“La vendetta dello scorpione”, un racconto di Alberto Zanini (dal blog ‘I Gufi Narranti’)

Prologo

Il sole invernale non riusciva a scaldare l’aria frizzante del mattino. Nella grande piazza una donna si aggirava fra i banchi del mercato con calma, fermandosi ogni tanto a guardare la merce esposta.

E’ lei, sono sicuro che è lei

Come fai a saperlo?”

Ti dico che è lei, quando le siamo passati vicino, ho sentito una sensazione di disagio”

La ragazza, continuava a fissare la donna che si era fermata davanti ad un banco e discuteva con il venditore.

E’ una occasione unica trovare uno di loro da solo. Di solito girano in coppia>> continuò la ragazza

E cosa vorresti fare?” chiese l’uomo con la barba.

Dovremmo approfittarne

Nel frattempo la donna si diresse verso una stradina laterale. La ragazza e l’uomo con la barba la seguirono a debita distanza senza perderla di vista. Quando si trovarono in una via, piccola e deserta, la coppia si avvicinò con discrezione, la ragazza superò la donna e pochi metri dopo fingendo un malore si accasciò a terra.

La donna si chinò verso la ragazza chiedendole cosa fosse successo, questa iniziò a fissarla e le pupille divennero verticali ed ellittiche e anche il viso si trasformò in una testa di serpente.

Fu l’ultima cosa che la donna vide perché, sebbene percepisse il pericolo, non fece in tempo a reagire. L’uomo con la barba, che si era avvicinato silenziosamente, con una corta spada le recise di netto la testa che cadde con un suono secco, accompagnata da un violento zampillo di sangue. Il corpo della donna, mentre si afflosciava a terra, si trasformò in centinaia di piccoli scorpioni che, come impazziti, presero tutte le direzioni disperdendosi nella via.

Qualche giorno dopo

La città, cinta da alte mura, era avvolta da una densa nebbia che attutiva i pochi rumori della sera. Una grande piazza sorgeva su un promontorio e al centro svettava l’alta Rocca Eburnea.

Quattro vie tortuose e strette, corrispondenti ai punti cardinali, scendevano verso le porte della città.

Quella notte due ombre scure si spostarono reggendo fiaccole tremolanti. Giunti nei pressi della porta sud un sommesso fischio si perse nel silenzio. Dal corpo di guardia uscì un militare tarchiato e con un ventre prominente, che caracollando andò incontro alle due figure con il mantello.

“Maestro…”

Silenzio Prando, niente nomi” disse la voce da sotto il cappuccio, dimostrando di conoscerlo.

“Mi scusi” rispose questo con aria contrita.

Apri il portone” ordinò l’uomo, con voce bassa e perentoria.

La guardia aveva gli occhi perennemente in movimento, lo sguardo sfuggente e il naso bitorzoluto e senza rispondere rientrò nel corpo di guardia, uscendone un attimo dopo in compagnia di un giovane militare allampanato dallo sguardo perso e addormentato, che a fatica fece scorrere un lungo chiavistello arrugginito che con stridore si spostò all’interno degli anelli fissati sui battenti. La porta si aprì rivelando due sagome che silenziosamente varcarono la soglia e si accostarono agli altri due incappucciati. L’uomo, che aveva intimato di aprire, lanciò una moneta verso il militare, che con un ghigno scoprì la bocca rivelando i denti guasti e neri, il quale la raccolse al volo facendola sparire in una tasca.

La campana batteva tre rintocchi quando le quattro sagome scure imboccarono la stretta strada che saliva verso la piazza, infrangendo il silenzio della notte con lo scalpiccio dei loro passi.

Il militare dopo aver guardato a destra e a sinistra rientrò nel corpo di guardia.

Da una porta socchiusa della via apparve, nel buio, una mano che riversò il contenuto di un secchio sulla via. Piscio ed escrementi ammorbarono ulteriormente l’aria già fetida.

