“Un breve viaggio nella storia recente e passata”, intervento di Carmelo Sciascia

Piazza San Pietro, il Giubileo 2025

Viaggiare vuol dire stabilire una meta, avere un interesse specifico, segnare sulla carta geografica un obiettivo che abbia rilevanza storica. Solo così il viaggio per me ha la sua giustificazione, il suo motivo d’essere. Per alcuni basta segnare un puntino su una mappa, per me viaggiare è attraversare la storia, riviverla: trovarsi dove si sono svolti fatti degni di cronaca, ma non solo, i luoghi che ricordano certi avvenimenti, in qualche modo, devono collegarsi ai luoghi dove risiedo o dove ho fatto le mie esperienze di vita. Si sa che i miei collegamenti sono spesso dei voli pindarici che collegano il luogo dove mi trovo, in questo caso Roma con la Sicilia e con Piacenza. Dovendo parlare di fatti avvenuti nel XVI secolo, non posso tralasciare la Chiesa di Santa Maria Odigitria o Chiesa d’Itria, che fondata a Roma nel 1593 divenne la Chiesa dei Siciliani. Questa Chiesa riguarda anche la storia religiosa della nostra città perché proprio qui don Paolo Miraglia Gullotti verrà invitato dall’avvocato Circenzio Bertucci di venire a Piacenza, nel maggio del 1895, per predicare il mese mariano nella basilica di San Savino (leggasi a proposito il saggio storico L’eretico don Paolo Miraglia).  Nella stessa chiesa troviamo l’altare di San Corrado Confalonieri e due ceri votivi di Noto, città cui è Patrono. San Corrado nasce a Calendasco nel 1290 ed è una figura simbolica e rappresentativa della religiosità piacentina e siciliana.

Passeggiando per il centro è doveroso entrare nella basilica dei Santi XII Apostoli dove riposa il castellano mons. Agostino Casaroli. Il cardinale Casaroli è stato un diplomatico e segretario di Stato, tanto temuto quanto discusso, lo ricordiamo, tra l’altro, per aver sottoscritto con Bettino Craxi nel 1984 la revisione dei Patti Lateranensi che ha modificato il Concordato del 1929.

Interno basilica dei Santi XII Apostoli

Proseguiamo la nostra cronaca romana partendo da un evento storico quale il Giubileo. Quest’anno ricorre il ventisettesimo Anno Santo, un Giubileo ordinario, perché di straordinari ce ne sono stati diversi, l’ultimo è stato voluto da papa Francesco il 2015. Non potevo esimermi da questo mio terzo Giubileo: il 1975 (Paolo VI), il 2000 (Giovanni Paolo II), il 2025 (Leone XIV).

A Roma in contemporanea una grande mostra (Musei Civici, fino all’8 giugno) ricordava i fasti dei Farnese: l’origine e la fortuna delle loro collezioni. La mostra sottolinea l’incidenza di papa Paolo III avuta sulla capitale alla vigilia del Giubileo del 1550. A proposito basti ricordare l’intervento nella piazza del Campidoglio dell’architetto Michelangelo e la collocazione centrale della statua di Marco Aurelio. Non parliamo poi dei ritratti presenti nella mostra, da Paolo III (Raffaello-Tiziano) ai ritratti dei suoi nipoti: dal gran Cardinale Alessandro fino ad Odoardo. Presente anche un ritratto di Margherita d’Austria, moglie di Ottavio Farnese. Paolo III è il Papa che convocherà il Concilio di Trento nel 1545 e che aveva creato nel 1537 il Ducato di Castro e Ronciglione con capitale Castro per assegnarlo al figlio Pier Luigi.

Il Ducato di Castro rappresenta la progenie del Ducato di Piacenza-Parma. Quindi fa obbligo visitarlo. Si giunge dove sorgeva l’antica Castro attraverso una strada sterrata a segnare la violenza della storia. Fu su ordine di Papa Innocenzo X che una florida e fortificata città come Castro veniva distrutta e rasa al suolo.

Come il Palazzo di Caprarola rimane a sottolineare la fulgida presenza dei Farnese nel territorio della Tuscia così Castro ne testimonia la decadenza. E dire che ambedue le costruzioni furono iniziate dallo stesso architetto: Antonio da Sangallo il Giovane. Castro avrebbe dovuto seguire le orme di Pienza, città che era stata voluta e ricreata da un altro papa Pio II, meno di un secolo prima. Oggi Pienza, rimasta inalterata, si fregia dal 1996 del riconoscimento UNESCO per il suo centro storico rinascimentale.

Castro, ceppo piazzale

Oggi a Castro solo rare rovine. Dopo la distruzione del 1649, ad opera dell’esercito pontificio, troviamo soltanto l’immagine del Crocifisso custodito nella chiesa del SS Crocifisso, santuario edificato nel 1871. La devastazione di Castro venne descritta dal notaio castrense Domenico Angeli nel 1575: “Situata su un’altura a forma di lira, circondata da rupi scoscese, da una valle profonda e da vigneti dove gli abitanti si recano per procurare canne. Tutto intorno pascolano le greggi… il centro di Castro è rappresentato da Piazza Maggiore. Castro prima del saccheggio era una città ricca, munita di più di sette centurie di soldati ed era la più forte tra le città del Patrimonio di San Pietro”. Un nome accomuna indissolubilmente Castro e Piacenza Pier Luigi Farnese, perché fu prima duca di Castro ed in seguito anche di Piacenza e Parma

Che Castro fosse stata una città vivace ce lo testimonia anche un fatto di cronaca dell’epoca, che Stendhal descrive molto bene nel suo romanzo La badessa di Castro. La storica Lisa Roscioni, che ha esaminato tutta la documentazione dell’epoca, ha scritto un’opera completa e dettagliata intorno a questa storia: La badessa di Castro. Storia di uno scandalo. La vicenda riguarda Elena Campireali (al secolo Porzia Orsini di Pitigliano) badessa del Convento della Visitazione, che entrata in confidenziale rapporto amoroso con monsignor Francesco Cittadini (Castro era anche sede vescovile), partorirà un bambino. La notizia giungerà alle orecchie del Cardinale Alessandro ed alla corte di Ottavio Farnese. Seguirà un processo dove la sentenza veniva scritta prima del suo inizio: per la badessa detenzione a vita nel convento di Santa Maria, per il vescovo ergastolo nel carcere di Castel Sant’Angelo. In realtà la badessa morirà nella sua celletta in breve tempo, il vescovo tornerà in Lombardia, sua terra d’origine e manterrà il suo titolo episcopale. Anche questa è una storia emblematica dove le donne sono state vittime sacrificali e le sentenze sono state scritte prima di qualsiasi dibattimento processuale!

Porzia Orsini Putihliano, la badessa protagonista di uno scandalo

Quindi, riepilogando, della famiglia Farnese il primo Duca di Castro (ed anche di Piacenza-Parma) fu Pier Luigi l’ultimo Ranuccio II. il Ducato creato da un Papa (Paolo III-1537) venne distrutto da un altro Papa (Innocenzo X-1649).

Ed il volo pindarico con la Sicilia cui avevo accennato? Ebbene, nel piazzale accanto al santuario del SS Crocifisso, ci si aspetta di vedere la colonna con scritto “Hic Castrum fuit” così come ordinato da Innocenzo X, invece troviamo un altro monumento evocativo. Una stele in pietra con due lastre marmoree la prima ci ricorda che siamo nel Piazzale Duchi di Castro.  la sottostante reca l’intestazione del Comune di Ischia di Castro e specifica come “Questo piazzale è stato dedicato ai Duchi di Castro il 25 ottobre 2011 a 362 anni dalla distruzione della magnifica capitale del Ducato alla presenza di S.A.R. il principe Carlo di Borbone delle due Sicilie Duca di Castro e della consorte S.A.R. la principessa Camilla di Borbone delle due Sicilie Duchessa di Castro. essendo sindaco Salvatore Serra”.

L’oblio sembra il destino che inesorabilmente debba colpire alcune località. Così come creato quasi dal nulla un potente Ducato, nello stesso modo, cioè dallo stesso potere clericale, è stato distrutto e fatto completamente scomparire (ricordate? Hic Castro fuit). In tempi a noi più prossimi la Regione Lazio si era premurata di ripristinare l’accessibilità al sito, creando una biglietteria, un cancelletto d’ingresso, una recinzione dell’area, ma nello stesso modo, cioè dallo stesso potere politico, è stato abbandonato. fu così che Castro è stata fatta scomparire per l’ennesima volta. Rimane oggi un’area agricola incolta dove incontrastata regna una invadente vegetazione.

Cerchiamo allora di capire il senso della targa commemorativa di cui si è detto. L’ultimo re delle Due Sicilie fu Francesco II, che perse il Regno in seguito alla spedizione dei Mille ed all’annessione nel 1861 del Regno delle Due Sicilie alla Casa Savoia. fu così che Francesco II nel 1870 decise di assumere il titolo di Duca di Castro. Quindi oggi il principe Carlo Maria Bernardo Gennaro, quale discendente dei Borbone di Napoli può fregiarsi del titolo di Duca di Castro. Come ricordiamo infatti la famiglia Farnese si estinse con Antonio, l’ultimo Duca, morto senza eredi nel 1731, il Ducato di Parma e Piacenza passò quindi a Carlo di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese.  Il principe Carlo di Borbone è quindi l’attuale XVIII Duca di Castro, città fantasma, mentre Piacenza, popolosa ed industriosa città della ricca Emilia non ha nessun Duca! O no?

Carmelo Sciascia

S.A.R. il principe Carlo di Borbone delle due Sicilie Ducadi Castro

“Santa Rosalia tra agiografia ed iconografia: La Barbera, D’Asaro e van Dick”, intervento di Carmelo Sciascia a margine di un’iniziativa alla galleria Biffi Arte

Statua di Santa Rosalia a Bivona

“Antoon van Dyck in Sicilia: il pittore, i gesuiti e “l’invenzione” di Santa Rosalia”, questo il tema affrontato in un incontro alla galleria Biffi Arte di Piacenza in questo 2025. La relatrice è stata Fiorenza Rangoni, docente del Dipartimento di studi umanistici, Scienze dei Beni Culturali dell’Università degli studi Roma Tre, autrice di diverse pubblicazioni di storia dell’arte e, particolare che a noi interessa in questa occasione, autrice di ricerche e studi proprio su van Dick.

Mi è venuto spontaneo aggiungere nuove riflessioni personali prendendo le mosse dallo studio della docente. Oggi al mio paese Racalmuto (di infanzia e di formazione) si ritiene essere patrona del paese Santa Rosalia, che in qualche modo ha spodestato Maria Santissima del Monte che ne deteneva in passato l’esclusiva. Si sostiene perfino che il paese abbia dato i natali alla Santa, contravvenendo a quanto sostenuto nel Martyrologium Romanorum: “Panormi natalis sanctae Rosaliae, virginis Panormitae”. (Papa Urbano VIII-1630).

Il padre gesuita Giordano Cascini nell’opera Santa Rosalia Vergine Palermitana scrivendo che: “V’era l’immagine della Santa dipinta nel muro da poi in qua rovinata, e quella, che vi ha oggi in tela è assai nuova, cioè del 1600; ma della prima immagine, restandole ben fissa nella mente, un valente dipintore del medesimo luogo, detto il Monocolo di Racalmuto il cui nome è Pietro D’Asaro, n’ha fatto fuori un bello esemplare…” ci tramanda l’idea che in una chiesetta di Racalmuto dedicata alla Santa esistesse una immagine dipinta a muro. Quest’affresco sarebbe stato sostituito poi da una tela realizzata dopo il 1625 da Pietro D’Asaro, che sarebbe stato ispirato proprio dall’immagine originale a muro di mano ignota che si era nel tempo rovinata.

Oggi questa tela, di cui si erano perse le tracce sembra essere la stessa che si trova oggi nel duomo di Delia, cittadina del nisseno, che dista pochi chilometri dalla stessa città natale di Pietro D’Asaro. Di storicamente certo rimane una pergamena datata 10 agosto 1625 dell’Arcivescovo Giannettino Doria a testimoniare l’invio da Palermo a Racalmuto di un reliquario argenteo contenente frammenti costali di Santa Rosalia. Va ricordato come Giannettino Doria oltre ad essere cardinale, negli anni 1624-1626, quelli che a noi interessano maggiormente, fu luogotenete del Regno di Sicilia. Il cardinale era figlio di Gianandrea Doria e di Zenobia Del Carretto e proprio i Del Carretto furono in quei tempi signori di Racalmuto: spiegato così l’invio del prezioso dono.

Il legame con i Del Carretto-Doria fece sì che il culto della Santa si diffondesse immediatamente in tutta la Liguria ed in quei paesi che con essa confinavano. Basti pensare come attraverso gli Appennini giungevano le merci da Genova alla pianura Padana, ricordiamo a proposito la via del sale e la via dell’olio. Da piacentino non posso non sottolineare come il fiume Trebbia, che attraversa tutta la provincia emiliana, nasca proprio a Torriglia, e di Torriglia era marchesa Zenobia Del Carretto-Doria che aveva creato ad Ottone (alta val Trebbia in provincia di Piacenza) uno dei Monti di Pietà.

Ricordiamo ancora come alcuni feudi (di Croce e di Casanova) dell’appennino piacentino erano stati assegnati nel 1575 dallo stesso imperatore Carlo V ai Doria, che ne mantennero il possesso fino al 1797. Molte notizie su Santa Rosalia e la sua agiografia possono essere dedotte dal libro del già citato Giordano Cascini “Di Santa Rosala Vergine Palermitana libri tre” (pubblicato postumo a Palermo appresso i Cirilli -da Decio Cirillo- nel 1651). Per quanto riguarda l’aspetto iconografico non si può prescindere invece dalle incisioni attribuite a ValerienRegnarda corredo dell’edizione del 1627 della “Vita S. Rosaliae virginis panormitanae e tabulis et parientis” per Valeriano Regnarzio Roma 1627. V. Regnard incisore, non si sa se belga o francese, di sicuro lavorò con i gesuiti, e nell’incisione allegata al testo del ‘27 rappresenta Santa Rosalia con le braccia conserte prospicente la Madonna con bambino ed ai lati i Santi Pietro e Paolo.

