“Calendasco: l’attracco della via Francigena piacentina sul Po si è insabbiato.” Considerazioni di Umberto Battini

E’ un dibattito probabilmente aperto, e che interessa in modo concreto il tratto piacentino della Via Francigena. Ma nello specifico, la discussione ha in questi giorni interessato il Passo del Po che riguarda la sponda lombarda ed emiliana. Nel particolare quello che è conosciuto come “Guado di Sigerico” in località Soprarivo di Calendasco, recuperato con una ricerca storica, a metà degli anni ‘90 da un nutrito gruppo di appassionati di Calendasco e di Piacenza, riuniti nella associazione culturale “Compagnia di Sigerico”. Da alcuni anni il sodalizio ha sede nel Romitorio ospitale francigeno, oggi abitazione privata, ed i soci nel 1997 fecero erigere la simbolica colonna che si vede in riva al fiume.

Si discute del fatto che, dove è posta la piattaforma d’attracco galleggiante della barca del guado francigeno, spesso durante l’anno con il Grande Fiume a livelli bassi, il pontile sia praticamente insabbiato ed inagibile. Per questo fatto oggi si è costretti ad ancorare l’imbarcazione a circa 200 metri più a valle, dove il  fiume “batte” ed il letto del Po ha una buona quantità d’acque, anche in tempi di magra, purtroppo senza l’ausilio della sicurezza che invece si ha con la piattaforma nello sbarco dei pellegrini carichi dei loro pesanti zaini.

Ed in questo modo si riesce a mantenere attivo il collegamento tra Soprarivo e Corte Sant’Andrea dove è l’altro attracco, e questo lombardo non ha problematiche essendo su sponda in pieno alveo. Poco a valle di Soprarivo, a poche centinaia di metri è visibile il grande pontile con barche nella località Masero, che non ha mai mostrato criticità ed è gestito con grande esperienza.

In questo dibattito su come risolvere il problema d’attracco in sponda emiliana, una possibile alternativa potrebbe essere quella di prendere in considerazione di spostare di circa 200 metri poco a valle, in pieno alveo di Po, l’attracco galleggiante.

Resta inteso che le autorità preposte, dovrebbero prendere in considerazione il fatto di adeguare con interventi sulla sponda, l’agibilità del nuovo “Guado di Sigerico”.

Una soluzione che forse risolverebbe per sempre l’annoso problema, infatti con questo piccolo “trasloco” logistico la barca del servizio francigeno, sarebbe sempre in buone profonde acque, qui infatti la sponda è “gigata” da grandi macigni per evitare la corrosione della riva, proprio perché scorre il letto principale del Po.

In questo modo sarebbe sempre garantito di poter trasbordare i pellegrini della Via Francigena in terra piacentina in tutta sicurezza, cosa importantissima, nel punto cruciale, antico e suggestivo.

Anche dal punto di vista storico dell’attracco sigericiano francigeno, questo piccolo spostamento non inficerebbe sull’aspetto logistico, ed anzi questo non accadrebbe neanche se ci si spostasse a valle di qualche centinaia di metri in più.

Infatti storicamente, ad esempio vedendo la mappa del topografo ingegner Paolo Bolzoni del 1586, si capisce bene come il Po un tempo scorresse molto più a nord, non essendo ancora “nate” le due anse moderne così accentuate come sono oggi.

Questa rimane una alternativa da aggiungere al dibattito in corso, ma l’ultima parola spetta alle autorità preposte a questo fatto, del quale il Comune di Calendasco con l’intera Associazione Europea delle Vie Francigene e gli altri Comitati ed Enti risultano i principali chiamati in causa.

guado del po piacenza 16 aprile 2000 guado del po festa del pellegrino soprarivo di calendasco (foto cravedi)

“Breve sosta a Salvaterra”, un quadro di Francesco Dall’Armi con la ‘vecchia’ automotrice ALn 880 Breda

Benché progettate per servizi di un certo prestigio su una rete ferroviaria, quella del dopoguerra, in cui gran parte delle linee principali non erano elettrificate, le automotrici ALn 880 Breda conclusero la loro carriera su linee secondarie della Bassa Padana, suddivise tra i depositi di Bologna e Verona. Sulla Verona-Rovigo, negli anni ’70 spodestarono il vapore e portarono un’immagine di rinnovamento, anche se le precarie condizioni del binario, in molti tratti, limitavano la velocità a 50 km/h, costringendo queste automotrici, nate per correre, a viaggiare in terza marcia.

In questa immagine estiva, la piccola fermata di campagna, il passaggio a livello con il cancello e la casellante che, nei pochi attimi della sosta, scambia due parole con il macchinista, ci riportano con nostalgia ad un mondo ferroviario ormai scomparso.

Oymyakon, il villaggio siberiano più freddo della Terra dove si vive a -60° C in inverno

Com’è vivere nel posto più freddo dell’intero Pianeta dove nei mesi più rigidi le temperature oscillano tra i -50° C e i -60° C? Per provare solamente a immaginarlo basta andare in Siberia e più precisamente nel villaggio di Oymyakon, divenuto ormai una meta per i viaggi estremi

In questo minuscolo paesino nei mesi invernali le temperature possono scendere tranquillamente sotto i -50° C e sfiorare i -60° C. Il record negativo della colonnina di mercurio è stato registrato ufficialmente nell’inverno dell’anno 1933 con una minima di -67.7 °C, un evento unico per un luogo abitato.

Oymyakon è un villaggio situato nella Siberia orientale, Russia, e conta poco più di 500 abitanti. Ha un negozio e una scuola, che però chiude quando si toccano i -55° C. Le attività che garantiscono la sopravvivenza della gente del luogo sono principalmente la caccia e l’allevamento delle renne.

E come fanno gli abitanti a sopravvivere lì nei mesi invernali? Lo fanno o meglio hanno imparato a farlo da parecchio. Al di là degli innumerevoli strati di vestiti che ciascun coraggioso residente o visitatore deve indossare per muoversi in questo paesaggio di ghiaccio, ci sono difficoltà impensabili: dalla dieta locale, all’andare in bagno fino allo scattare una semplice foto.

Visto il clima così gelido, l’alimentazione degli abitanti di Oymyakon è costituita in prevalenza da carne e pesce. Anche il latte si vende a “blocchi”. Non è possibile coltivare alcun vegetale nella regione in questo periodo. Le azioni per noi più scontate e semplici sono a Oymyakon un problema.

I bagni di ogni abitazione sono, ad esempio, all’esterno. E andare in bagno significa affrontare il freddo ed essere incredibilmente veloci

Gli abitanti del posto si muovono a piedi o in macchina. Le vetture vengono riposte in garage riscaldati e se per un motivo o per un altro vanno lasciate fuori in strada allora devono rimanere accese per tutto il tempo. Le batterie della macchina fotografica e del telefono non resistono al freddo.

Nel corso degli anni Oymyakon ha attirato viaggiatori appassionati di avventure estreme, curiosi di provare sulla propria pelle cosa significasse vivere nel villaggio più freddo del mondo. Un’esperienza per pochi, sicuramente.

Fonte GreenMe. – Pubblicato in fb da Kella Tribi

Sono 850 i pellegrini passati nella Via Francigena piacentina nel 2024: con Umberto Battini “si fa la conta”

Con la stagione fredda niente passaggi di pellegrini sulla storica via Francigena che attraversa il territorio piacentino ed ormai prossimi alla fine dell’anno si fa la conta dei passaggi. L’ingresso ufficiale in Emilia avviene dopo aver passato il Grande Fiume dall’approdo lombardo, nell’antico sito di Corte Sant’Andrea, dove è un comodo porticciolo dal quale i pellegrini sono traghettati. Dal “Guado di Sigerico” di Calendasco una comoda imbarcazione preleva i moderni pellegrini dalla sponda lombarda, dove dopo lo sbarco proseguiranno diretti a Piacenza. L’ospitaliere dell’ostello “Transitum Padi” di Corte Sant’Andrea è Giovanni Favari che da anni, con un gruppo di volontari, lo gestisce con molta cura ed attenzione, ed è lui che ci fornisce i dati di passaggio, pressappoco uguali a quelli dell’anno passato. Infatti ci dice che si sono contati oltre 850 passaggi di pellegrini, soprattutto tra aprile ed ottobre, provenienti da ogni parte del mondo: americani, australiani, coreani ma anche tanti europei. Alcuni pellegrini sfuggono alla “conta” in quanto vanno direttamente al pontile di imbarco oppure proseguono lungo l’argine, che li immette poi al ponte di Po direttamente a Piacenza. Sono uomini e donne di ogni età, molti di questi hanno già percorso tratti della Francigena durate gli anni, e tanti hanno nelle gambe l’esperienza del cammino di Compostela. Tutto sommato un buon numero di pellegrini traghettati, in un punto da sempre cruciale, che lega da sempre le due sponde, dove il fiume resta un confine regionale ma non per le genti, proprio come nel Medioevo.

