“La protesta dei grilli”, racconto di Sabino Napolitano (dal sito racconticon.it)

A Roma, quella sera di maggio la primavera baciava con insolita dolcezza i giardini di Villa Borghese. Sulla chioma del grande leccio era convocata l’assemblea plenaria del Gran Consiglio della World Cricket Organization, che riuniva i rappresentanti di tutte le sottospecie della famiglia delle Gryllidae, provenienti da tutto il mondo, con all’ordine del giorno un unico argomento: azioni urgenti per contrastare l’estinzione della specie. La notizia era apparsa sui principali quotidiani degli umani che si erano già impossessati di molte larve di grillo e le avevano rinchiuse in appositi allevamenti nei quali i malcapitati erano condannati a riprodursi e poi ad essere eliminati in un processo di trasformazione per ottenere farina per la produzione di pane, pasta, biscotti e simili, di cui peraltro gli umani erano molto ghiotti. Alla convocazione urgente, diramata dal presidente, il Grillo Parlante, avevano risposto tutti i membri del Gran Consiglio, convinti che non fosse più possibile procrastinare una presa di posizione ferma, prima che la situazione divenisse irrecuperabile. Erano infatti ormai trascorsi più di dieci anni da quando la società degli umani aveva stabilito di cibarsi di insetti e la specie delle Gryllidae era stata inclusa tra quelle ritenute edibili. Erano presenti due rappresentanti della sottospecie dei grilli campestri, detti anche grilli canterini, con la pelle di colore scuro, il corpo tozzo e le ali, con il classico colore che dal giallo sfuma verso il marrone scuro e il nero, che, anche se non sono utilizzate per volare, sono indispensabili per il maschio che le sfrega per ottenere il famoso cri-cri che anima i campi nelle belle serate estive. C’erano i rappresentanti dei grilli domestici, detti anche i grilli del focolare con il corpo di colore giallo tendente al marrone, maggiormente slanciato rispetto ai grilli campestri, che vivono nelle crepe dei muri delle case di campagna e si cibano di provviste alimentari, stoffe o lana. C’erano anche rappresentanti di altre specie di insetti, che avevano portato la loro solidarietà agli amici grilli. Così, le cicale avevano mandato una loro delegazione di tre rappresentanti; si erano messe un po’ in disparte in un angolo e avevano lo sguardo triste, perché la stagione estiva si approssimava e poi sarebbe arrivato l’autunno a porre fine alla loro breve esistenza; quella forse sarebbe stata la loro ultima missione. Avevano di che pensare al loro triste destino, ma non avevano voluto esimersi dal portare la loro solidarietà agli amici grilli, con i quali dividevano l’animazione delle giornate degli umani: infatti ai grilli era demandato il compito di far risuonare il loro poetico canto nelle notti d’estate, mentre le cicale scatenavano la loro frenetica musica durante le assolate ore della giornata. Alle cicale gli umani avevano riservato una parte nelle favole per i bambini, anche se a loro era sempre riservato il ruolo dei fannulloni, di quelli che stanno sempre lì a cantare e a divertirsi senza preoccuparsi di rendersi utili e di lavorare, per provvedere alle necessità famigliari, mentre riservavano la bella figura a quelle antipatiche delle formiche, sempre impegnate ad alzarsi presto la mattina e mettersi lì a lavorare tutto il santo giorno senza godersi la vita. Eh, già! Che ne sanno della vita quelle secchione delle formiche? C’era poi un nutrito gruppo di rappresentanti delle cavallette che erano molto interessate alla discussione che si sarebbe sviluppata, considerando che loro erano diventate cibo per gli umani anni prima dei grilli e avevano già tentato con scarso successo di ribellarsi, infestando i campi e le colture. Purtroppo per loro però, gli umani avevano sviluppato armi micidiali per combattere questa loro sollevazione e ormai quasi si stavano rassegnando al loro triste destino. Eh, ormai non erano più i tempi delle piaghe d’Egitto: allora erano state loro ad infliggere agli umani una dura punizione, che se la sarebbero ricordata per secoli e qualcuno avrebbe tramandato nei libri; cosa che, del resto, era avvenuta. Chissà che i cugini grilli non avessero qualche idea brillante da suggerire. C’erano anche due rappresentanti delle api con i loro eleganti abiti tradizionali gialli e neri. Per la verità, avevano un atteggiamento che appariva un tantino sussiegoso, forse perché, pur se anche loro erano a rischio estinzione, avevano trovato presso gli umani intere categorie di persone che si erano mobilitate a lanciare campagne per la salvaguardia delle api con la storia del mantenimento della biodiversità e della conservazione della natura, che per gli umani parevano di grande importanza. Addirittura c’era chi sosteneva che, se le api si fossero estinte, l’intero mondo avrebbe potuto smettere di funzionare e sarebbe andato incontro alla sua fine. Si sosteneva che la nascita di nuovi germogli e la produzione continua da parte della natura siano possibili solo grazie all’impollinazione, che appunto le api sono in grado di garantire. Persino l’ONU, un’importante organizzazione degli umani a livello mondiale, si era mossa per promuovere una giornata apposita da dedicare alla salvaguardia delle api. Che bella fortuna! Purtroppo, non siamo tutti uguali! Anche nel mondo degli animali c’è chi ha tutto e chi non ha niente … o quasi. Beh, a dire il vero, c’erano pure quelle antipatiche delle mosche, così testarde e fastidiose. Nei secoli, gli umani se ne erano inventate di tutti i colori per togliersele di torno: dalla carta moschicida al flit, ma niente, non c’era stato verso e ormai pareva che avessero deciso, pur a malincuore di tollerarle, limitandosi a scacciarle con appositi ventagli o anche con un semplice movimento della mano. Comunque, anche i rappresentanti delle mosche furono ammessi di buon grado a partecipare all’assemblea, considerando il fatto che la gravità della situazione imponeva la maggior unità possibile per contrastare i piani degli umani. In realtà, all’assemblea era presente, in via eccezionale, anche un rappresentante, un po’ particolare, degli umani: il Grillo Parlante in persona aveva voluto invitare Pinocchio, che, pur essendo un burattino, magari avrebbe potuto spiegare meglio agli umani le istanze dei grilli. Il Grillo Parlante l’aveva fatto accomodare accanto a lui, pur se si rendeva conto degli sguardi torvi che tutti gli rivolgevano e benché sapesse benissimo che Pinocchio era un tipo che aveva la testa dura ed era refrattario a seguire i suggerimenti di chi era più saggio di lui. Quando tutti i partecipanti all’assemblea si furono sistemati, il Grillo Parlante tenne la sua relazione e, in chiusura, disse: «Per avere qualche probabilità di spingere gli umani a cambiare atteggiamento nei nostri confronti, avremo bisogno del contributo di tutti voi, amici! Noi da soli non ce la potremmo fare. Dobbiamo fare in modo che gli umani comprendano che, senza gli insetti, ciascuno con le proprie caratteristiche, il mondo sarebbe più brutto e magari potrebbe anche autodistruggersi. Chiedo quindi a ciascuno di mettere in atto ogni azione che possa spingere al raggiungimento di questo obiettivo». Quando il Grillo Parlante terminò la sua relazione, si diffuse tutt’intorno un gran brusìo: i rappresentanti delle varie specie d’insetti si chiedevano cosa avrebbero potuto fare per la causa comune, ma avevano anche timore di quali avrebbero potuto essere le reazioni degli umani, che possedevano armi molto potenti contro le quali sarebbe stato difficile opporsi, senza subire gravi perdite. I gruppi dei rappresentanti delle varie specie d’insetti si riunirono in punti diversi per discutere tra loro e concordare il contributo che ciascuno avrebbe potuto portare alla protesta dei grilli. Dopo animate discussioni in quasi tutti i gruppi, alla ripresa dei lavori, ciascuno presentò la sua proposta, ad eccezione delle api, che non volevano scatenare una reazione degli umani contro di loro, proprio adesso che il loro atteggiamento nei confronti delle api era diventato così favorevole ed erano in corso colloqui di pace con l’Ape Regina. Si stabilì che il Grillo Parlante in persona avrebbe assunto la guida dell’operazione speciale che avrebbe avuto inizio entro la fine del mese e avrebbe avuto il nome in codice di “La mossa del grillo”. Il primo giorno del mese successivo l’operazione speciale ebbe inizio. Senza che i sistemi di sorveglianza degli umani potessero rilevarli, stormi di cavallette, con un’azione coordinata, piombarono inattesi sui raccolti dei campi distruggendoli. Le cicale organizzarono turni anche notturni durante i quali perpetravano incessantemente il loro frinire, così che nessun umano riusciva più a dormire e tutti si trascinavano stancamente come ‘zombie’ senza riuscire nemmeno a lavorare. Le mosche si divisero in piccole squadre di sabotatori che planavano in picchiata sui piatti degli umani mentre stavano mangiando, arrivando a lambire il cibo con il loro corpo schifoso, mentre altre squadriglie arrivavano improvvise e insistenti a sfiorare il viso degli umani mentre stavano per prendere sonno o si crogiolavano al sole sulla spiaggia. Molte altre azioni di disturbo furono messe in atto contemporaneamente da tutte le altre specie di insetti, così che la vita degli umani era diventata faticosa e problematica, ma il colpo più duro venne dall’azione decisa dei grilli, che all’unisono smisero di cantare le loro dolci melodie nelle notti d’estate, così che gli umani innamorati non potevano più fare i loro sogni più belli e trovare l’ispirazione per le loro parole d’amore. Il Grillo Parlante da parte sua ordinò a tutti i grilli delle favole per bambini di ritirare la loro presenza e lui stesso scomparve dalla favola di Pinocchio; tutti gli altri insetti delle fiabe fecero la stessa cosa, così che tutti i libri di favole erano diventati illeggibili e nessun bambino alla sera riusciva più ad addormentarsi, perché nessun genitore riusciva più a leggere una favola prima di dormire e tutti i bambini ormai piangevano senza sosta. Insomma, tra bambini che piangevano e cicale che frinivano anche di notte, gli umani non riuscivano proprio più a raccapezzarsi. I bambini organizzarono anche cortei di protesta contro la legislazione che consentiva l’utilizzo degli insetti come cibo, perché, sostenevano, degli insetti c’era più bisogno nei campi e nelle favole; per la farina e altri scopi c’erano già il grano e i cereali e insomma ce n’era d’avanzo, senza bisogno di distruggere la bellezza delle favole e della natura. Incominciarono così un po’ dovunque nei vari paesi le interrogazioni parlamentari e le mozioni per cercare di risolvere la situazione … Mattia si svegliò di soprassalto e si girò subito verso il comodino, allungando la mano verso il libro che raccontava le avventure di Pinocchio; lo aprì e incominciò a sfogliarlo con il cuore in gola … Mah! Sembrava tutto a posto; le pagine erano complete, come la sera precedente quando la mamma gli aveva letto qualche pagina prima di dormire. Ma allora … era stato solo un brutto sogno? Si alzò contento e andò in cucina a fare colazione; la mamma aveva già preparato il latte e i biscotti. Mattia si sedette e … «Con cosa sono fatti questi biscotti?» chiese alla mamma sospettoso. «Con la farina e il latte e le uova e … ma perché me lo chiedi?» fece la mamma stupita. «E … la farina … di cosa è fatta?» chiese ancora lui. «Di grano;» rispose la mamma sorridendo «di cosa vuoi che sia fatta?».