Non bisogna dimenticare che la storia della Santa viene proposta proprio da Giordano Cascini, che vuole riappacificare ed unificare la turbolenta comunità palermitana. Instabilità politica, lotte di potere all’interno dell’aristocrazia locale e tra le città isolane, la miseria delle campagne e il sovraffollamento della città provocavano miseria e malattie, non a caso il propagarsi di epidemie necessitava la figura di una nuova Santa Patrona che ridesse autorità al potere religioso e politico e fiducia alla popolazione.

La scelta dell’Arcidiocesi cadde così su questa monaca basiliana, il cui culto era già diffuso in Sicilia, soprattutto nei paesi dei monti Sicani. La monaca già santificata per volontà popolare era conosciuta soprattutto tra i poveri, adesso doveva risultare gradita anche alla nobiltà locale. Rosalia, divenuta di nobile origine, prenderà nuovo slancio dalle visioni della suora bivonese suor Maria Roccaforte, che ne sosterrà la permanenza e la costruzione della sua chiesa a Bivona, lì dove era vissuta. Tesi espressa anche da padre Paolo Collura che scriverà come probabilmente tutto sia nato dalla “fervida fantasia della monaca benedettina bivonese suor Maria Roccaforte, avallata dalla bonomia del suo confessore p. F. Sparacino S.J.” (Santa Rosalia nella storia e nell’arte-Flaccovio 1977).

Queste tesi, come la tradizione per il culto di Santa Rosalia, del festino e del trionfale carro barocco, sono ben documentati dall’antropologo Valerio Petrarca nella sua “Genesi di una tradizione urbana” (Palermo 1986), libro da tenere presente soprattutto per la sua ricca e completa Appendice documentaria. Ma non solo, perché riporta anche delle splendide incisioni, alcune riprese dal “Di Santa Rosalia” del Cascini, altre da In M. Del Giudice ed una della Collezione Pitrè.

Il Cascini riesce così, partendo da un sogno di suor Maria Roccaforte, a creare la figura della Santa come la figlia di Sinibaldo Sinibaldi, cresciuta alla corte di Ruggero, discendente di Carlo Magno. Dalla scelta di nobilitare la figura di questa nuova religiosa, ecco la necessità di costruire un’immagine che dal punto di vista estetico possa celebrarne la grandezza e la santità con una degna iconografia. Per quanto detto di Santa Rosalia a noi interessa, sulla scia degli studi su van Dick di Fiorenza Rangoni, l’aspetto iconografico e celebrativo.

A questo proposito la studiosa sostiene che la prima immagine che abbiamo di Santa Rosalia è quella dipinta da Vincenzo La Barbera che rappresenta la Santa nell’atto di intercedere per salvare Palermo dalla peste: lo sguardo è infatti rivolto alla SS Trinità e Maria, mentre con le mani indica la città: il monte Pellegrino ed il porto. Il quadro che si trova al Museo Diocesano era stato commissionato dal Senato del capoluogo siciliano ed eseguito nel 1624 per un compenso di 50 onze (F. Meli “Degli architetti del Senato di Palermo nei secoli XVII e XVIII”). Vincenzo La Barbera era di Termini Imerese ma di origini genovesi, come genovese era l’Arcivescovo e viceré Giannettino Doria e liguri i Del Carretto, signori di Racalmuto. E tra Genova e Palermo si era giocato anche il destino di una grandissima pittrice come Sofonisba Anguissola, sepolta per sua scelta a San Giorgio dei genovesi a Palermo.

Il 12 luglio del 1624 era avvenuto l’incontro tra l’ultranovantenne Sofonisba Anguissola ed il ventenne van Dick che così testimonia l’evento nelle pagine del suo Diario: “… mi diede diversi avvertimenti non dovendo pigliare il lume troppo alto, faccio che le ombre nelle rughe della vecciaia non diventassero troppo grande, et molti altri buoni discorsi come ancora conto parte della vita di essa per la quale conobbe che era pittore de natura et miraculosa et la pena pagiore che ebbe era per mancamento di vista non per dipingere: la mano era ancora ferma senza tremula nessuna”. Il Fiammingo dirà più tardi di aver ricevuto maggiori lumi da una donna cieca che dallo studiare le opere dei più insigni maestri. Di questo incontro ci rimane il ritratto di una Sofonisma dallo sguardo vigile ed attento, quasi un passaggio di consegne da una ritrattista ultranovantenne, oramai un’icona, ad un giovane poco più che ventenne, rappresentante della nuova pittura barocca.

Da un primo esame dei due quadri, di quello di La Barbera a Palermo (1624) e di Pietro D’Asaro nel nisseno, a Delia (post 1625), notiamo delle analogie: le mani rivolte a protezione della città, la presenza di Dio assiso nell’alto dei cieli, la presenza degli angeli, di un teschio ed infine la presenza della corona di rose e di candidi gigli. Comunque nulla vieta di pensare che lo stesso D’Asaro abbia visto il quadro di La Barbera ed abbia realizzato un’opera che pur avendo dei tratti comuni, risulta essere superiore per resa pittorica ed espressività iconografica, tanto da essere considerata un prototipo del manierismo isolano.

E van Dick? La figura di questo pittore può essere riassunta da quanto scrisse il seicentista storico dell’arte Giovanni Pietro Bellori: ”Grande per la Fiandra era la fama di Pietro Paolo Rubens, quando in Anversa nella sua scuola sollevossi un giovinetto portato da così nobile generosità di costumi e da così bello spirito nella pittura che ben diede segno d’illustrarla ed acrescerle splendore”. Quindi riassumendo diciamo che van Dick nasce ad Anversa nel 1599, fu allievo di Rubens, venne in Italia dove assimilò la pittura di Tiziano, viaggiò molto, tra Italia (Genova, Roma, Firenze, Venezia, Mantova, Milano, Torino, Palermo), Fiandre, Francia, Olanda ed Inghilterra, morirà a Londra il 1641. Come si sa erano forti i legami che si erano costituiti tra i Gesuiti e Rubens, non a caso il pittore da loro ebbe diverse commissioni, questo agevolò senza dubbio i rapporti dello stesso van Dick con quest’ordine religioso. Non a caso abbiamo un ritratto del gesuita Nicolas Trigault in abito cinese eseguito sia da Rubens che da van Dick negli stessi anni (1616-17). Ma non solo, sappiamo anche che il Nostro, faceva parte di una confraternita religiosa la Compagnia dei Giovani Celibi ad Anversa, non a caso in quella città giunsero le reliquie di Santa Rosalia nel1629.

È di quell’anno la realizzazione ad Anversa del quadro noto con il nome di Matrimonio mistico di Santa Rosalia, noto anche come Incoronazione di Santa Rosalia, o Madonna con Bambino, Santa Rosalia ed i SS. Pietro e Paolo, oggi a Vienna. Il quadro venne eseguito proprio per festeggiare l’arrivo delle reliquie della Santa, invio effettuato proprio dal Cascini nel 1628 per la Confraternita dei Celibi. In realtà c’era stato anche un precedente invio di reliquie nella città belga portate da Roma dal padre gesuita Florent de Montmorency prima del ’28. Anversa era l’avamposto del cattolicesimo e preminente era la presenza dei gesuiti, non a caso ila chiesa principale era stata dedicata a Sant’Ignazio di Loyola e decorata dallo stesso Rubens (1615/20).

Di Santa Rosalia van Dick realizzerà cinque quadri, due sono a Palermo, uno all’Oratorio del Rosario ed un altro a Palazzo Abatellis. La scrittrice palermitana Giuseppina Torregrossa in un articolo del 2023 ci presenta il pittore come un agente segreto che vive in Italia sotto falso nome, perché compare col nome di Vandechi (van Dick italianizzato) nel registro della Pasqua del 1621 della parrocchia romana di S. Lorenzo in Damaso (allora in via Corte Savella oggi via Monserrato), e perché amico di George Gage (nel registro romano Giorgio Gaggio). Questo soggiorno romano è testimoniato dal ritratto che van Dick fece al cardinale Guido Bentivoglio, oggi alla Galleria Palatina di Firenze.

Di George Gage, che era veramente un agente inglese a Roma per conto di Giacomo I Stuart, van Dick ci ha lasciato un ritratto un po’ scanzonato, dove l’inglese è rappresentato tra due figuri poco rassicuranti che sembra lo vogliano imbrogliare vendendogli un falso, una statua moderna come fosse un’opera antica. L’opera oggi si trova alla National Gallery di Londra.

Comunque va sottolineata una strana coincidenza, come partendo dal Cascini, un gesuita palermitano, si giunga ad un altro gesuita (in incognito) inglese come Gage. Così come Rubens aveva fatto opere per i Gesuiti, per i Gesuiti lavorerà anche il suo allievo van Dick. Ma, va da sé, siamo nel Seicento ed i Gesuiti erano l’Ordine religioso più potente, non a caso il percorso del corteo per il festino, sostava in primis davanti al Collegio dei Gesuiti poi alla Casa Professa (Gesuiti), e solo dopo davanti le chiese dei Teatini e dei Domenicani.

Tornando a noi, sappiamo che van Dick giunse a Palermo nella primavera del 1624, probabilmente invitato, per farsi ritrarre, da Emanuele Filiberto di Savoia, che era stato nominato viceré di Sicilia per volere del re di Spagna Filippo IV. Probabilmente il pittore fiammingo, essendo in contatto con religiosi d’alto rango, avrà avuto contatti con lo stesso cardinale Giannettino Doria, che scontento probabilmente della rappresentazione del pittore La Barbera, avrebbe commissionato al fiammingo una nuova tela della Santa. Surclassato così La Barbera diventerà proprio van Dick l’inventore dell’iconografia di Santa Rosalia.

Il ritratto di Emanuele Filiberto di Savoia venne comunque eseguito ed il risultato fu splendido, oggi il quadro si trova a Londra. A Palermo sembra abitasse in via de’ bottai, così si deduce da ciò che ci suggerisce il Paruta riferendosi ad un certo “Antonio Fiamengo” che abitava in via de’ Bottari.

Van Dick a Palermo non passava sicuramente inosservato. Abbiamo al riguardo una descrizione del suo portamento e del suo vestiario quando era a Roma e nulla vieta pensare fosse lo stesso a Palermo: “risplendeva in ricco portamento in abito e divise… perciò oltre li drappi si ornava il capo con penne e cintigli, portava collane d’oro attraversate al petto, con seguito di servitori” (Bellori). A testimoniarci il suo portamento ed il suo abbigliamento rimane la testimonianza di uno splendido Autoritratto adesso all’Ermitage di San Pietroburgo.

Il primo quadro di Santa Rosalia come abbiamo detto è stato eseguito da La Barbera, probabilmente perché non si voleva che lo eseguisse uno straniero, ma, ne sembra convinta la nostra Fiorenza Rangoni, il van Dick, su indicazione del Cascini avrebbe redatto il primo bozzetto poi realizzato dal pittore termitano. Era un compito arduo sostituire quattro Sante: Agata, Cristina, Ninfa e Oliva, che erano state fino ad allora le protettrici di Palermo, con una sola Patrona.Questo compito doveva premettere una iconografia pensata e predisposta dalla Chiesa, dai Gesuiti, rappresentati in questo caso dal Cascini che agiva seguendo le direttive del cardinale Doria.

C’è da ricordare a proposito come un Santo cui rivolgersi per far cessare la pestilenza c’era già ed era San Rocco. San Rocco era un pellegrino francese del ‘300 che era venerato dalla chiesa cattolica come taumaturgo, con i chiari segni della peste che il Santo mostra sulla coscia. L’agiografia l’aveva posto sugli altari dell’intera Europa al di là di qualsiasi riscontro storico, come avvenuto con tanti altri Santi nel corso dei secoli. L’agiografia è un insieme di produzioni letterarie che comprendono la vita, i miracoli ed il culto degli stessi Santi, da non confondere con la storia che è l’insieme di documenti inoppugnabili che testimoniano un dato avvenimento, avvenuto in un determinato luogo e in un preciso momento. La fine della peste venne attribuita al rinvenimento delle ossa di Santa Rosalia che vennero portate in processione dall’arcivescovo Giannettino Doria in uno scrigno d’argento.

Storicamente a debellare la peste a Palermo contribuirono senza dubbio le misure messe in atto dal protomedico racalmutese Marco Antonio Alaimo, che s’intendevadi peste e ragionevolmente si preoccupò delle infrazione alle misure di sicurezza. I quadri di Santa Rosalia dipinti da van Dick faranno da apripista all’iconografia della Santa che, da allora in poi verrà raffigurata, nell’atto di proteggere la città di Palermo, assunta in gloria, incoronata dagli angeli, che intercede presso la Madonna e la Trinità. I simboli che caratterizzeranno Rosalia saranno il giglio e la rosa che compongono il nome stesso a rappresentare regalità e purezza ed il teschio simbolo di meditazione sulla morte e sulla vita eterna.

Oltre alle pitture ad olio di van Dick ci sono giunti quattro disegni preparatori per incisioni, oggi al British Museum di Londra. Alcuni disegni saranno utilizzati per le incisioni contenute in un piccolo volume di 20 pagine titolato Vita S. Rosalie Virginis Panormitanae Pestis Patronae iconibus expressa, che si trova ad Oxford. Questo volumetto viene menzionato negli Acta Sanctorum e sarebbe stato stampato ad Anversa nel 1629.

Un culto antico di Santa Rosalia si trova nelle città che furono sotto la signoria dei Chiaramonte e perciò logico pensare che il suo culto fu sostenuto e diffuso proprio da costoro. A Bivona troviamo una statua che sembra anticipare il gusto barocco, soprattutto per il fercolo. Il fercolo e la statua lignea sono del 1601 e sono stati scolpiti dal sacerdote Ruggero Valenti.

Alla base del fercolo sono intagliate episodi della vita della Santa, immagini da cui il Cascini cercò di trarre spunto per creare l’iconografia della Patrona che dai Monti Sicani si trovava ad essere trasmigrata nella capitale isolana. Le delicate fattezze della statua ed il ricco decoro barocco, non si sa se siano stati visti dal van Dick, ma comunque nulla hanno da invidiare alle rappresentazioni della Santa dei suoi quadri!