Sbarco al guado di Sigerico

“Un’antica puntazza da ormeggio riemerge dal Po”: il ritrovamento di Umberto Battini, amante del Grande Placido Fiume

Le puntazze si ricavavano da un tronco intero di legno forte perché, anche se piantate nell’acqua, non marcivano

La moderata ed uniforme secca estiva del Grande Fiume, che quest’anno ha mantenuto una stabilità nella portata delle acque più che nella norma, ha comunque permesso di ritrovare un manufatto umano abbastanza datato. Si tratta di una “puntazza” ovvero un grande tronco lavorato e reso conico, per poter esser “piantato” dentro al letto del Grande Fiume e permettere l’ormeggio di una barca, lunga un metro e dal diametro di 60 centimetri. Purtroppo il pezzo era composto anche da un lungo palo del tronco, spezzato, infatti quella resta la parte più delicata e più soggetta al deterioramento. Le puntazze si ricavavano da un tronco intero di legno forte perché, anche se piantate nell’acqua, non marcivano. Probabilmente depositata dopo la piena morbida di qualche settimana fa, lungo la riva del Po nell’ansa ovest a monte di Piacenza, la puntazza potrebbe avere circa due secoli. Era una tra le decine in uso negli approdi del fiume piacentino, quando era vivo e navigato.

“Nelle golene estive inabitate del Po, tra sabbia e colonie di ibis”, un intervento di Umberto Battini

Sponde assolate, in un agosto che sta per finire, buttando l’occhio sulla parte più affascinante del Grande Fiume: gli “abitanti” volatili delle rive dove l’acqua si dirada e scorre lenta. Ed è proprio qui che si sviluppa quell’humus fatto di larve, insetti lacustri, “vongole” di Po (non commestibili per l’uomo) pronti a diventare ottimo cibo per le non poche specie di volatili. È un ambiente ideale, fatto di silenzi e inconsuete spiagge sabbiose, non fruibili facilmente (e per fortuna) da chiunque, al massimo si vedono passare più o meno veloci piccole barche di giovani pescatori. Ed è appunto qui dove il Po si stende che abbiamo potuto osservare, da debita distanza, alcune varietà di uccelli che vivono in simbiosi con queste acque. Si tratta di bianche garzette, aironi grigi e bianchi, occhioni, gallinelle d’acqua e immancabili gabbiani reali. A stormi di buon numero, ed un poco meno visibili, almeno in quest’estate, i famigerati cormorani neri, e dove l’acqua è quasi ferma notiamo gruppi di corriere piccolo e qualche cavaliere d’Italia. Ma quello che ormai è consueto è l’avvistamento dell’ibis sacro, divenuto stanziale in vere e proprie colonie sulle rive piacentine del Po come pure in buona parte dell’asta fluviale fino alla foce. I grandi ibis si muovono a gruppi tra la golena e le rive morbide, dove l’acqua stagna, con il loro divertente becco ricurvo per scavare, a caccia di insetti ed invertebrati. Qui la loro grande diffusione è stata definita “invasiva” ma, a differenza dell’Egitto, dove pare sia quasi del tutto estinto, va precisato che recenti studi di ricerca hanno accertato come questo grande pennuto non stia al momento creando impatto sull’ecosistema naturale. Il Grande Fiume, per questa ed altre ragioni, merita d’esser sempre tutelato perché questo fragile ecosistema continui a mostrarci, nei suoi meandri più isolati, una vitalità quasi “sacra”, appunto come l’ibis.

Fonte: ILPiacenza.it

“Parla ogni giorno di più la lingua del mondo la Via Francigena piacentina: due pellegrini brasiliani al Guado del Po a Calendasco”, un articolo di Umberto Battini

Parla ogni giorno di più la lingua del mondo la Via Francigena piacentina. Sono ormai almeno una decina al giorno i trasbordi di pellegrini al Guado del Po, che collega Corte Sant’Andrea alla sponda emiliana di Calendasco. Con le loro moderne “bike” abbiamo intercettato sulla sponda del fiume il passaggio di questi pellegrini “a due ruote” provenienti dal Brasile e che percorreranno la strada medievale fino a Roma. Meritano certamente la nostra attenzione, perché arrivano dall’altra parte del pianeta per immergersi sulla Francigena. Ai due sorridenti uomini diamo le indicazioni che ci richiedono e gli spieghiamo che sono ormai prossimi al borgo e che circa 8 chilometri li dividono dalla città di Piacenza. Trasmettono quella carica vitale e simpatica tutta “brasilera”, poi dopo due chiacchiere di nuovo inforcano le loro bici e ripartono veloci, in questa verde pianura assolata.

Sabbioneta: nella Sinagoga dove i maschi per obbligo coprono il capo con la Kippah ma le donne, no!

Un’interessante esperienza personale: la visita alla sinagoga di Sabbioneta, luogo di culto ebreo. I primi ebrei arrivarono a Sabbioneta nel 1436, mentre nel 1937 venne sepolto nel locale cimitero ebraico l’ultimo esponente della comunità. La comunità ebraica sabbionetana costituì, già nella seconda metà del Cinquecento, una ricca borghesia che aveva investito soprattutto in terreni il denaro proveniente dall’esercizio del “prestito” (attività negata ai cattolici). Gli ebrei poterono arricchirsi progressivamente grazie al clima di tolleranza dovuto al governo illuminato di Vespasiano Gonzaga e alla sua lungimiranza (stamperia, sinagoga, cimitero, zecca), che aveva impedito la loro segregazione in un ghetto. Vissero liberamente nella città, perfettamente integrati alla popolazione di confessione cattolica, esercitando liberamente il loro culto.

La Sinagoga, luogo di culto e di riunione della comunità ebraica della città, fu costruita nel 1824 nello stesso edificio dove si trovava la precedente, più piccola, sala di preghiera. Vi si accede da uno scalone che, con quattro rampe, porta alla sala di preghiera; ulteriori due rampe conducono al matroneo. Un vero piacere, per me con tanto di stampelle e piede sinistro con ampia fasciatura per il recente intervento chirurgico con inibizione da circa due mesi di fare anche le sole due rampe di scale di casa. Fortunatamente inibita la salita al matroneo: un tempo riservato alle donne, ai giorni nostri per me, due rampe risparmiate!

Comunque, come racconta la gentile e cordiale ragazza della biglietteria, attualmente la Sinagoga di Sabbioneta è di proprietà della Comunità Ebraica di Mantova, venne riaperta al pubblico nel 1994 dopo decenni di abbandono seguiti allo scioglimento della locale Comunità. Un’annotazione: il Tempio si trova nella parte superiore dello stabile per rispettate il precetto secondo il quale tutte le sinagoghe non devono avere nulla al di sopra se non il cielo. Ecco spiegato il perché dei tanti scalini.

Ma quali sarebbero le differenze tra cristianesimo ed ebraismo? Molto superficialmente considerato che non ho mai avuto rapporti con questo mondo del quale ben poco conosco: i Cristiani riconoscono in Gesù il Messia venuto tra gli uomini per annunciare il Regno dei Cieli e morto in croce per mondare l’umanità intera dai suoi peccati. Per gli Ebrei invece Gesù fu un semplice profeta, e attendono ancora l’arrivo del vero Messia. Di conseguenza non riconoscono il Nuovo Testamento, in quanto incentrato su Gesù, e la croce per loro non ha un particolare valore religioso.

