E Dalila, quel giorno emozionata, scrisse un post su facebook. Era il 12 aprile, 1703 giorni dopo la mia dimissione dall’ospedale, 1791 dall’incontro con quel diavolo di nome Covid-19

Mi era permesso calzare una scarpa speciale post-operatoria di nome Talus e un sandalo ma finalmente, 1703 dopo …

Il post che Dalila ha pubblicato in facebook il 12 aprile:

La foto apparentemente sembra una foto forse inutile magari un poco sciocca e soprattutto fuori stagione, però anche no, non è inutile, non è stupida, non è sciocca e soprattutto non è fuori stagione perché se Natale vuole dire nascita e beh, oggi festeggiamo una rinascita, anche se solo all’interno delle mura di casa perché fuori sarebbe un azzardo almeno per ora, ci vorrà ancora tempo e comunque sempre con un ausilio.

Ebbene sì, dopo 5 lunghi e intensi anni, Claudio oggi per la prima volta prova a camminare in casa con un paio di morbidissime ciabatte normali e senza ausili!

Sono commossa guardandolo camminare emozionato come un bimbo che scopre di riuscire a muoversi senza aiuti, trattengo le lacrime finché posso e non vi dirò come andrà a finire, immaginatelo da soli.

E tutto questo grazie a te Claudio che non hai mai perso il sorriso, la voglia di farcela pur sapendo che sarebbe stato tutto con tempi lunghi e la consapevolezza di dover fare fronte e superare gli ostacoli che il percorso avrebbe riservato, grazie alla ostinata testarda caparbietà del Dott. Scabini, chirurgo vascolare del nostro ospedale che disse che ci voleva tempo, tanto tempo ma ci saremmo riusciti, grazie a tutti i medici e ai fisioterapisti che si sono intercorsi in questo lungo cammino non ancora terminato, grazie all’ADI di Piacenza per la costante presenza ma soprattutto grazie alla nostra infermiera ADI Marica Calamari.

Marica e io abbiamo lavorato fianco a fianco giorno per giorno sui piedi di Claudio senza mai perderci d’animo anche quando le cose sembrava non procedessero come dovevano, bastava un’occhiata, una pacca sulle spalle un sorriso un sentiamo poi il medico ma intanto io proverei a fare così che dici? e si andava avanti.

L’assistenza domiciliare, patrimonio di questa sanità che spero non vada mai a rotoli!

Il rapporto famiglia-infermiera, un rapporto di stima e fiducia che in certe situazioni è la pietra di volta che salva dai crolli.

Ecco tutto è andato così per 5 anni, sempre con il sorriso sulle labbra e la voglia di farcela e di riuscire a vincere su un COVID che pur avendo torto, voleva avere ragione a tutti i costi, brutto scriteriato che non è altro!

C’è ancora tanto da fare e tanto lavoro, piccoli passi grandi progressi ho sempre detto e noi continueremo ma questa Festa delle Palme è un ulteriore ingresso, non certo a Gerusalemme ma sicuramente nella ordinaria straordinaria quotidianità.

E grazie al Buon Dio e al suo Figliolo, ho fatto Loro una testa tanta ma mi hanno anche tanto ascoltata…tranquilli che vi sgionferó ancora abbiatene la certezza!

Ci è stato regalato ancora tempo per stare insieme dissero i nostri figli quando il 16 giugno 2020 Claudio tornó a casa dopo tre mesi pesantissimi di ricovero e noi, di questo tempo, sempre con il sorriso e la tenacia, ne abbiamo approfittato, ne approfittiamo e ne approfitteremo sempre.

Ecco perché questa foto non è importante ma importantissima e determinante.❤️🌈🐞🐢🍀🌶️

#lefotofissanomomentisempreimportanti📸🌈

Certo, è stata lunga, dura, tra speranze, ricadute, fatiche ma bastava e basta continuare a crederci, andare avanti e i risultati arrivano

ED ORA LA PAROLA ME LA PRENDO IO E DICO LA MIA

Ma non era finita. Ancora qualche giorno e finalmente, dopo tre anni, salutavo la Talus (la scarpa speciale post operatoria) e mi sono permesso d’uscire per strada per ora con due sandali (senza dismettere l’ausilio della stampella ortopedica) con la prospettiva di arrivare finalmente a due scarpe chiuse, potrei dire normali anche se proprio normali non saranno (devono essere realizzate appositamente) ma saranno comunque una grande conquista.

E non è finita, la foto conclusiva parla chiaro: il 18 aprile, pochi giorni fa, ho fatto la doccia in piedi e in autonomia (beh, fermo restando che Dalila non era certo distante, emozionata, felice, ma comunque sempre pronta ad intervenire in caso di necessità). Era già successo nel 2021, a un anno circa dalla dimissione ospedaliera, miracolosamente sopravvissuto a quel diavolo chiamato Covid. Con quella doccia pensavo fosse finito tutto come ho raccontato nel libro “Fate in blu, Fate infermiere“, cronaca dei primi due anni da quel 23 marzo 2020. Invece no, purtroppo dopo il Covid è arrivato il post Covid e infine il long Covid e sembra non finire mai. Beh, Dalila con il suo post mi ha commosso, fatto sorridere proprio come ho sorriso riuscendo finalmente ad indossare quelle pantofole. Come ho sorriso quando Marica è venuta per l’ennesima medicazione e le ho raccontato delle pantofole, della dismissione della Talus, delle prime passeggiate con i due sandali, del progetto delle due scarpe ‘normali’ che arriveranno (spero presto), addirittura della doccia in autonomia. Grazie dunque a Dalila per aver saputo piangere, per aver saputo trattenere le lacrime quando non era certo facile e per aver saputo imparare a medicare e fasciare quelle ferite che non era facile neanche guardare, grazie a Marica all’ADI alla Sanità Pubblica per avermi garantito assistenza continua e per continuare a garantirmela, grazie alla mia famiglia figli nuore nipotine e nipote per aver partecipato alla mia rinascita, grazie a Cosimo, grazie a Matteo, i due medici professionisti che hanno creduto nella mia possibilità di vivere prima e di superare poi le tante prove affrontate.

Certo, non sarà finita qui. Il diavolo non è morto, non si guarisce mai del tutto, resta in agguato, di volta in volta pronto a colpire laddove trova un punto debole. Ma, come è stato in questi 5 anni, di giorno in giorno, sorridendo e credendoci, si va avanti, comunque si vive ed è già tempo di pensare ad altro. Continuo con l’organizzazione e la gestione delle serate letterarie settimanali in via Roma al 163 con “quelli dei mercoledì coi grilli per la testa”: a maggio si concluderà il terzo anno di iniziative e la ripresa, se ci sarà, é tutta da inventare. Nello stesso tempo ora mi ritrovo con l’impegno del Circolo ricreativo dall’AUSL del quale già ero stato Presidente dal 1988 al gennaio 1993 e che ora ritrovo in uno stato che diciamo necessita di un riassetto profondo. C’è da lavorare, insomma. E non é finita qui. Ci sono i libri che giacciono nei file del computer, incompleti, che se prendessero forma fisica mi guarderebbero di malocchio ma, a mia parziale discolpa, la gestione quotidiana del blog (Arzyncampo) mi assorbe completamente. Senza dimenticare il tempo della e per la famiglia, e tutto quanto d’altro che, appunto, costituisce il vivere. Sorridendo, credendoci. 1791 giorni dopo, senza mai perdere quel mio sorriso. Così è e deve essere la vita.

1709 giorni dopo la dimissione post Covid dall’ospedale, di nuovo doccia in autonomia e felicità fu

“Betty Paraboschi, giornalista, ascolta l’opinione di Claudio Arzani e Piero Perazzoli”, articolo pubblicato sul quotidiano Libertà, edizione di martedì 27 luglio 2021

Una precisazione: rispetto all’ultima dichiarazione, non sono “reduce da tre mesi di ricovero” ma da tre mesi di cure, ricoveri brevi (passando attraverso il Pronto Soccorso) ed indagini per individuare il batterio preso in ospedale tra marzo ed aprile 2020 come conseguenza delle cure salva vita ricevute in rianimazione e terapia intensiva. Infine tre settimane di ricovero in malattie infettive appena concluse.

Libero! 22 giorni di ricovero, un caffè al tavolino del bar, il quotidiano locale, la gente che passa, ben ritrovato, mondo.