Santa Rosalia intercede per Palermo, Vincenzo La Barbera, 1624, Palermo, Museo Diocesano

La storia di un libro: “La figlia di don Paolo Miraglia” di Maria Antonietta Erba. Un articolo di Carmelo Sciascia, autore del saggio ‘L’eretico don Paolo Miraglia’

Un libro, La figlia di don Paolo Miraglia scritto da Maria Antonietta Erba, viene pubblicato nel 1968 dalla casa editrice Mondo Letterario che aveva sede a Milano in Corso XXII Marzo n. 43, così come riportato nel mio libro L’eretico don Paolo Miraglia. Il manoscritto La figlia di don Paolo Miraglia era già stato “accettato da Bompiani” nel 1946, ma in seguito era stato ritirato dalla stessa Maria Antonietta che aveva creduto alle promesse di un appartamento, così come sostenuto in una lettera a Carlo Arcelli che termina amaramente: “E poi il tradimento, e la firma per fame! Adesso comincia il principio della vera fine. Io non ho più nulla da perdere visto che mi hanno già tolto tutto”.

La pubblicazione comunque avverrà nel 1968 ad opera della Editrice “Mondo Letterario” di Milano. L’autrice del libro in questione è proprio, come recita il titolo, Maria Antonietta Erba la figlia di don Paolo Miraglia Gullotti da Ucria. Don Paolo era stato il prete che, scomunicato per ben due volte dalla Santa Inquisizione aveva fondato a Piacenza una Chiesa Indipendente ed Autonoma, l’Oratorio San Paolo in via Trebbiola al numero 4, nei locali offerti dalla famiglia Abbate allora proprietaria di Palazzo Costa. Il libro, autobiografico, è ambientato in una città dell’Emilia che porterà il nome di Alberenza, la nobile famiglia cui si farà riferimento è la famiglia Cinelli. Nel libro “L’eretico don Paolo Miraglia” si riporta la frase che, come dice l’autrice, “Qualsiasi riferimento a luoghi o persone è da ritenersi erroneo o puramente casuale”, si aggiunge: “avvertenza cui noi ci associamo”. Ci vuole comunque poco a capire che la città di Albarenza è Piacenza e che i fatti descritti si riferiscono ad eventi avvenuti in questa città nel finire del secolo diciannovesimo. Se ne aveva avuto conferma già da subito, bastava infatti seguire il procedimento che si era svolto a Bologna in Corte d’Assise nel maggio del 1897. Processo che vedeva imputati il signor Alberto Solenghi ed il giovane conte Marco Arcelli che aveva attentato alla vita di don Paolo Miraglia il 24 settembre del 1896 a Fiorenzuola. “La discussione iniziale del dibattimento verterà sulla dichiarazione di paternità contenuta nell’atto d’accusa del tribunale di Parma: la bambina nell’atto di nascita è rivelata come figlia di ignoti ma dopo la sentenza d’accusa la bambina diventa la figlia di don Miraglia”. “Il processo anche se vedeva imputati gli attentatori, in realtà molti lo consideravano un processo al prete piacentino, si aspettavano venisse fuori la verità sul rapporto con la contessina Ida avvenuto a Ciavernasco di Settima e la paternità della bambina nata il 28 ottobre 1896. In quel processo l’avvocato Giuseppe Calda nell’arringa difensiva aveva sottolineato “il sentimento d’onore che doveva suscitare il disonore, disonore che dovrebbe giustificare qualsiasi impulso, e qualsiasi responsabilità giuridica, risposta che avrebbe dato qualsiasi padre, qualsiasi fratello. Per cui agendo l’Arcelli   sotto l’impulso del dolore deve essere assolto, restituito alla famiglia, alla sua città dove vivo è il sentimento della moralità domestica e civile”. E fu così che si giunse all’assoluzione.

“Si ricorda come solo un secolo dopo, il 5 agosto del 1981, con la legge 442 si cancellava dal codice penale italiano il delitto d’onore ed il matrimonio riparatore. La legge sarebbe giunta dopo il divorzio, il nuovo diritto di famiglia e l’introduzione dell’aborto”.

In realtà non si comprende come per salvaguardare l’onore familiare non si sia ricorso ad uno dei tanti stratagemmi, a cui ricorrevano le famiglie benestanti, quando si trovavano in simili frangenti. Si sa che la figlia maggiore, la primogenita, aveva portato la sorella a Chambery, simulando un viaggio per motivi di studio per evitare la nascita, o almeno per non farla partorire in casa. La contessa madre saputo il vero motivo del viaggio le faceva rientrare, sostenendo che la figlia doveva scontare la sua colpa dove aveva commesso il peccato. L’atteggiamento della contessa madre risulta infatti inconcepibile, perché allora i molti figli della colpa si facevano nascere segretamente e si affidavano a nutrici di fiducia. In questa occasione la tradizione non è stata seguita e questo rimane un mistero, tranne non si pensi a pressioni esterne alla famiglia, pressioni a che lo scandalo fosse tale da coinvolgere il presunto padre, uno scandalo che avrebbe portato alla definitiva uscita di scena di don Miraglia e della sua Chiesa. Comunque siano andate le note vicende va sottolineato come la contessina sia stata la vittima sacrificale: era, per i partigiani della nobile famiglia come per i sostenitori di don Miraglia, destinata al sacrificio morale.

Tornando al processo di Bologna va ricordato come l’assoluzione e la fine del processo avrebbero fatto comodo ad ambedue le parti coinvolte, cioè sia all’accusa che all’accusato. Veniva salvato l’onore degli Arcelli, in quanto un’azione eclatante, come era stato l’attentato di Marco, veniva approvata e condivisa dalla comunità, e permetteva al conte Giovanni di continuare a stare in società a testa alta. Così come per il sacerdote Miraglia si trattava di ripristinare l’onore che imponeva il suo abito religioso (anche se da scomunicato), messo in discussione dalle risultanze del tribunale di Parma, dall’ammissione della contessa Ida e dal passa parola popolare.

La notte tenebrosa del 30 ottobre 1896” scrive Maria Antonietta la vecchia governante del conte Cinelli si recava su una carrozza in città per deporre la neonata nella ruota del brefotrofio provinciale. La bambina era nata il 28 e due giorni dopo veniva portata di fronte all’ufficiale di stato civile di San Lazzaro Alberoni, allora comune, che le assegnava il nome ed il cognome, e la inviava al brefotrofio di Piacenza, l’istituto che accoglieva i figli illegittimi come lo era Maria Antonietta Erba.

Don Miraglia aveva nel frangente avanzato istanza presso il Tribunale affinché fosse nominato un Curatore per la piccola Maria Antonietta Erba nata il 28 ottobre 1896, figlia di ignoti, in realtà figlia della contessina Ida Arcelli. Il tutore della bambina sarà l’avvocato Melchiorre Aphel, nominato con decreto presidenziale ai sensi dell’articolo 136 del codice di procedura civile.

La contessina Ida Arcelli si sposerà poi con Marchesi Vincenzo, in seguito a detto matrimonio sostiene Maria Antonietta Erba di avere avuto scarsissimo aiuto economico, preoccupandosi la madre solo di salvaguardare il proprio patrimonio.

Scrive Maria Antonietta: “Saputa la mia storia e viste le lettere, della madre e del tutore, lo zio Moscani s’impegnò acciocché io ottenessi il riconoscimento della maternità autorizzato dalla legge. Fu il celebre avvocato Pizzigoni a intentare la causa per gratuito patrocinio”.

L’avvocato Mario Pizzigoni intraprese la causa per ottenere sia il riconoscimento che il mantenimento della Erba, pertanto si chiedeva il sequestro giudiziario e conservativo del fondo Centura (Sentura) che il tribunale di Piacenza autorizza il 31 luglio 1919.

L’avvocato Castagnetti in un articolo apparso nel numero 9 del 2015 dell’Urtiga, riporta la prima sentenza emessa dal tribunale che riconosce ufficialmente la maternità di Maria Antonietta e “dichiara per ogni conseguente effetto di legge che Erba Maria Antonietta nata a S. Lazzaro Alberoni il 29.10.1896, è figlia naturale di Arcelli Ida fu Conte Giovanni moglie a Marchesi Vincenzo”. Detta sentenza veniva pubblicata il 25 febbraio 1920. Una leggera contraddizione: il giorno posticipato della nascita il 29 anziché il 28 del mese di ottobre 1896. Ma ciò non deve stupire, rientra nell’ordine delle cose, la tempestività degli eventi non permette di agire presto e con cautela, di affrettarsi lentamente (festina lente).

Si ricorda a proposito come l’estratto dell’atto di nascita del Comune di San Lazzaro, compilato il 31 ottobre 1896 alle ore antimeridiane undici e minuti dieci, dall’Ufficiale di Stato Civile riporta: “… è comparsa Fantini Virginia di anni cinquantuno, levatrice, domiciliata a Gossolengo la quale mi ha dichiarato che alle ore antimeridiane una e minuti dieci del trentuno del corrente mese, nella casa posta in San Bonico al numero centotredici, da una donna che non acconsente di essere nominata, è nato un bambino di sesso femminile che mi presenta e a cui do il nome di Maria Antonietta e il cognome di Erba”.

L’effetto della pubblicazione del libro non si fa attendere e Maria Antonietta otterrà un appartamento a Piazza Guardi a Milano. In Sicilia invece, nel paese e nel circondario di Ucria, il paese natale di don Paolo, le poche copie che arriveranno nelle edicole saranno comprate e distrutte dai parenti del prete (così mi è stato riferito dal pronipote Pietro Miraglia, presente alla prima presentazione nazionale del libro L’eretico don Paolo Miraglia avvenuta proprio ad Ucria il 20 luglio 2024).

Dal libro comunque esce abbastanza male la figura della madre e di tutta la sua famiglia. Mentre del padre Maria Antonietta conserva solo il nostalgico ricordo di una sua visita in uno dei tanti conventi dove era costretta a soggiornare durante l’infanzia e ce lo presenta positivamente: “Si voleva ad ogni costo vedere e udire predicare quel reverendo dalla impeccabile oratoria, convincente nelle sue asserzioni e combattivo contro i molti ostacoli che si frapponevano alla sua nuova dottrina”. Maria Antonietta Erba sentirà comunque sempre il peso di essere la figlia della colpa.

Venerdì 9 maggio dalle ore 17 Sciascia invita ad una passeggiata storico-rievocativa nel centro storico di Piacenza (partenza ai giardini Margherita, di fronte alla stazione FS), nei luoghi dove è stato don Paolo Miraglia Gullotti, luoghi testimoni delle sue vicende politico-religiose comprese dal 1895 al 1901 

Appunti per un libro di Bruna Milani: “Invernalia”. Intervento di Carmelo Sciascia

In un mondo frenetico, dove la comunicazione avviene per slogan attraverso le poche parole comuni che si usano quotidianamente o addirittura viene eliminata qualsiasi altra forma di comunicazione scritta, ha senso parlare di poesia? Oggi che siamo abituati a comunicare ed esprimere i nostri sentimenti attraverso espressioni extra-verbali come gli smiley, le famose faccine stilizzate con le principali espressioni facciali, ha senso parlare di poesia? Qualcuno ci dice di sì, ce lo dicono gli scrittori, gli artisti, ce lo dicono soprattutto i poeti.

Di poesia e magia l’uomo ne ha ancora bisogno, anche perché sentimenti come la nostalgia, la disillusione, la speranza, il rancore o l’amore possono esseri espressi in modo esaustivo solo dalla poesia.

Tanto si è scritto sulla poesia, anch’io ricordo di aver riempito pagine intere di giornali, per cercare di far capire il senso delle parole e la loro magia nel trasformare la realtà. Una di quelle pagine le ho condivise con la giornalista Bruna Milani, che oltre ad essere una brava scrittrice (autrice teatrale, interprete ed ideatrice di eventi culturali, critica d’arte) considero in primis un poeta. Chi è un poeta? Il poeta, stante l’etimologia, è una persona che sa “fare”, che sa creare, non dice semplicemente le cose ma le crea. E per creare deve avere una buona immaginazione ed una sensibilità sconfinata. Questo è il punto di partenza per capire ed apprezzare la poesia di Bruna Milani che da sempre, dall’infanzia, ci propone i suoi versi. Dopo “Candori” (2021) ecco quest’anno “Invernalia” (EtaBeta – 2024) un altro libro che contiene poesie, articoli e prose inedite, a rimarcare l’impegno morale del poeta nei riguardi di una società strattonata da repentini cambiamenti socioculturali e climatici.

La neve, il Natale, sono i temi ricorrenti di questa raccolta, il libro è disponibile a Piacenza nella libreria Romagnosi e Postumia. Solo i bambini hanno occhi puri che sanno vedere il bello che c’è intorno a noi, il bello che copre il mondo in seguito ad una nevicata o dietro le lucine del Presepe: i bambini ed i poeti.

Bruna Milani interroga l’indicibile e ci mostra le infinite letture che può darci una stagione o un semplice fiocco di neve. La nostalgia è il collante con il passato, un legame che sa e può dirci molto per il presente e perché no anche per il futuro. 

Bruna non nutre semplicemente il bambino che è in noi, l’aveva fatto già Pascoli ed altri, prima e dopo di lui, ma ci invoglia, attraverso l’incantesimo del paesaggio e della natura, a lottare per non perdere le nostre tradizioni. Le tradizioni costituiscono la memoria di una comunità, una memoria che non deve generare l’oblio ma liberare dall’angoscia del presente.

Credo che Bruna Milani possa condividere il pensiero del filosofo Campanella che scrive come la poesia sia uno strumento magico, che agisce sullo spirito e genera le passioni. Questo perché la poesia di Bruna agisce sulla memoria ed attraverso il ricordo vuol generare quella passione che è partecipazione alla vita politica per un cambiamento della società che liberi l’uomo contemporaneo dagli incubi in cui versa.