Detto questo, un altro particolare che mi ha colpito è stato l’invito – fermo e imprescindibile – da parte sempre della ragazza della biglietteria di indossare la Kippah, il particolare copricapo che è obbligatorio in sinagoga per gli uomini secondo la prescrizione di non presentarsi a capo scoperto dinanzi a Dio. E quanto a Dalila? Niente. In effetti anche le donne userebbero coprirsi il capo, con la Kippah o più semplicemente con altro copricapo (potrebbe anche essere, se sposate, una parrucca) ma, al contrario di quanto avviene per gli uomini, manca la caratteristica dell’obbligatorietà per cui Dalila non ha avuto difficoltà ad entrare in Sinagoga a capo scoperto.

Insomma, una questione curiosa da approfondire per cui … appuntamento – prima o poi – a Mantova, dove la comunità ebraica è ancora presente.

Casalmaggiore: ritorno 45 anni dopo ed è ancora emozione e musica rock. Luci, colori, voglia di libertà, di giustizia, equità, solidarietà

Il mitico pulmino della volkswagen, simbolo degli anni ’60 e ’70 in un’immagine esposta al bar Liston in piazza Garibaldi a Casalmaggiore

Casalmaggiore. Un punto fondamentale di riflessione e di svolta nella mia vita. Tarda primavera 1978, avevo 24 anni, un percorso universitario traballante anche per la difficoltà creata da un rapporto di coppia intenso, tanto da spingere alla ricerca di un lavoro nella prospettiva di una convivenza lanciando il sasso oltre le difficoltà poste dalla sua famiglia timorosa che la mia presenza potesse allontanarla dagli studi. Scoprendo che, in assenza del ‘pezzo di carta‘ adeguato, le scelte erano molto ridotte e al massimo con stipendi di bassissimo profilo. Così, quella ragazza che ritenevo per sempre invece, sotto stress per via degli studi, delle difficoltà poste dai suoi genitori, dalla mancanza di una possibilità al momento di dare sbocco al rapporto, se ne andava per la sua strada anche “per non farmi male“. No, non voleva farmi male, diceva, per questo meglio lasciarmi, scrivere la parola fine a quel rapporto troppo coinvolgente, intenso, passionale. Una scoppola mica tanto da ridere. Come un pugile rintronato per la botta presa direttamente sul muso e per il colpo allo stomaco. Non mi rimaneva altro che la molta militanza politica tra riformismo e simpatie anarco-libertarie-movimentiste in quegli anni nei quali la rivoluzione e il cambiamento sembravano ad un passo. Poi la notizia: a Casalmaggiore, paese della bassa padana a due passi dal Po, il Grande Placido Fiume, provincia di Cremona, dai 70 agli 83 km da Piacenza in base al percorso scelto, si organizzava un concerto con Joe Cocker. Nell’agosto del 1969, salito sul palco a Woodstock, Joe si era rivelato rock star con With a little help from my friend. Erano gli anni dei figli dei fiori, del fate l’amore non la guerra, della libertà, del rifiuto al conformismo, dei capelli lunghi, della contestazione contro tutte le giacche e le cravatte, della scoperta dei jeans, della rivolta e della ribellione. Per alcuni della rivoluzione, della lotta armata, della clandestinità. Compagni che sbagliavano gli strumenti di opposizione (le P38) ma pur sempre compagni in lotta contro un sistema iniquo.

Bernardo Lanzetti (già frontman della storica PFM) annunciato a Casalmaggiore per martedì 5 settembre alla Polisportiva Amici del Po a Casalmaggiore

Così Casalmaggiore, anno 1978, era l’invito alla mia personale Woodstock italiana. Sono partito con Mino, l’amico di sempre. In tasca un involucro che da tempo conservavo in camera mia, sotto all’ultimo cassetto della scrivania, lontano dalle mani di mammà. Me l’aveva passato Alberto che mi vedeva fumare MS, Gauloise, eccezionalmente Camel o Marlboro, “tutta merda“, diceva lui, “gettala, fuma sano, fuma pakistano” e mi aveva passato quel pane di hashish. Allora tutti fumavano spinelli. Compreso quell’amico, assunto dal Comune e inquadrato nel corpo dei vigili urbani. Lui, uomo d’ordine, di regole, di legge e regolamenti, vestito con una divisa, fumava hashish. Io no. Cioè, fumavo ma niente più che normale tabacco legale. Quel ‘pane’ dunque stava nel fondo della scrivania da mesi, non sapevo bene che farne. Curioso ma non convinto dell’opportunità del consumo, dell’abbandono al viaggio nel mondo dei sogni artificiali. Ma lì, a Casalmaggiore, sdraiato nel prato, nel buio della notte illuminata dai fanali sul palco, vivevo in bilico tra un recentissimo passato e un futuro tutto da definire. Preparata quella canna, accesa, fumata, l’effetto fu meraviglioso.

Casalmaggiore, piazza Garibaldi. Sulla destra il Bar Caffè Tubino, luogo del rock

Luci, colori, la musica vissuta ‘dentro’, la batteria nello stomaco, la chitarra nel cuore, il basso sembrava corrente, un fiume di suoni totalmente avvolgenti, un fluido a passare, a scorrere nelle gambe, a farmi muovere le mani, le braccia, a intorpidire la mente. La mente fluttuante, leggera, vagante, immagini abbaglianti ma incerte, indefinite, vaganti. Lei era lì, nei ricordi lucidi e fluidi, chiari, precisi e indefiniti, nel mio essere interiore, profondo. Ma la voce, la voce di Joe mi portava altrove, oltre, in una dimensione diversa, avanti, indietro, altrove. Un’esperienza intensa, oltre il mondo del reale quotidiano. Troppo oltre. Lei c’era e la sua assenza faceva male ma ormai la musica mi portava oltre, lei restava ma solo come un ricordo, un fantasma, un’ombra sfuggente, un sorriso evanescente. Così ho deciso il mio futuro, il mio cammino. No, il mio futuro non poteva stare in quel mondo di emozione ma miseramente virtuale. Quel che restava di quel pane, finita la musica, avvolto nello stesso scartoccio, è tornato nel fondo della scrivania. Rimasta la simpatia per gli indiani metropolitani ma nessun rapporto con la lotta armata, con chi usava i cortei per sparare alzo uomo, la scelta è stata per il riformismo socialista, il lavoro democratico per il cambiamento sociale, la realtà. Una scelta di vita. Così dopo qualche anno è arrivata la laurea. Il lavoro prima alla Fabbrica Italiana Automobili Torino nella vana e ingenua speranza che forme di cogestione fossero possibili ma nel grande impero industriale del Gianni Agnelli ogni forma di collaborazione, ogni apertura da parte del padronato era solo fittizia e alla fine il dominus era sempre lui, il comandante del vapore e all’occorrenza nel nome dell’utile aziendale l’operaio, il lavoratore, licenziato con un encomio assimilabile a una pedata nel culo. Quindi, salutata la Fiat, il lavoro all’Asl con quella collega che abitava in un quartiere residenziale per benestanti e non sapeva neanche chi fosse Francesco Lorusso il compagno di Lotta Continua ucciso a Bologna nel 1977 da un Carabiniere. Come dire che avevamo sognato di cambiare il mondo ma nei quartieri residenziali della placida, conformista, allineata Piacenza borghese nessuno s’era accorto di noi, dei nostri sogni, di quanto per quei sogni alcuni avevano pagato caro, anche con la vita.