by Milo Manara

Alle 15.15 circa: la consegna della lettera di dimissione, i saluti di un’infermiera che stacca l’ultima flebo e l’ago in vena, I sorrisi delle due Oss, quella bionda ma sempre formale, quella più affabile, più spigliata. Ringraziamenti e saluti a tutti e tutte. Medici, dottoresse, infermiere, infermieri, la bella ragazzina tirocinante con il caschetto che la fa Regina d’Egitto, come Cleopatra. Senza trascurare le operatrici socio sanitarie, l’unico o.s.s. maschio, Ottavio, dalle letture da far paura (sull’evoluzione della specie di Darwin) capace con il suo senso dell’ironia unito all’innata simpatia di rendere lievi tanti momenti del lungo ricovero. Infine le “ragazze” delle pulizie mattutine a partire da quella con la pelle ambrata (quasi pari alla mia), marocchina, che una mattina non s’è vista: “ma ieri hai preso un giorno di ferie?”. “Ma no, eri tu che dormivi bene, ho solo badato a far piano, per non svegliarti”. Senza dimenticare la splendida Lence (“portatrice di luce”), d’origine macedone, sabato ha fatto l’ultimo turno, mi ha salutato con un grande regalo: restando a distanza di sicurezza, sulla porta della stanza, si è abbassata la mascherina mostrandomi il suo più bel sorriso. Facendo sognare il cuore del vecchio lupo mai stanco di ammirare la bellezza femminile e di ricevere dolci amusements. Buone ferie, bella Lence e grazie d’avermi assistito con cura, attenzione, severa professionalità (come del resto tutte e tutti, solo con quello splendido sorriso in più). 22° giorno dal ricovero, nel reparto di malattie infettive, inizialmente in stanza con la simpatica signora Francesca, ottanta e più anni e che ancora lavora nell’impresa di famiglia tutte le notti a impastare la farina, a fare il pane, a preparare focaccia e gustosissime torte. Ora ha cambiato reparto, ma passerò a lasciarle un saluto in panetteria. Poi la mattina del tampone rapido positivo, il trasferimento di stanza in isolamento, il tampone molecolare della sera, negativo, ma il prudenziale mantenimento dell’isolamento (blando): ero comunque infetto da quel batterio, la Klebsiella pneumoniae, mio malgrado assunto in conseguenza delle cure salvavita in rianimazione o in terapia intensiva del marzo 2020 per sopravvivere preso per i capelli al covid 19, batterio ignorato, rimasto dormiente per mesi e mesi e infine a partire da maggio scatenato determinando febbri, tremori, infezioni intestinali, infezione alle vie urinarie, ingrossamento prostatico, calcificazioni alla prostata e, per concludere, potenzialmente potevo trasmetterlo ad altri per cui l’isolamento è proseguito. La cura? 21 giorni d’un mix d’antibiotici “duri“, tipo squadra speciale dei marines americani o dell’armata Rossa o ancora dei nostri ragazzi della Folgore. Immissione in vena tre volte al giorno, alle 9.00, alle 16.00, alle 23.00, per ciascuna 3 ore di durata. Oltre a frequenti prelievi di sangue (mai avuto tanti buchi), emocultura, urotac, urocoltura e via proseguendo. Ma alla fine eccomi qui, al tavolino esterno del bar dell’ospedale, un buon caffè, una bottiglietta di minerale frizzante, sfogliando il quotidiano locale in attesa dell’arrivo di Dalila, libero, a curiosare le facce, i volti, le chiacchiere di chi passa. Un vecchio amico dei tempi lontani delle Superiori, Fausto, con la mamma da poco x5enne. La vita che scorre, la mia vita libera. Ben ritrovato, mondo.

“E qui finisce l’avventura del signor Bonaventura: domani dimissione, si torna a casa. O forse no: un thriller col fiato sospeso”.

Ospedale ddi Piacenza: il laboratorio analisi

Qualcuno ricorda il Signor Bonaventura? Era un personaggio del Corriere dei Piccoli, il settimanale a fumetti col quale sono cresciuti generazioni di ragazzini credo fino agli anni 90, quando poi ha cessato la pubblicazione (i tempi e i ragazzini erano cambiati) . Ogni settimana il Signor Bonaventura compiva una buona azione e veniva premiato con un assegno da un milione di lire, il vecchio conio. Per quanto mi riguarda non posso vantare buone azioni ma venerdì davanti agli occhi mi è stato sbandierato l’assegno da un milione di euro. Ovvero la dimissione dal reparto malattie infettive dopo 21 lunghi giorni di ricovero e di cure antibiotiche in vena per debellare l’infezione causata da un batterio acquisito a causa delle cure ricevute in rianimazione o in terapia intensiva tra marzo e aprile 2020 a seguito del covid 19. Klebsiella pneumoniae, una brutta bestia che, dopo essere rimasta dormiente per mesi, improvvisamente si è scatenata provocando infezione intestinale, infezione alle vie urinarie, ingrossamento della prostata. 21 giorni di terapia in semi isolamento (potevo essere contagioso, trasmettere il batterio ad altri) sono tanti ma, a tutto venerdì, i medici che mi hanno seguito passo passo hanno condiviso che il risultato raggiunto è positivo. Parametri normalizzati, infezioni superate, batterio presumibilmente debellato. Quindi domani, lunedì, ritorno a casa del Signor Bonaventura. Finalmente. Invece forse che sì, forse che no. Alla visita di ieri, sabato, si è presentata una dottoressa che mi vedeva per la prima volta (sembra appena rientrata in reparto dopo un assenza programmata) e ha ipotizzato una rivalutazione lunedì della situazione, un consulto di staff clinico per un’eventuale ulteriore prosecuzione di terapia. Sicuramente una prosecuzione è nei fatti, ma dovrebbe riguardare l’urologia per tenere sotto osservazione la prostata (che comunque non presenta neoplasie) e quindi in ogni caso avvenire a livello ambulatoriale. Quindi servirebbe veramente proseguire con la terapia antibiotica già molto lunga, inizialmente prevista in 14 giorni e già estesa a 21? Oppure sono sorte complicanze, fattori nuovi non detti? Ma a parte questo, oggi, domenica, niente visita, niente possibilità di confronto, di chiarimenti, di risposte precise, di certezze prima date e poi (forse) smentite. Praticamente, sul piano emotivo, una domenica da thriller, col fiato sospeso. Eppoi, è il modo di fare? Prima si sventola davanti agli occhi del Signor Bonaventura l’assegno da un milione di euro e poi si minaccia di farlo sparire? No, così non si fa, non è umano, scrupolosissima ma destabilizzante dottoressa in visita ieri, sabato, giorno 20 dal ricovero!

Post covid: 14° giorno di ricovero in malattie infettive. Tutti infermieri maschi. Giuro!

By Milo Manara

Domenica 11 luglio, 14° giorno di ricovero in malattie infettive. 482 giorni dopo il contagio, 476 dopo la corsa a sirene urlanti fino al PS dell’ospedale. Polmonite interstiziale. Covid. 408 dalla “guarigione” dopo aver lottato tra la vita e la morte negli 88 lunghi giorni passati in ospedale, a Piacenza prima, Castel San Giovanni poi. Ed ora? Come dicevo, tacendo di tanti altri interventi dal giugno 2020 in poi di riabilitazione, recupero, controlli, ospedalizzazione, terapie domiciliari, ambulatoriali, in day-hospital e chi più ne ha più ne metta, 14° giorno di un nuovo ricovero (dal 28 giugno 2021) stavolta in malattie infettive. Per debellare il batterio contratto tra marzo e aprile 2020 per le cure salva vita praticate in rianimazione prima e terapia intensiva poi. Klebsiella pneumoniae, il suo nome, con sviluppo e relative infezioni innanzitutto intestinali. Tre flebo in endovena di antibiotici al giorno, mattina, pomeriggio, sera, 3 ore ciascuno. Un ambiente assolutamente asettico. Infermieri e operatori giuro tutti maschi forse bionici. Vengono, intervengono, assolutamente meccanici e silenti, se ne vanno. Meccatronica sanitaria. Robotizzazione. Incomprensibili, dunque, i messaggi da Radio Londra dei quali parlavo già nel post di ieri. “Dalila avvistata all’uscita dal magazzino di Bulla Sport con un carro di mazze da baseball”. Non solo: “Il carro staziona a poca distanza dal confine con l’Arzeibanclaud“. Oscuri messaggi cifrati dalla dubbia destinazione e ignota interpretazione. Che comunque mi vedono del tutto estraneo. E men che meno capisco di quelle volte nelle quali a Radio Londra si sovrappone Radio Maria, con le sue litanie che ricordano tanto i requiem. Ripeto: qui tutti infermieri maschi, nessuna propensione a rapporti di empatia e umanizzanti, solo rigida applicazione di procedure e cure standardizzate, robot senz’anima. Giuro. Come? Cosa dite? Di quella ragazzina, forse neanche ventenne, sulla casacca la scritta “Tirocinante”, che tutte le mattine appare a provarmi la febbre sorridendomi e non mancando di scambiare 4 chiacchiere per tacer dello splendido caschetto di neri capelli che l’assomigliano un poco a Cleopatra e un poco alla Valentina, quella dei fumetti magistralmente disegnata da Crepax? Ovviamente niente altro che una visione. Indotta. L’ho detto: l’antibiotico della mattina è un mix speciale di misteriose sostanze. Non è escluso fosse usato anche dagli Uomini della Medicina delle tribù Sioux per entrare in trance e dialogare col grande Bisonte Bianco, Manitou. Cosa dite? “Vogliamo parlare di Lence, portatrice di luce in base al greco antico, quella splendida infermiera del pomeriggio che vien dalla Macedonia con i grandi occhi che ti regalano i sorrisi dell’anima?”. Belin, non vi sfugge proprio nulla! E comunque ve l’ho già detto: c’è l’antibiotico della mattina e c’è quello del pomeriggio, notoriamente – lo san tutti – già utilizzato nel lontano 1600 da quella principessa mescalera in eremitaggio con i suoi due feroci guardiani Puma sull’altopiano Mexicano dove aveva contatto diretto, grazie allo stesso mix di antibiotici, con gli antichi dei Atzechi dispensando vaticini sulla fertilità e sulle gravidanze delle pellegrine che portavano doni e collanine colorate fatte artigianalmente con le loro mani. Così io, poveretto, dalla visione mattutina a mia insaputa mentre nella stanza entra quell’infermiere maschio silente e dal volto truce, subisco la visione della splendida Lence e Radio Londra pare impazzita lanciando messaggi di accumoli di mazze da baseball da parte di Dalila in vista d’un mio ritorno a casa. Come? N’avete ancora da dire? Ora insinuate l’arrivo la sera di Sveva, infermiera frizzante come una coppa di gustoso e spumeggiante Brut dove di brut non c’è proprio null? Beh, vi faceste innanzitutto una barcata di fattacci vostri, e comunque alla sera, alle 23, è la volta del terzo mix di antibiotici giuro somministrato dal solito infermiere robotizzato col volto assonnato e annoiato oltreché con la barba lunga e la casacca blu stropicciata. Giuro! “Ma vogliamo parlare anche di quell’infermiere carina, carina, carina, anzi, carina, carina, carina 4 volte e più carina con la quale avevi urlato il giorno del tampone antigene positivo e che inaspettatamente è tornata e ti ha sorriso e tu le hai sorriso pensando ma quanto è carina, carina, carina, anzi 4 volte e più carina, carina, carina? Per tacer del fatto che nel reparto non si bada solo alla cura, alle procedure, alle prassi, ma ti si regalano chiacchiere, sorrisi, umanità?”. E va bene, ho capito. Domenica 11 luglio 2021,14° giorno di ricovero in malattie infettive. Nessuna prospettiva di ritorno a casa salvo subir le botte di Dalila. Magari nemmeno con la mazza da baseball. Radio Londra, unita a Radio Maria, parla dell’Album delle figurine Panini debitamente arrotolato che, battuto sulla schiena, fa un male cane! Per ogni sorriso ricevuto, una bella albumata. E per le chiacchiere? Altra albumata! Si mormora di un deputato democratico americano che, in visita a Guantanamo, in guardiola abbia notato copia di un album Panini e subito, insospettito, abbia chiesto l’istituzione d’una speciale commissione d’inchiesta. Ma, pure, si dice di decine di richieste alle edicole di album Panini e relative figurine da parte di agenti di Polizia Penitenziaria in borghese, le tristemente famose mele marce d’un albero sano. Pure si parla di rammarico da parte dei Carabinieri della Stazione Levante di Piacenza, avvezzi a menar fior di botte a piccoli spacciatori e presunti tali lasciando segni evidenti che mal gliene colse in Tribunale, a quei Carrabbinieri. L’Album Panini con tanto di figurine debitamente arrotolato? Un segno di civiltà, un’opportunità, una mattanza di botte che fanno male senza lasciar segno, senza ossa rotte, senza sangue. Con in più, nel caso del collezionista, un’irrimediabile (metaforica) ferita al cuore. Ma ci si pensa? Una, dieci, cento scuole Diaz a Genova, a Venezia, in Val di Susa, senza lasciar traccia alcuna! Album Panini con tanto di figurine debitamente arrotolato, Santo subito! In pensione il famigerato manganello nero, ormai demode’ e così volgarotto, simbolo di tempi grezzi: modernità, modernità. Album Panini con tanto di figurine arrotolato, simbolo dell’Italico genio, campione d’esportazione, modello internazionale, utile al mondo intero, in special modo per i poliziotti americani nelle manifestazioni dei portoricani, dei neri, degli hippy, degli afroamericani, dei nativi pellerossa (gli italoamericani no, quelli oggi sono evoluti ma stiano attenti a non sgarrare, si possono sempre rinverdire i bei tempi andati, quelli dei Sacco e dei Vanzetti, delle botte e dei linciaggi, un buon police man non nega botte a nessuno). Comunque, per quanto mi riguarda, in caso di dimissione, mazze da baseball o album Panini che sia, piuttosto che ritornare a casa mi converrà trovar rifugio sotto il ponte del Grande Placido Fiume. Quel ponte stradale sopra al quale, ennesima visione indotta, passano ogni giorno le infermiere (oltre alle Oss, operatrici socio sanitarie, e le ausiliarie addette alla sanificazione della stanza, compresa quella che si presenta con la cuffia colorata con fiori che profumano di Primavera e la fan ancor più bella di quanto già non sia) che abitano nel basso lodigiano e vengono al lavoro nell’ospedale della mia Piacenza, il buon vecchio Guglielmo da Saliceto. Domani, lunedì, passa la visita medica. Supplichero’ di ritardare il più possibile la dimissione, rassegnandomi a convivere con le visioni a mia insaputa di splendide creature indotte dai mix di antibiotici. Mattina, pomeriggio, sera e notte inclusa. Mentre Dalila, abbandonate le volgari mazze da baseball, par che arrotoli album di calciatori Panini un campionato dopo l’altro. Ma nella notte un angelo biondo, di nome Teuseta, m’apparve in sogno, forse a sua volta indotto dal mix di antibiotici serali (o forse era Dalila stessa opportunamente camuffata). Disse che esiste un’alternativa capace di smantellare tutti gli arsenali di Album Panini completi di figurine arrotolati. Telefonare e chiedere appuntamento a tal Fugazzi Oreficeria nella via principale della città dove in vetrina fa bella mostra di sé quel bracciale con tanti diamanti originali del Sud Africa. Così del resto parlò e confermò anche Radio Londra. Domenica 11 luglio 2021,14° giorno di ricovero in malattie infettive: dimissione? Vade retro! Libera nos a malo, Domine!