Sabino Napolitano è nato in un piccolo paese della provincia di Ferrara ed è cresciuto ad Andria, in Puglia, dove oggi vive con la famiglia. Ingegnere elettronico, dopo 40 anni tra sistemi informativi e management aziendale, scopre che gli è rimasta una voglia inespressa: quella di raccontare storie. Nel 2022 ha pubblicato il suo primo romanzo thriller dal titolo “Il destino del calamaro” per i tipi di PAV Edizioni. Nel 2023 il suo nuovo romanzo giallo inedito “Caccia all’uomo nero” è stato vincitore per il “miglior personaggio non protagonista” alla 4ª edizione del concorso letterario nazionale Giallo Festival 2022. Con il racconto fantastico “La protesta dei grilli” è stato finalista del Concorso “Fuga dalla realtà… con gli occhi della fantasya”.

“Non ho nemici, disse la vecchietta al termine dell’omelia”, un racconto di anonimo pubblicato in facebook

Una vecchia signora in una veste nera mette un’offerta in una piccola ciotola sotto l’immagine di un santo in una chiesa. Olio su tela Firmato “Hübner”

Alla messa di domenica, il parroco ha chiesto ai fedeli, al termine dell’omelia:

“Quanti di voi sono riusciti a perdonare i propri nemici?”
Tutti hanno alzato la mano, tranne una vecchietta in seconda fila.

“Maria, tu non sei disposta a perdonare i tuoi nemici?”, chiese il parroco.
“Non ho nemici”, rispose dolcemente.

“Questo è molto raro!!!” – disse il prete. “Quanti anni hai?”

“108 anni”.
Tutti i presenti si sono alzati ed hanno applaudito a lungo la piccola signora.

“Vieni a dirci come vivere 108 anni e non avere nemici” disse il parroco.
La vecchia si alza a fatica, va all’altare, con mani tremanti tiene il microfono e, guardando l’assemblea, tutta commossa, dice:

“Sono tutti morti, quei figli di puttana!!!”

“NO MORE WAR”, lirica di pace di Graziano Gessi, narratore e poeta in Piacenza (#sempredallapartedellapace)

No More War by BenHeine on DeviantArt

Mentre impari a scrivere, pensi di poter dire la tua, ma impari solo ad ubbidire.

Scrivi, scrivi, scrivi, metti in fila tutte le lettere, riempi i quadretti, una pagina di A una di B e cosi fino alla Z.

Fai tutto con attenzione, resta nei margini non uscire dai bordi.

E poi diventi grande, e sei abituato ad obbedire.

Sai leggere e scrivere, ma è solo illusione, stai in fila, allineato e coperto, resta nel mucchio, resta inquadrato, marcia compatto, fai come ti viene ordinato e non discutere.

Ora combatti, colpisci, uccidi, non ti fare domande, non ti chiedere il perché.

Marcia compatto verso il tuo destino, esegui gli ordini, fai il tuo dovere, così è sempre stato, cosi è, e cosi sarà sempre.

Dalle pietre alle lance, dalle lance alle spade, dalle spade ai fucili, dai fucili ai cannoni e poi aerei, carri armati, missili, le “BOMBE” sono diventate intelligenti.

Ma l’uomo è rimato gretto ed ignorante, e privo di memoria.

Cosi che dopo millenni, siamo passati dalle pietre, alle bombe intelligenti, ed intere città si sgretolano come castelli di sabbia seppellendo vite.

Usciamo dai ranghi, rompiamo le righe, urliamo il dissenso.

Ricordiamo il passato e cambiamo il futuro.

NO MORE WAR

ALL WE NEED IS LOVE ( after the Beatles and Banksy ) di Thomas Dellert

“La vita é una fiaba”, racconto di Alberto Zanini, scrittore in Piacenza BorgoTrebbia, dal blog ‘I gufi narranti’

Racconto contenuto nell’antologia ” La voce del cuore” assieme agli altri finalisti del concorso letterario “Oceano di carta ed. 2016” in vendita presso il sito della casa editrice Sensoinverso

Sfogliò il Pentamerone di Giovanni Basile, rimase un attimo con la penna sospesa sul foglio di carta, dal terrazzo il suo sguardo abbracciò il mare, che schiumoso s’infrangeva sugli scogli, quindi mise ordine ai suoi pensieri e riprese a scrivere.

La notte passata a lavorare sulla vettura, era stata lunga e faticosa. L’ennesima. Le contò mentalmente, otto notti, ma finalmente aveva finito. Aveva gli occhi arrossati dalla stanchezza, spense la luce e si chiuse la porta alle spalle. In cucina si versò, nella tazza azzurra l’ultimo goccio di caffè ormai freddo e lo bevve, prese una mela e l’addentò, quindi si stese sul letto, chiuse gli occhi e in un attimo si addormentò profondamente. La gatta lo svegliò miagolando e zampettandogli la faccia. Dopo la doccia fece colazione, si vestì e si accinse ad uscire, si fermò un attimo davanti alla macchina. Guardò con ammirazione la mitica Citroen Ds Pallas, vecchia ma con la carrozzeria pulita e scintillante. Mise in moto ed usci in strada assaporando l’aria frizzante che entrava dal finestrino abbassato. Dieci minuti dopo accostava al marciapiedi dove Sandra e Giovanna aspettavano impazienti. Le fece salire e riparti lentamente. “Questa macchina è un cimelio” disse Sandra sorridendo, l’autista la guardò nello specchietto retrovisore e sogghignò. “Dove andiamo?” chiese Giovanna.

Sorpresa” fu la risposta. E ripartirono con le ragazze che s’interrogavano con lo sguardo e sorridevano divertite. Le ultime sparute case della città non erano più visibili e la macchina procedeva tranquilla sulla strada quando il silenzio fu interrotto dall’autista che, rallentando leggermente, disse “Questa è una macchina particolare” fece una pausa ad effetto e riprese “può viaggiare nel tempo” dopo un attimo di incredulità le ragazze si misero a ridere credendo che le stesse prendendo in giro, ma lui continuò “può viaggiare nel tempo, ma non riesco a programmare l’epoca, in pratica sceglie lei dove portarmi“.