Io e Rebecca, appena ricevuto il tuo messaggio ci siamo messi in cammino, ma non sappiamo il motivo di tutta questa urgenza“, mormorò Folco

Sveva è morta in un agguato e Orlando ha bisogno di una nuova compagna“, rispose Ranieri che all’improvviso si fermò, con tutti i sensi all’erta, subito imitato dagli altri. Nel silenzio alzò lentamente una mano, per avvertire di fare attenzione, e si mise a scrutare il buio cercando di percepire ogni più piccolo rumore. L’aria era immota e il tempo sembrava essersi cristallizzato. Il gruppo percepì un leggerissimo fruscio, dalla spessa nebbia apparve qualcosa che strisciava sibilando. Subito dietro ne apparvero altri due. Erano tre grossi serpenti che avanzavano sinuosamente facendo saettare la lingua biforcuta. Senza indugio, presagendo il pericolo, Tessa, si tolse il mantello, subito imitata da Ranieri, si piegò in avanti poggiando le mani a terra emettendo un sommesso rumore stridente. La testa si coprì immediatamente di uno strato chitinoso che andò a formare il carapace, la mutazione continuò con l’addome e le 8 zampe. Nell’estremità inferiore del corpo apparve una coda che crebbe rapidamente in cinque segmenti, terminando con un pungiglione che sferzava l’aria minaccioso. I tre grossi serpenti, non aspettandosi una reazione così immediata si fermarono indecisi. La mutazione conclusa rivelò due enormi scorpioni che si avventarono sui serpenti e con movimenti fluidi e veloci vibrarono dei colpi di coda in rapida successione, i pungiglioni penetrarono nei corpi dei rettili che rimasero paralizzati, mentre il terzo scappò perdendosi nel buio della notte.

Credo che ci stessero aspettando” disse Folco.

Tessa e Ranieri ripresero le loro sembianze ed il gruppo continuò, con cautela finché non giunse davanti ad un portone mentre dal buio emersero altre due figure incappucciate.

Ecco Orlando” disse Ranieri indicando le ombre che si avvicinavano, mentre con una strana chiave di ottone apriva il portone rivelando un cortile. Il gruppo si perse nel buio, appena rischiarato dalla fiaccola, dell’interno del palazzo.

Un pavimento a mosaico e lo scalone di marmo erano la testimonianza della ricchezza del proprietario. Al centro sorgeva un grande pozzo circolare illuminato da candele disposte lungo il bordo. Salirono fino al piano superiore dove entrarono direttamente in un salone illuminato da torce appese ai muri. Alcune porte chiuse conducevano al resto dell’abitazione.

Svelarono i loro volti togliendosi i cappucci, sganciarono le fibule che tenevano chiusi i mantelli che appoggiarono sul tavolo al centro della stanza.

Questa è Bianca” disse Orlando indicando la donna che lo accompagnava.

Le hai spiegato in cosa consiste la cerimonia?” chiese Folco

So tutto e sono d’accordo” rispose Bianca

Ranieri dispose delle candele attorno ad un grande tappeto e quindi le accese.

“Spogliati completamente”

Bianca si tolse la pelliccia smanicata, sciolse la cintura di lino che le cingeva la vita, si sfilò la colorata camicia aderente e la gonna a pieghe, stretta da una fascia sotto il seno, si tolse le scarpe basse di cuoio e quindi fece scivolare le calze, rimanendo completamente nuda.

Da un mobile, Ranieri, prese due scatoline di legno e un’ampolla di vetro contenente un liquido ambrato. Aprì la scatola più piccola, contenente delle palline scure e morbide, ne prese una e la diede a Bianca. “Mastica lentamente” le disse, poi prese l’ampolla, tolse il tappino e la porse ancora alla ragazza “Bevi e sdraiati sul tappeto

Attesero qualche minuto che la droga facesse effetto, Bianca si rese conto di perdere il controllo dei riflessi che rallentarono visibilmente, sentì la temperatura corporea aumentare e si sentì invadere da una strana euforia che accompagnava momenti di veglia a quelli di incoscienza. Ranieri aprì l’altra scatolina rivelando il suo contenuto. Uno scorpione si muoveva al suo interno.

Attu Croli Reto Scata” pronunciò l’uomo lentamente scandendo bene le parole mentre prendeva lo scorpione per la coda e lo consegnava a Bianca. La donna lo prese e lo avvicinò al viso. La stanza era avvolta dal silenzio e il fuoco delle lanterne alle pareti tremolava leggermente proiettando luci sul corpo della donna e sul viso dei presenti. Bianca tenendolo per la coda aprì la bocca e vi introdusse la testa , le chele e parte dell’addome dello scorpione. Chiuse la bocca e con i denti frantumò il carapace. Masticò e deglutì il boccone, quindi ingoiò il resto dell’animale. Poco dopo fu scossa da violente convulsioni, inarcò la schiena mentre la testa ruotava a destra e a sinistra con violenza.