Post covid: 4 luglio 2021, panico! 475 giorni dopo il contagio, tampone di nuovo positivo!!!

By Mino Manara

L’ennesimo ricovero, stavolta in malattie infettive, sembra procedere bene. Siamo, domenica 4 luglio, al settimo giorno di somministrazione per via endovenosa di antibiotici per debellare il batterio acquisito a marzo 2020 come conseguenza delle cure ricevute in rianimazione prima e in terapia intensiva poi utili per contrastare il covid. I parametri generali, dicevo, migliorano e l’infezione correlata diminuisce. Così alle 8.00 circa rido e scherzo con l’infermiera. È macedone, in Italia da qualche anno, simpatica, molto professionale, forse attenta a non essere da meno rispetto alle colleghe italiane. Come da procedura standardizzata mi sottopone al tampone, credo sia il 22°. Mi spiega che si tratta del tampone rapido, il tampone antigene. Rileva, dice, la presenza di componenti (antigeni) del virus cioè del covid. Ridiamo un po’, scambiamo 4 chiacchiere, ma la chiamano per un altro paziente, “ciao, ci vediamo dopo, poi torno”, mi dice sorridendo. Esce, chiude la porta della stanza alle sue spalle. Un’ora dopo arriva un’altra infermiera per applicarmi la flebo con l’antibiotico. Durerà 3 ore e mi fa addormentare. Al risveglio, poco prima di mezzogiorno, vedo che nella mail è arrivato l’esito di qualche esame nel Fascicolo Sanitario Elettronico. Aspetto però a controllare: prima passa la visita medica. Subito dopo arriva il pranzo. E finalmente apro il Fascicolo: è l’esito del tampone. Positivo!!! 475 giorni dopo il contagio del marzo 2020, 469 giorni dopo il ricovero in PS, diagnosi polmonite interstiziale, 401 giorni dalla dimissione dopo 88 giorni molti dei quali tra la vita e la morte, di nuovo il covid? Suono il campanello, arriva un’infermiera, allarmato chiedo notizie, dice che controlla. Ma come? Ne so prima io del reparto? Sono abbastanza alterato, alzo la voce, dico che solo loro possono avermi contagiato. S’allontana. Dopo poco arrivano due Oss (operatori socio sanitari) bardati stile Chernobyl, esattamente come erano a marzo 2020,quando il covid infuriava. Lascio immaginare il mio stato, la mia reazione di commento. Fuori di testa. Letto, comodino, armi, bagagli, mi trasferiscono di stanza, allontanandomi dalla mia vicina di letto, Francesca. Eravamo diventati “amici di campanello”, spesso lei non riusciva a ritrovarlo e con voce dolcissima mi chiedeva “signore, può suonare lei, ho bisogno dell’infermiera”. Le passo di fronte, la saluto, mi saluta, “vedrà che è un errore, è successo anche a una ragazza in radiologia, poi non era niente”, e con i suoi credo ottant’anni, immobile a letto per una brutta caduta, mi sorride. Lavora ancora nell’impresa di famiglia: fornai dagli anni 60, quando lei e il marito arrivarono, novelli sposi, a Piacenza dandosi da fare da dipendenti a sfornare pane, pagnotte, panini fino a mettersi in proprio con tanto di negozio che propone ottime focacce, torte e tante altre bontà. Le ho raccontato che anche mio nonno faceva il fornaio, a Fiorenzuola. Nel ventennio, giovane socialista, i figli tra i balilla, lui senza tessera del fascio. Spesso a tarda sera lo trovavi nei locali che erano stati della cooperativa. Cantava canzoni proibite, beveva vinaccio a basso costo e diceva quel che pensava del Duce. Ogni tanto i fascisti in camicia nera, nel buio della notte l’aspettavano mentre andava al lavoro e lo facevano nero di botte. Anche se ammaccato e dolorante lui andava al lavoro, come sempre preparava il pane e come sempre alla mattina lo portava al Podestà. Quel giorno però niente pane bianco, quel giorno pane nero anche per il Podestà. Va bene, sto divagando, torniamo a domenica 4 luglio 2021: eccomi dunque nella nuova stanza, da solo, in prudenziale isolamento. Viene un’infermiera nuova del reparto, peraltro dolce e carina, carina, carina. Eppure infierisco. Anche per il messaggio di Radio Londra: “Dalila all’uscita da Bulla sport con mazza da baseball”. Ovviamente messaggio cifrato dall’oscuro significato. Intanto l’infermiera carina, carina, carina, anzi, quattro volte e più carina, carina, carina, ritorna con una collega, esperta del reparto. Radio Londra informa che Dalila sta rientrando da Bulla Sport. Movimenti di truppe combattenti? L’infermiera esperta mi invita a star tranquillo, il mio ritorno a casa non sarà imminente e in ospedale è severamente proibito introdurre mazze da baseball. Inoltre spiega che il tampone rapido, se positivo, deve essere poi confermato dal più approfondito tampone molecolare. Del resto è logico: nel mio corpo il virus del covid è sicuramente presente, dopo il contagio di marzo 2020. Tenuto sotto stretta sorveglianza dagli oltre 400 anticorpi IgG post vaccino. Ma comunque presente, inerte ma presente. Insomma, tante belle parole per dire che si fa l’ennesimo tampone, quello numero 23, tampone molecolare. E mi lasciano solo nella nuova stanza, se ne vanno. L’infermiera, quella carina, carina, carina, in rigoroso silenzio. Penso che non la rivedrò mai più. Mi sono rovinato la piazza. Intanto Radio Londra informa che Dalila è ancora da Bulla Sport. Però non più in negozio, pare sia in magazzino, ben più attrezzato. Intanto si fa sera, ritorna, sola, l’infermiera esperta con l’esito del tampone molecolare. Negativo!!!! Rossella O’Hara sorride e ribadisce: “domani è un altro giorno”. La vita in ospedale è un film.