La natura tesse un incantesimo, così come la poesia di Anna Milani

“A proposito di Santi: L’è vecc ‘cme ‘l can ‘d San Roch”, intervento di Carmelo Sciascia

I piacentini cacciano Rocco dicendolo insano e mentecatto, opera di Karl Evver

Non è vero che i Santi son tutti uguali. Premessa la comune capacità taumaturgica di operare miracoli (se no che santi sarebbero), la loro diversità riguarda la presenza in ambito storico. Mi spiego meglio. Si sa che la storia dei Santi è spesso un insieme di agiografie, cioè un insieme di produzioni letterarie che comprendono la vita, i miracoli ed il culto degli stessi Santi. Agiografie che spesso, anche se diverse e tra loro contraddittorie, hanno come fine ultimo di testimoniare il loro “esserci”, come avrebbe detto Heidegger, di testimoniare la loro esistenza e la veridicità storica. Ma sappiamo che così non è. La storia è l’insieme di documenti inoppugnabili che testimoniano un dato avvenimento, avvenuto in un determinato luogo e in un preciso momento. Quindi cercherò di calare il discorso a prima vista astratto su due santi a noi piacentini molto cari e vicini. Uno è tra i più conosciuti e venerati al mondo San Rocco, ma pur essendo tra i più noti, rimane storicamente una figura misteriosa, di difficile configurazione. Diciamo che rappresenta un prototipo di guaritore, di pellegrino, di fedele, un modello cui ispirarsi e come tale una figura ideale ma non reale.

Sulle ipotesi intorno alla figura di San Rocco si vedano a proposito le congetture formulate con dovizia di particolari da Edoardo Bavagnoli, giovane storico piacentino, nel suo saggio “La peste, il cane, il corniolo”.

Probabilmente un San Rocco come ci ha tramandato la tradizione non è mai esistito, può darsi sia stato soltanto una traslazione onomatopeica di un santo vescovo vissuto nel VII secolo in Borgogna che si chiamava Racho di Autun (Pierre Bolle). Ma nonostante tutto, di San Rocco si dice sia nato a Montpellier, è stato pellegrino a Roma e di ritorno si sia fermato a Piacenza, a Sant’Antonio ed a Sarmato dove è stato, secondo la tradizione ospite dei Pallastrelli.  A Sarmato si trova la grotta e la fonte d’acqua. Il cane partiva dal castello per portare il pane e così provvidenzialmente provvedeva alla sussistenza del Santo. Tutto di questo santo rimane avvolto nel mistero, dalla nascita (Montpellier?) alla morte (Voghera, Angera o Montpellier?)

I primi affreschi che ci ricordano la figura di San Rocco li troviamo a Caorso ed a Piacenza nella navata sinistra della chiesa di Sant’Anna (XV secolo), l’ultimo l’ho visto alla Rocca di Borgonovo nella mostra Love Us All, in realtà più che un quadro è un intero ciclo artistico di Karl Evver, artista e letterato piacentino, scomparso prematuramente qualche anno fa. Due le opere che colpiscono in modo particolare, “I piacentini cacciano Rocco dicendolo insano e mentecatto”, insano sicuramente se affetto da peste bubbonica, mentecatto perché povero. L’altro quadro “San Rocco rifiuta il latte della madre per non compiacersene”. E qui la lettura si complica, rifiutare il latte materno è un gesto inumano, quasi un oltraggio alle leggi naturali, ma appunto perché compiuto da un Santo diventa un gesto giustificabile: il nutrimento un santo lo riceve dalla divinità che lo ha predestinato alla santità. È un gesto in antitesi alla leggenda del cane Resto che gli portava del pane. San Rocco come tutti i Santi non aveva bisogno del cane che gli portasse il pane, ma ad un gesto di puro altruismo, di fedeltà, non si può dire di no, in fondo il pane ha rappresentato il corpo di Cristo. La lettura del gesto raffigurato nel quadro merita uno studio più approfondito, forse si dovrebbe ricorrere all’aiuto delle scienze psicologiche e psicoanalitiche, o no?

La fantasia che si può sbizzarrire nella lettura di queste opere di Karl è la stessa che si può sbizzarrire sulla ricostruzione di una figura di santo come quella di San Rocco, dove le tante agiografie, a volte sembrano confermare ed a volte contraddire la storia!

Tante a Piacenza e nel suo territorio le chiese dedicate a San Rocco nel corso dei secoli. Poche le chiese dedicate a San Corrado, la prima a Calendasco la più antica, a Piacenza solo negli anni Ottanta del Novecento la seconda. Ed a proposito di arte e pittura come non ricordare i due magnifici quadri di Bruno Grassi: La Gloria di San Corrado e L’incendio, che adornano la chiesa del quartiere Duemila. All’opposto di San Rocco troviamo San Corrado, l’altro Santo di cui sappiamo tutto, ma proprio tutto, con dovizia di particolari e di documenti inoppugnabili: della nobile famiglia Confalonieri, protettore di Noto in Sicilia, dove è morto da eremita in odore di santità. Molte delle notizie su San Corrado ci vengono continuamente rivelate dallo storico Umberto Battini, grande studioso e devoto del Santo. Forse proprio perché nessuno è profeta in patria San Corrado è stato quasi dimenticato dai piacentini che invece si sono invaghiti di un Santo straniero di cui non si sa nulla di certo e nemmeno certa è la sua stessa esistenza come personaggio storico. Ma questa è una storia, una storia vecchia come è vecchio il cane di San Rocco!

San Rocco rifiuta il latte della madre per non compiacersene, opera di Karl Evver

“La stanza accanto” di Pedro Almodovar, ovvero la vita e la morte, recensione di Carmelo Sciascia

Mentre ascoltava la neve cadere lieve su tutto l’universo, come la discesa della loro ultima fine, su tutti i vivi e su tutti i morti”. Così si conclude il racconto finale intitolato I Morti di Gente di Dublino dello scrittore James Joyce. La neve da fenomeno meteorologico diventa in Joyce fenomeno escatologico: la neve come la morte avvolge non solo l’Irlanda ma tutto l’universo creato, livella la vita di ognuno e di tutti, elimina e scoperchia qualsiasi nascondiglio l’uomo si possa aver dato a giustificazione della propria esistenza.

La stanza accanto l’ultimo film di Pedro Almodovar è l’adattamento cinematografico del romanzo Attraverso la vita della scrittrice americana Sigrid Nunez. Ed in America, a New York, è ambientato il film di Almodovar, che ha per protagoniste due donne Ingrid (Julianne Moore) e Martha (Tilda Swinton).

Ingrid è una scrittrice di successo, la fila per una dedica sui suoi libri è quanto di meglio potrebbe immaginare uno scrittore durante un normale firmacopie in una libreria. Martha è stata invece una giornalista che sul più famoso giornale statunitense ha scritto come inviata di guerra. Un ruolo maschile, come dice lei stessa, che l’ha resa incapace di ricoprire il ruolo di madre. Il rapporto di Martha con la figlia, avuta con un reduce di guerra che dalla guerra è ritornato psicologicamente disturbato, è disastroso, meglio sarebbe dire inesistente.

Ma il tema principale del film è la morte. Il tema della morte che qui è sopraesposto al tema dell’eutanasia. la scelta di decidere la fine della propria esistenza come atto di estrema dignità, come la sconfitta di una malattia che non perdona. O meglio, la malattia che non può essere sconfitta con le armi della medicina, viene sconfitta dalla volontà dell’ammalata che sceglie di anticiparne l’epilogo. Ultimo desiderio di Ingrid è di non morire da sola ma di sapere che nella porta accanto ci possa essere qualcuno, la scelta dopo il diniego di diverse amiche cadrà sulla scrittrice Martha che accetterà di starle vicino fino all’ ultimo giorno.

L’eutanasia è reato ancora in molti Stati. Anche in Italia, dove grazie alla disobbedienza civile di Marco Cappato è stata riconosciuta solo in particolari circostanze. L’Associazione Luca Coscioni si è battuta e continua a battersi per eliminare tutti gli ostacoli che si frappongono per il pieno riconoscimento dell’autodeterminazione alle persone colpite da gravissime malattie. Una battaglia che significa eliminare il fenomeno dell’eutanasia clandestina e la fine della via dell’espatrio come avviene oggi. La famosa pillola che dovrebbe porre fine alle sofferenze della malattia, essendo illegale, può essere reperibile in siti clandestini, e così avviene nella nostra storia. La stanza accanto è un’altra storia, dopo Parla con lei, che smentisce la leggerezza con cui siamo abituati a classificare un regista come Almodovar, regista che era stato abbinato ad una visione onirica della vita dove dominano sessualità ed ironia. Come non ricordare Donne sull’orlo di una crisi di nervi o Tutto su mia madre!

I bei film come i buoni libri hanno il merito di farci riflettere su questioni attuali che riguardano non solo alcuni individui ma la società tutta. Come in questo caso.

Eros e Thanatos, tanto diversi da sembrare opposti, nel film come nella realtà sono indissolubilmente uniti. La vita e la morte, sono in realtà un unicum, si sa (è lapalissiano!) si nasce per morire. E l’una non potrebbe esistere senza il suo opposto. La morte è un dato certo, ma ogni volta che accade ce ne meravigliamo, come fosse l’ultimo degli accadimenti possibili e prevedibile.

La neve così leggera e soffice, a volte colorata di rosa come nel film, ha la capacità di ricoprire tutti e tutto. Qualcosa comunque rimane, rimane il ricordo delle opere che sono state realizzate in vita e gli affetti. Immortali i sentimenti di amicizia e di filiazione, immortale il valore ed il senso della libertà. Immortale la passione con cui ognuno svolge il proprio lavoro, immortale il senso dell’amicizia, immortali gli incontri affettivi, in altri termini immortale rimane l’amore di qualsiasi genere ed in qualsiasi modo si manifesti…. E di qualsiasi colore scenda la neve, si sa che comunque inesorabilmente scenderà!

“Napoli-New York” film di Gabriele Salvatores: fiaba o storia? Commento di Carmelo Sciascia

Solitamente la recensione di un film inizia dalla regia, dal discettare sul lavoro e dall’impronta che il regista vuol dare all’opera cinematografica, ma non sempre è così. Per iniziare ad affrontare la tematica di un film come Napoli-New York del regista Gabriele Salvatores bisogna partire da chi ne ha scritto il soggetto. Ed allora scopriamo che un autore del “libretto”, come si sarebbe detto nell’Ottocento, è Federico Fellini l’altro Tullio Pinelli che di Fellini fu stretto collaboratore. Federico Fellini aveva quindi pensato di realizzare un film che parlasse del dopoguerra, delle condizioni di una città come Napoli, emblema della condizione italiana, dell’emigrazione in America e di due scugnizzi che comunque sarebbero stati in grado, malgrado le avversità del tempo, di cavarsela, cioè di sopravvivere e di affrontare il futuro. Non è facile rapportarsi ad un regista come Fellini che ha fatto la storia del cinema italiano con i suoi quaranta film, ma Salvatores lo fa con la consapevolezza e la dignità che l’impresa comporta. Nel magico mondo felliniano il sogno ed il ricordo coincidono. Nel film di Salvatores la favola coincide con la fiaba e tutte e due coincidono con la storia. La favola ci vuole insegnare un comportamento, contiene un’etica, la fiaba si fonda sulla fantasia, sulla magia della fantasia. Ebbene questi due generi che sembrano essere avulsi dalla storia in questo film fanno la storia, costituiscono l’anima della storia.

Siamo nella Napoli del dopoguerra, una città devastata dai bombardamenti, distrutta nel tessuto economico e sociale. Non è difficile immaginarsela, basti pensare alla striscia di Gaza oggi, a come le città sono state ridotte ad un cumulo di macerie ed i bambini resi orfani o mutilati in seguito ai bombardamenti israeliani. 

Ebbene, allora come oggi, questi bambini dovevano fare i conti con la dura realtà e con tutti gli aspetti terribili della lotta per la sopravvivenza. Nel dopoguerra si era rinvigorito il mito dell’America, terra d’emigrazione già da fine Ottocento, anche in seguito all’immagine dell’abbondanza che l’esercito di Liberazione (o d’occupazione che dir si voglia) aveva dato di sé, con la distribuzione di stecche di sigarette e cioccolata. L’immagine di Napoli di allora è quella che ognuno si immagina, una cartolina dove la miseria la fa da padrone, dove ci si ingegna anche ballando e suonando, dove si vive di contrabbando, e dove nei quartieri popolari domina la prostituzione e le perversioni così come ce le aveva descritto Curzio Malaparte.

Due bambini appena adolescenti riusciranno ad imbarcarsi, involontariamente, su una di quelle grandi navi che trasportavano in terza classe gente che si era venduto quel poco che aveva (il loro tutto), per sfuggire alla miseria e cercare fortuna in quella terra mitica che nella fantasia popolare rappresentava un nuovo Eldorado.

A proposito, chi volesse rivivere l’esperienza dei nostri connazionali non deve fare altro che visitare il Museo dell’Emigrazione Scalabrini (MES) in via Torta a Piacenza. In questi locali della Casa Madre degli scalabriniani è stato ricostruito l’interno di una nave tipo adibita al trasporto degli emigrati, impressionante la ricostruzione multimediale e credetemi non se ne può uscire indenni. Come la situazione oggi di Gazza ricostruisce realmente nei nostri giorni la situazione di Napoli nel dopoguerra così il museo scalabriniano ricostruendo la storia dell’emigrazione italiana rimanda all’emigrazione odierna, ai gommoni di disperati che partono dall’Africa, per sfuggire alla guerra ed alla miseria. Molti di loro sono minorenni, bambini non accompagnati che i genitori affidano al destino….

E la nave va, ci aveva suggerito Fellini, e la nave Victoria va, ci dice Salvatores finché giunge a New York. Siamo negli anni Cinquanta, l’opulenza della fiorente città americana è abbagliante, l’eleganza della gente, lo sfavillio delle insegne, il traffico delle auto, è l’opposto di tutto ciò che i due ragazzi Carmine (Antonio Guerra) e Celestina (Dea Lazzaro) avevano visto nella città partenopea. La New York è quella di Brooklin, la “Brucchilino” della Little Italy: dello street food e della festa di San Gennaro, del Bronx dei negri e della musica jazz. La loro salvezza sarà rappresentata dal comandante Domenico Garofalo (Pierfrancesco Favino), inserito molto bene nel tessuto sociale e politico newyorchese. C’è anche una vicenda molto particolare, ma che rispecchia il periodo storico, Agnese (Anna Lucia Pierro) sorella di Celestina si trova in carcere perché ha ucciso il fidanzato che gli aveva promesso di sposarla se lo avesse raggiunto negli States, mentre in realtà era già accasato. Quello che potrebbe sembrare un fotoromanzo d’appendice in realtà, grazie al direttore del giornale Joe Agrillo (Antonio Catania) creerà un movimento d’opinione, una coscienza collettiva investirà le associazioni femminili che faranno pressione affinché Agnese non venisse condannata a morte.