Amrak Sseto Tucca Proipo dissero all’unisono gli astanti che assistevano in trance. All’improvviso la ragazza rimase immobile, la respirazione si fermò per qualche secondo finché ebbe un violento conato di vomito, aprì la bocca ed espulse un grosso grumo nero di saliva viscosa e piccoli pezzi di scorpione. Bianca emerse dagli abissi neri e cupi in cui era sprofondata. Parte dei disegni degli animali e dei nudi femminili del tappeto erano impiastricciati di vomito. La ragazza, visibilmente provata, cercò di rimettersi in piedi aiutata da Orlando che, mentre la sosteneva con il braccio, le disse: “Adesso fai parte della fratellanza” Bianca fece scorrere lo sguardo su tutti i presenti e un pallido sorriso comparve sul suo volto.

“Orlando adesso ha una nuova compagna” disse Ranieri guardando tutti negli occhi. Erano tre uomini e tre donne, diversi fisicamente, ma con un unico sguardo; vuoto, freddo, predatorio. L’uomo, che sembrava essere il capo riconosciuto da tutti, continuò: “Anche se non esiste un culto ufficiale e tutti sono tollerati ed accettati, dobbiamo stare molto attenti e non attirare assolutamente l’attenzione. Conto sulla vostra discrezione, ne va della sicurezza di tutta la nostra fratellanza. Abbiamo altri fratelli in città. Alcuni in posti strategici. Avete visto nel corpo di guardia della porta sud che abbiamo Prando che controlla. E’ uno fidato” Ranieri fece un attimo di pausa, quindi proseguì: “Ormai è molto tardi, per stanotte rimarremo tutti a dormire qui, le stanze non mancano per fortuna, domani mattina presto Folco e Rebecca torneranno da dove sono venuti mentre Orlando farà vedere a Bianca la sua nuova casa”

Al mattino la nebbia notturna si era dissolta, come neve al sole, e le luci del giorno svegliarono la città.

Sei persone uscirono con discrezione dal palazzo e dopo essersi salutati, due si incamminarono verso la porta sud, mentre gli altri presero la direzione della piazza principale dove sorgeva la Rocca.

Lungo la strada incontrarono un uomo con una tunica lunga fino ai piedi, lacera e sudicia, che gesticolando ripeteva: “Sono ovunque, moriremo tutti, nessuno ci potrà salvare”. L’uomo con gli occhi spiritati aveva una barba lunga e incolta sulla quale si posavano gli schizzi di saliva. Alcune persone lo guardavano con curiosità, mentre altre lo scansavano infastidite. Una ragazza con i capelli scuri camminava lungo il muro e guardava di sottecchi l’uomo con la barba, che si fermò fissando intensamente Ranieri. I quattro continuarono il cammino verso la Rocca Eburnea senza fermarsi, mentre il predicatore si girò e continuò a guardarli intensamente. Quindi proseguì nel cammino. Anche la ragazza prese la stessa direzione.

Qualche giorno dopo Ranieri, Tessa, Orlando e Bianca dopo aver varcato, in uscita, la porta est seguirono una stradina di campagna e dopo un paio di chilometri si trovarono di fronte al mare. Sugli scogli sorgeva un faro che sembrava abbandonato.

“Un nostro “fratello” ha saputo che Sveva è stata uccisa colpita alle spalle da uno con la barba. Il testimone ha visto anche una donna che si stava trasformando in qualcosa di orribile, ma non ha saputo raccontare altro perché era molto spaventato” raccontò Orlando

“Un uomo con la barba?” ripeté Ranieri pensieroso. Tutti ebbero lo stesso pensiero. Il predicatore con la barba incontrato qualche giorno prima.

“Non possiamo essere sicuri che si tratti della stessa persona” sostenne Tessa “ma quell’uomo mi ha procurato strane sensazioni”

“Anche a me” rincarò Ranieri “Brutte sensazioni”

Tutti e quattro fissavano, in silenzio, l’orizzonte, mentre la risacca del mare accompagnava i loro pensieri.

“Non sappiamo chi sia stato ma è chiaro che questo assassinio infrange la pace che risaliva alla notte dei tempi” disse Ranieri

“Era un tacito accordo che conveniva a tutti, finché le fratellanze restavano lontane le une dalle altre” rimarcò Orlando “Non ci siamo accorti che ‘Loro’ sono tra di noi e adesso hanno svelato le vere intenzioni. Ho mandato Sveva da sola in giro. E’ una leggerezza della quale non mi perdonerò mai, ma se è la guerra che vogliono, io sono pronto” concluse Orlando

“Vendicheremo Sveva” sentenziò Ranieri

“Vendicheremo Sveva” gridarono gli altri con lo sguardo rivolto verso il mare, che rispose mugghiando rumorosamente.