Post covid, lunedì 27 giugno 2021, 469 giorni dal contagio: nuovo ricovero, in malattie infettive per batterio contratto a marzo 2020.

By Milo Manara

Così eccomi ricoverato. Di nuovo. 462 giorni dopo quel 23 marzo 2020, quando alle 22.30 salivo su un’ambulanza sotto casa. 88 giorni tra la vita e la morte, poi il miracolo. Ma ancora altri ricoveri per problemi “indotti” dal covid e dalle cure da cavallo subite. Da ultimo, dimesso da chirurgia l’11 giugno con l’indicazione del medico infettivologo di passare in PS per il ricovero in malattie infettive in caso di episodi febbrili, venerdì 25 giugno ho ottenuto un incontro chiarificatore col primario del reparto, dottor Codeluppi, che pianifica accertamenti ambulatoriali a partire da martedì 29. Niente da fare. Domenica 27,alla sera, tremori, brividi e febbre in rapida salita calmata con tachipirina (se possibile,per ormai diretta esperienza, mai in PS di notte). Al lunedì mattina, fatta la barba, preparato lo zaino, chiamata al 118,pronto intervento dell’ambulanza CRI con milite degno di censura (rifiuta di lasciarmi prendere lo zaino in quanto oggetto personale!). In PS, tanto per legittimare la presenza, pensano bene di fare prelievi ed esami già disposti per l’indomani in malattie infettive, esami che, quando ore dopo finalmente viene disposto il ricovero previsto e programmato, vengono ripetuti. In pratica buchi e aghi in vena a gogò, come ormai succede da oltre un mese. Braccio destro, braccio sinistro, perfetta par condicio. Tutto bene (si fa per dire), tutto come possibile causa di un’infezione da batterio conseguente alle cure in rianimazione a marzo 2020, circa 13 mesi fa! Purtroppo l’assunzione di questo batterio pare sia fatto molto diffuso, tra i ricoverati in rianimazione e in terapia intensiva. Non sarebbe stato opportuno, da parte Asl, un monitoraggio successivo alla dimissione (magari a qualche mese di distanza) per verificarne la presenza? Il coinvolgimento post covid dello pneumologo, del cardiologo (che ci sono stati) e infine anche del medico infettivologo? In questo, sinceramente, noto punti deboli nell’organizzazione sanitaria del post covid. Così come del resto scelte discutibili vennero fatte all’inizio della pandemia, nel 2020. Noi dipendenti amministrativi fummo dichiarati a basso rischio (anche se bisogna ammettere che nessuno aveva piena consapevolezza del virus e della sua “ferocia” ) quindi niente mascherine (ne arrivavano poche) e proprio nel corridoio dove stavano i miei uffici e quelli del Servizio di Prevenzione e Protezione furono aperti ambulatori per la visita di medici e infermieri generando assembramenti di 40-50 persone che tossivano o dichiaravano sintomi o addirittura venivano riconosciuti positivi. Non sarebbe stato opportuno montare un tendone militare in cortile come poi fatto per limitare i ricoveri in PS? Perché un ambulatorio a rischio nello stesso luogo dove si svolgevano attività ordinarie? Molti mesi dopo sono tornato in quel corridoio: anche gli amministrativi avevano mascherine, sono stati nel contingente dei primi vaccinati al pari di sanitari e parasanitari (ma guarda un po’) e comunque nell’area sono stati creati percorsi separati con tanto di schermi di protezione. Purtroppo troppo tardi, per me. Così, rispetto alle vicissitudini odierne, non poteva essere richiesta per tempo una consulenza del medico infettivologo arrivata invece quasi per caso dopo mesi di cure con un antibiotico aspecifico per un’infezione del tutto diversa? Insomma, diciamolo: l’impressione è che per quanto al post covid si proceda a compartimenti stagni, che manchi una visione complessiva dei possibili postumi. In questo senso questo racconto vuole essere un contributo per una seria riflessione organizzativa da parte dell’Asl di Piacenza e dei suoi settori interessati. Un rilievo infatti: è attivato un ambulatorio post covid per pazienti esterni (non dipendenti) presso la medicina dell’ospedale di Castel San Giovanni. Purtroppo i posti settimanali a disposizione sono limitati tuttavia vengono garantite prestazioni pneumologiche, cardiologica, di medicina e quanto altro serve per una visione d’insieme mesi dopo la guarigione o la dimissione. Ecco, in quella sede potrebbe essere valutata anche la consulenza del medico infettivologo per verificare l’infezione da batteri conseguenti alle cure ricevute durante la permanenza in rianimazione e in terapia intensiva. Intanto io affronto un ricovero che non sarà di breve durata e che sono felice di affrontare. Anzi, mi piace e mi diverto. Avevo in programma due serate di presentazione del mio libro, “Nelle fauci degl’Agnelli”: a Gropparello e a Cerignale. Tutto rinviato. Ma che bella soddisfazione! Del resto che razza di pretesa: tornare alla vita normale solo dopo 15 mesi dal contagio!!! Non sia mai detto!

Covid? Ci fa un baffo! Parola di Draghi! Ma domani è un altro giorno, si vedrà

Draghi bifronte

Quindi. Tana liberi tutti. Ma senza ballare. Basta mascherine. Ma solo dal 28 giugno, sentito il Cts, comunque solo all’aperto. Si può mangiare nei ristoranti al chiuso così se piove nessun problema. Però a tavolate di 6 non di più. Ma i bambini contano? Un giorno niente decessi, posti letto in terapia intensiva vuoti. Ma attenti, annuncia il virologo di turno, prudenza. Il virus sta sempre lì. Pronto, in agguato. Il giorno dopo una novantaquatrenne se ne va, qualche giorno ancora ed è il turno d’una giovane ventenne. Fatta la prima dose del vaccino con Astrazeneca? Bene, la seconda sarà con altro vaccino in base all’età che hai. Ma è stato ascoltato Salvino? E la Melona? Briatore? Sgarbi? Berluscone giovane guascone? Hai già avuto il covid. Bene, allora basta una dose ma se sono passati non meno di 3 mesi e non più di 6 mesi dal contagio. No, contrordine, può essere anche fino ad un anno dopo, come rivela un’approfondita ricerca fatta su decine e decine di operatori sanitari contagiati. Così si risparmiano un po’ di dosi ma questo non s’ha da dire. Si pensa ma non si dice. Due ondate se ne sono andate ma di certo arriva la terza, con annessa variante, una delle tante. Per fortuna ci pensa Salvino che ribadisce aperto tutto. Ma Draghi invita alla calma e il governo parla d’una terza dose di vaccino. Un esperto di certo lo si trova che rileva che il vaccino per l’influenza va fatto tutti gli anni, altroché tre dosi. Insomma, di certo in assoluto non c’è nulla, ancora si procede per ipotesi, a tentoni, sperando vada tutto bene. Sono stato nella sala d’attesa degli ambulatori dell’ospedale della mia città. C’era un tizio in attesa, mascherina (nera) abbassata sotto il mento. Che dire? La finestra era aperta, forse questo era l’elemento discriminante, rispetto del prossimo garantito. Poi è arrivata una donna, l’ha guardato. Il tizio ha alzato la mascherina. Sotto il naso. La donna ha tossito due volte. Platealmente. Se hai fatto AstraZeneca devi fare il richiamo omologo sopra i 60 e l’eterologo sotto i 60. Draghi però di anni ne ha 73 e fa l’eterologo. Quindi? Omologo libero per under 60 ed eterologo pure over 60. Dovremo pur dire che Draghi è la guida clinica di tutti noi! Del resto è sempre lui, dichiarato comandante in capo di un governo di centrosinistra che parla d’ecologia favorendo le aziende e le infrastrutture modello TAV, licenziamenti liberi, silenzio sulla scuola e sulla riforma. Diciamo la verità, sarà lui a liberarci dal covid. Ma se il covid non collabora? Di certo mal gliene coglierà.