Il peso dell’opinione pubblica, tramutava una ineluttabile pena di morte in una condanna a soli due anni. Evidentemente questo peso, cioè il peso dell’opinione pubblica, oramai è solo un lontano ricordo, perché se andiamo a fatti a noi vicini notiamo come esso sia completamente svanito. Infatti a Piacenza a nulla sono valse le proteste e la raccolta di trentaquattromila firme per fermare lo stravolgimento di Piazza Cittadella, così come a nulla è valsa la protesta degli italiani per affermare la pace ed impedire l’invio di armi che hanno alimentato e continuano ad alimentare i conflitti in altri Paesi.  

Carmelo Sciascia

“Vermiglio”, il film di Maura Delpero ovvero l’arte di narrare il passato. Intervento di Carmelo Sciascia

Il regista Ermanno Olmi negli anni Settanta aveva fatto un film per rendere omaggio alla sua terra, la pianura bergamasca dove affondavano le sue radici. In realtà era nato in un quartiere di Bergamo, nel quartiere Malpensata, dove oggi sorge un parco, il parco Ermanno Olmi appunto. Il film era L’albero degli zoccoli, un film dove le scene sembravano ispirarsi ai quadri di Millet o, per restare in Italia, ad opere di Segantini. Negli anni Settanta era difficile pensare di realizzare un film neorealista, che ricostruisse un mondo contadino preindustriale, e che il film potesse avere successo. Oggi la regista Maura Delpero gioca la stessa carta e ricostruisce in un piccolo paese, non di pianura ma questa volta di montagna, una storia ambientata nel 1944. I dialoghi (sottotitolati) sono in lingua autoctona, il solandro, permettono di accentuare il senso di isolamento di un paese come Vermiglio. Il nome di questo paese darà il titolo al film. Molte sono le similitudini con il film di Olmi: l’uso del dialetto, l’atmosfera di una civiltà preminentemente contadina e preindustriale, a tratti primitiva, la sensazione di un costante freddo invernale non alleviato dal comfort cui siamo abituati noi oggi.

L’inizio sembra procedere stancamente, si fa fatica ad entrare nelle vesti dei protagonisti, ma una volta indossati i loro panni si viene coinvolti più che dalla storia narrata, dalla trama della storia, dall’ambiente in cui ci si trova catapultati, dalle stalle alle case, dagli interni delle abitazioni e del loro arredo essenziale e lindo. Gli unici luoghi di aggregazione sono la Chiesa dove si recita messa in latino e l’osteria dove si beve vino e si gioca a carte. E mentre non si rimpiange oggi la messa in latino, ci si rammarica invece della scomparsa delle vecchie e familiari osterie. Quelle osterie che erano in netta contrapposizione al mondo in cui viviamo oggi, a partire dal linguaggio sia orale che gestuale. Oggi la moderna tecnologia ci fa dimenticare la cultura autoctona e la lingua madre per catapultarci in un mondo omologato ed uniformato da neologismi anglosassoni frutto di un’economia globalizzata.

La regista Maura Delpero ha vinto diversi premi tra cui il Leone d’argento, gran premio della giuria all’ultima Mostra del cinema di Venezia, ma tanti altri collaboratori meritano di essere menzionati.

Impersona la figura del maestro Cesare, l’intellettuale del paese, Tommaso Ragno, un attore che non ha bisogno di presentazioni. Un attore che sa il suo mestiere e lo dimostra sul palcoscenico di teatro come sul set cinematografico.

Oggi una notizia ci coglie preparati: il Comitato ha designato all’Oscar per la 97 edizione proprio Vermiglio con la seguente motivazione: ”per la sua capacità di raccontare l’Italia rurale del passato, i cui sentimenti e temi vengono resi universali”. Come volevasi dimostrare: il merito del film sta proprio in questa affermazione: nella “capacità di raccontare l’Italia rurale del passato”, ma non solo.

Anche se c’è la guerra, siamo nel 1944, sul finire quindi della seconda guerra mondiale, non è presente nessun episodio bellico, il film rimane fuori dai drammi di una guerra guerreggiata. E qui balza evidente l’analogia prima con romanzo Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati e poi con il film di Valerio Zurlini, la guerra rimane fuori dalle mura della Fortezza Bastiani ed il personaggio principale rimane l’ufficiale Giovanni Drogo e la vita della caserma. Così in Vermiglio della guerra se ne conosce l’esistenza ma non se ne vede la drammaticità. La cinepresa riprende il paesaggio e la vita di un paese di montagna, una vita monotona scandita dal lavoro, quel lavoro necessario alla sopravvivenza. La vita degli abitanti di Vermiglio, di tutti i protagonisti del film, è comunque pervasa da una tensione messianica. Il dramma è atteso ed arriverà, sarà la tempesta dopo la quiete e non sarà la guerra a determinarlo, ma un giovane e silenzioso soldato siciliano Pietro (Giuseppe De Domenico) che, dopo avere sposato Lucia (Martina Scrinzi), figlia del maestro Cesare, si recherà in Sicilia… una Sicilia percepita come una lontana terra abitata da leoni, una propaggine del continente africano.

Per le poche cose dette e per tutto ciò che è stato taciuto, possiamo affermare parafrasando il conte Auguste de Villiers del L’Isle-Adam che di questo film sicuramente ce ne ricorderemo.

Il film “Iddu – L’ultimo padrino” verità o fantasia? Intervento di Carmelo Sciascia

Alcuni film partono da un progetto fantasioso per cercare di farci comprendere la realtà fattuale, altri invertono la narrazione: partendo da vicende reali proseguono liberamente la loro creatività fino a giungere a conclusioni di pura fantasia. A chiarimento di quest’assunto ci viene incontro l’incipit del film Iddu: “La realtà è un punto di partenza, non una destinazione”. Ma a volte, e credo sia questo un caso plateale, la destinazione coincide con il punto di partenza. Il film infatti nel finale ci spiattella una spiacevole verità e cioè che in Italia c’è una parte degli organi dello Stato che indaga spassionatamente e cerca la verità a tutti i costi ed un’altra che rema contro e cerca in tutti i modi, con le buone e spesso con le cattive, di non giungere mai alla verità, sia storica che processuale. In tutto questo parte dei nostri servizi segreti hanno avuto un ruolo primario. Per l’attentato a Falcone si sa il ruolo che “il corvo” ha avuto un ruolo importante anche se ne disconosce l’identità; per Borsellino oltre agli innumerevoli depistaggi in fase processuale, è rimasto un mistero la scomparsa dell’agenda rossa; un altro mistero inquietante rimane il covo palermitano di Reina, che dopo l’arresto è stato ripulito per fare scomparire qualsiasi documentazione compromettente. Ultimo fatto eclatante in ordine cronologico permettere una latitanza di trent’anni a Matteo Messina Denaro pur rimanendo spesso a casa sua, in Sicilia.

Iddu, è il nuovo film dei registi palermitani Fabio Grassadonia e Antonio Piazza. E da siciliani qualcosa di mafia sono in grado di dire e lo dimostrano compiutamente. Il film prende spunto da un fatto di cronaca: l’arresto del famoso mafioso Messina Denaro. Latitante da più di trent’anni, il suo arresto era stato presentato all’opinione pubblica come una grande vittoria dell’apparato investigativo tout court. Il film in questo caso parte da un fatto di cronaca reale per giungere ad una realtà, apparentemente fantasiosa, ma anch’essa con molta probabilità vera, almeno veri sono i tanti tasselli che compongono la trama di questo lungometraggio.

Il film, magistralmente interpretato da Toni Servillo, il preside Catello Palumbo (ex sindaco, ex assessore, ex speculatore) e da Elio Germano (Matteo Messina Denaro) ci dice altro, ci dice molto di ciò che sta fuori dalla storia ufficiale. Nel finale c’è un colonnello dei carabinieri Emilio Schiavon (Fausto Russo Alesi) che confessa quella verità che l’opinione pubblica da tempo ha fatto propria. I servizi segreti hanno saputo sempre tutto del ricercato, ma non hanno voluto procedere all’arresto fintanto che non si fosse reso necessario, fintanto che non si fosse venuta a creare una peculiare “conditio sine qua non”. Il colonnello ci spiega come il ruolo dei servizi segreti è di essere presenti sempre, conoscere e sapere tutto, ma di agire solo quando il contesto lo rende utile e necessario: improcrastinabile. Chi nasconde l’ultimo padrino, a casa propria è la vedova Lucia Russo (Barbora Bobulova), personaggio che risulta essere in combutta con i servizi segreti.

L’ispettore Rita Mancuso (Daniela Marra) anche se si dedica con passione alla caccia dei latitanti, è un’inconsapevole pedina dei servizi stessi. Tutto è funzionale a quel “Contesto” cui ci aveva reso edotti Leonardo Sciascia. C’è in questo film tanta letteratura siciliana, c’è soprattutto l’animo solipsista ed autoreferenziale di tanti isolani più o meno colti. Le lettere del mafioso lo dimostrano ampiamente. Il connubio con il potere politico è palese, lo è stato nella realtà con la speculazione edilizia, lo è nel film con la tentata costruzione di un grande albergo su una spiaggia, demanio pubblico. Inquieta nel film anche la comparsa di un senatore che si incontra con il capomafia di turno prospettando la pioggia di denaro pubblico che cadrà a valanga nelle tasche degli imprenditori (collusi) per la costruzione dei parchi eolici. Parchi eolici che, oltre ad essere fonte di guadagni discutibili, continuano a deturpare irrimediabilmente il paesaggio delle colline e delle campagne del nostro territorio.

Tanta critica cinematografica si è soffermata sull’estetica del film, sull’interpretazione degli attori, nessuno ha sottolineato l’aspetto politico, per questo mi sono sentito in obbligo di scrivere questa breve nota. Sarà anche perché i riferimenti con la politica di questo film rimandano a certo cinema degli anni Settanta, le pellicole con le quali è cresciuta una generazione che ha cercato, senza riuscirci di cambiare qualcosa di questo Stato. Mi riferisco a registi quale Elio Petri, come non ricordare “Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto” o di Francesco Rosi “Cadaveri eccellenti”.

Partendo da un film come Iddu si potrebbe parlare dell’ambigua storia d’Italia, dall’eccidio di Portella della Ginestra all’arresto di Matteo Messina Denaro che sicuramente non è stato l’ultimo Padrino, come non lo era stato Totò Reina e tanti altri che all’opinione pubblica sono stati presentati come ultimi, quasi che con il loro arresto la mafia fosse stata debellata definitivamente!

Oggi sappiamo tutti che la mafia non è il singolo personaggio o un gruppo regionale ben definito, ma è un fenomeno diffuso che si nasconde e si mescola con il mondo degli affari, è “il mondo delle corruzioni, degli appalti, degli appoggi trasversali, delle rivelazioni di segreti strategici; i rapporti politici; la protezione dei latitanti; l’agevolazione negli investimenti”. In questa frase di Sebastiano Ardita troviamo anche l’essenza di questo film. Buona visione.

Iddu con Elio Germano è un film sulla latitanza della giustizia italiana

C’è sempre ed ovunque un “Campo di battaglia”, commento di Carmelo Sciascia al film di Gianni Amelio

“Campo di battaglia”, il film di Gianni Amelio

Nel 1917 mio nonno Giuseppe aveva 22 anni, era nato nel 1895, morirà nel 1979. Era uno dei tanti siciliani, come di altre regioni, che senza sapere il perché, si era trovato a combattere gli austriaci catapultato in una delle tante trincee del vasto fronte che si era creato nel Friuli Venezia Giulia, durante la prima guerra mondiale. Mi viene in mente l’incipit del Processo di Kafka: “Qualcuno doveva aver calunniato Josef K., poiché un mattino, senza che avesse fatto nulla di male, egli fu arrestato”. In questo caso particolare, mio nonno Giuseppe, di professione carrettiere, senza che avesse fatto nulla di male, si era trovato a combattere il nemico ed uccidere altri soldati in nome di un’entità astratta ed a lui estranea: la Patria,. Mi aveva raccontato, dietro mia insistenza, diversi episodi successi in quella guerra, una guerra che aveva voluto dimenticare. La figura di mio nonno mi è venuta in mente in questi giorni dopo avere assistito al film “Campo di battaglia” di Gianni Amelio, appena uscito nelle sale, reduce dalla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia, appena conclusa. Nel film si assiste alla fucilazione di un soldato in procinto di tornare a casa, nel catanese, già reduce dal fronte ed orbo di un occhio. La sua fucilazione doveva servire da esempio alla truppa per impedire episodi di autolesionismo, per ottenere una cieca e passiva obbedienza (episodio che mi ha fatto ricordare mio nonno). In realtà tanti erano stati i soldati fucilati come monito, si ricorda a proposito il generale Andrea Graziani, passato alla storia come il generale delle fucilazioni, che aveva avuto il compito di mettere ordine nelle retrovie del Regio Esercito: l’ordine proveniva direttamente dal capo di stato maggiore Luigi Cadorna, teorico delle esecuzioni sommarie. Essere in un ospedale da campo nel nostro caso è come trovarsi in un campo di battaglia, come essere in trincea. Si confrontano ed affrontano, in questa storia, due diverse concezioni. Una che tende a considerare il soldato come essere da immolare ad un astratto ideale patriottico, l’altro che lo vede come un essere umano, con i suoi bisogni e le sue paure. Siamo nel pieno della prima guerra mondiale, ma nel film non c’è un’azione di guerra guerreggiata, non uno scontro con il nemico. Lo scontro si svolge tutto in un ospedale da campo, dove un’umanità segnata nel corpo e nello spirito langue in attesa di un destino ignoto. Sopravvivere per tornare al fronte, dove trovare morte certa o lasciarsi morire per autolesionismo? Fra le due alternative una terza è cadere vittima del “fuoco amico”. Il neologismo, creato di recente, allora ignoto, per specificare di cadere sotto i colpi degli stessi commilitoni o degli alleati. Dopo più di cinquant’anni assistiamo ad un altro film che mette in luce la follia della guerra, di tutte le guerre, attraverso la riproposizione di episodi della Prima guerra mondiale. Come non ricordare Il film “Uomini contro” di Francesco Rosi, con un insuperato Gian Maria Volonté, dove si denunciava l’impreparazione del nostro esercito e l’arroganza dei comandanti militari italiani. Spero che la scarsa lettura di libri venga colmata con la frequenza cinematografica. Questi film, come tanti altri, sono infatti tratti da libri. Un anno sull’altipiano di Emilio Lussu aveva ispirato Uomini contro, come La sfida di Carlo Patriarca ha ispirato Campo di battaglia. Un ottimo Alessandro Borghi impersona il tenete Giulio, mentre nelle vesti del suo antagonista il capitano Stefano troviamo Gabriel Montesi. Tra loro l’infermiera Anna, Federica Rosellini, mancato medico che ama i due ufficiali e da entrambi, in modo diverso viene ricambiata. Anna è il personaggio che riassume la tragica contraddittorietà delle diverse concezioni etiche dei due medici. Un film riporta alla memoria un racconto familiare, il racconto di mio nonno Giuseppe. Un film dovrebbe fare ricordare a tutti l’inutile perseverare nella violenza, nella violenza degli Stati che genera conflitti e guerre. Dovrebbero bastare le cifre dei morti e dei feriti, che questo film ci ricorda nei titoli di coda, in seguito a questo conflitto, per farci riflettere su tutte le guerre, soprattutto su quelle che ancora ci affliggono. La guerra russo-ucraina che ha fatto già più di centomila morti è ancora in corso e si è trasformata in una guerra di trincea. Ecco tornare ancora prepotentemente il ricordo del fronte italiano durante la prima guerra mondiale. Non solo, questa guerra ci ricorda anche come queste morti sono vittime di armi che anche l’Italia continua ad inviare in nome di un concetto astratto di solidarietà internazionale. Perché se dovessimo aiutare tutti i popoli che combattono per la loro dipendenza e libertà non si spiega come mai le armi vengono regalate ed inviate solo all’ Ucraina. La pace non si costruisce certo con le armi, oggi come sempre, ma con l’aratro, il lavoro della diplomazia. La base su cui costruire qualsiasi concetto di libertà, indipendenza e democrazia dovrebbe essere la pace. La pace sempre senza se e senza ma!

