“Cari genitori io vado a Milano, se avete tempo m’accompagnate”: viaggio tra sogni e realtà con mamma e papà

O me bella madùnina, racconto d’una giornata d’amore in quel di Milàn. Personaggi ed autori, un babbo ottantenne pensionato ferroviere, una madre d’origine contadina a sua volta ad un passo dalle ottanta primavere. Il babbo ha fatto tanti viaggi in quel di Milano, prima da bigliettaio, poi in divisa da capotreno, ma mai e poi mai ha visitato quella grande chiesa monumentale, il Duomo, che domina la piazza principale e la mamma, impegnata a far la nonna, mai ha trovato il tempo per accompagnare il marito in quel di Milano. Serve un giorno un figlio cinquantenne, ormai uomo di mezzetà coi capelli brizzolati, un po’ perso nei vortici della vita, alla ricerca delle sue radici, del bisogno d’avvolgersi tra le piccole cose che danno la forza di stringere i denti e superare quella realtà che talvolta soffoca i nostri sogni. Ma attenzione. Un sogno è impossibile? Per un sogno impossibile un altro è a portata di mano, basta fermarsi un attimo e guardarsi d’attorno, al passato vissuto, al presente che comunque anche quando si tinge di nero invero nasconde tantissimo azzurro, al futuro che comunque verrà. Un sogno da vivere? Per esempio, un giorno a Milano con mamma e papà, giusto un pò lenti sotto il peso di ottanta primavere. Milano da bere, Milano per sognare.

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Cari genitori io vado a Milano

se avete tempo m’accompagnate.

Dopo un momento d’esitazione

dice il vecchio son qui, son pronto.

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Mattino presto parte il treno

brilla il cuore del ferroviere,

sono tanti anni che non vengo  in stazione

del pensionato perdonate nostalgia,

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mi viene in mente quando dai boschi,

anni sessanta, baracche in periferia

tiravan sassi al nostro treno

quegli immigrati di Rogoredo.

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Tutto è cambiato son case su case

anche le stazioni ammodernate

ma sui treni si suda ancora

e la Centrale d’immigrati è affollata.

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O mamma cara questa è Milano

il grattacielo dove l’aereo s’è schiantato,

brutta faccenda triste vicenda

la lapide ricorda Giuseppe Pinelli

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come non sai chi era Giuseppe

anarco ferroviere ucciso in questura

non so di qual reato sia stato imputato

fosse la colpa il ritardo del treno

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che sia per questo che mano fascista

per vendicare l’onor del Benito

quello del vanto del treno in orario

in piazza Fontana strage efferata ha consumato.

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O caro figlio m’hai preso per grulla,

so’ avanti cogl’anni, son solo contadina

ma studia alla Statale il mio nipote

mica le fòle della Bocconi e del Berlusconi

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ma portami orsù alla guglia lassù

di tua stoltezza la madonnina

illuminando tutta Milano

di paziente perdono ti farà dono.

Ma tu babbo tra un treno e l’altro dove andavi, a Milano? Allo zoo. Ah, come mai, amavi gli animali? Soprattutto lì c’erano piante ed ombra e si poteva persino schiacciare un pisolino. Babbo concreto e realista. Lo zoo, con le sue gabbie e le belve intontite, lo zoo così disanimale, non c’è più, resta il parco ma dicono sia meglio non lo frequentare, troppi drogati, troppi disadattati. Non ci son più ferrovieri, allo zoo di Milano.

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Quante cose non si sanno, dei genitori. E quante cose non sanno i genitori, dei figli. Quattro anni fa papà, aprendo il giornale, leggeva del concorso di poesia vinto a Napoli. “Tu figlio, scrivi poesie? Non l’ho mai saputo, non l’ho mai immaginato”. Ma come, mamma, quando il mio cuore piangeva per Giuliana che se n’andava, non origliavi tra le pagine del mio diario per vigilare sul mio destino?

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Ed ora che dovrei dire io, socialista romantico di tempi andati, idealmente combattente contro l’oppio dei popoli, quella Chiesa che  dello spirito,  della coscienza e del libero arbitrio dell’uomo libero fa massacro sotto l’insegna dell’ortodossia? Io proprio io assistere impotente allo spettacolo d’un padre ottantenne che entra in Duomo con dovuta reverenza. Fin qui nulla da eccepire essendo a mia volta reverente di fronte alla sacralità dell’Idea e del Valore che son cosa ben diversa dal fruscio inquietante della veste nera. Invece No! Non basta questo all’ormai maturo cuore libertario e socialista: non è la madre, fatto che rientrerebbe nella norma! Il padre, con gesto nemmeno furtivo ma si badi ben convinto, s’avvicina al candelario ed accende non uno ma addirittura tre ceri!!!

Ma babbo, eri tu che m’insegnavi di a Messa andare perché solo lì le ragazzine potevi trovare ma nel contempo mi dicevi quel prete non l’ascoltare, dalla parte sbagliata, quella dei padroni, ti vuol trascinare.