365 days after, un anno dal contagio e dalla crisi polmonare

365 giorni dopo l’arrivo dell’ambulanza, 365 giorni dopo la grave crisi respiratoria, 365 giorni dopo l’ingresso in Pronto Soccorso, 365 giorni dopo la diagnosi di polmonite interstiziale. Nessuno ancora sapeva bene come affrontare il contagio, la camera mortuaria dell’ospedale si riempiva di bare di persone che nessuno aveva potuto salutare, che nessuno avrebbe accompagnato al cimitero. Sì, la situazione era stata sottovalutata. Nel corridoio dove stava il mio ufficio avevano previsto l’ambulatorio per costantemente controllare gli operatori sanitari, medici, infermieri, OSS, che agivano nei reparti a diretto contatto con i pazienti contagiati. Si verificavano in certi momenti assembramenti di 40 o 50 dipendenti. Molti tossivano, dichiaravano febbre, non tutti quando arrivavano portavano mascherine. Nessuna protezione, nessuna precauzione rispetto agli amministrativi che vivevano appunto negli uffici. Senza mascherine tanto, come aveva dichiarato una commissione di esperti, per il ruolo svolto a loro dire non correvamo rischi particolari, al massimo eravamo “a basso rischio” e intanto qualcuno passava a salutarmi in ufficio, mi confidava paure, timori, tossiva, starnutiva, si lamentava. Solo in seguito sarebbero arrivati percorsi guidati, disponibilità di protezioni, divisori, mascherine per tutti, ma il fatto ormai non mi riguardava più. Così fino a quella notte, 22 marzo 2020, ore 22.30, quando è arrivata l’ambulanza chiamata da Dalila, spaventatissima. Ricovero d’urgenza, “preso per i capelli“, salvato miracolosamente, sono rimasto in ospedale fino al 17 giugno. Dicevano che ero guarito. Postumi a parte. Così l’inizio del calvario. Coi postumi, quelli di allora e quelli che sarebbero venuti dopo. Oggi, 365 days after, ancora postumi, molte incertezze, camminando lentamente con un bastone, torno in quel corridoio. Visita di controllo in quanto dipendente al momento del contagio. La prima a settembre, con prescrizione di una TC polmonare, poi nientaltro fino ad ora con la seconda visita ma, grazie alla dottoressa di medicina generale (medico di base, di famiglia, personale, chiamatela come volete), questo avviene dopo decine di controlli che forse era opportuno avessero un monitoraggio complessivo da parte dell’ASL. Perché il problema del contagio non è solo polmonare, i rischi sono cardiaci, neurologici, fisiatrici, oculistici, diabetologici, otorinolaringoiatrici, pneumologici, circolatori e chi più ne ha più ne metta. Questo osserverò oggi ai medici dell’ambulatorio che a settembre mi ha preso in carico con una TC polmonare e oggi, ad un anno esatto dal ricovero d’urgenza, 365 days after, dopo 88 giorni di ricovero, dopo 277 giorni dalla dimissione, dopo decine e decine di visite e controlli disposti però dal mio medico di base, dopo essere stato riconosciuto invalido temporaneamente almeno fino a fine 2021, mi visiteranno per la seconda volta magari focalizzando ancora il controllo limitatamente alla situazione polmonare. Comunque sperando che, ritornando in quel corridoio, non succeda altro. Diciamola così, “ho già dato, ora basta“. In attesa di arrivare al vaccino, appuntamento già fissato per il 19 aprile prossimo venturo. Su invito dell’Asl stessa con l’impressione che la mano destra non sa bene cosa faccia la sinistra e quindi ripeto: un monitoraggio complessivo, un coordinamento del post-contagio sarebbe decisamente opportuno. Tanto per dipendenti quanto per semplici cittadini.

“18 marzo 2020” (circa ore 20.00), lirica di Francesco Saverio Bascio, poeta in Carpaneto (Pc)

Era il 18 marzo 2020, all’inizio della pandemia di Sars-cov-2. Gli obitori di Bergamo, uno dei luoghi più colpiti dal virus in Italia, erano al collasso e i militari trasferivano le bare in altre province per la cremazione. Nella notte, la lenta carovana dei mezzi militari blindati, venne filmata da un cittadino alla finestra e quelle immagini divennero il simbolo del dramma. 
Oggi... quasi a quest'ora 
sfilavano le anime
e le lacrime dietro al vetro
solcavano le mille scie profonde,
e la vita... ormai resa inerme
ne seguiva le copiose tracce.
Quelle lacrime... 
nella terra...
nude...
che non asciugano ancora
quelle lacrime non finite
quelle lacrime nei vetri del mondo.
Quelle lacrime...
che ho tentato di raccogliere
e di contarle una ad una
persino cantando...
ho cercato...
e ho chiesto aiuto anche alla pioggia
che non riesce ancora 
a lavarle tutte.
I camion militari con le bare dei morti di Bergamo attraversano Ferrara diretti alla Certosa

“In silenzio come un fuoriscena”, lirica di Vincenzo Rocciolo, poeta in Albanella (SA)

Passerà questo vento di morte
che ha scardinato porte
e spalancato finestre senza schianti
seminando lutti e pianti.

La morte non ha ali e zampe grosse
ma arriva con un colpo di tosse
uno starnuto o un abbraccio
e si avvinghia al corpo come un laccio. 

La morte arriva con luci abbaglianti
e suoni di sirene assordanti 
e ti lascia senza forze e fiato
in un letto solo e abbandonato.

Ti dicono che sei anziano
ma tu hai le ali di un gabbiano
non c’è spazio in questo mondo
per chi vorrebbe fare un girotondo.

Guardi intorno a te e sono abbattuti
i tanti volti stanchi e sconosciuti
solo occhi dietro maschere in giro
che corrono senza un attimo di respiro.

Guardiamo gli altri con sospetto
ma ci manca tanto un po’ di affetto
mani strette in altre mani
come se non ci fosse più un domani.

Il virus ci ha fatto allontanare,
nonni senza nipoti da abbracciare,
giovani senza bocche da baciare,
piccoli senza amici per giocare.

E non c’è chi piange lacrime di omaggio
ad accompagnarti nell’ultimo tuo viaggio,
ma in silenzio come un fuoriscena 
abbandoni questo mondo e la sua arena.

5 marzo 2021, giornata europea della logopedia. Post covid: “dopo un mese in terapia intensiva, mi risveglio dal contagio senza voce”

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è Claudio-TGL-5.03.2021-IMG_20210306_125614-720x622.jpg
L’intervista sul telegiornale di TeleLibertà del 5 marzo 2021

L’articolo della giornalista Elisabetta Paraboschi introduttivo del video trasmesso nel TGL del 5 marzo.

Giornata europea della logopedia, l’Ausl di Piacenza presenta le sue esperienze. Si è parlato di telelogopedia durante l’incontro di oggi, 5 marzo,  che ha visto protagoniste da una parte le logopediste di Otorinolaringoiatria, Unità spinale di Villanova, Neuropsichiatria infanzia e adolescenza e Unità operativa organizzazione territoriale Michela Benvenuti, Cecilia Cardinali, Lucia Pradelli e Rossella Raggi e dall’altra Claudio Arzani, piacentino che un anno fa si è ammalato di Covid e dopo ha dovuto fare i conti con una serie di danni all’apparato vocale trattati attraverso la teleriabilitazione e non solo. In tre mesi sono state fatte circa cinquanta sedute a beneficio di pazienti non più solo della provincia e quindi impossibilitati a raggiungere con agio l’ospedale, ma anche della città – fa notare con soddisfazione Benvenuti – certo il rapporto di contatto con il paziente resta sempre importante e va ricercato, ma in questo momento la telelogopedia rappresenta un’utile soluzione”. Da parte sua Arzani ha raccontato il suo modo di vivere le sedute logopediche in remoto, ma poi anche in presenza.

Questa immagine ha l'attributo alt vuoto; il nome del file è liberta-6-marzo-2021-IMG_20210306_115853.jpg
L’articolo pubblicato su Libertà, quotidiano di Piacenza, il 6 marzo 2021 a cura della giornalista Elisabetta Paraboschi

A seguire: la bozza del mio intervento, concentrato su uno dei tanti postumi del contagio: lesione corda vocale, parziale paresi laringe, voce azzerata

Tutto ha inizio alle 22.00 del 22 marzo 2020. Dopo una settimana di ‘banale’ influenza, la febbre sale, arriva una grave crisi respiratoria. Dalila chiama l’ambulanza. Intanto la crisi sembra superata ma non appena i due infermieri salgono in casa e col saturimetro verificano la situazione dell’ossigeno nel sangue non ci sono dubbi: di corsa al Pronto Soccorso di Piacenza.

Da quel momento per me, buio quasi totale.

Risvegliato ad aprile avanzato nel reparto diretto dal dottor Zanotti a Castel San Giovanni, ho invece preso coscienza che tra i tanti effetti delle pratiche sanitarie che avevano contribuito a salvarmi la vita, avevo una lesione alla corda vocale e una parziale paresi alla laringe.

Quindi, visto che cercavo di parlare ma nessuno mi capiva, il problema ero io che, semplicemente, credevo di parlare ma non emettevo suoni intellegibili.

Ma non solo non mi esprimevo. Ero costretto a mangiare ‘morbido’, a prendere medicine, pastiglie debitamente ‘tritate’, la deglutizione sia di liquidi che di cibi solidi comportava reazioni immediate, ovvero eccessi di tosse decisamente fastidiosi. Urticanti.

Dimesso il 17 giugno dall’ospedale, inizialmente iniziava la riabilitazione con l’assistenza domiciliare infermieristica per curare la terribile piaga da decubito di livello 3 (un “buco” dove poteva tranquillamente entrare una mano chiusa a pugno) e di terapia fisica innanzitutto per mettermi in condizione di alzarmi dal letto e di camminare utilizzando un deambulatore. Per questo solo a fine luglio, ottenuto il ‘permesso’ da Isabella e Valentina appunto le due terapiste domiciliari, ho avuto il primo contatto con l’ambulatorio di logopedia presso ORL gestito dalla dottoressa Michela Benvenuti.

Difficoltà di respirazione e di movimento condizionavano tuttavia la possibilità di frequentare l’ambulatorio oltre a qualche problema psicologico: 88 giorni di ricovero alle spalle rendevano difficile un ritorno in una ambiente ospedaliero. Per cui si pensò di provare un diverso tipo di logopedia ovvero con collegamenti dal domicilio grazie all’utilizzo di un pc avuto in prestito dall’Ausl.

Metodo innovativo, capace di generare curiosità ma anche simpatia (questo grazie al ‘metodo’, all’approccio molto personalizzato della dottoressa Benvenuti), di farmi sentire a mio agio, di stimolare l’impegno a seguire esercizi ed indicazioni in vista dell’impegnativo collegamento successivo, un po’ come tornare a scuola, insomma.

Purtroppo la logopedia a distanza, la telelogopedia, richiede un perfetto funzionamento dei collegamenti via internet. In quel periodo erano ancora in corso i lavori per portare la fibra nella mia zona così ogni tanto l’immagine si bloccava, non sempre era facile capire. In aggiunta si esaurì la pila del pc che ho dovuto riportare in Ausl per la ‘ricarica’.

Nel frattempo però avevo superato il deambulatore, mi muovevo con una sola stampella, le difficoltà di respirazione erano dimenticate, gli esercizi avevano avuto efficacia, la voce era nettamente migliorata così il passaggio alla frequenza dell’ambulatorio in presenza è stato naturale, utile per gli ultimi ‘perfezionamenti’.