La tomba del nonno di Carmelo, soldato combattente nella Grande Guerra

“Santa Rosalia, compatrona di Racalmuto (Ag), tra cronaca e storia”, un articolo di Carmelo Sciascia in occasione della festa di oggi 4 settembre

Santa Rosalia vergine eremita del XII secolo devotamente della ‘Santuzza’: si sostiene che a Racalmuto fu costruita bel 1238 la sua prima chiesa ma la notizia non è confermata da documentazione storica

Nell’Anno Domine 1625, giungono a Racalmuto, in un reliquario d’argento, due frammenti costali di Santa Rosalia, grazie al cardinale di Palermo Giannettino Doria. Giannettino Doria, figlio del principe Gianandrea Doria e della principessa Zenobia del Carretto Doria, era nato a Genova nel 1573. Zenobia nasce Del Carretto ed i Del Carretto originari di Finale Ligure erano, grazie ai Doria, anche signori di Racalmuto. La principessa sarà ricordata  per le sue opere di beneficienza, da piacentino non posso non ricordare l’istituzione del Monte di Pietà nel comune di Ottone, comune dell’appennino ligure-emiliano, oggi in provincia di Piacenza, facente allora parte del Marchesato di Torriglia. Quindi, grazie alla madre, Giannettino Doria si era sentito legato da Cardinale di Palermo alla contea di Racalmuto, per questo probabilmente avrà fatto dono delle Reliquie di Santa Rosalia, scoperte a Palermo e da lui riconosciute come autentiche. Una pergamena dello stesso arcivescovo Giannettino  ci testimonia l’evento. Su questo episodio e del binomio Santa Rosalia-Racalmuto, hanno scritto in molti, Interessanti a proposito la ricerca di Giuseppe Nalbone “Delle Chiese di Racalmuto” ( edizioni Malgrado Tutto – 2004) ed il libro di Angelo Cutaia “Santa Rosalia-Racalmutese e Pellegrina” che aggiunge ulteriori  notizie, attraverso raccolte documentali e testimonianze dirette.

Dalla storia alla cronaca

Nell’Anno Domine 1980 si celebrava il matrimonio di un racalmutese e di una ragazza bivonese nella chiesa Madre di Cammarata. La scelta di Cammarata era stata dettata da questioni logistiche essendo a metà strada tra Racalmuto e Bivona. Occasione che dava modo agli invitati di ammirare un’opera del Monoculus Racalmutensis collocata in un altare di quella chiesa. Come da consuetudine, il fotografo si recava a casa della sposa per iniziare a riprenderla nell’abitazione della propria famiglia, premessa al servizio fotografico che avrebbe costituito l’album del matrimonio. Fu così che il fotografo Alfonso Chiazzese, che aveva seguito le orme paterne (suo papà Leonardo –lu zi Nardu-  classe 1910 era stato uno dei primi fotografi del paese ed anche padrino di cresima dello sposo), si recava a Bivona in compagnia dell’arciprete Alfonso Puma, prete scelto dagli sposi per celebrare a Cammarata la funzione religiosa. Era il 3 settembre, la scelta non era stata casuale, era infatti la vigilia dell’annuale festa di Santa Rosalia patrona di Bivona: suonava festosa la banda mentre le bancarelle avevano riempito i marciapiedi del corso principale, dove abitava la sposa. Santa Rosalia discendente della nobile famiglia del conte Sinibaldo Sinibaldi, signore di Monte delle Rose e Quisquina, era stata sicuramente a Bivona, essendo quelle terre possedimento della famiglia. La chiesa di Santa Rosalia a Bivona si dice sia stata costruita proprio per custodire il tronco cavo della quercia dove si sarebbe rifugiata la giovane Sinibaldi, in seguito alla sua scelta religiosa. Il culto della Santa a Bivona aveva preceduto il culto palermitano. La statua ed il fercolo, indiscussi capolavori lignei ricoperti di lamine d’oro, erano infatti stati  realizzati nel 1601, prima della famosa peste palermitana. Tornando a noi, fatte le foto di rito: prima la sposa in casa sua, poi a casa della nonna presente la zia, suora agostiniana con il nome di suora Agnese. L’auto del fotografo con l’arciprete Puma, la sposa ed il padre, riprendeva la via del ritorno in direzione di Cammarata, dove erano attesi per la funzione religiosa. Superato Santo Stefano, la sposa suggeriva una breve sosta all’eremo della Quisquina per farlo visitare a padre Puma che, come secondo sua stessa affermazione, non aveva mai visto. Grande era stata la meraviglia del nostro arciprete che visitato l’eremo entrava per la prima volta nella grotta dove aveva soggiornato Santa Rosalia. Fu grazie a quella visita, improvvisa ed inaspettata, che padre Puma ricordò come la Santa fosse stata patrona anche di Racalmuto. Paese dove se ne era persa memoria. Santa Rosalia era stata vittima sacrificale di una damnatio memoriae voluta probabilmente dall’alta gerarchia ecclesiastica palermitana che aveva imposto una sua biografia: la nascita di Rosalia avvenuta nel 1130 si affermava essere avvenuta a Palermo. A Racalmuto intanto aveva soppiantato l’antico culto di Santa Rosalia l’immagine di Santa Maria del Monte con la sua leggendaria epopea che  vedeva la statua di scuola gaginesca scoperta in Africa dal principe di Castronovo Eugenio Gioeni e rimasta a Racalmuto per volontà del conte Ercole Del Carretto, per volontà del popolo e soprattutto per proprio desiderio divino.

Quando la cronaca e la storia coincidono

Quelli della mia generazione ed ancora di qualche secolo prima nulla hanno mai saputo di Santa Rosalia, l’unica patrona era considerata solo la Madonna del Monte. La  visita alla grotta della Quisquina aveva continuato a farsi strada nella mente dell’arciprete Puma fino ad imporsi nella comunità ed essere condivisa. Fu così che veniva, in questo nuovo millennio, costituito un comitato per riprendere a distanza, qualcuno dice di qualche decennio, a mio avviso di qualche secolo, la festa del quattro settembre dedicata a Santa Rosalia, riconosciuta e festeggiata oggi come compatrona della religiosa comunità racalmutese. Racalmuto deve tanto all’arciprete Alfonso Puma, “l’ultimo dei preti e l’ultimo dei peccatori” come amava definirsi. Lo zio di un intero paese per il suo rivolgersi a tutti con il termine di Nipù (nipote): tanti ne aveva battezzati, cresimato e sposato. Agli sposati era solito rilasciare una pergamena con una poesia composta per l’occasione, io che ho sempre simpatizzato per gli eretici (a testimonianza il mio ultimo libro riguarda “L’eretico don Paolo Miraglia”) più che per i preti, tengo a futura memoria (perché il futuro abbia memoria) ben esposta la sua pergamena, gradito regalo di nozze. Una pergamena disegnata di suo pugno che rappresenta Penelope ed Ulisse e contiene una lunga poesia in lingua siciliana. È probabile che grazie a padre Puma che in seguito a quel matrimonio e per la casualità degli eventi (le vie del Signore sono infinite) ci troviamo a festeggiare anche a Racalmuto questo quattro settembre 2024 la Santa compatrona che ricorda il profumo delle rose e la purezza del giglio!

Popolo in festa a Racalmuto per Santa Rosalia

Ad Ucria (Me) la presentazione, in anteprima nazionale, del libro ‘L’eretico don Paolo Miraglia’ di Carmelo Sciascia. L’ intervento dell’Autore