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Allibito e mesto porto i genitori in galleria, a camminar tra i tavolini dove è meglio non sedersi, dice il padre, “questi sono i bar dei fascisti”. Mah, più che altro personalmente ritengo sian neri i conti finali da pagare per un’acqua minerale al tavolino del Biffi, ma il babbo ragiona ancora col metro di anni lontani, quando nemmeno pensava di sfiorarli, gli ottantanni. Per cui taccio, evito di spiegargli che il suo mondo è ormai passato, preferisco dirottare in via dei Mercanti, ai tavolini del Caffè Martini. Un caffè, un Irish coffee, un chinotto, una coca, venticinque euri. Ma il tempo passato a chiacchierare con i vecchi con i quali sono cresciuto non ha prezzo.

Sapete, dovremmo un giorno trovarci per raccontarmi dei tempi di quando eravate giovani, quei tempi che si van perdendo nella memoria di chi lentamente ci abbandona”.

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L’Inferno!

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I vecchi genitori si scatenano ed il povero figlio non sa più quale nell’ordine ascoltare. Eran giovani, un tempo, il mio babbo e la mia mamma. Papà era un ragazzetto in cerca di impiego. La guerra era finita, bisognava decidere la strada del destino. Forse riprendere gli studi superiori abbandonati quando non c’era più treno né corriera e manco quel vecchio camion militare che portava all’istituto in città. Niente da fare, in casa non c’erano più soldi, troppi per il nonno fornaio sette figli da sfamare, sfumato il sussidio del regime che premiava chi filiava (servivano, al regime, milioni di baionette, figli da mandare all’Impero conquistare). Bisognava per il figlio più anziano, il mio babbo, trovare un lavoro e magari studiare qualcosa ma restando al paesello. Il lavoro arrivò da garzone dal barbiere e intanto il babbo studiava tromba. Poi financo spagnolo. Aspettando il concorso in ferrovia. Con un certo impegno anche in campi di periferia dove verso sera tirar calci ad una palla, ora vera, ora fatta di stracci.

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Con i primi soldi l’acquisto del Garelli mosquito, propulsore ausiliario o, per il volgo, motorino da applicare alla bicicletta e via, dalla morosa in campagna. Andavo a trenta all’ora per veder la bimba mia. Quaranta chilometri circa da Fiorenzuola alla Val Chero, fino a casa Barilli, di lì a destra, attraversare il fiume e su in collina col vento tra i capelli, il sorriso sul volto, il cuore in subbuglio fino a case Bora.

Dove aspettava mammà con i suoi riccioli neri. E soprattutto Giovanni, il fratello di mammà. Aspettava la bici col mosquito per salutare papà, saltare in sella e via verso la valle, via a donne. Scambi di favori tra ruspanti giovinotti futuri cognati. Giovanni, tutto spettinato, tornava a sera, senza dimenticare di far miscela. Ma sbagliando due volte su tre invece della miscela faceva il pieno di benzina pura. Così papà fischiettando tornava a casa col mosquito che filava come un razzo. Ed eran problemi di Giglio, il fratello meccanico che, ogni volta, doveva aprire il motorino e pulire tutto invano chiedendo “o Fabio, ma fatti la morosa qui nel paesello”.

La voce della nostalgia, i ricordi che sanno scaldare il cuore, che ti danno la forza di superare quei sogni che tali devono restare, sapendo che comunque la vita è tutta un sogno. Dal tavolino su via dei Mercanti di Milano chiudo gli occhi, la sedia volteggia nell’aria, mi porta in alto oltre i tetti, oltre le nuvole, prendo per mano il sogno che vive nel cuore, “vedi quella casa lassù, tra le colline, tra i vigneti e i prati in fiore?” “Quella casa color verde pisello?””Già, quella era la casa dei miei nonni, lì mia mamma è stata murata  nel sottoscala per non cadere nelle mani e nei letti dei mongoli in divisa nazista, lì il mio babbo arrivava sollevando polvere col mosquito e mio zio salutando allegro ripartiva”. Ancora: “in quella casa ho portato Marilena, la figlia del Sindaco coi miei cugini contadini che raccogliendo grano sotto il cappello nascondevano sornione il sorriso e per finire, nell’ultima estate prima d’essere vendure tra quelle mura i primi vagiti di Fabrizio neonato“.

Sorrisi di donna, cosa non si farebbe per un sorriso di donna, balossi d’un babbo e d’uno zio che m’avete insegnato la felicità anche solo per un sorriso della donna che sa farti sognare il cuore.

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Sferragliando il treno riparte dalla Centrale. Stavolta non è un cigolante pendolare, stavolta viaggiamo su un lussuoso InterCity con l’aria condizionata. Papà e mamma commentano, si raccontano della giornata, parlano a voce alta, papà è un po’ sordo. Non si parla a voce alta, sui treni dei signori, non è à la page. Ma loro sono anziani. Loro può, il mondo è ormai nelle loro mani.

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Ll’ammore

LL’ammore e’ comme fosse nu malanno

ca, all’intrasatta, schioppa dint”o core

senza n’avvertimento, senza affanno,

e te po’ ffa muri’ senza dulore.

[ foto e versi dal blog  alessandra73italy.spaces.live.com/default.asp… ]