Oggi 5 marzo 2021 a 260 giorni dalla dimissione dall’ospedale di Castello (avvenuta il 17 giugno, 88 giorni dopo la corsa in P.S.), ho ripreso quasi completamente la mia voce (resta una leggera inflessione rauca prima inesistente), parlo, disquisisco, alzo o abbasso i toni alla bisogna, mi alimento normalmente e solo a fine marzo avrò un nuovo forse ultimo controllo.

Grazie alle sedute di logopedia, prima a Castello durante il ricovero, poi a Piacenza nell’ambulatorio istituito presso l’Otorinolaringoiatria gestito dalla dottoressa Michela Benvenuti, della quale voglio evidenziare che, a parte il trasmettermi tecniche di vocalizzazione, devo ringraziare per non solo aver affrontato il problema della cura ma di avermi saputo seguire in quanto persona.

Cercando di conoscermi, di parlare delle mie aspettative e anche del suo vissuto, del suo essere persona. In altre parole creando un rapporto personale fondamentale per aggiungere motivazione a motivazione, continuità anche a fronte di qualche difficoltà nel percorso riabilitativo.

Alla fine lei ha evidenziato il mio impegno negli esercizi che mi ha portato appunto a buoni risultati in un tempo relativamente breve (appunto con ‘lezioni’ durate da fine luglio a ottobre) e, se questo è stato condizionato dalla mia volontà di resistere al virus, in buona parte è anche stato merito non solo delle tecniche formali di cura della dottoressa Benvenuti (telelogopedia inclusa) ma anche e soprattutto del rapporto umano creato, ben oltre a quello che di consueto intendiamo come il semplice rapporto tra medico curante e paziente malato bisognoso certo di cura, di esami, di diagnosi, di farmaci ma anche e soprattutto di umanità.

“Ciao Piacenza 5 ext, ti mando in codice verde su una signora di 72 anni con febbre alta e dispnea, sospetto caso di coronavirus”. Era il 17 febbraio 2020. Cinque giorni dopo, mi manca il respiro…

La testimonianza di un volontario della Pubblica Assistenza Sant’Agata di Rivergaro (PC) della corsa in ambulanza a sirene urlanti per una signora di 72 anni con febbre alta e dispnea, sospetto caso di coronavirus. Era il 17 marzo 2020. Cinque giorni dopo…

E’ giorno. Sono le 9 del mattino. Indossi quella divisa che portavi con orgoglio sperando che sia un giorno diverso dagli scorsi. Invece no.Suona il telefono :”Ciao Piacenza 5 ext, ti mando in codice verde su una signora di 72 anni con febbre alta e dispnea, sospetto caso di coronavirus, usa pure i dispositivi sonori, così ti liberi prima che ho un altro servizio già per te“. Ti vesti. Ti vesti con quelle tute bianche di plastica che vedevi solo in CSI o a Quarto Grado, dove dentro si muore dal caldo. Dove fai fatica a compiere il più piccolo gesto. Ti vesti facendo attenzione a non avere parti di pelle scoperte e indossi quella mascherina che fa soffocare. Quella che quando fai anche solo 2 rampe di scale, non respiri e ti senti svenire. Ti metti la visiera…ti guardi…controlli che tutto sia a posto più volte. Ti specchi in ogni angolo possibile. Perché basta poco per “portalo a casa”. Arrivi a destinazione dove tutti ti guardano incuriositi dalla finestra. Le macchine rallentano per osservarti. Osservare dei perfetti sconosciuti vestiti di bianco. La curiosità di quello che stai facendo immobilizza i vicini. I vicini di casa. I vicini di quartiere. Chiunque si trovi li a passare in quel momento. Ti muovi a fatica. Respiri a fatica. Senti le voci a fatica. Entri in casa. 72 anni, ha la febbre e non riesce a respirare nemmeno con l’ossigeno. Ormai ne hai già visti tanti, hai gia visto quella difficoltà respiratoria. Occorre andare in ospedale e alla svelta. Il marito la veste e l’aiuta…con una cura e attenzione degne del più bel film d’amore. Come solo i mariti di una volta sanno fare. 50 anni di matrimonio e mai si erano separati. Ma questa volta…lui non può accompagnarla come le altre volte. Non può starle accanto. Tenerle la mano e incoraggiarla che “tutto andrà bene”. Glielo sussurra mentre le infila le ciabatte e sulla soglia di casa. Prima di consegnarla a me. Arriva la figlia. Chiede se può venire in ospedale, ma non si può, non si può entrare in ospedale. Dentro di te sai che quella potrebbe essere l’ultima volta che la signora vede sua figlia. Dentro di te sai che quella…potrebbe essere l’ultima volta che la figlia vede sua madre. Speri non sia così. Sali in ambulanza e la figlia in lacrime…chiede se può salutare la madre. Apri il portellone dell’ambulanza e permetti il saluto. Straziante. Sotto la visiera volevo solo piangere. Ma non si può. Si deve dare tutto il conforto possibile e tutta la sicurezza possibile. Arrivi in pronto soccorso dove incontri tutti i medici, infermieri e oss e tutti sono più stravolti di te perché nel frattempo arrivano altri pazienti, tutti con gli stessi sintomi. Ne arrivano a flotte. Non li riconosci. Nessuno ti riconosce. Siamo tutti vestiti uguali. Fuori…solo gli occhi. Stanchi. Rossi. Lucidi. Fai fatica a sentirli e tu a parlare. Loro fanno fatica a sentire te. La signora è preoccupata e si sente sola. Quello che si vede è straziante. Drammatico. E solo chi lo ha visto con i propri occhi può capire. I pazienti che entrano hanno sul volto dipinta la paura. La rassicuro. Sotto la visiera avrei solo voluto piangere. Lasci la signora nelle mani del pronto soccorso. Esci e ti disinfetti. Cerchi di farlo al meglio perché hai il terrore di prendere il virus anche tu e “portarlo” a chi vuoi bene, di portarlo a casa. O più semplicemente di ammalarti tu. Non hai ancora terminato la disinfezione che ti suona il telefono. Si tratta di un altro sospetto Covid19.Ti prepari. Di nuovo. Di nuovo le sirene. Le stesse che senti la notte. Anche mentre chiudi gli occhi ti sembra di sentirle ancora nella tua testa. “Uomo di 42 anni con febbre alta e difficoltà respiratoria”. Preghi non sia il padre di qualche tuo amico. Preghi non sia il tuo. Preghi non sia chiunque tu possa conoscere. Arrivi sul posto. Di nuovo ti muovi a fatica. Di nuovo fatichi a respirare. Fai 6 rampe di scale a piedi. Arrivi che ti manca così tanto il respiro che ti senti mancare. Riprendi il fiato e cerchi di parlare con il poco fiato che hai. Ti trovi di fronte ad un uomo di 42 anni, agente delle forze dell’ordine in servizio nel lodigiano durante le prime fasi di tutta questa situazione. Ha la febbre alta. Fatica molto a respirare. E’ necessario andare in ospedale. All’uscita della stanza, tutti i colleghi sull’attenti per il “loro saluto” Non dimenticherò mai lo sguardo dei suoi colleghi. Lo carichiamo. Arriviamo in ospedale. Sembra ci sia più gente di prima…anche se sono passati solo 40 minuti tra un intervento e l’altro. Sono le 20.Ormai è sera. Finisci il turno con il mal di testa per le ore passate a sentire la tua sirena ormai scoppiata, per il quantitativo di disinfettante che ti sei buttata addosso e che inali e per tutto ciò che indossi. Quando vai a letto speri sia solo un incubo. Pensi ai tuoi cari. Pensi a quando li rivedrai. Chi è in prima linea in questa battaglia…molti di noi…sono lontani dai propri affetti. Molte mogli come me, non abbracciano e non baciano il marito da più di un mese. Molte madri come me, non vedono il figlio da settimane. Molti dei miei ragazzi, non vedono i propri affetti da quando tutto questo è incominciato. Fidanzati, nonni, genitori, zii, parenti e amici. Il giorno dopo scopro che la signora di 72 anni é morta. Da sola. Senza aver da parte il marito che con tanto amore le ha dedicato tutta la sua vita. Senza avere vicino la figlia. Un’altra figlia è rimasta sola. Senza la sua mamma. Questo è un estratto della giornata dell’equipaggio della P.a. Sant’Agata di Rivergaro chiamato PC 5 Ext. Questo è un estratto della giornata dei nostri ragazzi. Questo è il dramma che vivono gli operatori sanitari sui servizi d’emergenza Sospetti Covid-19.Questo è quello che accade quotidianamente. Questo è quello che sta succedendo qui. Adesso. Se ognuno di voi stesse a casa darebbe un contributo enorme. ENORME. Prima state a casa e prima tutto questo finirà. STATE A CASA.

A Piacenza (provincia) sono già più di 1350 le persone che non torneranno a casa

Post covid: 230 giorni dalla mia deospedalizzazione, 317 dall’arrivo dell’ambulanza ululante come un lupo desolato, 325 dalla crisi (febbre alta, poi polmonite). 2 febbraio 2021, martedì.