Stai scherzando?” disse Sandra

Assolutamente no” rispose, e il silenzio scese fra di loro. Intanto la macchina abbandonò la strada principale e prese una deviazione a destra dove la carreggiata si restrinse decisamente fino a ridursi talmente da permettere il passaggio di una sola vettura, mentre ai lati la vegetazione si faceva sempre più fitta. Improvvisamente si trovarono dentro una vera e propria galleria formata dai rami intrecciati degli alberi che costeggiavano la stradina. La volta inestricabile di legno e foglie impediva quasi totalmente alla luce di filtrare. Continuarono in silenzio guardando meravigliati quel tunnel magico di vegetazione. All’uscita della galleria una fitta nebbia li avvolse in un abbraccio umido e ovattato. Incredula e con voce flebile Giovanna chiese: “ma dove siamo?”

Nessuno parlò. Dopo un lungo rettilineo la strada raggiunse un crocevia, l’autista svoltò a sinistra e proseguì sicuro. Alcune case apparvero e una città prese forma davanti ai loro occhi. In lontananza apparve una alta torre, subito occultata da un lungo viale alberato di cipressi. Una piazza vuota e silenziosa li accolse. Sandra rimase perplessa nel non rivedere la torre vista precedentemente. Sembrava fosse sparita misteriosamente. Si girò e anche il viale appena percorso non era più visibile, al suo posto sorgeva un enorme caseggiato grigio. Sembrava una stazione ferroviaria. Anche Giovanna manifestava un evidente preoccupazione. Sembrava che la città si modificasse continuamente. Come un serpente che fa la muta. “Cosa sta succedendo?” chiese Giovanna

Non riesco a capire dove ci troviamo. Non riconosco questa città“. Rispose Sandra.

L’autista rimase in silenzio mantenendo la concentrazione sulla guida. Macchine strane e dalla linea sorpassata circolavano nelle vie. L’autista riconobbe la Cinquecento, l’Alfa Romeo Giulia, il Maggiolone, la Lambretta e una Fiat 1500, e con piglio sicuro disse: “ragazze, dalle targhe delle macchine si direbbe che siamo a Torino e credo che siamo tornati negli anni 60“.

Percorsero parecchie vie, persero l’orientamento per il continuo modificarsi della città, finché non videro una piazza e decisero di parcheggiare in una piccola via adiacente. Scesero dalla macchina, rifecero il percorso a piedi, ma quando svoltarono si accorsero che un giardino con delle alti siepi si trovava esattamente dove un attimo prima vi era la piazza. Guardandosi intorno Sandra indicò un campanile che s’intravedeva dietro il giardino. Cercarono con lo sguardo la strada che avrebbero dovuto prendere aggirando il giardino, ma l’unico passaggio visibile era il giardino stesso. L’ingresso aveva un cancello socchiuso. Lo aprirono ma prima di entrare l’autista disse: “Questo ha tutta l’aria di essere un labirinto, per non perderci seguitemi e vedrete che ne usciremo“. Entrarono nel giardino e l’uomo appoggiò la mano alla siepe che dava verso l’esterno e incominciò a camminare, seguito dalle ragazze, senza togliere la mano. Lungo il percorso incontrarono uno scoiattolo che invece di scappare li seguì tranquillo ed incuriosito. Sembrava che li stesse scortando. Apparve anche un gatto che si accodò allo scoiattolo. Dopo qualche minuto anche un pappagallo variopinto si unì alla compagnia e tutti quanti in fila indiana camminavano in silenzio. Accompagnarono la siepe per tutto il percorso finché, dopo un lungo andare, arrivarono all’uscita e finalmente un sorriso alleggerì la tensione. Si guardarono in giro e videro da lontano un bar che attirò la loro attenzione. Sandra disse: “ragazze ma quello non è un Caffè Letterario?”

Sembra anche a me, andiamo a vedere” confermò Giovanna. Percorsero pochi metri e si trovarono effettivamente davanti al locale. L’autista fece segno alle ragazze di aspettare un attimo, e aperta la porta, entrò nel locale dove una cappa di fumo denso come nebbia lo accolse. Si guardò in giro e la sua attenzione fu catturata da qualcosa. Con passo noncurante si avvicinò ad un tavolo dove un giornale faceva bella mostra. Lesse il titolo: era il Menabò numero 6. Uscì dal locale e avvicinatosi alle ragazze disse:<<siamo nel 1963 e dentro ci sono delle persone che credo di aver riconosciuto. Un sorriso increspò le sue labbra contagiando anche le ragazze che ascoltavano attente. Giovanna propose di entrare e in silenzio, per non attirare troppo l’attenzione, i tre fecero l’ingresso nel locale. Videro della persone sedute ai tavoli. Un uomo, dall’aspetto fragile ed ossuto, con le sopracciglia folte e scure parlava con un altro uomo e scriveva su un pezzo di carta appoggiato sulle ginocchia. “Quello seduto che scrive è Italo Calvino, mentre quello in piedi è Elio Vittorini” bisbigliò l’autista alle ragazze. “La rivista che c’è su quel tavolo si chiama Menabò ed è stata fondata da loro due” disse indicando con lo sguardo il tavolo a qualche metro di distanza., quindi proseguì dicendo “Se siamo nel 1963 Calvino ha già scritto la trilogia che conosciamo, mentre Vittorini ha scritto ‘Uomini e no‘ sulla Resistenza, quello seduto in fondo al locale invece è Carlo Cassola” proseguì l’autista “ha scritto pochi anni fa ‘La ragazza di Bube’” I tre nel frattempo si avvicinarono ad un tavolo, dove un nano vestito elegantemente ascoltava attentamente un uomo con la pipa, e fecero in tempo a sentire: “..la felicità di immaginare i boschi incantati di Ombrosa che digradano verso il mare, o arrampicarsi sugli alberi di ramo in ramo, in questo modo Cosimo si allontana dalla vita terrena e osserva la realtà“. Dopo aver tirato uno sbuffo di fumo azzurrino, l’uomo guardò compiaciuto il nano che annuiva verso il suo interlocutore. “Quello con la pipa è Umberto Eco” disse sottovoce l’autista mentre i tre si allontanavano lentamente. Ad un altro tavolo una donna, con dei lunghi capelli ricci e corvini e con un prosperoso seno, leggeva dei tarocchi ad una gallina che continuava a becchettare le carte man mano che venivano svelate. “Insomma Lucia lasciami finire di guardare tutte le carte” disse la donna infastidita dall’impazienza della gallina.

Non ho molto tempo” rispose Lucia con la sua strana voce “Devo fare l’uovo e sento che mi manca poco” Nel frattempo l’autista e le ragazze si avvicinarono all’uomo che scriveva. “Voglio parlare con Calvino” disse a bassa voce Giovanna, e con passo deciso si avvicinò allo scrittore attirando la sua attenzione. “Mi scusi se la disturbo” fece “ma vorrei chiederle come mai ha deciso di ripubblicare in un volume unico la sua trilogia del Visconte, del Barone e del Cavaliere?” Calvino smise di scrivere, guardò un attimo il cristallo appoggiato sul tavolo, alzò gli occhi verso la ragazza, e con quel viso stretto e troppo piccolo su quel collo lungo con voce baritonale disse con una leggera balbuzia: “Perché, cara ragazza, sebbene li abbia scritti nell’arco di 7 anni, ritengo che le storie siano legate da un filo invisibile” La loro attenzione fu attirata improvvisamente dallo schiamazzare della gallina. Il locale divenne una pista dove il barista rincorreva il pennuto. “Un uovo solo non basta” urlava con voce stentorea l’uomo.

Io faccio quello che posso” replicava la gallina facendo volare alcune piume nell’aria “non sono un jukebox dove metti una moneta e senti la canzone” Ormai l’attenzione dei presenti era stata catturata da quella situazione comica e paradossale. “Intanto prendi questo uovo ed accontentati“.

Va bene, ma cerca di impegnarti di più la prossima volta” concluse il barista raccogliendo l’uovo che nel frattempo era rotolato sotto una sedia, e desistendo dal rincorrere la gallina che nel frattempo era tornata sul tavolo dove la ragazza smazzava continuamente i tarocchi.

Come si chiama il vostro accompagnatore?” chiese Calvino alle ragazze.

Per dire la verità non lo sappiamo, di solito lo chiamiamo ‘barbabianca’ vista la sua caratteristica più evidente” rispose Sandra.

E’ strano, ma mi fa venire in mente uno che si chiama: Qfwqf. E anche di lui non si sapeva niente“. replicò lo scrittore. Mentre “barbabianca” sfogliava il Menabò, i tre continuarono a discutere. “Non è detto che le fiabe debbano esser destinate solo alla fantasia dei bambini, la fiaba riguarda anche gli adulti. I personaggi e le immagini delle fiabe rimangono nella memoria e alimentano la fantasia della gente, piccoli e grandi.” concluse lo scrittore.

Giunse il momento di ritornare a casa. Si salutarono e si accinsero ad uscire dal locale quando Calvino disse: “La vita di ognuno è un’enciclopedia, e la fiaba fa parte della nostra vita, senza non potremmo vivere“. un sorriso increspò il viso di tutti e con un cenno della mano si salutarono. Uscirono dal locale che ormai la sera incombeva. Non riconobbero il posto. Quella parte di città era nuovamente cambiata. Cercarono il campanile senza riuscire a trovarlo, e neanche il giardino labirintico era più visibile. “Proviamo a tornare nel Caffè Letterario e chiediamo quale strada prendere” disse Sandra. La nebbia non facilitava la ricerca, ma il caffè sembrava non esserci più. L’autista vide un passante con un cane e chiese: “Mi scusi ma non c’è un caffè letterario in questa zona?”