Casalmaggiore: Paesaggio, stampa fotografica digitale su tela di Guglielmo Pigozzi

Seguì l’incontro con Dalila, un rapporto che sarebbe durato 4 anni per poi arrivare al matrimonio, ed ecco l’arrivo dei figli, contemporaneamente la collaborazione col mondo del giornalismo e, a quel punto, il contenuto di quello scartoccio da tempo dalla scrivania era passato per lo scarico del bagno di casa. Insomma, niente rivoluzione ma integrazione nella società pur cercando nel mio piccolo di cambiarla con strumenti democratici. Sono diventato dirigente nella sanità pubblica ma molti a dire che comunque “ero diverso“. Già, dalla parte non delle regole rigide della burocrazia dominus del cittadino ma dalla parte della gente, privilegiando i bisogni dei cittadini. L’ho pagata. Passando attraverso un processo penale, un’indagine per l’accertamento di eventuali reati penalmente rilevanti e infine una procedura di pignoramento dei mobili di casa. Ma, alla fine, anche quei signori in toga nera hanno riconosciuto l’aver agito in nome dell’interesse dei cittadini. Perché la legge, comunque scritta, è al servizio dei bisogni della gente e non viceversa. Così oggi eccomi qui, pensionato, 69 anni, il Covid quello pesante alle spalle salvo qualche strascico col quale continuare a fare i conti. E ancora: un figlio con sua moglie e le mie due nipoti emigrati in Nuova Zelanda per un investimento lavorativo di alta professionalità, contatti limitati (che comunque sono tanta manna) via whatsapp. Il secondo figlio con consorte che, otto mesi fa, mi hanno fatto trinonno “regalandomi” la nascita del primo nipote maschio. Beh, a questo punto credo sia chiaro perché, dopo tanti anni e una vita vissuta intensamente e concretamente, senza fughe nel mondo alternativo dei sogni e delle visioni indotte, dei voli psichedelici, ecco perché tornare a Casalmaggiore sia stata una grande emozione: soprattutto quando, entrato al bar caffè Tubino, in piazza Garibaldi, municipio alle spalle, all’interno ho visto decine di foto di concerti rock, l’annuncio di una serata live per il martedì successivo col barista che parlava dei tempi vissuti con i fumetti che scuotevano il mondo, da Diabolik a Zakimort, a Kriminal, Satanik, fino a Lando o La Compagnia della Forca e Alan Ford con Gruppo TNT. Il mondo dei personaggi oltre il Corriere dei Piccoli del Signor Bonaventura e di Lucky Luke, entrambi comunque gentili, ben educati, alla fine allineati.

Casalmaggiore, per me, è così. Luci, colori, musica, voglia di libertà, impegno per contribuire ad un mondo migliore, giusto, equo, solidale senza necessità di ricorrere a coadiuvati di visioni indotte cogliendo anzi l’occasione per evidenziare che 23 anni fa scegliendo di vivere la vita ho anche rinunciato a quelle 30/40 sigarette legali che fumavo giorno dopo giorno. Dunque, 45 anni dopo il primo incontro sul sentiero del rock, felice di un ritorno dopo il cammino sulla lunga e tortuosa strada della vita per scoprirci ancora uguali, ancora con gli stessi sogni e le stesse illusioni..

Casalmaggiore: Giochi di luce, olio su tela di Luiso Sturla

5 marzo 2023: al “Via Roma Street Market” festa di coesione sociale sui cicli della vita con l’associazione di volontariato Fabbrica&Nuvole

Fabbrica&Nuvole, associazione di volontariato con sede in via Roma, persegue la coesione e l’inclusione sociale operando in un quartiere dove i piacentini vivono a stretto contatto con l’emigrazione. Vivendo anche situazioni di disagio, di degrado, di conflittualità, di violenza ma non solo. In realtà anche in via Roma, come nel resto della nostra Piacenza, prevalgono le occasioni di integrazione, di normalità quotidiana, di bambini che vivono le stesse esperienze scolastiche, di mamme che quei bambini crescono, di uomini regolarmente inseriti nel mondo del lavoro. Ma naturalmente tutto questo non fa breccia nell’ordinario del sistema dell’informazione e spesso di quella politica che, proprio sulla divisione e sulla paura, sullo slogan della sicurezza, basa la propria principale strumentale ragione d’essere. Bene, non così per i volontari di Fabbrica&Nuvole.

Domenica 5 marzo, in occasione del “Via Roma Street Market” l’ennesima conferma: per tutta la giornata all’esterno delle tre sedi dell’associazione (la segreteria, la biblioteca, la Scuola Azzurra) sono stati allestiti stand dedicati a tre antichissime festività tradizionali di origine iraniana, rumena e bengalese, feste per l’appunto celebrate nei paesi di origine nel mese di marzo a simboleggiare la rinascita della natura e i cicli della vita. Protagonista dell’iniziativa per quanto agli aspetti organizzativi Valeria Laffeni che ha coordinato la redazione da parte di volontari delle rispettive nazionalità di opuscoli sulle origini e sulla simbologia delle treb festività che l’associazione ha voluto legare alla ricorrenza della festa della Donna all’inizio della Primavera.

Ma non solo: all’interno della Scuola Azzurra, due vetrine d’affaccio su via Roma al 163, si è potuta ammirare un’esposizione pittorica su “Donne. Corpi e Immagini” con le opere di Morteza Rezai, giovane artista iraniano residente in città e per concludere Bernardo Carli, Presidente dell’associazione, con la figlia Camilla si sono fatti promotori della campagna benefica “Gli agrumi dell’amicizia” di Africa Mission Cooperazione e Sviluppo. Sempre all’insegna di una coesione e un’integrazione tra popoli d’origini diverse che in via Roma è quotidianità reale ben oltre agli sporadici episodi di degrado che purtroppo talvolta prevalgono nelle cronache del quartiere semplicemente perché contrariamente alla normalità “rompono il video“, fanno comunque notizia.

“Riportami a casa” ovvero il senso delle tombe ricoperte da conchiglie nel Sud degli Stati Uniti

 In molti cimiteri del sud degli Stati Uniti, ci si può imbattere in tombe molto particolari. Si tratta di tombe ricoperte di conchiglie, ma non si tratta di conchiglie sparse semplicemente su una tomba, qui si parla tumuli sopra i quali le conchiglie sono state proprio cementate. Scopro che la pratica era abbastanza comune in tutto il sud degli Stati Uniti nell’era vittoriana, e non solo nelle zone costiere. Sembra che queste tombe siano particolarmente diffuse in Texas, ma ce ne sono parecchie anche in Alabama, Georgia, Mississippi, Louisiana e Florida, la maggior parte datate tra la fine del 1800 e il 1910.
Il tipo di conchiglie utilizzate  sono gusci di bivalvi di acqua salata, quindi ci si domanda perché ci fosse l’usanza di ricoprire di conchiglie non facilmente reperibili per tombe anche molto lontane dalla riva del mare.
Scandagliando i vari documenti, sono spuntate fuori diverse teorie, inclusa una molto interessante concernente l’economia del periodo.
Secondo “The New Encyclopedia of Southern Culture, Volume 23, Folk Art” di Crown, Rivers e Wilson, le conchiglie  rappresentavano per gli schiavi il ritorno in Africa: “Dicevano che il mare li aveva portati nel loro nuovo paese e che il mare li avrebbe riportati in Africa dopo la loro morte“.
Tuttavia, molte delle tombe ricoperte di conchiglie appartengono a coloni bianchi, per cui  alcuni ipotizzano che i bianchi abbiano assorbito questa tradizione dagli schiavi.

Secondo gli esperti dell’Association for Gravestone Studies, invece, le conchiglie  avrebbero a che fare con il cristianesimo, affermando che, nell’ambito della chiesa, le conchiglie sono un simbolo del pellegrinaggio cristiano, del viaggio attraverso la vita e del battesimo. Nel medioevo, i cristiani indossavano una conchiglia per indicare che avevano compiuto un pellegrinaggio al santuario di San Giacomo di Compostela in Spagna, come afferma il sito web dell’associazione. Porre una conchiglia su una lapide quando la si visita è un’antica usanza e può avere diversi significati a seconda del background culturale delle persone che depongono le conchiglie. L’idea di attraversare uno specchio d’acqua verso la terra promessa o attraversare il fiume Stige nell’aldilà, anche il viaggio finale verso “l’altro lato”, fa parte del simbolismo della conchiglia.