Questo post della Pubblica Assistenza risale al 17 marzo 2020. Quel giorno a sera improvvisamente sento la fronte calda. Avevo un poco di febbre, 37, 5. Nulla di preoccupante. Cinque giorni dopo, quando la signora 72enne soccorsa quel 17 marzo (come si racconta nel post) già non ce l’ha fatta lasciando attoniti e in lacrime figlia e marito, mi manca il respiro, perdo lucidità, Dalila chiama il 118, intanto sembra che mi riprenda, ma arriva l’ambulanza. Un infermiere dice che è stato mio allievo ma bardato com’è mi è impossibile riconoscerlo. Sono le 22.30, entro in Pronto Soccorso, inizia il calvario. Malattie Infettive, Rianimazione, Terapia Intensiva, Riabilitazione pneumologia e fisica. Sono fortunato. Il 17 giugno 2020, 88 giorni dopo, comunque torno a casa, sono vivo. Inizia la riabilitazione: l’assistenza prosegue, medici, infermiere, terapiste della riabilitazione cercano di recuperare il salvabile. Siamo al 2 febbraio, 325 giorni dopo dalla crisi. Ancora non è finita. Il 23 febbraio 2021, quasi un anno dopo, si prospetta la “presa in carico” da parte dell’ambulatorio ospedaliero post-covid per un’ennesima verifica: in day-hospital ulteriori visite e prestazioni strumentali di pneumologia, cardiologia, fisiatria, forse neurologia, medicina, otorino, oculistica oltre alle immancabili analisi chimico-cliniche, l’eventuale TAC, l’elettrocardiogramma e poi chissà, di tutto un pò. Forse, mi dicono, a marzo, esattamente un anno dopo, forse la prima iniezione del vaccino. Ma ripeto. Sono fortunato. Innanzitutto sono vivo, sopravvissuto, sicuramente si può dire miracolato. Con un grazie di cuore ai tanti operatori sanitari che mi hanno preso in cura, assistito, sostenuto, aiutato superando anche il timore per la loro stessa salute (li ricordo, bardati come i “liquidatori” chiamati ad intervenire nella centrale nucleare di Chernobyl dopo l’esplosione e la fuga di radioattività mortale). Per questo dico meglio affrontare qualche sacrificio anche economico, qualche limitazione della libertà di movimento piuttosto che dover vivere il rischio del contagio con tutto quanto ne consegue e, per quanto mi riguarda, ne conseguirà (fino a fine anno l’apposita Commissione Medica mi ha riconosciuto un’invalidità al 100%, giudizio “rivedibile” nel senso che magari la percentuale riconosciuta sarà inferiore ma sicuramente lontana dal ritorno alla normalità fisica precedente).

Distanziati (purtroppo) ma comunque vivi e in ogni caso… parlano gli occhi

“Medicina narrativa e polmonite interstiziale covid 19: una storia a lieto fine”: il poster ammesso al Congresso nazionale SIMFER

Gli autori del poster: Ercole Zanotti, Roberto Antenucci, Rodolfo Massimiliano Murgia, Patrizia Bibbò, Anna Cassio, Maria Paola Gruppi, [equipe medica UOSD Riabilitazione Respiratoria, equipe UOSD Medicina Riabilitativa, P.O. Castel San Giovanni], Claudio Arzani [Direzione amministrativa Rete Ospedaliera] Ausl Piacenza

Oggi inizia (in digitale) il Congresso Nazionale SIMFER, Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa. Tra i documenti ammessi, il poster che riproduco al quale ho contribuito nella mia veste di (ex) Direttore Direzione Amministrativo Rete Ospedaliera dell’Ausl di Piacenza (oltrechè giornalista pubblicista). Il testo risulta ridotto per necessità di spazio tipografico. Riproduco pertanto il testo integrale del racconto originale. Il mio contributo nasce dall’interesse e dalla condivisione del concetto di “Medicina Narrativa“, ovvero un approccio che va oltre la cura clinica, analizza i vissuti del paziente, la sua sofferenza, le sue speranze, la sua relazione col percorso di cura. Così acquistano importanza ascolto, condivisione ed empatia.

Era il 22 marzo, ore 22.30, non respiravo. Mia moglie, spaventatissima, ha chiamato il 118, arriva ‘ululante’ un’ambulanza, ferma davanti al portone del condominio. Nel frattempo mi riprendo, l’infermiere dice d’essere stato mio allievo ai tempi del corso di laurea ma bardato com’è stile disastro nucleare a Chernobyl, non posso certo riconoscerlo. Mi provano lo stato della saturazione e il verdetto è uno solo: via immediatamente, destinazione il pronto soccorso. Salgo sull’ambulanza e forse perdo coscienza o forse la mia mente abbassa la saracinesca, rifiuta i ricordi. In seguito saranno i miei figli a raccontarmi. Malattie Infettive, Rianimazione a Piacenza, intubato, tracheostomizzato, Terapia Intensiva a Castel San Giovanni. Vivo in una realtà parallela fatta di sogni. Tra i tanti: sono una cellula immersa in un liquido amniotico, non voglio e non posso morire, ho dei progetti da portare a buon fine, delle cose da realizzare, il 1° maggio è previsto sia il mio ultimo giorno da dipendente, non voglio superare il confine che mi separa dall’Altrove. Così fino al 24 aprile. Mi risveglio, nel sogno esco dal liquido amniotico, mi ritrovo sommerso in un lago, ne esco. Reparto di Riabilitazione, Castel San Giovanni. Immobile a letto, con l’ossigeno, muscolatura azzerata, spondine alzate per non cadere, una piaga da decubito da far paura, lesione alla corda vocale e alla laringe, niente voce, piedi insensibili, barba tagliata mal tenuta. Il medico pneumologo sostiene che il quadro clinico non è malaccio, riflette se lasciarmi da subito senza ossigeno. Infermiere in giacca blu e bardatura postnucleare e operatori socio sanitari con mascherina, guanti, casco, grembiule (devono soffrire un caldo torrido) mi accudiscono, una di loro mi fa la barba, nel tempo mi lavano poi mi faranno la doccia quando, settimane dopo, riuscirò a raggiungere (assistito e aiutato) il bagno. Ci vuole forza, ho bisogno di assistenza per ogni necessità, inizialmente mi sento umiliato ma loro sono gentilissimi, attenti all’aspetto umano (un oss, Marco di Seminò, mi offre un buon caffè fatto con la moka, un’infermiera, Paola, nel giorno del pensionamento, il 2 maggio, mi offre un sorbetto al limone). Questo mi aiuta, mi strappa sorrisi, mi rassegno al tempo che passa e mi tranquillizzo. Mangio, cibi ‘molli’ e di gola una mousse che mi crea qualche disturbo intestinale. Dovrò lasciarla perdere. Del resto non posso lasciarmi andare, nessuna depressione, ripeto, ho progetti da realizzare, solo momentaneamente rinviati non certo per mia volontà. Vedo altri pazienti passare in corridoio, chi con deambulatore, chi camminando relativamente in scioltezza. In genere assistiti dai terapisti della riabilitazione. Arriva anche il mio turno a maggio avazato, finalmente col deambulatore mi fanno uscire nel corridoio. Inciampo. Tragedia. Nel pomeriggio altri tre pazienti inciampano, mi sento riabilitato. Nella stanza dopo la mia una donna non ce la fa, la portano in un locale dove, mi raccontano, non possono far altro che prepararla per l’ultimo viaggio, chiusa in un sacco nero. Tutta la corsia s’avvolge nel silenzio. Passa un sacerdote, anche la sua presenza è un valido supporto. A Piacenza, mi dicono, non passa neanche il prete. Sono terribili i sabati e le domeniche, i turni del personale sono ridotti, sono tante le ore senza nulla da fare, il tempo non passa mai. La dottoressa in accordo con la terapista mi fa conoscere le ‘molle di codevilla’, mi serviranno, una volta dimesso, per sostenere le mie gambe e per ovviare ai nervi spe ‘dormienti’ forse, dice la neurologa, per sempre. Voglio uscire, andare a casa, tornare dai miei, da mia moglie che, a maggio avanzato, scoprirò, senza una corretta consapevolezza della situazione, a sua volta ricoverata in quella notte, alle 5.00 del 23 marzo. La sento col cellulare, per fortuna. La prima volta, poco dopo Pasqua, in videochiamata con il cellulare messo a disposizione da un’infermiera, piange ed io non capisco perchè. Ripristinato il mio cellulare, quotidianamente, mi sostiene. E finalmente arriva ‘la liberazione’. 17 giugno, 88 giorni ‘dopo’. Un’ambulanza della Pubblica Assistenza mi porta a casa, di vista conosco i due volontari presenti, chiacchieriamo. L’assistenza dal punto di vista umano è fondamentale. Entro in casa sulla carrozzina, sono commosso e felice.  Peso 70 kg, come quando ero militare sotto naja ed avevo 20 anni, era il 1974. La notte del 22 marzo pesavo 94 kg.! Irriconoscibile. Oltretutto ‘scopro’ la mascherina e l’obbligo di portarla, mi raccontano di lockdown, di isolamento in casa. Quello è passato ma non è finita. L’essere a casa è importante, ho il supporto di mia moglie che mi assiste in tutto e per tutto, nel lavarmi, nel preparare manicaretti in base ad una dieta apposita, nel sostenermi (anche fisicamente per piccoli spostamenti dal letto). Per fortuna l’asl mi garantisce, oltre al materasso antidecubito, alla carrozzina, alle stampelle, al deambulatore, assistenza domiciliare infermieristica per le medicazioni oltre alla presenza di due fisioterapiste che, fino a fine agosto, mi supportano nel parziale recupero muscolare e della possibilità di movimento prima col deambulatore (a luglio avanzato la prima uscita all’esterno), poi con le stampelle. Da settembre eccomi in palestra sempre asl per esercizi ed elettrostimolazione 5 giorni su 5 e, a fine ottobre, cammino con solo un ‘semplice’ bastone, i piedi mostrano segni di recupero, di movimento, la piaga da decubito è ridotta ai minimi termini. Sono passati sette mesi. Di pratiche da sbrigare, la dichiarazione di invalidità (temporanea, per 18 mesi, poi si vedrà, come sarà sarà) da parte dell’apposita commissione, ‘la 104’, i rapporti con il patronato per INAIL e riconoscimento Infortunio sul lavoro, il permesso per circolare assistito in auto (naturalmente non sono in grado di guidare), l’esenzione dal pagamento del bollo auto e ancora i tanti controlli medici (senza riuscire ad entrare nei programmi di assistenza dell’ambulatorio post covid aperto a Castel San Giovanni). Si parla di danno biologico permanente. Buoni i risultati delle verifiche oculistiche, otorino, diabetologiche, radiologiche (Tac polmonare), cardiologiche, esami del sangue inclusi. Ottimo supporto dal medico di base molto disponibile (una professionista scelta dopo aver cambiato – all’indomani della dimissione ospedaliera – la precedente poco o per nulla incline alla dovuta assistenza domiciliare), rinvio al nuovo anno per visita pneumologica e spirometria. Ma verrà Natale e forse potrò camminare senza tutori, senza molle di Codevilla. Intanto, andando in libreria, la ragazza che ben ci conosce dice che io e mia moglie siamo un esempio di forza, un messaggio vivente, un invito a non sottovalutare il virus, ad essere prudenti, a non lasciarsi andare comunque. I miei figli, con mogli e nipotine mi sono stati vicini, al mio rientro in casa uno dei due ha ricordato la notte nella quale il suo cellulare ha squillato. Era una dottoressa dell’ospedale che, piangendo, comunicava che non ce la facevano, mi stavano perdendo, non avrei visto l’alba e l’intera famiglia rimase col fiato sospeso, attonita. Pochi giorni fa erano tutti a casa nostra a pranzo. L’altro figlio ha rilevato che “siamo stati fortunati, abbiamo avuto un’opportunità in più, altro tempo per vivere insieme“.