Guardi che sono quarant’anni che abito in questa zona e non ho mai visto un Caffè Letterario“.

E un giardino con un labirinto?” chiese Giovanna

Il giardino più vicino si trova a quasi un chilometro di distanza, e comunque non è un labirinto, forse avete sbagliato zona, mi dispiace di non potervi aiutare. Andiamo Bobo” disse l’uomo al cane e ripresero la passeggiata. “Cosa volevano quei signori?” chiese il cane con una voce simile ad un brontolio. “Un indicazione, ma secondo me si sono persi nella città” rispose l’uomo. I tre si guardarono perplessi, ma dopo aver sentito parlare la gallina niente li avrebbe più stupìti. Grazie al senso di orientamento di ‘barbabianca’ riuscirono a ritrovare la macchina, però girarono a vuoto per parecchie ore. Vie, piazze, palazzi e chiese mutavono con velocità sorprendente, sembrava che la città volesse giocare loro. All’improvviso la nebbia si diradò e silenziosa e lieve come un’arpista che pizzica le corde, la notte apparve con la sua coperta scura e stellata, e davanti alla macchina apparve un cartello che indicava la direzione per uscire dalla città. Tirarono un sospiro di sollievo, si rilassarono e mentre l’autista guidava le ragazze sopraffatte dalla stanchezza si addormentarono e non si accorsero del passaggio nella galleria di rami intrecciati. Si risvegliarono quando la macchina costeggiava il lungomare e batuffoli di nubi delle tonalità dell’arancio rubavano il cielo all’azzurro riflettendosi sul mare appena screziato da onde pigre.

Scrisse tutta la notte, e la stanchezza ormai si vedeva sul viso scavato. Diede un ultimo sguardo al foglio, spense la luce. “Amo le fiabe” disse e andò a dormire.

Tutto ciò che fa cultura. Blog di Sandra Pauletto e Alberto Zanini & Co.

All’assemblea, un solo grido: “Sciopero!” e così tutti i Passi, anzi un Passo alla volta, sparirono dalla circolazione. Racconto di Gero Guagliardo

Un passo alla volta

Come fu e come non fu, andò a finire che correvano tutti. Praticamente non camminava quasi più nessuno.

È il momento di farci sentire!” tuonò il rappresentante dei passi che nel frattempo, preoccupati per il loro destino, si erano riuniti in assemblea permanente.

Se andiamo avanti così, di questo passo appunto, verremo dimenticati” poi aggiunse, “serve qualcosa di forte!

E cosa possiamo fare?” domandarono tutti gli altri passi.

Proclamiamo lo sciopero e andiamoci a nascondere.

Tutti i passi aderirono allo sciopero e, un passo alla volta, sparirono dalla circolazione.

A quel punto nessuno riuscì più a rallentare. Fare un passo alla volta diventò impossibile: potevi star fermo oppure correre velocissimo. Non c’erano vie di mezzo. Non si potevano fare i passi più lunghi della gamba e neanche i passi a due. Si poteva andare solo di corsa. E basta.

Ma così ci perdiamo un sacco di cose belle,” fece notare il rappresentante degli umani, correndo da una parte all’altra, “abbiamo imparato la lezione.

A quel punto tutti i passi tornarono sui loro passi e un passo alla volta, le cose belle finirono per essere notate, apprezzate e vissute nuovamente da tutti. Piano piano.

“I due cavalli”, saggia e bella favola di Lev Tolstoj

Due cavalli tiravano ognuno il proprio carro. 
Il primo cavallo non si fermava mai; ma l’altro sostava di continuo. Allora tutto il carico venne messo sul primo carro. Il cavallo che era dietro e che ormai tirava un carro vuoto, disse sentenzioso al compagno: ” Vedi? Tu fatichi e sudi! Ma più ti sforzerai, più ti faranno faticare.”
Quando arrivarono a destinazione, il padrone si disse:
” Perché devo mantenere due cavalli! Mentre uno solo basta a trasportare i miei carichi?"
"Meglio sarà nutrir bene l’uno, e ammazzare l’altro; ci guadagnerò almeno la pelle del cavallo ucciso! “  

E così fece…

Ritratto di Lev Tolstoj, olio su tela di Nikolai Gee

Lev Nikolàevič Tolstòjè stato uno scrittore, filosofo e attivista sociale russo. Divenuto celebre in patria grazie a una serie di racconti giovanili sulla realtà della guerra, il nome di Tolstoj acquisì presto risonanza mondiale per il successo dei romanzi Guerra e pace e Anna Karenina, a cui seguirono altre sue opere narrative sempre più rivolte all’introspezione dei personaggi e alla riflessione morale. La fama di Tolstoj è legata anche al suo pensiero pedagogico, filosofico e religioso, da lui espresso in numerosi saggi e lettere che ispirarono, in particolare, la condotta nonviolenta dei tolstoiani e del Mahatma Gandhi.

“Le chiacchiere di Carlo”, racconto di Francesco Saverio Bascio, narratore in Carpaneto

Arrivo come sempre nell’ampio viale che circonda la casa, ma stranamente questa mattina, Carlo non c’è! Di solito è sempre giù ad aspettarmi sul pianerottolo, con suo fratello che lo accompagna appena fuori dall’ascensore che apre nel portichetto di quella casa. E’ immersa nel verde della campagna che circonda quel piccolo paesino quella casa, grande, con frutteti, fiori nei viali, e il grande garage: la casa della legna, tantissima legna. Strano che non ci sia nessuno, stavo per suonare quando il papà di Carlo, anziano, ma vitale, si affaccia dalla finestra chiamandomi: “Francesco, Francesco, venga su che fa freddo“. Faccio la scaletta dai grandi gradini esterna, e il papà di Carlo nell’ampia veranda, mi invita ad entrare. La grande cucina, ospita la grossa stufa rivestita in ceramica rossa, si sente davvero il suo caldo tepore, e lui, Carlo, è li che se la ride, il fratello lo imbocca, e lui se la ride: “Carlo ho chiesto: che c’è ? che succede?”. Adesso ride anche il fratello e lui che chiede ancora da bere, lui non parla, ma con gli occhi dice tutto, un occhio a me e un occhio al cucchiaio. “Allora Carlo che facciamo, andiamo?” ma Carlo scuote la testa e chiede il cucchiaio, è grande il Carlo, quando non vuole uscire di casa, chiede da bere, così perde tempo. No perché oggi ha la visita in ospedale, prima di andare alla sua scuola dove altri si prendono cura di lui. Non gli piace l’ospedale, non gli piacciono i dottori, e perde tempo e continua a bere a guardarmi, e a ridere. Il papà mi offre delle chiacchiere, le frittelle ,(non come quelle di Carlo per perdere tempo),delle vere chiacchiere di Carnevale croccanti e piene di zucchero a velo, appena sfornate. Poi finalmente la bevanda nel bicchiere finisce, E Carlo ne chiede ancora ma non arriva, e capisce. Su Carlo andiamo e finalmente spingo la carrozzina nell’ascensore, in mezzo alle chiacchiere di Carlo.

“L’albero del cuore”, racconto di Francesco Saverio Bascio, narratore e poeta in Carpaneto (Pc)