Secondo William Flake “Sonny” Joiner, un genealogista dell’Alabama, i gusci sono stati invece usati dai poveri meridionali come mezzo per proteggere le tombe. Il metodo tradizionale per contrassegnare una tomba (per i meno abbienti) nell’Alabama meridionale durante i primi anni e soprattutto durante l’era della ricostruzione era quello di creare un tumulo di terra. Inutile dire che le piogge spazzavano via questi cumuli abbastanza facilmente, finché si è scoperto che le conchiglie, disposte come delle tegole su un tetto, proteggevano efficacemente il cumulo di terra dalla pioggia ed erano anche decorative.
Le conchiglie non erano solo efficaci e belle, scrisse Joiner, erano anche economiche e reperibili. Il sale, durante l’era della ricostruzione era scarso e molto costoso. Per ovviare a questo, in molte comunità si formarono squadre di salatura che intraprendevano viaggi annuali verso la costa, dove facevano bollire l’acqua di mare o l’acqua delle saline, ricavandone cristalli di sale da riportare alla comunità. Mentre erano sulla costa, pescavano pesci, li pulivano, li sfilettavano e li mettevano sotto sale per portarli a casa. E un altro compito che avevano sulla costa era proprio la raccolta di conchiglie per le tombe dei loro cimiteri.

Chi visita la Louisiana e va a New Orleans si accorge immediatamente delle influenze che la tratta degli schiavi ha avuto qui. Ma quello che molti visitatori non sanno è che due terzi degli schiavi arrivati in ​​Louisiana attraverso l’Atlantico, proveniva dal Senegal, come dimostra il Louisiana Slave Database.
Quindi, anche se per la maggior parte delle persone, New Orleans e il Senegal sembrano due mondi a parte, in effetti la cultura di New Orleans è stata estremamente influenzata dalla cultura senegalese a causa della grande quantità di schiavi portati attraverso i porti del fiume Mississippi. E così nacque il lento ma graduale processo di creolizzazione.
Creolizzazione è un termine che viene spesso legato al sud ed è più di una semplice miscela; implica la creazione di nuove culture. Nuove culture create attraverso un contesto negativo. È un “processo di assimilazione in cui le culture vicine condividono determinate caratteristiche per formare una nuova cultura distinta”.
A New Orleans, la cultura cerimoniale è stata influenzata dal Senegal in molti modi: come il cibo, la musica, la religione e la cultura cerimoniale e festosa. La storia della conchiglia fa parte delle tracce che qui sono state portate dai rituali funerari senegalesi. Le usanze funebri erano una delle poche cose della vita dei neri in cui i padroni bianchi tendevano a non intromettersi. E quindi molti dei rituali d’origine associati al rispetto dei morti sono stati mantenuti. Uno di questi rituali era appunto l’usanza di deporre sulle tombe oggetti personali, conchiglie bianche e ciottoli, ricreando una sorta di ambiente acquatico come sul fondo dell’oceano, di un lago o di un fiume.
Le conchiglie bianche erano simboli dell’immortalità e dell’acqua. Il dominio dello spirito era metaforicamente situato sotto specchi d’acqua che guidavano il defunto nell’aldilà. Le principali influenze dei rituali di sepoltura senegalesi furono del Serer. Il popolo Serer aveva rituali di sepoltura molto specifici. Usavano un tipo di pietra chiamato Laterite e Magalite che scolpivano e posizionavano in cerchio, dirigendo le pietre verso est.
Questi cerchi di pietre possono essere trovati solo nell’antico regno di Serer di Saloum. Oltre ai cerchi di pietre, costruirono anche grandi tombe di sabbia e continuano a costruirle fino ad oggi. Una delle caratteristiche dei tumuli e delle tombe era proprio la copertura di conchiglie. Le conchiglie “creano l’immagine del letto di un fiume, dove, nella credenza africana, si trova il regno dei morti”. Alcune tombe erano delimitate da conchiglie, altre interamente ricoperte. Le conchiglie sono state utilizzate anche per creare disegni e decorazioni.
Le conchiglie che si trovano sulle tombe del sud degli Stati Uniti sono un po’ come le monete che si gettavano in certe fontane per esprimere un desiderio. E ognuna di quelle conchiglie porta con sé lo stesso desiderio, il desiderio di chi è stato strappato via dalla propria terra senza potervi fare più ritorno: “Riportami a casa.” 

Fonte: http://lacustodeditombe.blogspot.com/

Fine della vacanza sul Lario ma giunti al bivio per Como si devia e il viaggio continua fino a Dongo, dove venne catturato Mussolino il Mascellone finto ubriaco in vile fuga

Como: i giardini di Villa Olmo

Lasciata Lecco di buon ora (poco dopo le 10) ci dirigiamo verso Monza, da dove potremo prendere la Superstrada che ci porterà nella nostra Piacenza. Ma d’improvviso un bivio, una indicazione segnaletica e allora, “Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione“. Insomma, un pensiero, un attimo, una deviazione e la vacanza si guadagna una giunta. “Andiamo a mangiare in quel ristorante dove c’eravamo fermati anni fa, a bordo lago, poco dopo Como“. Basta girare leggermente il volante ed ecco fatto. Civate, Pusiano, Erba, Albavilla, Albese, Tavernerio, Lipomo, Como, poco più di 30 km percorsi in mezz’ora circa, il tempo di ricordare un soggiorno di qualche anno fa, la funicolare che porta a Brunate, il lago, i giardini di Villa Olmo dove avevamo visitato una mostra d’arte e il viaggio prosegue verso nord.

La strada da Como verso nord lungo il Lario

Cernobbio, Rovenna, Moltrasio che già fanno altri bei 10 km: dove s’è cacciato quello splendido ristorante a riva lago? Curate Urio, Laglio, Torriggia, Brienno, “giuro il ristorante deve essere qui!” Ma del ristorante, nessuna traccia o perlomeno a noi si nega. “Come si chiama?” “Aveva un nome che ricordava i platani“, ricorda Dalila ma per noi asfalto che segue asfalto, case, ville, paesini, il lago con i suoi battelli, i suoi cigni, i bagnanti, le signore sdraiate a prendere il sole. Ristoranti a bordo lago manco l’ombra, neppure come miraggio.

Usciti dalla galleria, eccoci a Dongo, 75 km dopo il “colpo di genio”

Argegno, Colonno, Sala Comacina, Lenno, Bonzanigo, Tramezzo, Cadenabbio, Griante, Menaggio, Nobiallo, Rezzonico, Prato, Calozzo, Musso, Giardino del Merlo ed effettivamente ci sentiamo due merlotti: col colpo di genio della deviazione subito dopo Lecco, ci siamo scofanati 75 km ovvero circa 35 aggiuntivi dopo aver mancato completamente la meta fissata e agognata ma, in fondo, niente di male. Entriamo in galleria e, all’uscita, ecco Dongo!

Dongo: l’albergo dal nome originale, Dongo

Parcheggiamo, ammiriamo il porto, il panorama del lago, controlliamo l’ora sul cellulare (gli orologi ormai sono demodé, lontani i tempi di quando Gianni Agnelli faceva l’originale e lo portava sopra al polsino della camicia e tutti a mormorare ammirati: se lo facevo io, ero un cretino. Potenza del conto in banca). Sono le 13.30 passate ma nessun problema, ci giriamo spostando lo sguardo dall’acque del lago al paese ed ecco l’albergo ristorante sito in Dongo dal nome geniale, Albergo Dongo. La fantasia, l’immaginazione e l’inventiva al potere.

Dongo: l’imboccatura del porto

Placato quel languorino che, al profumo in libera uscita dalla cucina del ristorante, ricordava la necessità di sedere ad un tavolo per mettere a tacere il brontolar dello stomaco, inevitabile la visita al Museo della Fine della Guerra. Qui, all’altezza della piazza Rubini, il 27 aprile 1945 venne catturato dai partigiani il Duce in fuga da Milano verso la Valtellina; fu ucciso nella frazione di Giulino nell’ex comune di Mezzegra, il giorno seguente.

