macchina particolare” fece una pausa ad effetto e riprese “può viaggiare nel tempo” dopo un attimo di incredulità le ragazze si misero a ridere credendo che le stesse prendendo in giro, ma lui continuò “può viaggiare nel tempo, ma non riesco a programmare l’epoca, in pratica sceglie lei dove portarmi“.
“Stai scherzando?” disse Sandra
“Assolutamente no” rispose, e il silenzio scese fra di loro. Intanto la macchina abbandonò la strada principale e prese una deviazione a destra dove la carreggiata si restrinse decisamente fino a ridursi talmente da permettere il passaggio di una sola vettura, mentre ai lati la vegetazione si faceva sempre più fitta. Improvvisamente si trovarono dentro una vera e propria galleria formata dai rami intrecciati degli alberi che costeggiavano la stradina. La volta inestricabile di legno e foglie impediva quasi totalmente alla luce di filtrare. Continuarono in silenzio guardando meravigliati quel tunnel magico di vegetazione. All’uscita della galleria una fitta nebbia li avvolse in un abbraccio umido e ovattato. Incredula e con voce flebile Giovanna chiese: “ma dove siamo?”
Nessuno parlò. Dopo un lungo rettilineo la strada raggiunse un crocevia, l’autista svoltò a sinistra e proseguì sicuro. Alcune case apparvero e una città prese forma davanti ai loro occhi. In lontananza apparve una alta torre, subito occultata da un lungo viale alberato di cipressi. Una piazza vuota e silenziosa li accolse. Sandra rimase perplessa nel non rivedere la torre vista precedentemente. Sembrava fosse sparita misteriosamente. Si girò e anche il viale appena percorso non era più visibile, al suo posto sorgeva un enorme caseggiato grigio. Sembrava una stazione ferroviaria. Anche Giovanna manifestava un evidente preoccupazione. Sembrava che la città si modificasse continuamente. Come un serpente che fa la muta. “Cosa sta succedendo?” chiese Giovanna
“Non riesco a capire dove ci troviamo. Non riconosco questa città“. Rispose Sandra.
L’autista rimase in silenzio mantenendo la concentrazione sulla guida. Macchine strane e dalla linea sorpassata circolavano nelle vie. L’autista riconobbe la Cinquecento, l’Alfa Romeo Giulia, il Maggiolone, la Lambretta e una Fiat 1500, e con piglio sicuro disse: “ragazze, dalle targhe delle macchine si direbbe che siamo a Torino e credo che siamo tornati negli anni 60“.
Percorsero parecchie vie, persero l’orientamento per il continuo modificarsi della città, finché non videro una piazza e decisero di parcheggiare in una piccola via adiacente. Scesero dalla macchina, rifecero il percorso a piedi, ma quando svoltarono si accorsero che un giardino con delle alti siepi si trovava esattamente dove un attimo prima vi era la piazza. Guardandosi intorno Sandra indicò un campanile che s’intravedeva dietro il giardino. Cercarono con lo sguardo la strada che avrebbero dovuto prendere aggirando il giardino, ma l’unico passaggio visibile era il giardino stesso. L’ingresso aveva un cancello socchiuso. Lo aprirono ma prima di entrare l’autista disse: “Questo ha tutta l’aria di essere un labirinto, per non perderci seguitemi e vedrete che ne usciremo“. Entrarono nel giardino e l’uomo appoggiò la mano alla siepe che dava verso l’esterno e incominciò a camminare, seguito dalle ragazze, senza togliere la mano. Lungo il percorso incontrarono uno scoiattolo che invece di scappare li seguì tranquillo ed incuriosito. Sembrava che li stesse scortando. Apparve anche un gatto che si accodò allo scoiattolo. Dopo qualche minuto anche un pappagallo variopinto si unì alla compagnia e tutti quanti in fila indiana camminavano in silenzio. Accompagnarono la siepe per tutto il percorso finché, dopo un lungo andare, arrivarono all’uscita e finalmente un sorriso alleggerì la tensione. Si guardarono in giro e videro da lontano un bar che attirò la loro attenzione. Sandra disse: “ragazze ma quello non è un Caffè Letterario?”