Un giorno il sole, chiese alla luna: “Luna, tu che sei dall’altra parte, quando io vado via, cosa fanno gli alberi?.” La luna un pò assopita, e stanca per via della notte passata sveglia, disse: “Io cerco di dar frescura alle foglie, ai rami e alle radici degli alberi, dando loro il giusto riposo notturno; l’acqua per esempio di notte scorre fluida, rinfrescando tutte le radici del mondo, e non evapora come quando c’è il sole…e loro spesso, come fanno anche i fiori, a volte chiudono i loro delicati petali, per riaprirli il mattino dopo a te Sole, spiegando le loro fragili ali al tuo tepore, come fanno le farfalle.” “Ma tu, Sole perché me lo chiedi?” Il sole allora rispose: “senti Luna, ho sentito tempo fa, i lamenti d’amore di un giovane albero, che non riusciva a scegliere il giusto regalo da offrire, alla giovane Felce di cui si era Innamorato.” “Come mai?“, chiese la Luna. “Il giovane e forte albero…(disse il Sole), aveva offerto alla sua adorata Felce, delle Mimose appena fiorite, e che lei aveva accettato molto volentieri, ma ne rimase un pò delusa, quando quei delicatissimi petali, cominciarono ad appassire uno dopo l’altro inesorabilmente.” “Io, essendo il Sole… ho paura” disse!…”perché penso che se quei fiori così delicati, piccoli, e bellissimi delle mimose, appassicono e cadono giù, sia soltanto per causa mia e del mio calore.” “Avrò sbagliato qualcosa?“L’albero, allora, un pò rassegnato, disse loro: “Non è colpa tua o Sole, e nemmeno tua o Luna, voi siete la vita, io dopo ho capito il perchè“, disse l’albero.”Si, perché dopo, ho offerto dell’altro alla mia amata Felce…e lei accettava sempre, e di buon grado… e già, aveva cominciato anche ad amarmi, anche se i miei regali a volte non duravano nel tempo e cadevano giù. La bella felce mi diceva“: “sono un albero antico, comprensivo e buono, ho delle buone radici, e i miei avi sono eterni, quindi, non ti preoccupare così tanto per i tuoi regali…o per i fiori e le gemme che mi offri… lo so che poi appassiscono, ma non è colpa tua; tanto rinascono ancora.“Ma l’albero testardo, non ascoltava…costruiva progetti che nascevano, morivano, e rinascevano per cadere ancora giù come le foglie, e lui le offriva alla sua Felce, ma ahimè dopo un po’, cadevano a terra come sempre. L’albero allora ebbe una splendida idea, e con mille sacrifici aveva imparato ha a produrre insieme alle foglie, dei frutti bellissimi, rossi, e che avevano una forma stranissima, la forma di un cuore, erano infatti i frutti del suo cuore, il cuore di un albero! Ma alla fine della buona stagione, durante l’umido di quell’autunno, quei cuori appesi, rossi come il sangue, cominciarono ad oscillare al freddo vento autunnale che li sferzava, e come le foglie e le mimose, cominciarono a cambiare colore, ad appassire… e a cadere giù anche loro. Esasperato l’albero, con tutte le forze che gli erano rimaste, voleva difendere ad ogni costo quel regalo diventato così prezioso, così raro, così!… tanto da tenere sempre vivo quel tenero frutto, che con tanta fatica, amore e passione, aveva inventato per la sua bellissima Felce. Lei… lusingata e bellissima disse all’albero: “non importa, mi sta bene così, i tuoi rami adesso, anche se spogli, sono pieni di amore perché so che la tua radice pur se giovane, è ferma, è forte, e non si lascerà trascinare lontana da me, nemmeno dagli uragani, e a me sta bene così!” La Felce, si era finalmente innamorata dell’albero dai cuori rosso sangue, e lui però… piangeva ancora, con sconforto, avvilito, e quasi sconfitto. La Luna a quel punto guardando il Sole che annuiva con i suoi raggi splendenti carichi di vita, chiese all’albero dei cuori: “scusami albero; adesso hai il tuo bel frutto, i tuoi bellissimi cuori rossi, perchè allora, sei ancora così tanto triste? ma tu alla fine che cosa vuoi? quale sarebbe secondo te il regalo più bello, più adatto per il tuo amore? Per la tua bellissima Felce innamorata?” L’albero del cuore, strappò allora tantissimi fili di tenera erba cresciuta tra le sue radici, e la intrecciò con maestria… e con quel laccio fatto di amore, legò stretto ai rami l’ultimo cuore, l’ultimo cuore rosso che era rimasto appeso e rispose finalmente alla bianca luna: “Io voglio per lei, per la mia amata felce,(disse)… un cuore… uno soltanto… ma che non cada mai.

“Tra i monti del vino”, racconto di Francesco Saverio Bascio, narratore e poeta in Carpaneto (Pc)

Il viale piccolo, di campagna, si insinua curvoso lungo la valle, dove le fitte nebbie del PO fanno fatica a salire e tra le nebbie, le casse del miele a ridosso delle robinie, delle querce, e dei faggi, cullano il sogno invernale dei popolati alveari nelle loro casette di legno. Tra quei viali, ai piedi dei monti del vino, dove regna l’Ortrugo, tra Malvasie e pregiati Moscati, il Gutturnio, sorride litigioso al rosso Barbera, e alla dolce Bonarda; e tra quei ricchi filari, c’è l’antica casetta del signor Angelo. In quelle valli Padane, circondata dai cachi, dai frutti di bosco, e dalle nere prugne, quell’antica Cascina, sembra una vecchia signora dalla sbiadita eleganza. Le ciliegie, cosi succulente sembrano gemme, in mezzo agli odori di pere e di mele, e l’intenso profumo pervade quei campi dai mille colori. Tra i pioppi e le fragranze del mosto, il possente cedro, allarga le ombrose braccia sull’ampio cortile; vecchio custode dell’aia scomparsa . Alla fine degli stretti gradini, si affaccia sulla piccola terrazza porticata lui! Altissimo, ancora distinto, educato e gentile, il signor Angelo dai capelli bianchi che non riescono ancora, anche se vecchi, a nascondere l’innata eleganza. Ero già venuto la vigilia, e scherzo sempre con lui, riuscendo spesso a rompere la monotona e triste solitudine. Lui, accetta e risponde con garbo alle risate, anche quando lo prendo un po’ in giro per la sua nuova compagna dalle ruote grandi; la sua nuova carrozzina, diventata ormai, quasi inseparabile. Ma il signor Angelo è intelligente, e sa che i miei scherzi, le mie barzellette, servono a farlo sorridere; spezzando quel nero presagio di solitudine vissuta. Il suo cuore inoltre, è cosi buono da ignorare tutte le cattiverie del mondo… (sinceramente,)…da prenderne esempio. Lo saluto con garbo, ma lui stavolta, soltanto stavolta, mi richiama su, su quella terrazza porticata con una piccola lacrima che gli scivola tra le guance, chiedendomi un favore, l’unico mai chiesto! Mi chiama con la sua lunga e gracile mano, commosso, timido, ed emozionato, facendomi segno di avvicinarmi. E risalgo quella scalina chiedendo cosa sia successo, lui si asciuga quella piccola lacrima dicendo…domani,… è Natale, vieni a trovarmi di nuovo ?…

“L’aeroplano di Capodanno”, racconto di Gianni Rodari

Comandante, un aeroplano sconosciuto chiede di atterrare. Un aeroplano sconosciuto? E come è arrivato fin qui?
Non so, comandante. Noi non abbiamo avuto alcuna comunicazione.
Dice che sta per finire il carburante e che atterrerà anche se non glielo permettiamo.
Uno strano personaggio, comandante.
Strano?
Un po’ pazzo, direi. Un momento fa lo sentivo ridacchiare nella radio: «Tanto, nessuno mi può fermare… ».

Ad ogni modo facciamolo scendere, prima che combini qualche guaio. L’apparecchio atterrò sul piccolo campo d’aviazione, alla periferia della capitale, alle ventitré e ventisette precise. Mancavano trentatré minuti alla mezzanotte.
Già, ma non a una mezzanotte qualunque, bensì alla mezzanotte più importante dell’anno.


Era la sera del 31 dicembre e in tutto il mondo milioni di persone vegliavano in attesa dell’anno nuovo.


L’aviatore sconosciuto balzò a terra agilmente e subito cominciò a dare ordini: Scaricate i miei bauli. Sono dodici, fate attenzione.
Mi occorreranno tre tassi per trasportarli.
Qualcuno può fare una telefonata per me?

Forse si e forse no – rispose per tutti il comandante del campo. – Prima si dovranno chiarire alcune cosette, non le pare?

Non ne vedo la necessità – disse l’aviatore, sorridendo. lo però la vedo – ribatté il comandante.
La prego, intanto, di mostrarmi i suoi documenti personali e le carte di bordo.
Mi dispiace ma non farò niente del genere.
Il suo tono era così deciso che il comandante fu lì lì per perdere la calma.
Come vuole – disse poi, – ma intanto abbia la cortesia di seguirmi.
L’aviatore si inchinò. Al comandante parve che l’inchino fosse piuttosto esagerato. «Che voglia prendermi in giro? » pensò. «Ad ogni buon conto, dal mio aeroporto non uscirà con quelle arie da padrone
del vapor
».

Guardi – diceva intanto il misterioso viaggiatore – che sono atteso. Molto, molto atteso.
Per la festa di mezzanotte, immagino?
Appunto, comandante carissimo.
Io invece, come vede, sono di servizio e passerò la notte di Capodanno all’aeroporto. Se lei insisterà a non volermi mostrare i documenti, mi terrà compagnia.
Lo sconosciuto (erano intanto entrati insieme in una saletta del campo) si accomodò in una poltrona, si accese la pipa e rivolgeva intorno occhiate curiose e divertite. I miei, documenti? Ma lei ne è già in possesso, comandante.
Davvero? Me li ha infilati in tasca con un giochetto di prestigio?
E adesso mi caverà un uovo dal naso e un orologio da un orecchio?

Per tutta risposta lo sconosciuto indicò il calendario dell’anno nuovo, che pendeva dalla parete dietro una scrivania, aperto alla prima pagina.

Ecco i miei documenti, prego. Sono il Tempo.

Nei miei dodici bauli ci sono i dodici mesi che dovrebbero avere inizio tra… vediamo un po’… tra ventinove minuti precisi.
Il comandante non si scompose.