Carmelo Sciascia, autore del libro, al centro

Un prete piacentino don Franco Molinari, docente di storia all’Università Cattolica, in un suo saggio, scritto e pubblicato nel 1982, intitolato “Motivi profetici e violenze polemiche nel Savonarola di Miraglia (1895-1899)”, esprimeva la necessità che la sua vicenda venisse studiata e sviscerata da uno storico imparziale ed obiettivo. Fino ad allora, e possiamo dire fino ad oggi, infatti si era affrontato il paradigma Miraglia in maniera ironica e spesso dispregiativa o se ne negava qualsiasi valore storico-religioso, lasciando che la sua figura venisse inghiottita dal tempo. L’esercizio della damnatio memoriae a Piacenza non è nuovo. Ne era stato vittima un altro illustre personaggio: San Corrado, protettore di Noto. Il nobile Corrado era un discendente della famiglia Confalonieri. La famiglia che aveva fatto parte della congiura ed uccisione di Pier Luigi Farnese,  Duca di Piacenza-Parma (il Ducato nasce con questa denominazione), pertanto se ne dovevano perdere le tracce. Pensate che Corrado era stato ritenuto Santo a furor di popolo a Noto subito dopo la sua morte avvenuta nel 1351. In Sicilia infatti, San Corrado era andato pellegrino, era stato beatificato nel 1515 e canonizzato nel 1625. Nonostante tutto a Piacenza c’era e c’è chi ancora ne nega la santità, non a caso gli veniva costruita e dedicata una chiesa solo negli anni ottanta del Novecento. Come è nato il libro? Avevo letto un articolo, sul giornale online Ilpiacenza.it, del mio amico giornalista Renato Passerini, che teneva una rubrica su tutte le novità editoriali locali. L’articolo riguardava una pubblicazione  della Banca di Piacenza “Sei anni di vita piacentina 1894-1899” a cura di Corrado Sforza Fogliani ed Antonietta De Micheli. Il libro riprendeva e riportava cronologicamente articoli di alcuni giornali dell’epoca. In molti di questi articoli si scriveva di un certo don Paolo Miraglia, prete scismatico siciliano. La lettura di questi articoli mi incuriosirono a tal punto che son voluto andare alla fonte, in una ricerca sempre più spasmodica, che è durata circa tre anni. È stato un viaggio affascinante nell’Italia post unitaria. Io ero abituato a viaggiare, da quasi 50 anni ho viaggiato in particolare da Piacenza alla Sicilia e viceversa, questa ricerca, cioè questo libro, mi portato virtualmente in giro per l’Europa e perfino in America, fisicamente mi sono trovato ad Ucria l’anno scorso,  e quest’anno di nuovo ci ritorno volentieri per questa presentazione. Come tutti i siciliani sparsi nel mondo restiamo legati alla definizione di paese così come descritto nel libro “La luna e i falò” da Cesare Pavese: “Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti”. E questo lo sapeva bene il nostro Miraglia, sapeva bene che Ucria c’era, era il paese dove sua mamma ed i suoi cari lo aspettavano e spesso perciò ritornava a trovarli, ricordiamo la data del 30 aprile  1899 per lo sposalizio di suo fratello, in quell’occasione, nonostante l’avversione del clero locale, incontrerà anche le autorità ed il sindaco che lo sosterranno. Così come oggi dopo più di un secolo lo troviamo ancora tra noi per raccontarci delle sue vicissitudini e cosa più importante del suo pensiero. Elio Vittorini, un altro siciliano, sosteneva che bisogna far parte di  “un’umanità che ha per patria il mondo”. La Patria di don Paolo Miraglia fu l’Italia unita,  indipendente dal potere temporale del Papa, ma fu anche l’Europa (la Svizzera, l’Inghilterra, la Francia): fu infine anche l’America, dove proseguì la sua missione  evangelizzatrice presso  gli italiani emigrati oltreoceano. Don Paolo Miraglia fu quindi, partendo da Ucria, questa cittadina dei Nebrodi, un cittadino del mondo. Il Nord ed il Sud d’Italia sono stati così diversi e così uguali da confondere spesso un  viaggiatore distratto. A Piacenza c’è ad esempio un bellissimo museo dell’emigrazione, realizzato proprio dai missionari di San Carlo meglio conosciuti come scalabriniani. È stato proprio il vescovo Scalabrini ad istituire l’ordine, per portare assistenza materiale e conforto religioso agli emigrati piacentini, che lasciavano in massa le colline dell’Appennino emiliano per cercare fortuna nelle Americhe. Ed è stato proprio Scalabrini, vescovo quegli anni a Piacenza, a scontrarsi con  don Miraglia, capitato in quella città come e perché,  lo saprete solo vivendo e leggendo il libro, perché al riguardo ci sono diverse ipotesi. C’è in questo Museo dell’emigrazione a Piacenza una teca di cristallo che rappresenta il vescovo Giovan Battista Scalabrini in preghiera davanti a San Vittore, primo vescovo di Piacenza, affinché liberasse la città dallo scisma miragliano. L’autore è un certo Giuseppe Manzo ed il lavoro è stato eseguito a Lecce nel 1900. La scultura oltre ai già citati personaggi rappresenta un lungo serpente, simbolicamente don Miraglia. È stato donato da Mangot, che era stato segretario del Vescovo Scalabrini, ad un novizio dell’ordine missionario nel 1917. Questo per dimostrare come era visto don Paolo da parte della gerarchia vescovile locale nel primo ventennio del Novecento, concezione che si è protratta nel tempo.  Il Nuovo Giornale, giornale della Diocesi piacentina, in un numero speciale dell’anno scorso, dedicato alla santità di Scalabrini  gli riservava ancora un trafiletto poco lusinghiero. Dicevo, il Nord come il Sud. In Sicilia, come tutti sapete, c’era stata l’esperienza dei Fasci a fine Ottocento, sarà stato anche per questo che la cosiddetta rivolta del pane è partita dalle mie parti a Canicattì, nel 1898 al grido di “abbasso la tassa sul bestiame, vogliamo lavoro” e si estese subito dilagando in tutta la Penisola. L’aumento del prezzo del pane era insopportabile per le fasce popolari, per questo a Piacenza scoppiò una rivolta, la rivolta del pane appunto, guidata dalle donne: le donne erano proprio le popolane che avevano frequentato e frequentavano l’Oratorio miragliano di San Paolo. Donne additate come prostitute, perché chiedevano un costo calmierato del pane. Scrive il vescovo Scalabrini all’amico Bonomelli, vescovo di Cremona: “Qui a Piacenza, per esempio abbiamo il noto ribelle che della libertà si serve per eccitare, sotto mentite apparenze, l’odio di classe e seminare discordie. Quando si lascia predicare e stampare , come egli fa, che si può resistere violentemente contro l’autorità che si debbano schiacciare gli infami del potere, ed altre bestialità consimili, qual meraviglia che succeda poi quello che qui è successo?… io dico ancora che se non si pensa a togliere da Piacenza questo focolare di insubordinazione e di discordia presto o tardi si dovranno lamentare nuovi e, forse, più gravi disordini. Si sono sciolti e si sciolgono circoli socialisti, si sono arrestati e si arrestano i caporioni dei partiti sovversivi, e va benissimo; ma perché si deve lasciar sussistere qui una congrea di malviventi, sotto la scorta di un birbo matricolato…” (il birbo matricolato è Miraglia s’intende). La lettera continua e mette in evidenza i contatti dell’alta gerarchia  clericale con il potere politico, in particolare fa riferimento al ministro Zanardelli (prima ministro e poi Capo del governo), per chiedere un energico intervento da parte delle Istituzioni. Intervento che ci sarà ,e sarà molto pesante! La rivolta di Piacenza si concluse con due morti e numerosi feriti. Il bilancio a Milano pochi giorni dopo, grazie all’intervento di Bava Beccaris, insignito di medaglia regia, furono molti di più, 83 per la precisione. Un altro elogio giungeva, da parte di Crispi, al deputato Macola che aveva ucciso in duello Cavallotti. Felice Cavallotti ebbe a scrivere:”solfatare della Sicilia, dove le creature umane si sottraggono al sole soltanto per maledirlo” e le “creature che maledicono la vita lungo i solchi della valle del Po”. Cavallotti al Nord ha rappresentato ciò che per la Sicilia fu Napoleone Colajanni. Ancora una volta il Sud ed il Nord, uniti dalla stessa miseria, dalla stessa lotta. A proposito va ricordato come a Piacenza il 23 marzo del 1891nasceva la prima Camera del lavoro, anticipando Milano e Torino, che seguiranno a ruota. Come il lavoro rappresenta la struttura economica della società, così la religione ne rappresenta la sua naturale sovrastruttura, annessa e connessa quindi al tessuto sociale tout court. Politica e religione in Miraglia si incontrano e si intrecciano, formando un pensiero unico originale e libertario, pur rimanendo nel solco della religione cristiana di ieri e direi di quella cattolica oggi. Mi sarebbe piaciuto fare questo incontro come una passeggiata storica a Piacenza, passeggiata che comunque intendo organizzare realmente. Inizierei questa passeggiata incontrando  alla stazione ferroviaria di Piacenza, città dove giunse nel maggio del 1895, proveniente da Roma, don Paolo Miraglia. Poi in sua compagnia sarei andato alla vicina basilica di San Savino dove iniziava il mese mariano il giorno 5 dello stesso mese, e del successo che avrebbe riscosso. Lì avrei parlato del prete don Marzolini, che aveva combattuto per l’unità d’Italia. Arruolatosi in Piemonte, aveva combattuto in Crimea, in Lombardia, nello Stato di Napoli e nel Veneto, e che avendo scelto di diventare prete gestiva da 38 anni proprio la  chiesa di San Savino. Poi mi sarei spostato in via Trebbiola al numero 4 dove era sorto l’Oratorio San Paolo, nell’ingresso laterale di Palazzo Costa, dove c’erano state le scuderie del Conte. Si sarebbe proseguito fino a Palazzo Scrivano sua dimora, in via della morte n.27 (così chiamata per la presenza della chiesa di San Cristoforo, dove una confraternita  assisteva i moribondi) attuale via Gregorio X. Si sarebbe attraversato Cantone dogana, l’attuale via G. Bruno, dove ha sede il tribunale e dove subì un primo attentato, da li raggiungere piazza Cavalli, cuore della città, dove c’erano state  le rivolte del pane e dove c’erano gli uffici comunali. Piazza Cavalli o dei cavalli dove c’erano e ci sono le due statue dello scultore Mochi. Infine attraversando via XX settembre si sarebbe arrivati al Duomo ed alla sede vescovile dove c’era Gian Battista Scalabrini. Proclamato beato da papa Giovanni Paolo II nel 1997 e Santo da papa Francesco nel 2022. Don Paolo Miraglia, sacerdote della diocesi cattolica romana di Patti, era stato censurato dall’arcivescovo di Palermo, sospeso dal vescovo di Nicosia, sospeso a divinis dal Sant’Uffizio ed infine scomunicato due volte (tre in realtà se consideriamo il monito vescovile)! Ancora una volta il Sant’Uffizio, che aveva a suo tempo condannato Gerolamo Savonarola, l’eretico fiorentino indicato dal Miraglia come esempio da seguire per rifondare la chiesa, torna protagonista della storia con i suoi anatemi. Nel 1497 Savonarola era stato scomunicato, impiccato e bruciato al rogo come eretico e scismatico. Nel 1997 è stata avviata una causa per la sua beatificazione: è considerato oggi, un servo di Dio. Conosciuto fin da ragazzo, ho convissuto con un personaggio storico del mio paese: Fra Diego La Matina da Racalmuto, condannato per eresia, bruciato al rogo a Palermo nel 1658 per avere ucciso il suo inquisitore Juan Lopez de Cisneros. Sarà per l’ammirazione verso questo frate di “tenace concetto” (così Leonardo Sciascia nel libro In morte dell’inquisitore), che ho sempre guardato con simpatia qualsiasi eretico e trovato interessante qualsiasi eresia. In fondo l’eretico è chi non accetta dogmi, critica verità rivelate come assolute, è chi cerca e ricerca continuamente la verità, chi si interroga e dubita di qualsiasi ortodossia, ortodossia che spesso impedisce e reprime la comune libertà di pensiero. E questo è ciò che ha fatto anche il vostro concittadino don Paolo Miraglia!

“Life”, l’autobiografia di Papa Bergoglio nel commento di Carmelo Sciascia

Tutti sappiamo cos’è e come si manifesta il déjà-vu, l’illusione di vivere al presente situazioni come già vissute precedentemente. Questo fenomeno psichico, presente in molti di noi, lo trovo ricorrente quando leggo dei libri. Praticamente si manifesta sempre ogni qual volta leggo soprattutto delle autobiografie. So cosa diranno di sé gli autori delle proprie vite. Anche perché di solito sono delle personalità in vista di cui si sa tutto o quasi. In altri termini: nelle autobiografie si rimarca ciò che sappiamo e ciò che ci vogliono far sapere. Lo stesso è successo con la lettura di “Life” l’autobiografia di Papa Francesco. Libro che nasce in seguito ad una serie di conversazioni tra il Pontefice ed il vaticanista Fabio Marchese Ragona. Life in italiano si traduce con vita. “La nostra vita: la mia, la tua che stai leggendo, quella dell’umanità”, ci chiarisce il nostro Francesco. Nelle pagine conclusive si dice chiaramente come raccontare la storia personale del Papa vuol dire raccontare la storia dell’umanità degli ultimi ottant’anni: dal 1936 anno di nascita di Bergoglio fino al 2024 anno di pubblicazione del libro. La storia siamo noi, ce lo aveva ricordato un altro Francesco, Franceso De Gregori nel 1985: ”perché la gente che fa la storia/ quando si tratta di scegliere e di andare/ te la ritrovi tutta con gli occhi aperti/ che sanno benissimo cosa fare”. La storia la fa la gente, la fanno le scelte della gente, lo schierarsi della gente, il loro essere partigiani. Papa Francesco, se nella prima parte scrive del déjà-vu, nella seconda parte invece no. Perché da capo della Chiesa ci dice espressamente cosa fare, quale strada percorrere per migliorarci. Ci dice come migliorare la società in cui viviamo ed il mondo dove ci troviamo immersi, come una piccola cellula, parte del corpo vivo dell’intera umanità. Bergoglio, figlio di emigrati italiani, dopo essere stato gesuita, diventa prima vescovo ausiliare, poi arcivescovo di Buenos Aires nel 1998, cardinale tre anni dopo ed infine Papa nel 2013. Nel suo discorso al Collegio cardinalizio, prima di essere eletto Papa, aveva indicato il suo programma pastorale che sarebbe poi il corrispettivo del programma elettorale di un uomo di Stato. La parola d’ordine del suo discorso: Evangelizzare. Nell’affermare che “la Chiesa è chiamata a uscire de sé stessa e ad andare verso le periferie”, Bergoglio prende posizione contro una Chiesa autoreferenziale, “l’autoreferenzialità è una sorta di narcisismo teologico” ed una “mondanità spirituale” che impedisce a Gesù di uscire dalla sua casa (Gesù non bussa per entrare ma per uscire). Il Papa deve fare uscire la Chiesa da sé stessa per andare verso le periferie esistenziali. Da queste premesse costruisce il suo programma: “una Chiesa missionaria in uscita, con una Curia romana riformata”. Ed ecco allora mettersi in cammino e approdare a Lampedusa, la porta d’Europa, dove approdano i disperati vittime di guerre e carestie, pensare sempre alla sua terra l’Argentina, la terra dei dispersi, dei desaparecidos e delle madri di Plaza de Mayo, portare avanti il dialogo interreligioso con gli ebrei, gli ortodossi e con i fratelli musulmani. La Chiesa di Papa Francesco è diventata “una Chiesa in cammino, in ascolto, come solo una mamma sa fare”. “Nessuno può avere Dio per Padre, se non ha la Chiesa per Madre”, un concetto già espresso dallo scrittore San Cipriano vescovo di Cartagine nel lontano 258. È nota la sua presa di posizione contro la terza guerra mondiale “a pezzi”, cioè diffusa in tante parti del mondo, che non ci riguarda quando si svolge in terre lontane e che ci preoccupa solo quando la sentiamo vicina. “Fermate le armi! Fermate le bombe!”, già, bisogna ricordarlo ai nostri governanti che la pace non si costruisce armando i popoli, esportando armi, che faranno crescere il Pil (l’Italia è tra i maggiori produttori ed esportatori di armi) ma faranno morire tanta gente innocente, così come avviene oggi in Ucraina, a Gaza ed in tutto il medio oriente, come in tante altre parti del mondo. “Mafiosi, pentitevi!” aveva gridato nella valle dei templi ad Agrigento Giovanni Paolo II nel 1993, concetto ribadito oggi da Papa Francesco, che però non si rivolge solo ai mafiosi ma in primis ai governanti: “Fermate le armi! Fermate le bombe! Fermate la sete di potere! Fermatevi, in nome di Dio! Basta, vi prego!”. Il suo appello costante e martellante per la pace dovrebbe essere accolto non solo da ogni uomo di buona volontà ma da tutti quei governanti che continuano a trincerarsi dietro una filosofia della sopraffazione che vuole la pace frutto degli armamenti. La pace non si prepara con le armi ma con il dialogo, il buon senso, la diplomazia! Questa la via che ci indica il Pontefice, l’unica percorribile, l’unica strada che può portare alla pace. La guerra oltre a far morire innocenti, a distruggere gli uomini, distrugge l’ambiente. Lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo va di pari passo con lo sfruttamento delle risorse della terra. Basta pensare ai profughi delle guerre come ai profughi dei cambiamenti climatici che fuggono, ora dalle bombe, ora dalla siccità e dalla devastazione dei fenomeni meteorologici. Nonostante tutto, Bergoglio ci lascia con un messaggio di speranza, progettando una Chiesa che abbracci ed accolga tutti, che sappia costruire con fiducia il futuro, un futuro di pace e di fratellanza!