“Sembra anche a me, andiamo a vedere” confermò Giovanna. Percorsero pochi metri e si trovarono effettivamente davanti al locale. L’autista fece segno alle ragazze di aspettare un attimo, e aperta la porta, entrò nel locale dove una cappa di fumo denso come nebbia lo accolse. Si guardò in giro e la sua attenzione fu catturata da qualcosa. Con passo noncurante si avvicinò ad un tavolo dove un giornale faceva bella mostra. Lesse il titolo: era il Menabò numero 6. Uscì dal locale e avvicinatosi alle ragazze disse:<<siamo nel 1963 e dentro ci sono delle persone che credo di aver riconosciuto. Un sorriso increspò le sue labbra contagiando anche le ragazze che ascoltavano attente. Giovanna propose di entrare e in silenzio, per non attirare troppo l’attenzione, i tre fecero l’ingresso nel locale. Videro della persone sedute ai tavoli. Un uomo, dall’aspetto fragile ed ossuto, con le sopracciglia folte e scure parlava con un altro uomo e scriveva su un pezzo di carta appoggiato sulle ginocchia. “Quello seduto che scrive è Italo Calvino, mentre quello in piedi è Elio Vittorini” bisbigliò l’autista alle ragazze. “La rivista che c’è su quel tavolo si chiama Menabò ed è stata fondata da loro due” disse indicando con lo sguardo il tavolo a qualche metro di distanza., quindi proseguì dicendo “Se siamo nel 1963 Calvino ha già scritto la trilogia che conosciamo, mentre Vittorini ha scritto ‘Uomini e no‘ sulla Resistenza, quello seduto in fondo al locale invece è Carlo Cassola” proseguì l’autista “ha scritto pochi anni fa ‘La ragazza di Bube’” I tre nel frattempo si avvicinarono ad un tavolo, dove un nano vestito elegantemente ascoltava attentamente un uomo con la pipa, e fecero in tempo a sentire: “..la felicità di immaginare i boschi incantati di Ombrosa che digradano verso il mare, o arrampicarsi sugli alberi di ramo in ramo, in questo modo Cosimo si allontana dalla vita terrena e osserva la realtà“. Dopo aver tirato uno sbuffo di fumo azzurrino, l’uomo guardò compiaciuto il nano che annuiva verso il suo interlocutore. “Quello con la pipa è Umberto Eco” disse sottovoce l’autista mentre i tre si allontanavano lentamente. Ad un altro tavolo una donna, con dei lunghi capelli ricci e corvini e con un prosperoso seno, leggeva dei tarocchi ad una gallina che continuava a becchettare le carte man mano che venivano svelate. “Insomma Lucia lasciami finire di guardare tutte le carte” disse la donna infastidita dall’impazienza della gallina.
“Non ho molto tempo” rispose Lucia con la sua strana voce “Devo fare l’uovo e sento che mi manca poco” Nel frattempo l’autista e le ragazze si avvicinarono all’uomo che scriveva. “Voglio parlare con Calvino” disse a bassa voce Giovanna, e con passo deciso si avvicinò allo scrittore attirando la sua attenzione. “Mi scusi se la disturbo” fece “ma vorrei chiederle come mai ha deciso di ripubblicare in un volume unico la sua trilogia del Visconte, del Barone e del Cavaliere?” Calvino smise di scrivere, guardò un attimo il cristallo appoggiato sul tavolo, alzò gli occhi verso la ragazza, e con quel viso stretto e troppo piccolo su quel collo lungo con voce baritonale disse con una leggera balbuzia: “Perché, cara ragazza, sebbene li abbia scritti nell’arco di 7 anni, ritengo che le storie siano legate da un filo invisibile” La loro attenzione fu attirata improvvisamente dallo schiamazzare della gallina. Il locale divenne una pista dove il barista rincorreva il pennuto. “Un uovo solo non basta” urlava con voce stentorea l’uomo.
“Io faccio quello che posso” replicava la gallina facendo volare alcune piume nell’aria “non sono un jukebox dove metti una moneta e senti la canzone” Ormai l’attenzione dei presenti era stata catturata da quella situazione comica e paradossale. “Intanto prendi questo uovo ed accontentati“.
“Va bene, ma cerca di impegnarti di più la prossima volta” concluse il barista raccogliendo l’uovo che nel frattempo era rotolato sotto una sedia, e desistendo dal rincorrere la gallina che nel frattempo era tornata sul tavolo dove la ragazza smazzava continuamente i tarocchi.
“Come si chiama il vostro accompagnatore?” chiese Calvino alle ragazze.
“Per dire la verità non lo sappiamo, di solito lo chiamiamo ‘barbabianca’ vista la sua caratteristica più evidente” rispose Sandra.
“E’ strano, ma mi fa venire in mente uno che si chiama: Qfwqf. E anche di lui non si sapeva niente“. replicò lo scrittore. Mentre “barbabianca” sfogliava il Menabò, i tre continuarono a discutere. “Non è detto che le fiabe debbano esser destinate solo alla fantasia dei bambini, la fiaba riguarda anche gli adulti. I personaggi e le immagini delle fiabe rimangono nella memoria e alimentano la fantasia della gente, piccoli e grandi.” concluse lo scrittore.
Giunse il momento di ritornare a casa. Si salutarono e si accinsero ad uscire dal locale quando Calvino disse: “La vita di ognuno è un’enciclopedia, e la fiaba fa parte della nostra vita, senza non potremmo vivere“. un sorriso increspò il viso di tutti e con un cenno della mano si salutarono. Uscirono dal locale che ormai la sera incombeva. Non riconobbero il posto. Quella parte di città era nuovamente cambiata. Cercarono il campanile senza riuscire a trovarlo, e neanche il giardino labirintico era più visibile. “Proviamo a tornare nel Caffè Letterario e chiediamo quale strada prendere” disse Sandra. La nebbia non facilitava la ricerca, ma il caffè sembrava non esserci più. L’autista vide un passante con un cane e chiese: “Mi scusi ma non c’è un caffè letterario in questa zona?”