Se lei è il Tempo – disse – io sono un aviogetto. Vedo che le va di scherzare. Benissimo, mi terrà allegro.

Le dispiace se accendo il televisore? Non vorrei perdermi l’annuncio della mezzanotte.
Accenda, accenda. Ma non ci sarà nessun annuncio, fin che lei mi trattiene.
Sul teleschermo era in corso uno spettacolo di canzoni e arte varia.
Di quando in quando una graziosa presentatrice consultava un grande orologio appeso dietro l’orchestra, proprio sulla testa del batterista e annunciava: – Mancano venticinque minuti all’anno nuovo… Mancano ventidue minuti…
L’aviatore sconosciuto pareva divertirsi un mondo allo spettacolo. Canterellava, batteva il piede a tempo con l’orchestra, rideva di cuore alle battute dei comici…
Un minuto a mezzanotte – sorrise il comandante, – mi dispiace di non poterle offrire lo spumante.
In servizio io non bevo mai.
Grazie, ma lo spumante non serve.
Da questo momento il tempo cesserà di scorrere. Dia un’occhiata al suo orologio.

Il comandante obbedì meccanicamente. Guardò il quadrante, si accostò il polso all’orecchio. «Strano», pensò, «l’orologio cammina, ma la sfera dei secondi si è guastata e non gira piu».
Egli cominciò mentalmente a contare i secondi.
Ne contò sessanta, poi tornò a guardare l’orologio: le sfere erano sempre ferme sulla mezzanotte meno un minuto. Anche sul grande orologio del teleschermo le sfere erano immobili. L’annunciatrice, con un sorriso un po’ imbarazzato, stava dicendo: Sembra che ci sia un piccolo guasto…
Musicisti, cantanti, comici, spettatori, come per un segnale, cominciarono a scrutare i loro orologi, a scuoterli, ad accostarseli all’orecchio, con aria sorpresa. In breve tutti si convinsero che le sfere non si muovevano piu.

Il tempo si è fermato – gridò qualcuno, scherzando. – Forse ha bevuto troppo spumante e si è addormentato prima della mezzanotte.

Il comandante dell’aeroporto gettò uno sguardo allarmato sullo strano forestiero, il quale, dal canto suo, gli sorrise educatamente.
Ha visto? Colpa sua. Come sarebbe… colpa mia… – balbettò il comandante.
Non è ancora convinto che io sia il Tempo? Guardi quella rosa (ce n’era una, sulla scrivania, freschissima: al comandante piaceva tenere qualche fiore in ufficio). Vuoi vedere che cosa le succede, se la tocco?

Lo sconosciuto si avvicinò alla scrivania, soffiò delicatamente sulla rosa: i petali caddero tutti insieme, avvizziti, secchi, si sbriciolarono, non furono più che un mucchietto di polvere… Il comandante balzò in piedi e si attaccò al telefono… Pochi minuti dopo la telefonata del comandante al ministro, già tutti sapevano, in America come a Singapore, in Tanzania come a Novosibirsk, che il Tempo era stato fermato in un piccolo aeroporto, perché privo di documenti. Milioni di persone che aspettavano la mezzanotte per stappare lo spumante ruppero il collo alle bottiglie, per far prima, e si scambiarono brindisi entusiastici.

Cortei festosi percorrevano le strade di Milano, Parigi, Ginevra, Varsavia, Londra, Eccetera: scrivendo Eccetera con la maiuscola vogliamo indicare tutte le città che non ci sarebbe possibile nominare una per una. Evviva! – gridava la gente, in tutte le lingue.

Il tempo si è fermato! Non invecchieremo più! Non moriremo più!
Il comandante dell’aeroporto passava il tempo al telefono. Lo chiamavano da ogni parte del mondo per dirgli: Lo tenga stretto! Gli metta le manette! Gli tiri il collo! Gli metta un sonnifero nel bicchiere! Macché sonnifero: veleno per i topi, ci deve mettere!
Il ministro aveva avvertito i suoi colleghi. Una riunione del Consiglio dei ministri era in corso. L’ordine del giorno: «Misure da prendere. Bisogna tramutare il fermo del Tempo in arresto o liberarlo?». Il ministro dell’Interno tuonava: – Liberarlo? Mai non sia! Se cominciamo a lasciar andare in giro la gente senza documenti, siamo fritti in padella. Questo signore ci deve dire nome, cognome, paternità, luogo di nascita, domicilio, residenza, cittadinanza, nazionalità, numero del passaporto, numero delle scarpe, numero del cappello; ci deve mostrare il certificato di vaccinazione, quello di buona condotta, il diploma di quinta elementare, la ricevuta delle tasse.

E poi, ha ben dodici bauli: ha pagato dogana?
Si rifiuta di aprirli: e se ci avesse dentro delle bombe?

Il ministro aveva settantadue anni: capirete che aveva ogni interesse a tener fermo l’orologio…
I ministri decisero di chiedere il parere delle Nazioni Unite.
Alle Nazioni Unite, a quell’ora, c’era soltanto il portiere: tutti i delegati erano in giro a far festa.

Quanto ci vorrà per riunire l’assemblea? Una quindicina di giorni. Però, se il tempo non passa, non passano neanche i quindici giorni e l’assemblea non si può riunire. Anche questa notizia fece il giro del mondo, contribuendo ad accrescere l’allegria generale.

Dopo un po’…

Ecco, veramente questa frase non si potrebbe scrivere: se il tempo era fermo, la parola «dopo» non aveva più senso. Diciamo che un bambino, svegliato dal fracasso e messo al corrente dell’accaduto, sommò due più due e cominciò a protestare: – Cosa? Sarà sempre adesso? Allora io non diventerò più grande? Devo prendere per tutta la vita gli scapaccioni del babbo? Devo continuare a risolvere problemi di pizzicagnoli che comprano l’olio e si fanno calcolare dai bambini delle scuole la spesa e il ricavo? Ah, no, grazie tante! lo non accetto -.

Anche lui si attaccò al telefono, per dare l’allarme ai suoi amici. I bambini non vollero sentir parole. Si infilarono il cappotto sul pigiama e scesero anche loro per le strade a fare il corteo. Ma le loro grida e i loro cartelli erano ben diversi da quelli degli altri cortei: Liberate il Tempo! – dicevano. Non vogliamo restare sempre dei marmocchi! Vogliamo crescere!. Io voglio diventare ingegnere! Io voglio che venga l’estate per andare al mare!
Incoscienti – commentava un passante, in un momento storico come questo pensano ai bagni di mare.
Però – rifletté un altro passante, – su un punto almeno hanno ragione: se il tempo non passa più, sarà sempre il trentun dicembre… Sarà sempre inverno…Sarà sempre mezzanotte meno un minuto! Non vedremo più spuntare il sole!
Mio marito è in viaggio – sospirò una signora, – come farà a tornare e a casa, se il tempo non passa?
Un malato nel suo letto si lamentava: – Ahi, ahi! doveva fermar  il tempo proprio mentre avevo il mal di testa?…
Un carcerato, aggrappato alle sbarre della sua prigione, si domandava accorato: – Non riavrò mai più la mia libertà?
I contadini borbottavano: – Qua, col raccolto, si mette male… Se non passa il tempo, se non torna la primavera, gelerà tutto… Non avremo niente da mangiare. Insomma, il comandante dell’aeroporto cominciò a ricevere telefonate allarmate: Be’, lo lasciate andare, si o no? Io aspetto un vaglia, me lo manda lei, se il tempo non può passare? Comandante, per favore, liberi il Tempo: abbiamo un rubinetto che perde e se non viene domattina non possiamo chiamare l’idraulico.
Il Tempo, allungato nella sua poltrona, continuava a fumare la sua pipa, sorridendo.

Cosa devo fare? – protestava il comandante.
Uno la vuole bianca, l’altro la vuole nera… lo me ne lavo le mani. lo la lascio andar via… Bravo, grazie.

Ma così… senza ordini superiori… Capisce che ci rimetto il posto? E allora mi tenga qui. Io ci sto benissimo.
Un’altra telefonata: È scoppiato un incendio! Se non passa il tempo non arrivano i pompieri! Brucerà tutto! Bruceremo tutti! Abbiamo in casa vecchi e bambini… Non può far niente, comandante?
Il comandante, a questo punto, picchiò un pugno sulla scrivania.

Bene, succeda quel che vuol succedere. Mi prenderò questa responsabilità. Se ne vada, lei è libero.

Il Tempo balzò in piedi: – Permetta che le stringa la mano, comandante. Conoscerla è stato un vero piacere.
Il comandante gli aperse la porta: – Se ne vada, presto, prima che io cambi idea! Il Tempo uscì dalla porta.

Le sfere degli orologi ricominciarono a muoversi. Sessanta secondi più tardi scoccò la mezzanotte, scoppiarono i fuochi artificiali. Il nuovo anno era cominciato.