“In nome di Dio, fermate la guerra”: l’appello di Papa Francesco

Riflessioni a cura di Tullio Pilotta sul libro “L’eretico don Paolo Miraglia” di Carmelo Sciascia

Aveva scritto nel 1982 don Franco Molinari nel suo saggio “Motivi profetici e violenze polemiche nel savonarola di Miraglia (1895-1899)” che “la sua vicenda attende ancora uno storico imparziale ed obiettivo”. Così si legge nelle prime pagine del libro “L’eretico don Paolo Miraglia” di Carmelo Sciascia, adesso con la pubblicazione nell’aprile di quest’anno, probabilmente questo obiettivo è stato raggiunto. Ecco le mie personali riflessioni su questa particolare storia piacentina. La storia di un libro appena uscito: comprato ed immediatamente letto. “L’ eretico don Paolo Miraglia” è coinvolgente! È questa la definizione più appropriata che attribuisco all’opera. Un passo a ritroso: un casuale incontro in centro a Piacenza con Carmelo Sciascia. Avvenuto tre anni fa in un pomeriggio estivo, con entusiasmo Carmelo esordisce: “Sai, sono venuto a conoscenza della vicenda di un prete siciliano, trasferito a Piacenza che provoca uno scisma e ne combina di tutti i colori: dall’ opposizione al clero locale, a turbolente vicende legali e perfino amorose! Ascolto meravigliato ed in me la curiosità ha il sopravvento: voglio sapere tutto! Sono siciliano con permanenza cinquantennale a piacenza, provengo da educazione religiosa, sono credente. Affretto l’acquisto del testo, mi tuffo nella lettura, meglio dire: assaporo diluito nel tempo la conoscenza di una vicenda umana, religiosa, avventurosa. Forse è meglio specificare che, vocazione sacerdotale e ribellione procedono simultaneamente, intrecciandosi costantemente e caratterizzando un percorso di vita unico e turbolento. Facile immaginare l’insediamento di tale sacerdote nella tranquilla Piacenza di fine ottocento, una città che la severa definizione popolare descriveva con le famose tre “c:”: chiese- caserme- casini! Ambienti, a mio parere, che nascondono bene l’incandescente fuoco sotto l’apparente cenere. Don Paolo è sanguigno, non ha peli sulla lingua, favorito da viva intelligenza, cultura, comunicativa si scaglia contro i preti piacentini, accusandoli di scadente formazione culturale ed avidità economica. La reazione della controparte è parimenti furiosa e combattiva e sfocia in aspri contrasti verbali e invettive scritte. Su tutta la vicenda emerge prepotentemente la figura di don Paolo che, seppur ostacolato dalla atavica diffidenza xenofoba piacentina, è seguito durante le sue prediche nella centralissima chiesa di San Savino riuscendo a farsi ascoltare e seguire, ma non solo, svariate volte i suoi comportamenti avranno strascichi giudiziari nelle aule del tribunale ed in un primo momento ne risulta perfino vincente. Mi piace immaginare gli scenari verificatisi all’epoca nelle aule giudiziarie, caratterizzate dal nero dominante: avvocati e giudici nero togati, preti vestiti di nero con abito talare, carabinieri con la storica divisa nera seppur caratterizzata da strisce rosse, un nero dominante con conseguente dilemma: austera eleganza o funerea e grave visione? La trama del testo offre lo spunto per un’altra riflessione: i comportamenti a volte estremi dello stesso don Miraglia, non sempre sono consoni ad un’etica corretta come il rifiuto di dialogo con il potentato scalabriniano o la relazione amorosa con una giovane esponente della aristocrazia locale con conseguente concepimento di una figlia. Anche in questi casi estremi s’intravede l’esasperazione di un ribelle che adotta comportamenti non sempre adeguati al suo ruolo. A tali manchevolezze l’autore contrappone, nelle ultime pagine dell’opera, alcune anticipazioni che il Miraglia realizza in rapporto al rituale, come la celebrazione della messa in italiano o la posizione frontale del celebrante rispetto ai fedeli, che opportunamente troveranno attuazione negli anni futuri. In questo modo si valorizza la figura di un prete non etichettabile, visionario ma intelligente, anticipatore di tempi futuri e forse anche per questo più vicino ai dettami evangelici.

“L’Aiace di Sofocle a Siracusa”, il commento di Carmelo Sciascia pubblicato in IlPiacenza.it

Fin da giovane liceale mi sarebbe piaciuto fare l’inviato speciale di qualche rivista culturale per descrivere gli eventi cui avrei assistito e rendere partecipe il più vasto pubblico possibile. Un’occasione per condividere tutte le possibili riflessioni che le manifestazioni avrebbero potuto suggerire. Oggi questa possibilità è, in qualche modo, diventata concreta, infatti da Siracusa mi accingo a trasmettere a Piacenza un servizio sull’Aiace di Sofocle. Come ogni anno anche quest’anno è possibile assistere alle rappresentazioni classiche che si svolgono nell’area archeologica siracusana. Dall’isola di Ortigia dove mi trovo stamattina, benché afflitto da un’accecante luce solare, scrivo le mie impressioni sulla tragedia vista ieri sera al teatro greco di Siracusa: l’Aiace di Sofocle, appunto. Resto, come ogni anno, incantato di come l’apparato scenografico riesca a rendere drammaticamente visibile il dolore dei principali personaggi, quasi sempre eroi sconfitti dalla storia e travolti dagli eventi. Le intuizioni di alcuni registi e dei loro collaboratori fanno di ogni spettacolo un unicum nel panorama teatrale nazionale ed internazionale. A tutto ciò vanno aggiunti gli effetti cromatici che crea il cambiamento della luce: gli spettacoli cominciano con il chiarore del giorno e terminano con l’imbrunire della sera. Cambiano i colori del paesaggio ed i costumi degli attori così come la consistenza stessa delle pietre su cui si sta seduti, tutto si trasforma e diventa più cupo con il passare dei minuti, all’unisono tutto diventa più tragico, si tinge di quel rosso che è la tonalità propria di ogni tragedia. Ma ciò che mi colpisce è constatare come le opere classiche, nonostante siano trascorsi molti secoli, rimangono attuali, a testimoniare come, nonostante i tantissimi cambiamenti nel mondo e nella società, il gioco delle passioni umane sia rimasto lo stesso. Ho visto dicevo l’Aiace con interprete principale e regista Luca Micheletti. Aiace, sconvolto dalla decisione di vedere assegnate le armi di Achille ad Ulisse, si scaglia contro gli Atridi (Agamennone e Menelao) impazzisce perfino, a causa anche dell’intervento di Atena (gli dei guardano con benevolenza chi si fa piccolo e con ostilità chi si crede grande). Viceversa, qualche millennio dopo, Einstein sosterrà che “Dio non gioca a dadi con l’Universo”, in quel periodo, nella Grecia classica gli Dei giocavano e non poco con gli uomini. La pazzia porterà Aiace a massacrare tutto il bestiame presente nell’accampamento, i buoi e le pecore che costituivano la riserva alimentare dell’esercito greco. Il risveglio dell’eroe sarà tremendo, di fronte al bagno di sangue degli animali trucidati, la sua decisione inamovibile sarà il suicidio. È l’eroe omerico che a questo punto avrà il sopravvento. Per riscattare l’onore perduto, riacquistare la nomea dell’eroe qual era stato nelle tante battaglie della guerra contro Troia non rimane che il suicidio, il proprio sangue si aggiungerà al sangue versato dalla carneficina appena compiuta e lo riabiliterà. È l’eroe omerico che non transige sulle proprie mancanze, è l’uomo del mondo antico che si nutre di valori e di comportamenti conseguenziali. Questa figura di uomo, tutto d’un pezzo diremmo oggi, si è tramandata nel tempo, credo si possa affermare sia andata avanti fino all’età romantica ed oltre, probabilmente fino alla metà del secolo scorso. La statura di Aiace non termina con la sua morte ma rimane, giganteggia anzi più di prima, infatti appare sulla scena un gigantesco scheletro, allegoricamente il suo corpo, trafitto dalla stessa spada che gli aveva donato Ettore e con la quale si era suicidato Lo scheletro di Aiace rimane ed occupa tutta la scena a simboleggiare come attraverso il suo sacrificio, un gesto libero e volontario, avviene il riscatto dell’eroe. Oggi gli eroi contemporanei sono le personalità più in vista, uomini politici di primo piano, che hanno abbandonato da tempo il senso dell’onore come valore da difendere ad oltranza, e spesso ricorrono, per nascondere i propri fallimenti e il voltagabbana continuo, a giustificazioni meschine. È la morale di questa società che è cambiata, dove all’etica dell’eroe omerico si è sostituita la dialettica di Odisseo (la furbizia ed il tornaconto personale). Anche se noi lo notiamo adesso, forse perché avviene in maniera spudorata, lo stesso Omero comunque l’aveva prefigurato, tant’è che Ulisse interviene a favore della sepoltura del corpo di Aiace, pur essendo stato rivale di Aiace, contraddicendo le tesi degli Atridi che non avrebbero voluto la sepoltura del suicida perché considerato un traditore. La seconda parte della tragedia infatti riguarda l’opportunità di seppellire il corpo di Aiace. Il fratellastro ed arciere Teucro affronterà Agamennone e Menelao che non volevano che Aiace venisse sepolto perché traditore (avrebbe voluto uccidere gli Achei quando sterminò le mandrie di buoi) così come la concubina Tecmessa aveva cercato di dissuaderlo dal suicidio chiamando in causa il figlioletto (interpretato dallo stesso figlio dell’attore-regista Luca Micheletti, scelta che ha suscitato l’empatia e il plauso degli spettatori). Questa seconda parte è molto vicina alla dialettica di Antigone (la legge morale in opposizione alla legge dello Stato). Forse anche la più attuale e vicina a noi, basti pensare ai caduti di tutte le guerre passate come al dramma dei caduti nei conflitti a noi contemporanei. La guerra di Troia è stata la madre di tutte le guerre, così ben descritta in tutti i suoi drammi dalla poesia e dalla tragedia greca, l’uomo moderno non è riuscito a trasformarla in un tabù e continua imperterrito a perpetrare, ahinoi, il dramma della violenza e della morte!

Aspettando Neri Marcorè… dopo “Zamora”. Recensione a cura di Carmelo Sciascia

Nel periodo tra la fine del 2023 e quest’anno abbiamo assistito a diversi eventi cinematografici di successo che hanno avuto un minimo comune denominatore, degli attori si sono cimentati per la prima volta con la regia. È stata una bella scommessa che all’unisono hanno vinto. Cito i tre attori cui mi riferisco: Paola Cortellesi con “C’è ancora domani”, Antonio Albanese con “Cento domeniche” e dulcis in fundo Neri Marcorè con “Zamora”. Li ho citati in ordine cronologico, perché la loro bravura non può essere pesata e soppesata per differenze qualitative. Dei primi due ne avevo già parlato, per l’ultimo mi accingo a farlo. A farlo solo ora anche se il film lo ho visto qualche settimana fa. Ho finora taciuto sul film di Marcorè ma il film tornava prepotentemente alla memoria come a rivendicare più attenzione, a rivendicare quel ruolo che meritava in una ipotetica schiera di film di formazione. Sì, perché questo è un film di formazione, tratto da un libro pubblicato con lo stesso titolo nel 2003 e scritto da Roberto Perrone. In Italia, dove il calcio ha un posto di primo piano, un film che parla di calcio dovrebbe richiamare frotte di tifosi ma   non tutti sanno che Zamora è stato un grande portiere, un personaggio storico che ha segnato e caratterizzato la figura del portiere a livello internazionale. Neri Marcorè è riuscito a portare sullo schermo ciò che lo scrittore aveva fatto con la scrittura, descrivere il mondo del calcio e quello della vita, far collimare la spettacolarità del calcio e le anonime vicende della vita quotidiana. Si potrebbe dire che la vita è una partita di calcio e viceversa una partita di calcio può paragonarsi alla vita. La vita ci investe e ci attraversa con il dispiegamento di tante alterne vicende, dai successi agli insuccessi, fino al fischio finale della partita, allegoria della fine di ogni competizione terrena. In realtà la vita somiglia alla solitudine del portiere, un ruolo solitario, pieno di responsabilità, di fallimenti ma anche di vittoriose rivincite. Il personaggio principale Walter Vismara (Alberto Paradossi) è il classico travet degli anni sessanta. Tutto famiglia e lavoro. Il calcio come malattia sociale non lo tocca minimamente, anzi è la negazione di qualsiasi rito domenicale che vedeva i campetti parrocchiali pullulare di scontri sportivi tra scapoli ed ammogliati. L’ambiente lavorativo porterà il nostro impiegato modello a misurarsi con l’attività sportiva. E lo sport, il calcio in questo caso, lo farà incontrare con un grande portiere che da allenatore gli impartirà tutte le istruzioni per fargli fare quel salto che la Ditta (la società) imponeva, trasformandolo in un vero portiere. La vita è così, sono gli incontri spesso casuali a dare un senso al nostro futuro, ad aprirci o chiuderci delle prospettive di carriera. Tutti i personaggi di questo film sono stati scelti con cura maniacale e si vede, perché gli attori in realtà non recitano ma narrano loro stessi, sono sulla scena come li abbiamo sempre visti nella loro vita artistica. Il sardonico e sornione Neri Marcorè (Zamora), gli irruenti imprenditori (Giovanni Storti e Giacomo Poretti), il barista di mestiere ed indefesso arbitro della domenica (Giovanni Esposito), la sorella del Vismara che anticipa i tempi dell’emancipazione femminile (Anna Ferraioli Ravel) e così di seguito fino all’ultima comparsa, anche se di comparsa non si può parlare vista la presenza essenziale ed insostituibile di ogni personaggio. Tutto nel film fila liscio alla perfezione, il paesaggio padano, lo spirito dell’imprenditoria di quegli anni, la colonna sonora e le canzoni che si ispirano a cantautori come Jannacci, Cochi e Renato, Gaber: l’eccellenza della canzone popolare milanese per antonomasia. Neri Marcorè è stato già apprezzato ed applaudito al Teatro Municipale Piacenza in anni passati, sarebbe dovuto essere con noi anche a marzo di quest’anno, lo spettacolo è stato spostato e ci sarà il 22 e 23 maggio. La scelta dello spettacolo non lascia dubbi sulle scelte artistiche e culturali del Nostro, infatti lo spettacolo sarà “La buona novella” di Fabrizio De André. Tutti quelli della mia generazione conoscono Fabrizio De André ed hanno ascoltato la Buona Novella dove si narra la vita di Gesù tratta dai Vangeli Apocrifi. Auguriamo perciò a Marcorè un meritato riconoscimento al suo “Zamora” mentre ci prepariamo ad accoglierlo ed applaudirlo per la sua imminente rappresentazione nel nostro splendido teatro.