Una settimana dopo l’uomo con la barba e una ragazza furono avvistati, vicino alla locanda “Il corvo nero”.

I quattro decisero di controllare la zona accuratamente, e due giorni dopo Tessa individuò la coppia. Per non destare sospetti mantenne il proprio passo e quando fu abbastanza vicina agganciò il loro sguardo accorgendosi della trasformazione delle loro pupille.

Allarmati, l’uomo con la barba e la ragazza, si fermarono visibilmente turbati.

“E’ una di loro” disse la ragazza

“Si, hai ragione Savia, ed è da sola”

“Sarà facile come l’altra volta Giacomo”

I due incominciarono a seguire Tessa, che, con calma, proseguì nel suo cammino prendendo la direzione della porta nord. Di sottecchi si accertò di essere seguita e dopo essere uscita dalla città si diresse, aumentando sensibilmente il passo, verso il faro.

Quando la strada divenne deserta Giacomo e Savia, che attendevano il momento ideale per attaccare ridussero la distanza da Tessa, che senza voltarsi continuava spedita verso la sua meta. Intanto, la coppia non si accorse che un uomo, con il mantello scuro, li seguiva a sua volta.

Il faro apparve come un’ombra nel buio della sera e Tessa prese risoluta la sua direzione e abbandonata ogni riserva, si mise a correre subito imitata dalla coppia. La donna in fuga fece gli ultimi metri stremata e boccheggiando, mentre gli inseguitori si avvicinavano pericolosamente. Tessa giunse davanti al faro, con mano tremante aprì la porta e velocemente entrò.

Giacomo e Savia, quando videro la donna entrare nel faro, si fermarono affannati per la corsa cercando di recuperare le energie.

“Potrebbe essere una trappola” disse l’uomo

“Faccio il giro per controllare che non ci siano altre uscite” rispose Savia

Si sentiva solo l’infrangersi delle onde sugli scogli, e quando la ragazza completò il giro del faro decisero di entrare.

La bassa temperatura rallentava vistosamente la mutazione dei due corpi. Abbassarono la maniglia della porta, e dopo averla aperta lentamente varcarono la soglia. Il buio era quasi assoluto, solo contro una parete si vedeva un pallido alone rettangolare di luce proveniente dal finestrone in alto. Si trovarono in un grande ambiente circolare con alla destra una scala a chiocciola che conduceva al faro.

Un campanello di allarme continuava a squillare nella testa di Giacomo che si rese conto di essere stato uno sprovveduto. Era caduto in una trappola. Capiva di avere di fronte dei predatori notturni abituati a cacciare con l’oscurità.

Il buio era quasi totale, Giacomo percepiva delle presenze, quando si sentì sollevare da terra. Protese le mani e toccò una dura corazza che si era insinuata sotto le ascelle. Erano le chele di un enorme scorpione, che mosse veloce la coda. Un fruscio inquietante annunciò a Giacomo l’arrivo di una violenta frustata che lo colpì in viso e subito dopo sentì una fitta dolorosa. Il pungiglione era entrato in profondità rilasciando il veleno che lo paralizzò.

Savia che era dietro percepì il pericolo, si buttò per terra e rotolando riuscì ad evitare l’attacco degli scorpioni. Anche lei non era riuscita a mutare aspetto per il freddo, però muovendo la lingua rapidamente cercava di percepire l’odore del nemico.

Intanto l’uomo immobilizzato era attaccato dallo scorpione. La pelle e la carne del collo cedettero alla forte morsa delle chele. Nel buio la ragazza sentì lo sgradevole rumore di carne lacerata e l’uomo perse il controllo degli sfinteri. La testa spiccò dal busto di Giacomo e schizzi di sangue piovvero addosso a Savia. La ragazza capì che in quello spazio chiuso ed angusto non aveva scampo, si alzò in piedi e corse verso la porta, che riusciva ad intravvedere nel buio, e dopo averla spalancata si precipitò all’esterno. La luna proiettava una striscia luminosa sul mare che s’infrangeva placido sugli scogli.

Savia si mise a correre verso la città ma dopo pochi metri si trovò davanti l’uomo con il mantello che le sbarrava la strada verso la salvezza. Maledisse il momento quando, con Giacomo, decisero di seguire la donna, ma ormai sapeva che era tardi recriminare. Si girò verso la costruzione che si stagliava nel cielo notturno. Vide altre tre persone che le venivano incontro. Sentì l’alito caldo di uno sul collo e una sottile lama che s’infilava tra le sue scapole dall’alto verso il basso fino a raggiungere il cuore. Cadde in avanti e quando la faccia toccò terra lei non c’era più.