Dongo, la piazza con sullo sfondo il Municipio che ospita il Museo della Fine della Guerra

Mussolone Mascellone, gran capo del fascismo, era giunto a Como il 25 aprile, considerando che la città lariana rappresentava una meta che offriva diverse possibilità: anzitutto la limitata presenza partigiana era motivo di sicurezza. Qui era possibile trovare un rifugio sicuro e appartato e nascondersi sino a quando gli Alleati, al loro arrivo, avrebbero scoperto il nascondiglio: sarebbe quindi stato possibile consegnarsi loro con garanzie; questo era l’obiettivo principale. In alternativa, Como costituiva anche un punto di passaggio per raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane Alessandro Pavolini prospettava di costituire un estremo baluardo di resistenza, il Ridotto Alpino Repubblicano, e dove erano affluiti tremila uomini del generale Onori ed erano attesi ancora mille uomini del maggiore Vanna. Ancora, sembrava possibile costituire un estremo baluardo di difesa proprio nella città lariana, facendo convergere su di essa tutte le forze residue e resistere a oltranza per trattare poi in extremis con gli Alleati al loro arrivo. In effetti a Como si concentrarono numerose formazioni provenienti dalle zone circostanti. L’afflusso durò tutta la notte e parte della mattinata. Alcune fonti parlano di quarantamila fascisti, mentre Giorgio Bocca riduce il numero dei militi a soli 6.000-7.000 uomini che, peraltro in giornata, si dispersero dopo che il Duce decise di congedarli.

Dongo, Museo della Fine della Guerra

Dopo ore di febbrili trattative e riunioni per valutare il da farsi, giudicata Como indifendibile, nella notte del 26 aprile il Duce con una colonna di ministri e gerarchi fascisti, lasciò la città arrivando a Menaggio per poi proseguire fino a Cardano, piccola frazione di Grandola ed Uniti, dove peraltro lo raggiunse Claretta Petacci. Nel frattempo Milano veniva liberata e giungeva notizia di molti arresti in corso. Il Duce decise quindi di tornare a Menaggio dove il gruppo dei fascisti incrociò un convoglio militare tedesco composto da trentotto autocarri e da circa 200 soldati, decidendo di aggregarsi.

Museo della Fine della Guerra: fascisti militi repubblichini

Il convoglio, lungo un chilometro, ripartì nella notte del 27 aprile ma alle sette, appena fuori dall’abitato di Musso, fu fermato a un posto di blocco delle Brigate Garibaldi; dopo una breve sparatoria, e in seguito a lunghe trattative, i tedeschi ottennero il permesso di proseguire a condizione che si effettuasse un’ispezione, e che fossero consegnati tutti gli italiani presenti nel convoglio, nel sospetto che vi fosse il Duce con qualche gerarca in fuga. Mussolini indossò un cappotto e un elmetto da sottufficiale della Wehrmacht, si finse ubriaco e salì sul camion numero 34 occultandosi in fondo al pianale, vicino alla cabina di guida, ricoperto da una coperta militare. A nessun altro italiano fu concesso di tentare di seguire nascostamente Mussolini nel convoglio.

Le milizie del Duce

Verso le ore 16 del 27 aprile, durante l’ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, Mussolini fu riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri sotto una panca del camion n. 34. Fu prontamente disarmato del mitra e di una pistola, arrestato e preso in consegna dal vicecommissario di brigata Urbano Lazzaro “Bill”. A questo punto occorre ricordare che già il 25 aprile il CLNAI, riunitosi a Milano, aveva approvato un Decreto per l’amministrazione della giustizia ove, all’art. 5 si prevedeva che: “i membri del governo fascista e i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi con l’ergastolo”.

Simbolo fascista delle Camicie Nere

Di converso, la clausola numero 29 dell’armistizio lungo siglato a Malta da Eisenhower e dal maresciallo d’Italia Pietro Badoglio il 29 settembre 1943, prevedeva espressamente che: “Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando militare alleato o dal Governo italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite.

Dongo, Museo della Fine della Guerra: camicie simbolo della Brigata Garibaldi

Tuttavia, non appena a conoscenza dell’arresto dell’ex capo del governo, il Comitato insurrezionale di Milano formato da Pertini, Valiani, Sereni e Longo, riunitosi alle ore 23:00 del giorno 27, decise di agire senza indugio e di inviare una missione a Como onde procedere all’esecuzione di Mussolini.

Museo della Fine della Guerra

28 aprile 1945, ore 16.10, mentre gli americani stavano arrivando in zona proprio per farsi consegnare il Duce, i tre rappresentanti del CLNAI eseguono la sentenza. Il colonnello Valerio recita la formula di rito “Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano” ed è poi sempre suo il compito di sparare una raffica di mitra francese MAS 38, calibro 7,65 lungo che pone fine alla vita del Duce e ad una guerra sbagliata e comunque estranea agli italiani che aveva ridotto il Paese alla rovina e il popolo alla fame.

Dongo: 28 aprile 1945, la guerra è finita

Non è facile, a questo punto, riprendere il filo del viaggio vacanziero anche considerando i tempi che stiamo vivendo, governati da una politica che sembra aver dimenticato i valori di quella Liberazione e della successiva Costituzione, base della Repubblica. Oltretutto con una sorpresa: anche qui, come già successo alla Villa Manzoni di Lecco, praticamente niente bookshop. Le ragazze della biglietteria ci spiegano che, con la pandemia, è scaduto il contratto con la società che aveva il servizio in appalto e forse con il prossimo anno, se ancora il movimento turistico ‘tiene’, potremo trovare di nuovo guide storiche e guide turistiche dedicate al Lario e ai suoi paesi testimoni delle lotte partigiane. Ovviamente, Meloni e Salvini e Berluscone permettendo.

Con questo la vacanza sul Lario scrive la parola fine ma ancora bisogna tornare a Lecco. Altri 56 km ma attenzione: passando attraverso 21 tratti di strada in gallerie lunghe spesso oltre i 2 km ed anche questa è un’esperienza che intanto preclude ogni speranza di ammirare i favolosi panorami della zona e poi… e poi … beh, e poi anche questo sembra un simbolo del ritorno alla vita quotidiana di sempre. A Dongo la guerra è finita e a Dongo finisce la vacanza. Si ritorna a casa.

Varenna galleria non illuminata

Lecco: dalla movida dei ristoranti ‘in’ del centro alla piada del River Cafè, locale naif detto “La Fogna” dai suoi frequentatori (altrettanto naif), all’incontro con la Street Art di via Carlo Porta che sembra un sogno per la mia grigia Piacenza

Lecco, la ‘movida’ dei pranzi e delle cene al ristorante. Di tutto di più.

Viaggiare, arrivare e soggiornare in una località diversa dalla tua residenza è sempre gradevole. Gente nuova, luoghi nuovi, curiosi, belli, indifferenti, talvolta divertenti talaltra noiosi. Arte, musica, panorami, aria diversa, di tutto un pò. Naturalmente buona tavola, piatti diversi, gusti nuovi. Risotto con la luganega (salsiccia), Cassoeula, Gnocchi o Ravioli con spinaci e gorgonzola, Pizzoccheri, filetti di pesce persico dorati, trota al forno aromatizzata al finocchio, insalata di pere con gorgonzola e noci, torta Resegone e torta Grigna. Sono alcuni dei piatti proposti dai menù dei ristoranti italiani a Lecco. A pranzo. A cena. Piatti tutti buoni, buonissimi, saporiti, gustosi. Ma già dopo il primo giorno senti i campanelli suonare nello stomaco e al terzo arriva il fegato con le sue campane. Anzi, i suoi campanoni. Urge moderazione.

Lecco, risotto allo zafferano e ti lecchi i baffi anche se non li hai

Ma non tanto o non solo per questioni digestive. Subentra la nostalgia, la voglia di un semplice panino o, meglio ancora, una piada. Prosciutto e formaggio. Salame. Pancetta rigorosamente piacentina e caciotta montana. Magari con aggiunta d’una foglia d’insalata oppure pomodorini. Una birra, un ambiente rusticano, naif, fuori dal centro, lontano dal lago affollato di turisti, di immigrati che offrono rose, di bambini urlanti inarrestabili, di musica a tutto volume, di moto che sfrecciano rombanti, d’aria dal sapor di fritto, d’hamburger amerikani in salsa piccante e majonese straripante. Con Dalila, vogliamo un posto seminascosto, appartato, diverso e lo troviamo in via Ferriera, zona degradata, a due passi dalla stazione ferroviaria andando a piedi lungo via Carlo Porta, ovvero il cammino che porta a Villa Manzoni e alla zona commerciale della città, quella dei grandi magazzini è dei supermercati.