“My angel”, racconto e disegno di Ale Caniggia Canova, artista in Brescia

Il vento soffiava forte, urlando tutta la sua rabbiamista a una pioggia di gelide tristezze.Trovò riparo in una grotta e subito udì un rumore.con passo lento ma curioso, si addentrò e scorseun riflesso tremolante di luce. I suoi occhi , ancora bagnati dalla pioggia, cercavano un immagine da scorgere. Poco più in la stava una ragazza a scaldarsi al caldo di un fuoco improvvisato. Si avvicinò e vide che tremava, gli occhi gonfi di chi ha speso troppe lacrime per un mondo che l’aveva segnata. Si tolse la giacca e l’appoggiò sulle sue spalle. Lei sorrise, aveva il viso di un angelo. Si mise seduto e la guardò..Sentì la sua presenza dentro di se , ma non riusciva a riconoscerla.Cominciarono a parlare e lei raccontava della sua vita come fosse la loro, lui continuava a non capire. Gli occhi di lei riflettevano immagini di una storia che abitava in lui da sempre. Poi, scese il silenzio, ma i loro occhi continuarono a raccontarsi , come fossero all’unisono.Ad un tratto la mano di lei prese la sua, lui sentì un calore arrivargli dentro. Si avvicinò e la baciò, dolcemente , mentre si perdeva nel suo abbraccio. Si addormentò e al risveglio lei non c’era più, svanita nel nulla , come un sogno finito troppo presto . Uscì dalla grotta e trovò un raggio di sole ad accoglierlo. Cominciò a pensare che forse tutto aveva un senso…Cominciò a pensare al bacio che aveva rubato al suo angelo…..

“Il mio amico Gianca”, una storia vera nel racconto di Francesco Saverio Bascio

Malato, olio su tela di Bacci Baccio Maria

Quel suono di sirena si faceva largo tra le macchine, tutte che si spostavano verso il ciglio della carreggiata per far passare il mio amico Giancarlo, il “Gianca“! E sì, il mio amico Gianca che tornava finalmente a casa. In effetti non lo sapevamo ancora di diventare o di essere già amici senza saperlo, senza che ci conoscessimo, senza che ci fossimo mai visti prima. Ma è possibile questo ? Si è possibile, ed è successo. Il mio amico Gianca è una persona speciale, ma non perchè parli molto, anzi parla poco o pochissimo se lo fanno arrabbiare. Lo fanno arrabbiare dite voi? Chi lo fa arrabbiare ? Vorrei proprio vedere se ad una Persona che esce dopo 18 mesi da una struttura ospedaliera, tornando finalmente a casa quasi infermo, (dico quasi infermo perchè il mio amico Gianca le ha le gambe, caspita se le ha… ma non le può usare) e gli si chiede: Giancarlo…devi collaborare, devi girarti, su reagisci aiutami a girarti, su su… almeno sollevati, e mangia… daiiii… devi mangiare, non puoi fare capricci come un bambino… e quella folla … e tutta quella gente. E quello stupido petto di pollo che si incolla tra i denti e che non va giù per niente nemmeno a spingerlo e che non finisce mai,… e quel viavai di persone che entrano e salutano col sorriso in bocca tutti allo stesso modo, tutti con lo stesso identico sorriso, tutti con le stesse stupide domande. Come stai mi chiedono. Devo contenermi altrimenti mi esplodono le risate. E tutti che parlano come fossero dei dottori, dei luminari della scienza senza titolo, tutti che prescrivono senza alcuna diagnosi la ricetta, tutti che analizzano il paziente, confrontandosi tra di loro per imporre la ricetta più convenevole all’ordine del giorno, tutti che hanno ragione da vendere a gratis e senza peso. Nel mezzo il Gianca che li guarda e li ascolta tutti, che si gira su un lato e si ricopre, e inutilmente per sfuggire dice che ha sonno. No! Non può dormire, perchè puntualmente lo risvegliano uno ad uno, lo risvegliano preoccupati, e parlano … azz … quanto parlano… e non può farne a meno. Li ascolta e li guarda con gli occhi e le orecchie sgranate e non aspetta altro che vadano via, che finiscano, che scompaiano per un attimo dalla sua vista, magari con delicatezza perchè a qualcuno di loro gli vuole un bene dell’anima e sa che lo fanno a fin di bene. Ma in quel momento il Gianca vuole stare solo, vuole pensare, vuole riflettere, e non ha fame… Ha solo i coglioni gonfi come le mammelle di una mucca e vuole stare da solo. Il Gianca vuole stare un pò con i suoi trofei di Pesca. Sì, gente… perchè il Gianca è campione mondiale di pesca e non vede l’ora di ritornare al mare, magari in Portogallo dove cuociono il Baccalà più buono del mondo, o in Norvegia tra le scogliere, o in Francia dove pesca le Orate, o semplicemente al fiume o al lago quasi sottocasa a pescare con gli amici, senza dottori, senza diagnosi, senza nessun giudice che infligga pena, perchè il Gianca… quando è a pesca ritrova se stesso. Ma adesso è stanco e gli disturba tutto e si gira su un lato per pensare un pò da solo. Il mio amico Gianca è stanco, e io lo saluto… ciao Giancarlo a domani. Lui si gira mi stringe la mano tra le sue e con una piccola lacrima che cerca di nascondere, mi promette che mi porterà a pescare.

“I bambini sono di sinistra”, monologo di Claudio Bisio

I bambini sono di sinistra. Di sinistra, sì, nessun dubbio. Non soltanto per i pugnetti stretti in segno di protesta.
I bambini sono di sinistra perché amano senza preconcetti, senza distinzioni.
I bambini sono di sinistra perché si fanno fregare quasi sempre. Ti guardano, cacci delle balle vergognose e loro le bevono, tutti contenti. Sorridono, si fidano. Bicamerale! Sì, dai!
I bambini sono di sinistra perché stanno insieme, fanno insieme, litigano insieme. Insieme, però.
I bambini sono di sinistra perché se gli spieghi cos’è la destra piangono. I bambini sono di sinistra perché se gli spieghi cos’è la sinistra piangono lo stesso, ma un po’ meno.
I bambini sono di sinistra perché a loro non serve il superfluo. Sono di sinistra perché le scarpe sono scarpe, anche se prima o poi delle belle Nike o Adidas o Puma, o Reebok, o Superga gliele compreremo. Noi siamo No-Logo, ma di marca!
I bambini sono di sinistra malgrado l’ora di religione obbligatoria. I bambini sono di sinistra grazie all’ora di religione obbligatoria.
I bambini sono di sinistra perché comunque, qualsiasi cosa tu gli dica che assomigli vagamente a un ordine, fanno resistenza. Ora e sempre.
I bambini sono di sinistra perché occupano tutti gli spazi della nostra vita.
I bambini sono di sinistra perché fanno i girotondi da tempi non sospetti.
I bambini sono di sinistra perché vanno all’asilo con bambini africani, cinesi o boliviani, e quando il papà gli dice “vedi, quello lì è africano”, loro lo guardano come si guarda una notizia senza significato.
I bambini sono di sinistra perché quando si commuovono piangono, mentre noi adulti teniamo duro, non si sa bene perché.
I bambini sono di sinistra perché se li critichiamo si offendono. Ma se li giudichiamo non invocano il legittimo sospetto, e se li condanniamo aspettano sereni l’indulto che prima o poi arriva: la mamma, Ciampi, il Papa.
I bambini sono di sinistra perché si fanno un’idea del mondo che nulla ha a che fare con le regole del mondo.
I bambini sono di sinistra perché se gli metti lì un maglioncino rosso e un maglioncino nero scelgono il rosso, salvo turbe gravi – daltonismo o suggerimento di chi fa il sondaggio.
I bambini sono di sinistra perché Babbo Natale somiglia a Karl Marx. Perché Cenerentola è di sinistra, perché Pocahontas è di sinistra. Perché Robin Hood è di Avanguardia Operaia e fa gli espropri proprietari.
I bambini sono di sinistra perché hanno orrore dell’orrore. Perché di fronte alla povertà, alla violenza, alla sofferenza, soffrono.
I bambini sono di sinistra perché il casino è un bel casino e perché l’ordine non si sa cos’è.
I bambini sono di sinistra perché crescono e cambiano.
I bambini sono di sinistra perché tra Peter Pan e Che Guevara prima o poi troveranno il nesso.
I bambini sono di sinistra perché, se ce la fanno, conservano qualcosa per dopo. Per quanto diventa più difficile, difficilissimo, ricordare di essere stati bambini. Di sinistra, poi…

Il monologo di Bisio è stato proposto ieri in fb da Michele Rizzitiello

“Il pescatore”, racconto letto nel blog nostripensieri.altervista.org

Sul molo di un piccolo villaggio messicano, un turista americano si ferma e si avvicina ad una piccola imbarcazione di un pescatore del posto.
Si complimenta con il pescatore per la qualità del pesce e gli chiede quanto tempo avesse impiegato per pescarlo. Il pescatore risponde: ‘Non ho impiegato molto tempo’ e il turista: ‘Ma allora, perchè non è stato di più, per pescarne di più?’
Il messicano gli spiega che quella esigua quantità era esattamente ciò di cui aveva bisogno per soddisfare le esigenze della sua famiglia. Il turista chiese: ‘Ma come impiega il resto del suo tempo?’ E il pescatore: ‘Dormo fino a tardi, pesco un po’, gioco con i miei bimbi e faccio la siesta con mia moglie. La sera vado al villaggio, ritrovo gli amici, beviamo insieme qualcosa, suono la chitarra, canto qualche canzone, e via così, trascorro appieno la vita.’