Vendetta era stata chiamata e vendetta era arrivata.

I quattro guardarono il corpo della ragazza steso per terra, quando improvvisamente si senti uno sparo. Si voltarono verso il rumore. Tutti tranne Ranieri che divenne terreo e lentamente si mise una mano sul torace. L’uomo volse lo sguardo verso la sua compagna, consapevole di farlo per l’ultima volta e cadde in ginocchio. Quindi venne il buio. Quando il corpo toccò terra si trasformò in centinaia di piccoli scorpioni che fuggirono in tutte le direzioni.

Si senti un secondo sparo.

Prando, con una pistola fumante in mano, guardava il corpo inanimato a terra della giovane guardia allampanata che stringeva un fucile e guardava il cielo con gli occhi velati.

Tessa, Orlando e Bianca quando passarono accanto al cadavere del ragazzo videro le sue pupille ellittiche in verticale.

Alberto Zanini

Racconto ” La vendetta dello scorpione ” scritto da Alberto Zanini e pubblicato nella raccolta di racconti “I mostri non mangiano seitan” Sensoinverso Edizioni Luce nera 2018

“Facciamo Arte, no guerre”, Claudio Arzani, poeta, domenica scorsa a Mortizza

Non è facile fare poesia dal palco d’una festa popolare. Con gli avventori che stanno a mangiare, a conversare, chi di politica, chi sta ad osservare dove s’intrufola quel cane lupo in libertà, chi aspetta la musica folk d’autore, chi racconta del nipotino nascituro e chi espone la bambinella che sorride, a tutto pensano men che ascoltare poesia. Di suo un fatto di nicchia, la poesia, di massima riservata a pochi, tutto ma non certo popolare. Almeno quei versi che ci  propinano che ci raccontano a scuola, spesso di difficile comprensione, che studiamo a memoria per poi odiarli per il resto della vita. La poesia non è popolare, o quantomeno non certo lo é nell’ambito d’una festa popolare.

 

Del resto, ho sentito affermare, la poesia non va capita, non va nemmeno ascoltata, la poesia va vissuta. Cosa voglia dire, non saprei che dire. Sta di fatto che dall’alto delle cattedre i professori sbavano e vanno in visibilio ma tra i banchi c’è chi trattiene a stento lo sbadiglio. Ricordo Francesco Bonomini. Venne ad ascoltarmi per dovere d’amicizia e alla fine disse “di solito non mi piace la poesia, non la capisco. La tua la capisco” e da quel giorno spesso è venuto alle mie rap-presentazioni unendo ai versi le sue musiche, le sue ballate. La poesia è un tuttuno con la musica e i poeti erano detti, nei tempi andati, cantori. Poi vennero i trovatori, gli chansonnier, i girovaghi che passavano di strada in strada, di cascina in castello a raccontare con i loro versi per la gioia del popolo contadino le gesta epiche dei cavalieri della tavola rotonda. Ma da tempo tutto questo non è più e le liriche amate dai professori e dagli intellettuali sono ignorate, non capite, non lette (se non a scuola per costrizione), men che meno acquistate dal popolo e ben che vada giacciono negli scaffali delle librerie ignorate evitate dai più.

Non è facile esibirsi, salire i tre scalini che portano sul palco, affrontare una platea che sai aprioristicamente poco (ed il poco é un generoso eufemismo) coinvolta. Ma forse ha aiutato il temporale improvviso. Alle 20, dopo una giornata di umidità e caldo afoso, una specie di nubifragio si è abbattuto su Piacenza e zone limitrofe, compresa la frazione di Mortizza dove era in corso la 2^ festa provinciale di Sinistra, Ecologia, Libertà. Immaginavo quindi il fuggi fuggi generale, le panche rovesciate, i tavoli con piatti e bicchieri sparpagliati, in pratica il deserto salvo i soliti organizzatori.

 

Niente di tutto questo, grazie al fatto che la Cooperativa che ha messo a disposizione lo spazio è ben attrezzata con un tendone che garantisce la cena al coperto. Peraltro dopo una ventina di minuti il nubifragio ha girato verso altri lidi e la festa è continuata, sia pur con non più d’una cinquantina di presenti. Forse anche questo ha aiutato, tutto sommato il numero ridotto ha favorito l’esibizione, l’impianto voce era all’altezza e Antonio Amodeo, che subito dopo avrebbe suonato con Erika Opizzi, si è offerto di sostenerci, d’accompagnare 3 delle 8 poesie selezionate, con improvvisazioni musicali.