Lecco, il River Cafè, comunemente e simpaticamente detto “Il Fogna”

River Cafè, comunemente e simpaticamente detto “Il Fogna” per il profumo raffinato e la bellezza del paesaggio come scrive tal Francesca Milani. In riva ad un torrente, il Caldone (nome assolutamente appropriato per quest’estate dal clima africano), in questo momento praticamente asciutto per siccità, collocato in piena città. Locale rustico ma raffinato, piadine buonissime e super panini con buon bicchiere di vino, ampia selezione di birre soprattutto tedesche, proprietari simpatici, gentilissimi, allegri. Rischi di arrivare a pagare 9,00 € a testa contro i 25,00 di qualunque ristorante (primo, insalata, acqua, quartino di vino della casa). Stomaco e fegato soddisfatti e soprattutto silenti.

Lecco: il torrente, in pieno centro città, che affianca il River Cafè (forse per questo soprannominato “Il Fogna” oppure sarà per la clientela decisamente naif proprio come tale è il locale?)

Ma non solo: percorrendo appunto via Carlo Porta, sicuramente la via più frequentata dai pedoni, si vive un incontro con la Street Art ovvero murales (o graffiti) realizzati da giovani artisti nazionali e locali, giovani, studenti, con la finalità di riqualificare zone degradate della città. Sono i volti dei passanti, fermati, coinvolti e convinti alla posa direttamente dall’artista (Afran), con il loro sorriso che trasmette pace, serenità, allegria e che rende sicuramente più bello questo angolo di città. Il tutto coordinato, pensato, proposto dalla stessa Amministrazione Comunale. Nel nome dell’anima profonda della città.

Lecco, via Carlo Porta

Ma, per Lecco, non si tratta di un caso isolato, di un’opera d’arte realizzata in una via in fondo marginale. Tutto si riconduce ad un progetto ad ampio respiro, “Avere cura del Bene Comune“, organizzato da Art Company in collaborazione con il Comune di Lecco. A partire dal 2011 richiama artisti locali, artisti di fama nazionale e internazionale, per riqualificare aree degradate della città trasformandola in una galleria a cielo aperto. Così troviamo dipinti sul muro adiacente al sottopassaggio della stazione, lungo la già citata via Ferreira ovvero la via pedonale che collega via Balicco a via Carlo Porta, costeggiando da un lato le ferrovie e dall’altro il centro commerciale Meridiana. Ancora: all’Istituto di formazione professionale Fiocchi di via Belfiore, al B&B di via Polvara 31, al Centro civico Sandro Pertini di via dell’Eremo 28, alla Scuola Armando Diaz di via Monte Sante 22, alla palestra di via Caduti sul Lavoro, in via Belvedere dove le immagini dei murales sono completate da frasi poetiche tra le quali anche la citazione manzoniana: “Si dovrebbe pensare a fare del bene: e così si finirebbe anche per stare meglio.

Lecco, via Carlo Porta, il volto di una giovane passante

Inevitabile, dopo aver ammirato alcune opere a Lecco, a Milano, a Monza, tutte promosse dai rispettivi Comuni, il confronto con la mia Piacenza. Qualche iniziativa finanziata da privati (al Baciccia) o realizzate direttamente da artisti (così in via Carli) o ancora dagli studenti del Liceo Artistico (nel sottopasso della stazione, murales purtroppo deturpato da scritte di imbecilli). Nei mesi scorso, per iniziative dell’Avis, sono stati realizzate due opere in via Primogenita ma, appunto, si tratta di interventi isolati, occasionali, in assenza di un progetto complessivo come appunto avvenuto lungo un decennio qui sul Lario.

Lecco, Street Art, sole, luna, c’est l’amour

Attualmente, dopo un quinquennio di governo da parte del centrodestra, i piacentini hanno scelto di sostenere un’amministrazione di centrosinistra con un programma potenzialmente di sviluppo e innovazione. A dire il vero però nello stesso programma non è facile trovare aperture al nuovo come appunto potrebbe essere un progetto di Street Art che rappresenti un moderno strumento di riqualificazione urbana nei quartieri talvolta grigi e problematici che caratterizzano la città.

Lecco, Street Art

Cosa suggerire, quindi al Sindaco neoeletta, Katia Tarasconi? Invece di riunire la Giunta in conclave tra i monti dell’appennino piacentino, s’organizzi anche una trasferta in quel di Lecco, in riva al Lario, cartina stradale alla mano seguendo poi il percorso artistico nelle vie suindicate per verificare quanto può essere significativo e attraente un progetto come “Avere cura del Bene Comune” capace di riqualificare e di esprimere nel contempo l’anima di una città che, per quanto riguarda anche Piacenza, sappiamo possa essere nel suo sorriso attraente e affascinante. Dunque, forza e coraggio, sull’esempio lecchese ci si ingegni! Ricordando che l’arte non è solo quella del passato spesso rinchiusa tra le pareti di un museo, l’arte è anche fantasia, allegria, modernità ed è forma d’espressione dei tempi nei quali nasce. Ricordando infine che l’innovazione promessa non significa realizzare nuove strutture di cemento che divorano il terreno ma appunto badare alla cura dell’anima della città. Con adeguati strumenti nuovi.

Lecco, Street Art

“Sul Bellagio Express Train, tra suntuose ville, panorami mozzafiato e gioiose signorinelle, poi sul Lungolago a Lecco in alto sulla ruota panoramica, ci ritroviamo bambini canticchiando in brasileiro viva la vida!”

Bellagio Express Train

Sono tanti gli amici e le amiche (e non solo) che hanno seguito le mie diciamo vicissitudini. 88 giorni di ricovero ospedaliero molti dei quali tra la vita e la morte nel 2020, altri ricoveri e soprattutto 21 giorni in malattie infettive nel 2021, infine un lungo periodo di riabilitazione e recupero che dura a tutt’oggi. Ma non solo: rifletteva qualche giorno fa un amico a sua volta passato attraverso la disavventura dell’infezione da Covid-19 che comunque, anche se sopravvissuto, ti cambia la prospettiva di vita. Prendi consapevolezza, considerata anche la nostra età (nel mio caso per quanto ARZyllo pur sempre sessantottenne) che non siamo eterni, che il buio finale comunque sta dietro l’angolo.

Bellagio Express Train: un percorso che si snoda tra ville superbe e panorami mozzafiato

Così in qualche modo ripassi la tua vita, gli episodi importanti, quelli felici, i successi, le anomalie, le occasioni perse, il rammarico per quanto è finito male. E ti domandi quanto sarebbe bello tornare bambino, riavere l’innocenza, la spensieratezza del tuo essere fanciullo, quando in sala mi sono nascosto sotto ad un mobile e tutti mi cercavano ma io tranquillo mangiavo l’uovo di Pasqua di cioccolato nonostante la festa fosse ancora lontana e la mamma avesse dichiarato – ciabatta in mano – l’assoluto divieto di toccarlo. Bene, qui a Bellagio niente cioccolato anche considerato il caldo che, pena mal di pancia, ne sconsiglia il consumo. Del resto, ora come allora. Con la differenza che oggi, ragionando col senno del poi, dell’età avanzata, senza l’incoscienza dell’infanzia, per negarsi al cioccolato non serve il ricordo della sgridata successiva e del mal di pancia successivo sopportato in silenzio.

A Bellagio dunque, niente cioccolato. Ma come negarsi il piacere di salire in vettura sul Bellagio Express Train confessandosi, nonostante il tempo passato, ancora ridente fanciullo almeno nell’anima?

Ville superbe, panorami mozzafiato, vicoli suggestivi e soprattutto belle signorinelle che fanno allegria alla vista con un pizzico di nostalgia per gli anni ormai lontani della gioventù quando la vita era in rosa e azzurro.