Post covid: arriva Rai1, 155 gg. dalla deospedalizzazione, 242 dall’arrivo dell’ambulanza ululante, 249 dall’inizio della crisi (febbre alta e successiva crisi respiratoria)

11 settembre 2020, squilla il cellulare. “Pronto” “Sono Catia Barone, giornalista di Rai1, chiamo per la trasmissione Senza Respiro

Questo articolo è stato scritto martedì 17, in mattinata. Nel pomeriggio nuovo squillo del cellulare, ancora Catia: “siamo impantanati con la richiesta di autorizzazione dalla Direzione. Tutto rinviato a dicembre“. Me ne faccio una ragione ma non cambia nulla, salvo la data dell’incontro e della registrazione. Tutto il resto, tutto quanto scritto, il ‘senso’, il ‘contenuto’, resta tutto.

Tutto iniziò credo l’11 settembre quando il cellulare squillava. Numero sconosciuto. Di solito non rispondo ma temevo fosse una qualche chiamata per visite di controllo in ospedale per cui “Pronto“. Una voce sconosciuta, femminile. Una qualche infermiera di un qualche reparto? Macchè. Si presenta Catia Barone, giornalista di Rai1 per conto del documentario ‘Senza Respiro’. Ha avuto il mio nome da una giornalista del quotidiano cittadino, Libertà, Elisa Malacalza (che a sua volta mi aveva intervistato) e da Franco Pugliese, direttore del servizio prevenzione e protezione dell’Asl. Con Franco (a sua volta contagiato covid) Catia aveva già realizzato una puntata della trasmissione dedicata appunto agli effetti del contagio. Ora voleva realizzare una puntata sugli effetti post-covid ovvero sui postumi che rimangono considerato che non basta venire dichiarati guariti dalla polmonite (effetto immediato del contagio) ma all’indomani della presunta ‘guarigione‘ occorrono affrontare a seconda dei casi mesi e mesi di recupero e riabilitazione per i più disparati postumi, variabili da persona a persona. Una trasmissione, dichiarava Catia, finalizzata alla sensibilizzazione sulla necessità della prudenza perchè se i morti purtroppo sono tanti, i contagiati sono migliaia in più e quasi tutti continuano ad avere postumi. Portare la mascherina, evitare gli assembramenti, sono alcuni degli accorgimenti essenziali che, come avevo notato al mio rientro dall’ospedale (il 17 giugno), ben pochi rispettavano, tra spiagge libere, mojito, movida, manifestazioni a viso libero: si rendevano conto del rischio che correvano e che facevano correre agli altri? Ne valeva la pena? Per questo ho accettato l’invito di Catia ed anzi le ho garantito assistenza fornendole i nominativi di altri amici e conoscenti purtroppo coinvolti nel contagio. Così il tempo è passato ma oggi – a quanto sembra – eccoci al dunque, si realizza (almeno in parte) il servizio. Beh, confesso che un passaggio in Rai, non è fatto di tutti i giorni, una qualche emozione (o forse curiosità?) me la provoca, anche se non più di tanto. Nella mia realtà di vita sono già abbastanza conosciuto e la maggioranza di quelli che eventualmente saranno telespettatori del documentario, vivranno altrove e, per loro, resterò comunque un emerito sconosciuto che forse vedranno una volta e poi mai più. Personalmente ritengo importante ‘portare testimonianza’ affinchè, senza fare terrorismo alcuno, possa essere di monito rispetto a troppi comportamenti superficiali, pericolosi per sè e per gli altri. Per questo motivo, su invito dell’amico Ottavio Torresendi, subito dopo la dimissione ospedaliera accettai l’intervista di Elisabetta Paraboschi, la prima giornalista che, sempre come monito, pubblicò la mia esperienza sempre sul quotidiano Libertà. Intervista dalla quale prese poi spunto Thomas Trenchi, reporter di TeleLibertà, per una trasmissione dedicata andata in onda l’8 di agosto. Trasmissione, e qui finalmente arriviamo al punto, che vide mia madre. Mamma Maria, classe 1927, non mi aveva più sentito da quel lontano 22 marzo, sapeva che ero in ospedale e sapeva che ero grave nonostante tutta la famiglia cercasse, vista l’età e lo stato di salute (buono ma precario, delicato), di darle notizie ‘edulcorate’ che non la preoccupassero (almeno ‘ufficialmente‘, apparentemente, formalmente) oltre un tanto. Anche una volta rientrato, considerato che la mia mancanza di voce (era ridotta ad un soffio causa la lesione alla corda vocale destra e alla parziale paresi della laringe) poteva preoccuparla, farle temere il peggio. I contatti con lei quindi erano quotidiani via telefono ma con Dalila, mai direttamente con me. Fino al 17 luglio, quando finalmente organizzammo un incontro al Nuovo Bar Santa Rita sullo Stradone Farnese (io ancora non riuscivo con il deambulatore a salire le scale per arrivare alla sua porta) con lei emozionatissima, felice di rivedere il suo figliolo. E, per vedermi, per incontrarmi, era venuta in quel bar nel quale da sette anni non aveva più messo piede, da quando anche papà Fabio ci aveva lasciato,l’aveva lasciata sola. Per arrivare appunto all’8 agosto, quando ha visto la mia apparizione in TeleLibertà e, quasi alle lacrime, commossa, felice, ha commentato “come hai parlato bene, come stavi bene“. Oggi mammamaria non c’è più. La ricordo il 25 settembre nel letto d’ospedale, a Fiorenzuola. Ingresso ammesso per un solo visitatore al giorno limitatamente ad un’ora, tra le 12.30 e le 13.30. Non era più cosciente, respirava affannosamente. Giunta l’ora di salutarla, l’ho baciata sulla fronte, una lacrima è sembrata scivolare sulla sua guancia. Prometto, mammaria “oggi parlerò bene, come meglio saprò fare, tuo figlio ai microfoni della Rai. Per te, per papà Fabio.”

Mammaria col ‘suo’ Fabio

“Lettera per tutti gli scettici e negazionisti, ignoranti e pressapochisti”, testimonianza di Giancarlo Balordi

Purtroppo chi di voi parla, probabilmente, non ha mai avuto a che fare, per sua immensa fortuna, con questa pandemia! Io, che abito a Piacenza e, come mia madre, mia sorella e mio cognato, ci siamo tutti ammalati di Covid in Marzo… e siamo finiti anche in Ospedale, chi più chi meno, abbiamo le idee molto chiare su quel che vuol dire ammalarsi di Covid-19!!! È una malattia molto subdola e tenace perché tutti siamo stati in ballo circa un mese a testa!!! E per molti giorni abbiamo avuto i peggiori sintomi… febbre alta con brividi e dolori muscolari, perdita di gusto e olfatto, insonnia, stanchezza e problemi intestinali poi è arrivata la tosse secca e la polmonite bilaterale che ha reso la malattia ancora più grave! La mancanza di appetito e di ossigeno ci ha indeboliti tantissimo! Mia madre, di 72 anni, è finita un mese in Ospedale e solo per la pronta cura di Plaquenil ha evitato di dover essere intubata ma l’ossigeno lo ha usato per parecchi giorni! E non parliamo, poi, del terrore di potersi aggravare all’improvviso e di rischiare davvero di morire! Chi di noi teme per la propria vita per un’influenza anche grave? Nessuno! Ma questa malattia non ha nulla a che fare con le comuni Influenze! Infine, quando guarisci e credi di aver passato tutto, ti rendi conto che il tuo fisico ne risente e hai problemi a respirare per altri 10 giorni oppure continui a sentirti stanco e spossato, hai ancora dolori fortissimi a muscoli e nervi! E, per non farci mancare nulla, per quelli, come me, che hanno assunto forti dosi di Cortisone ne subisci anche gli effetti collaterali!Poi fai l’esame Sierologico e ti dicono che “hai gli anticorpi” e sei immune al virus! Ma non sai per quanto tempo! E bene, da Maggio quando ho fatto il sierologico ad oggi 22 Ottobre la mia carica immunologica si è completamente azzerata, pertanto, l’immunità al Covid dura, mediamente, 4 o 5 mesi al massimo e dopo? Dopo rischi di ammalarti ancora e di ripetere una terribile avventura di un mese in cui io, che ho 44 anni, potrei anche riuscire ad uscirne pressoché illeso ma mia madre, che ne a 72 e ancora risente di alcuni sintomi, potrebbe lasciarci le penne!!! Questo, cari scettici, è ciò che vi spetta se non vi proteggete con l’uso delle mascherine, il lavarsi le mani e mantenere un distanziamento sociale reale! Vi auguro di non ammalarvi e di restare sani ma non di continuare ad essere ignoranti rispetto a quanto è grave questa situazione!!!

Giancarlo Balordi