Io, Dalila in veste di lettora, Roberto Bassi che ha virtualmente indossato la divisa di ufficiale SS per recitare in apertura con Dalila ‘E che venne alla donna del soldato?’ di Bertold Brecht. A seguire le mie poesie contro la guerra. Ad un certo punto la bandiera del fate l’amore, non la guerra. E in diversi hanno iniziato a seguire il no alla guerra, la verità che non ci insegnano a scuola: in guerra semplicemente si muore. Tantomeno esiste una ‘parte’ giusta, ogni esercito si è macchiato di nefandezze. I nazisti nei campi di sterminio, i russi invadendo la Polonia in accordo con Hitler e massacrando a Katyn 8000 ufficiali prigionieri, gli italiani per nulla brava gente per il gas utilizzato da Graziani, gli americani e i francesi con le marocchinate a Montecassino, i partigiani della divisione Garibaldi per l’esecuzione dei partigiani di Giustizia e Libertà al confine con la Yugoslavia.

 

Così in diversi hanno cominciato a garantire attenzione, cambiando posizione a sedere, volgendo lo sguardo al palco, ascoltando.

 

La guerra è guerra. Coinvolge non solo i soldati. Anzi: l’esercito che va allo scontro frontale rischia di non portare a casa nulla. Colpire i civili invece fa terrorismo, annichilisce l’avversario, colpisce le mamme, le nonne, i bambini, gli asili, le  scuole, gli ospedali. La guerra criminale. Ricordate le immagini dei bombardamenti sulle città dell’ex Yugoslavia, sulle città dell’Iraq? Non ce li fanno più vedere, in televisione. Per tacere dei bambini fatti a pezzi, delle case abbattute, delle chiese, delle moschee, delle donne, degli anziani. Così è nato e si sviluppa l’ISIS.

 

A questo punto un uomo, che certo aveva bevuto, si è alzato dal tavolo dove stava, “già i bambini muoiono di fame e invece questi fanno l’Expo!” e indignato se né andato.

 

Non è facile rap-presentare stando sul palco d’una festa popolare nello spazio messo a disposizione da un compagno d’altri tempi, il Presidente d’una vecchia cooperativa in una frazione quasi di zona golenale, vicino al  Grande Placido Fiume. Grazie al cielo niente zanzare ma queste non sono più zone operaie, zone proletarie. Forse non esistono più gli operai e men che meno le zone proletarie salvo qualche anziano ormai ‘reduce’ d’un’altra società, di una città, di fabbriche ormai chiuse, di un passato ormai andato. Ma questa è una fortuna. Anziché 200 persone abbiamo di fronte, giù dal palco, una quarantina di vecchi compagni, nostalgici o semplicemente coraggiosi che hanno saputo affrontare il rischio del ritorno della pioggia, il vociare di chi non ascolta, di chi mangia disinteressato via via va diminuendo e diversi ascoltano.

 

Non è facile rap-presentare, ci sono momenti difficili, anche un paio di poesie lette senza convinzione ma arriva la storia degli anni cinquanta, del mio papà che saluta a pugno chiuso, che in ferrovia distribuisce volantini del partito, che è solidale con i colleghi nuovi arrivati immigrati dal Sud, che non perde uno sciopero perché i lavoratori devono stare uniti altrimenti perdono sempre e alla fine l’omaggio alle donne di Mortizza vestite delle lunghe gonne ricamate di fiori. Meritano, incredibile, l’applauso e l’emozione della lettora, del cantore, dell’ufficiale SS sale alle stelle.

 

Le parole, a volte, in zona quasi golenale di solito regno di zanzare elicottero, sanno parlare al cuore della gente. E questa é poesia.