Così la mente va a quella ragazzina capelli chiari e capottino bianco. Avevamo chissà, forse sette anni, a scuola allora erano impensabili classi miste ma avevo la fortuna che lei stava nell’aula di fianco alla mia e tutte le mattine ci incontravamo per depositare il cappottino, la sciarpa e la cuffietta. Per lei tutto ora bianco, qualche volta rosa.

Allora andavo a scuola a piedi, percorrendo i 700 metri dello Stradone Farnese da casa mia alla Scuola Giordani. Poco prima del semaforo stava un negozietto di alimentari dove compravo la ‘veneziana’ per l’intervallo e qualche volta aggiungevo una caramella che poi, quando suonava la campanella e tutti si usciva in corridoio, offrivo a lei. E lei, spesso, mi portava un fiore che prendeva nel suo giardino o nei vasi di casa. Insomma, il tempo dei sogni.

Ma come il trenino gira e cambia percorso, così un giorno quella bambina coi capelli chiari e gli occhi blu mi disse che il babbo era stato trasferito, che a fine settimana cambiavano città. “Ma io quando diventerò grande tornerò a trovarti“, disse dandomi un bacio rigorosamente sulla guancia. “Ed io terrò un vaso di caramelle ancora per te per quando verrai“.

Era il tempo delle mele. Non ricordo se ho mantenuto la promessa di tenere quel vaso di caramelle. Forse alla fine come anni prima mi ero mangiato l’uovo di cioccolato forse anche le caramelle me le sono mangiate in solitudine e di quella ragazzina non ho più saputo nulla, non ricordo nemmeno il nome, semplicemente la vita è passata oltre.

Ecco, quel che alla fine conta: che la vita giri e passi oltre, vada avanti come appunto il Bellagio Train Express giunge all’ultimo giro, signori si scende. No, non prendo per mano Dalila perché come effetto post Covid ancora ho dolori muscolari al polpaccio, devo camminare con un bastone badando all’equilibrio ma passo dopo passo ci si avventura nelle vie dello shopping e inevitabilmente… trovo il modo di far sorridere gli occhi di Dalila, la mia compagna dagli occhi blu.

Così ci ritroviamo bambini sotto il caldo sole di Bellagio, l’azzurro del cielo e del lago, a passeggiare lungo il viale sorridendo del viaggio sul trenino. Peccato non ci sia anche una giostra con un bel cavallino che gira, che gira e va. Ma la giornata non è finita….

Ore 17.15, dopo una buona mezzora in coda stretti dalla massa di turisti, chi con la mascherina, chi sfidando il destino, in attesa del battello per il ritorno giunge l’ora dell’imbarco e poco dopo le 19.05 eccoci di nuovo a Lecco, giusto in tempo per raggiungere un ristorante pizzeria sul lungo lago e alla fine, ormai sceso il buio della sera, riprovare, dopo anni ed anni, a salire su una ruota panoramica insieme ai ragazzini e a qualche mamma con i suoi bambini. La vita, la vita che riprende, la vita che va avanti. Buona parte del futuro sta ormai alle spalle ma in quella fetta di cui ancora abbiamo diritto ne facciamo tesoro da quel punto più alto dal quale ammiriamo le luci di un paese che sembra incanto. Come un canto brasileiro, viva la vida.

“Una giornata sull’acque del Lario, navigando da Lecco a Bellagio, col cugino italiano del mostro di Loch Ness e il radioso sorriso di Dalila”

Navigando da Lecco a Bellagio sul battello lento e panoramico

Certo, una vacanza sul Lario è come immergersi in una pagina di storia, di arte, montagne, buona cucina e di grande letteratura ma assolutamente inevitabile anche la necessità di salire su un battello, lento e panoramico, ideale per i viaggiatori in cerca di relax e per scattare foto dal ponte esterno. Da Lecco sono garantiti diversi servizi nei festivi mentre durante la settimana le ‘corse’ sono poche (per l’esattezza 4, la prima alle 10.15) e i turisti tanti per cui è meglio programmare la giornata a dovere, innanzitutto presentandosi all’Imbarcadero con buon anticipo (almeno mezz’ora prima), restare tranquilli e pazienti in coda per guadagnare una buona panoramica posizione a prua.

Sono sette gli attracchi prima di arrivare a Bellagio e tutti stracolmi di turisti: un posto a prua sul battello dunque risulta un privilegio conquistato

Il percorso è limitato, passando attraverso sette attracchi si arriva a Bellagio a circa un terzo del lago, ferma però la possibilità di scendere ad Abbadia, a Mandello o comunque in uno qualsiasi dei paesini che si incontrano per poi attendere il battello successivo, sempre con destinazione Bellagio, la perla del Lago dove ci si può perdere tra storia, meravigliose ville, cultura e, pericolosamente se presente la moglie, fidanzata, compagna, dedicarsi allo shopping.

L’incanto dei paesini, delle spiagge, delle ville numerose sul Lago

Ma l’esperienza tutta da assaporare con l’anima sono le sensazioni, le emozioni che il panorama regala, le visioni di queste acque calme, tranquille, i pescatori, le papere, i borghi, le ville, i castelli, le montagne. Ecco perché il consiglio di scegliere il battello (anziché il più veloce e sbrigativo aliscafo) del Servizio di Navigazione alla fine risulta vincente e di grande soddisfazione.

Occorre dedicare un tempo non inferiore all’ora e mezza cui spesso bisogna aggiungere il tempo perso per permettere alle decine di turisti che attendono ad ogni attracco di salire sul battello ma non è forse questa l’occasione per dimenticare il logorio della vita moderna che tormenta nelle città della quotidianità di tanti di noi?

Colpiscono i naviganti. Barche: saranno canoe o kajak? Chi ricorda, così, sui due piedi, la distinzione tra l’una e l’altro? Poi motoscafi che spariscono in un amen o poco più. Uno in particolare, in vena di celia, vira, provocando un’ondina che viene a spegnersi contro il nostro scafo: sarà un allegro saluto?

Certo questo ramo del Lago che volge a mezzogiorno, tra due catene non interrotte di monti, tutto a seni e a golfi come lo descrive Alessandro Manzoni, risulta più aspro e diciamo severo rispetto al ramo di Como ma il fascino dei monti, del Resegone, del San Martino valgono tanto quanto la più esuberante bellezza del ramo comasco.

Una curiosità: il lago raggiunge qui i 280 metri di profondità mentre nel ramo di Como si arriva alla profondità massima di 410 metri. In ogni caso, che si navighi in un ramo o nell’altro, è comunque sicuramente preferibile che il battello non affondi, specie per chi non sa nuotare. Comunque turisti bagnanti che nuotano con maestria ne notiamo diversi, tutti sotto il vigile controllo di un gabbiano comune tranquillamente appollaiato. Perché pare che il mistero s’annidi nel profondo. Sapete che si mormora di avvistamenti di uno strano animale, lungo oltre dieci metri? Padre e figlio l’avrebbero incontrato per la prima volta nel lontano 1946 cui seguirono poi altri avvistamenti fino al 2003. Si parla di una specie di enorme animale che somigliarebbe ad un’anguilla e questo ha fatto pensare ad un rettile, il Lariosaurus. Vissuto milioni di anni fa. Insomma, un cuginetto resuscitato del famoso mostro di Loch Ness. Ma niente paura, sarebbero solo chiacchiere e il fatto che la gente del posto con familiarità ne parli chiamandolo ‘Larrie‘ è sicuramente rappresentazione della voglia di ridere dei turisti creduloni. Comunque durante la navigazione state all’erta e tenete la vostra Canon o il cellulare sempre pronti allo scatto.

Ma improvvisamente m’accorgo del sorriso di Dalila, volgo lo sguardo oltre la prua e, come temo, ecco in vista l’attracco meta finale della nostra gita. Sento in tasca Bancomat e Carta di credito tremare pensando ad un futuro a breve non certo sereno. Bellagio incombe. Instat Bellagium cum suis tabernis, stabulis, ridentibus mercatoribus vidulum meum oppugnantibus (Bellagio incombe coi suoi negozi, bancarelle, commercianti sorridenti attentanti al mio portafogli). E infatti….

L’attracco di Bellagio