Allorchè il turista fece: ‘La interrompo subito, sa sono laureato ad Harvard, e posso darle utili suggerimenti su come migliorare. Prima di tutto dovrebbe pescare più a lungo, ogni giorno di più. Così logicamente pescherebbe di più. Il pesce in più lo potrebbe vendere e comprarsi una barca più grossa. Barca più grossa significa più pesce, più pesce significa più soldi, più soldi più barche… Potrà permettersi un’intera flotta! Quindi invece di vendere il pesce all’uomo medio, potrà negoziare direttamente con le industrie della lavorazione del pesce, potrà a suo tempo aprirsene una sua. In seguito potrà lasciare il villaggio e trasferirsi a Mexico City o a Los Angeles o magari addirittura a New York! Da lì potrà dirigere un’enorme impresa!’
Il pescatore lo interruppe: ‘Ma per raggiungere questi obiettivi quanto tempo mi ci vorrebbe?’
E il turista: ’20, 25 anni forse’ quindi il pescatore chiese: ‘….e dopo?’
Turista: ‘ Ah dopo, e qui viene il bello, quando il suoi affari avranno raggiunto volumi grandiosi, potrà vendere le azioni e guadagnare miliardi!’
E il pescatore:’miliardi? e poi?’
Turista: ‘Eppoi finalmente potrà ritirarsi dagli affari e andare in un piccolo villaggio vicino alla costa, dormire fino a tardi, giocare con i suoi bimbi, pescare un po’ di pesce, fare la siesta, passare le serate con gli amici bevendo qualcosa, suonando la chitarra e trascorrere appieno la vita’

Nell’immagine di testa: Il pescatore, olio su tela di Freddy Toledo

“Scarti”, racconto di fantascienza distopica di Daniele Imperi

Eccoli uno dietro l’altro, sfilare come formiche lungo la strada. Sono loro e sono tanti, quest’oggi: pisciabrache, sdentati, ebeti, claudicanti, vegetali, informi, storpi e aborti macrocefali. Forza lavoro pari a zero.

La mia frusta schiocca nel silenzio freddo del mattino. Non una voce, però, solo il rumore sordo che lacera l’aria e il mio sorriso che s’allarga a vederli avanzare con più convinzione. Verso la Stanza Ultima.

Da ore il fumo sale al cielo, grigia colonna contro il nero delle nubi cariche. Lampi sporadici elettrificano l’atmosfera e per un attimo la Torre viene illuminata, momentanea apparizione nella notte.

Nella sala mensa ridiamo. Leggendo gli ultimi pensieri dei respinti ci si diverte sempre. È come vedere figure in celluloide di un tempo. Sentiamo le loro paure, ripercorriamo a ritroso le loro vite nell’attimo in cui il pavimento si apre e i corpi precipitano giù, nella fornace.

Il fumo che sale al cielo porta con sé l’odore di quei corpi consumati dalle fiamme, le grida di sofferenza che svaniscono in un’eco angosciante. Le ceneri si depositeranno altrove, lontano.

Cenere alla cenere, polvere alla polvere si diceva un tempo. Forse è a questo che si riferivano.

Il mattino è uggioso. Avvolto nel mantello, attendo un nuovo gruppo uscire dall’Ambulatorio, dove i segnalati saranno dichiarati respinti o rivedibili.

Poco prima c’era stato un problema al sistema d’accensione della fornace. Risolto in pochi minuti. Per un attimo ho temuto di dover restare qui anche il pomeriggio, come accadde il mese scorso. Solo, in mezzo a tutti quegli scarti che ti squadrano con occhi vacui, timorosi, supplicanti alle volte. Perché c’è qualcuno che sospetta che non sia indolore tutta la faccenda. Qualcuno ha ancora qualcosa che funziona nel cervello.

Eccoli. Sono pochi, rispetto a ieri. Meglio, staccherò prima. I pisciabrache sono sempre fra i primi. Vecchi corpi sbiancati dal tempo, i mutandoni ingialliti e umidi, puzzolenti. Li detesto più degli altri. Muovo il mio braccio con decisione. L’aria risuona dello schiocco della frusta e i piedi sembrano volare sulla strada verso la Torre.

Oggi mi concedo una visione a volo d’uccello. La porta della Stanza Ultima, in cima alla Torre, si chiude. La blocco con il chiavistello, ridiscendo fino alla sala comando. Attivo la fornace.

La mia mente sorvola la terra, diviene parte delle molecole dell’aria, penetra nei muri, è là, in mezzo a loro, ai respinti.

Li vedo dall’alto spostarsi freneticamente quando il pavimento inizia a scorrere. Li sento piangere. I primi corpi cadono giù: sono gli ebeti, i claudicanti, i vegetali e gli storpi. Quelli meno avvantaggiati. I pisciabrache, invece, no, quelli resistono, quei maledetti. Li odio ancor più, voglio attendere la loro caduta, vederli vaporizzare al calore parossistico del fuoco.

Ed eccoli, uno dopo l’altro, affannarsi ad avanzare negli ultimi centimetri di pavimento rimasto, la loro biancheria inumidirsi in una macchia giallastra che s’allarga, finché non c’è più superficie su cui stare, solo dieci metri di vuoto e le fiamme che lambiscono, arrossano, bruciano, annientano.

I pensieri restano scritti nell’etere, sono eredità dei rimanenti. I tuoi segreti, i tuoi ricordi vagano liberi in attesa che qualcuno li afferri, li faccia suoi.

Il tempo scorre. Da anni, ogni giorno vedo salire il fumo al cielo, ogni giorno vedo fluire i pensieri senza più una mente a contenerli. Ne prendo qualcuno, tengo i migliori, dimentico il resto. Giorni identici uno all’altro, file e file di respinti da non far gravare sulle vite degli abili.

Un sistema che funziona.

La chiamata giunge un mattino più freddo del solito. Obbedisco e mi avvio all’Ambulatorio dove una squadra di medici è già pronta per visitarmi. Li vedo osservarmi i pantaloni, storcere il naso. Confabulano fra loro, prendono decisioni, registrano il mio codice e avviano la pratica di smaltimento.

Respinto.

Accolgo la notizia con distacco, una lieve nostalgia per la frusta, ma in fondo siamo trenta miliardi e quando vien meno la forza, quando il nostro corpo non risponde più, occorre farsi da parte.

Esco, raggiungo gli altri. C’è calca nella sala d’attesa prima di uscire all’aperto.

Eccoci uno dietro l’altro, sfilare come formiche lungo il sentiero. Siamo noi e siamo tanti, quest’oggi: pisciabrache, sdentati, ebeti, claudicanti, vegetali, informi, storpi e aborti macrocefali.

Sento la frusta che schiocca nel silenzio freddo del mattino. Non una voce, però, solo il rumore sordo che lacera l’aria e il sorriso del caronte che s’allarga a vederci avanzare con più convinzione. Verso la Stanza Ultima.

Il cerchio si chiude. Lascio i miei pensieri fluire nell’aria prima che la porta della Torre ci divida dal passato e il mio corpo svanisca.

Sono lassù, salgo la scalinata che mi porta in cima in attesa della caduta.

Sono il primo pisciabrache della fila.

Daniele Imperi pubblica racconti nel blog ‘Penna blu’

“Ultima Pagina”, racconto poetico di Francesco De Girolamo, poeta in Roma

Era talmente immerso nella lettura di quel miracolo di libricino, di quell’arioso labirinto di parole lucenti, che non si accorse, nonostante i ripetuti avvisi, che la Grande Libreria stava chiudendo.

Non riusciva a distaccarsi dalla voce suadente che sembrava prorompere da quelle pagine, non appena dischiuse.

I commessi, esausti dopo la giornata di lavoro, non lo notarono, appoggiato allo scaffale più nascosto e mal illuminato, quello della “Poesia”.

Quando si accorse di essere rimasto solo, era troppo tardi. Il suo bisogno di Insulina, divenuta per lui quasi vitale, negli ultimi tempi, per le sue condizioni generali, e che sbadatamente non portava mai con sé, uscendo per una breve passeggiata, non gli permise di arrivare all’apertura della Libreria del mattino dopo.

Ma era, comunque, arrivato all’ultima pagina; ed ebbe ancora il tempo di sussurrare: “Ora sto bene”.

Nota: nell’immagine d’accompagno il dipinto “Il giovane malato, olio su tela di Lorenzo Lotto”