Piacenza: onore a Mario Cravedi, già deputato PCI, Presidente A.N.P.I. ( 2 )

Anni difficili. Anni settanta. Il PCI, per tanti, non era più l’opposizione alternativa al sistema di potere democristiano. Era ormai esso stesso potere. Al potere nei Comuni, nelle Province, nelle Regioni istituite nel 1970. Un pachiderma ormai colluso col sistema capitalistico, traditore delle istanze operaiste dell’autunno caldo. Addirittura il Segretario nazionale, Enrico Berlinguer, perseguiva la linea del compromesso storico, l’incontro con il BiancoFiore, la Balena Bianca, l’ingresso nella stanza dei bottoni, al governo del Paese. Altolà al revisionismo, altolà alla svendita in cambio di qualche poltrona di sottogoverno dei valori e degli interessi della classe lavoratrice. No, quel PCI non rappresentava la voglia di cambiamento di una larga parte degli italiani orientati a sinistra. Soprattutto dei giovani figli degli operai, quegli operai che nelle fabbrche avevano fatto il ’68 mentre gli studenti figli della benestante borghesia illuminata avevano manifestato nelle scuole e nelle università all’epoca riservate a loro. Dieci anni dopo. I figli non più della borghesia ma degli operai che avevano avuto il diritto allo studio ma non certo le porte aperte nel mondo del lavoro, appannaggio come sempre dei benestanti figli della borghesia, passati dalla protesta all’occupazione dei posti di potere. Giovani arrabbiati, consapevoli, che non ci stavano a stare disciplinati ad aspettare il loro turno, che volevano dir la loro e lo dicevano a modo loro. Da figli di lavoratori, non da benestanti figli di avvocati, di notai, di medici, di dirigenti d’Azienda come quelli  che avevano fatto il ’68 a Valle Giulia in giacchetta, pantalone ben stirato e cravatta. Fantasia al potere e, quanto a fantasia, non era certo il PCI della cultura monolitica a brillare. Così, laddove la fantasia veniva soffocata dal più grande Partito comunista dell’Occidente nel nome degli interessi d’una classe operaia che ormai aveva poche visioni comuni con i suoi giovani figli entrati nelle fabbriche con una ben diversa prospettiva di vita e di ruolo rispetto ai padri o magari nel frattempo laureati, trovavano spazio i cortei duri, gli espropri proletari, le armi. Fantasia, indiani metropolitani, streghe ritornanti e, anche, scontro armato. Circoli sociali, nuovi centri di aggregazione autogestiti, autonomia operia. Un’Italia ben rappresentata dalla copertina di Der Spieghel: piatto di spaghetti condito con P38, la pistola dello scontro armato di piazza delle frange violente dell’Autonomia Proletaria. Durissimo il PCI contro chi aveva osato cacciare Luciano Lama, gran capo della CGIL colluso con la logica del compromesso storico, dall’Università. Di tutte l’erbe un fascio: inaccettabile tutto il Movimento. Alla grande manifestazione di dibattito organizzata dal Movimento per tre giorni a Bologna, il PCI aveva risposto chiudendo tutte le sue sezioni. Ma, in questo modo, dicevamo noi giovani socialisti, si spingono inevitabilmente tutti questi ragazzi, questi compagni, verso l’eversione, verso i suadenti richiami flautati della lotta armata e del terrorismo. Così, a Bologna, nei tre giorni di dibattito sul futuro della sinistra movimentista, avevamo aperto tutte le nostre sezioni. Queste le posizioni che ci dividevano. Dialogo e apertura da parte socialista, scontro duro da parte del monolite PCI. A Piacenza, in fondo dorata provincia marginale e benestante, non si sparò un colpo che fosse uno ma furono diversi i cortei transitati in via Chiapponi lanciando slogan (eresia!) sotto le finestre della sede della federazione provinciale del PCI. Con i funzionari comunisti che, dalle finestre, realizzavano servizi fotografici immortalando i capi della protesta. Creando, accusava il Movimento, piccoli dossier secondo metodologie degne della Digos e delle schedature da parte dei questurini (“via, via la nuova Polizia“, era uno degli slogan prediletti lanciati contro i militanti comunisti). Per fortuna (può sembrare paradossale ma così è stato) le Brigate Rosse pensarono di rapire Aldo Moro iniziando un vero e proprio processo al sistema con le ‘confessioni’ estorte al massimo esponente del potere DC puntualmente rese note con comunicati e volantini ai quali veniva data massima diffusione. Quella, fu la svolta. Buona parte del Movimento prese le distanze, all’insegna dello slogan “nè con lo Stato nè con le BR” e fu quello il fallimento del progetto eversivo, l’abbandono dello scontro duro da parte di centinaia, di migliaia di giovani. Quello fu il momento nel quale ci si