“Guardi che sono quarant’anni che abito in questa zona e non ho mai visto un Caffè Letterario“.
“E un giardino con un labirinto?” chiese Giovanna
“Il giardino più vicino si trova a quasi un chilometro di distanza, e comunque non è un labirinto, forse avete sbagliato zona, mi dispiace di non potervi aiutare. Andiamo Bobo” disse l’uomo al cane e ripresero la passeggiata. “Cosa volevano quei signori?” chiese il cane con una voce simile ad un brontolio. “Un indicazione, ma secondo me si sono persi nella città” rispose l’uomo. I tre si guardarono perplessi, ma dopo aver sentito parlare la gallina niente li avrebbe più stupìti. Grazie al senso di orientamento di ‘barbabianca’ riuscirono a ritrovare la macchina, però girarono a vuoto per parecchie ore. Vie, piazze, palazzi e chiese mutavono con velocità sorprendente, sembrava che la città volesse giocare loro. All’improvviso la nebbia si diradò e silenziosa e lieve come un’arpista che pizzica le corde, la notte apparve con la sua coperta scura e stellata, e davanti alla macchina apparve un cartello che indicava la direzione per uscire dalla città. Tirarono un sospiro di sollievo, si rilassarono e mentre l’autista guidava le ragazze sopraffatte dalla stanchezza si addormentarono e non si accorsero del passaggio nella galleria di rami intrecciati. Si risvegliarono quando la macchina costeggiava il lungomare e batuffoli di nubi delle tonalità dell’arancio rubavano il cielo all’azzurro riflettendosi sul mare appena screziato da onde pigre.
Scrisse tutta la notte, e la stanchezza ormai si vedeva sul viso scavato. Diede un ultimo sguardo al foglio, spense la luce. “Amo le fiabe” disse e andò a dormire.
Tutto ciò che fa cultura. Blog di Sandra Pauletto e Alberto Zanini & Co.
Come fu e come non fu, andò a finire che correvano tutti. Praticamente non camminava quasi più nessuno.
“È il momento di farci sentire!” tuonò il rappresentante dei passi che nel frattempo, preoccupati per il loro destino, si erano riuniti in assemblea permanente.
“Se andiamo avanti così, di questo passo appunto, verremo dimenticati” poi aggiunse, “serve qualcosa di forte!”
“E cosa possiamo fare?” domandarono tutti gli altri passi.
“Proclamiamo lo sciopero e andiamoci a nascondere.”
Tutti i passi aderirono allo sciopero e, un passo alla volta, sparirono dalla circolazione.
A quel punto nessuno riuscì più a rallentare. Fare un passo alla volta diventò impossibile: potevi star fermo oppure correre velocissimo. Non c’erano vie di mezzo. Non si potevano fare i passi più lunghi della gamba e neanche i passi a due. Si poteva andare solo di corsa. E basta.
“Ma così ci perdiamo un sacco di cose belle,” fece notare il rappresentante degli umani, correndo da una parte all’altra, “abbiamo imparato la lezione.”
A quel punto tutti i passi tornarono sui loro passi e un passo alla volta, le cose belle finirono per essere notate, apprezzate e vissute nuovamente da tutti. Piano piano.
Due cavalli tiravano ognuno il proprio carro. Il primo cavallo non si fermava mai; ma l’altro sostava di continuo. Allora tutto il carico venne messo sul primo carro. Il cavallo che era dietro e che ormai tirava un carro vuoto, disse sentenzioso al compagno: ” Vedi? Tu fatichi e sudi! Ma più ti sforzerai, più ti faranno faticare.”
Quando arrivarono a destinazione, il padrone si disse:
” Perché devo mantenere due cavalli! Mentre uno solo basta a trasportare i miei carichi?"
"Meglio sarà nutrir bene l’uno, e ammazzare l’altro; ci guadagnerò almeno la pelle del cavallo ucciso! “
E così fece…
Ritratto di Lev Tolstoj, olio su tela di Nikolai Gee
Lev Nikolàevič Tolstòj, è stato uno scrittore, filosofo e attivista sociale russo. Divenuto celebre in patria grazie a una serie di racconti giovanili sulla realtà della guerra, il nome di Tolstoj acquisì presto risonanza mondiale per il successo dei romanzi Guerra e pace e Anna Karenina, a cui seguirono altre sue opere narrative sempre più rivolte all’introspezione dei personaggi e alla riflessione morale. La fama di Tolstoj è legata anche al suo pensiero pedagogico, filosofico e religioso, da lui espresso in numerosi saggi e lettere che ispirarono, in particolare, la condotta nonviolenta dei tolstoiani e del Mahatma Gandhi.