ritrovò, partiti tradizionali e nuovi movimenti, nella stessa piazza. Certo, non senza diffidenze e molto nervosismo (Moro era sempre prigioniero e si dibatteva, con toni accesi, se trattare o meno con le Brigate Rosse riconoscendone o meno il ruolo politico combattente). Questo era lo scenario di quel 1° Maggio 1978 nel quale si festeggiava, a Piacenza come nel resto del Paese, la festa del lavoro. Una giornata che non ha avuto la fortuna d’un tempo clemente: prima dell’inizio del comizio iniziò a piovere, ci spostammo sotto i portici di Palazzo Gotico. Il gruppo del PCI si trovò di fronte al gruppo del Movimento Lavoratori per il Socialismo (MLS), nato da una costola dello storico Movimento Studentesco, spesso alla guida dei cortei di protesta che riempivano via Chiapponi. Non correva certo buon sangue, un pò come tra cani e gatti, qualche pelo arruffato, qualche sguardo torvo, qualche ringhio, un ringhio che tira l’altro, le prime parole grosse, un clima di tensione sempre più alto. Un istante prima dell’ormai inevitabile scontro, con i ragazzi del M.L.S. che brandivano minacciosamente le aste delle bandiere (in realtà manici di picconi), noi giovani socialisti ci buttammo di mezzo costituendo una doppia linea di separazione. Fu in quel momento che Mario Cravedi (all’epoca, credo di ricordare, capogruppo PCI nel Consiglio comunale del Sindaco PCI Felice Trabacchi), naturalmente in testa ai rappresentanti comunisti, di fronte a quel balenare di manici di piccone (che non riuscivano a colpire nel segno per la nostra presenza), Mario, convinto con questo di agire a difesa della democrazia contro metodi (i manici di piccone) che, invece, ben poco avevano a che vedere  con la democrazia del confronto magari aspro ma pacifico, reagì allo svolazzar dei già detti manici di piccone cercando di portare a segno sulla testa del emmeelleessino che aveva di fronte una sana e sonora ombrellata. Ma, dato l’ostacolo di noi giovani socialisti, mancò il colpo. Quell’ombrellata finì sulla mia testa di separatore con intenti pacificatori. Perchè, come spesso succede, tra i due contendenti è il terzo incomodo che le prende. In ogni caso quell’ombrellata quietò gli animi, anche per la brutta rappresentazione di sè che, nel giorno di festa, aveva mostrato la sinistra nel suo insieme. Non credo che l’episodio sia diventato leggenda. Non ne ho più sentito raccontare. Fino a qualche anno dopo. Nella allora sezione PSI di via Bianchi, a Piacenza. Sezione ‘Luigi Rigolli’, partigiano socialista. Si discuteva della scelta di abbandonare l’alleanza di sinistra. Il Sindaco socialista degli anni ’80, Stefano Pareti, succeduto a Felice Trabacchi alla guida dell’alleanza PCI-PSI, stravolgendo la sua adesione alla sinistra lombardiana, si faceva promotore dell’alleanza pentapartitica. Ritorno della DC in amministrazione comunale. No, non potevo certo seguirlo come del resto nulla avevo a che vedere con il montante craxismo che ci allontanava dalla prospettiva del governo di alternativa, il governo delle sinistre. Fu Nene Massari, segretario di sezione, a sbottare, rosso in viso: “ma come, proprio tu li difendi (i comunisti, ndr), tu che hai preso una bastonata in piazza!?!”. Beh, caro Nene, quell’ombrellata (non bastonata) è stata casuale e comunque espressione di un confronto acceso ma comunque all’interno della sinistra. Oggi che il compagno Onorevole Mario Cravedi ci ha lasciati, mi resta un rammarico. Non aver avuto l’occasione di parlare di quei giorni, di valutare quei momenti rispetto agli anni che sono seguiti. Del resto però quella era e tanto più è acqua passata, l’Italia è radicalmente cambiata, superati gli anni di piombo e Mario, nell’Italia che cambiava, ha continuato ad impegnarsi per l’affermazione dei valori dell’equità, del lavoro e della dignità dei lavoratori. Per questo probabilmente non valeva la pena risollevare il velo su un fatto ormai passato che, semplicemente, non era stato altro che il mio secondo incontro, travagliato quanto il primo, con il compagno comunista Mario, lavoratore dalla parte dei lavoratori, fedele alla linea berlingueriana dell’incontro tra PCI e Democrazia Cristiana.

“Vanno, vengono, a volte sfuggono, lasciano spazio ad altre”, dipinto a tempera, anno 2008

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[ “Vanno, vengono, a volte sfuggono, lasciano spazio ad altre” ]

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Così, inaspettatamente, il pennello ti prende la mano, prende spunto da un’idea tua e lentamente si fa rappresentazione d’una realtà o d’un essere del tutto autonomo. Lasciando l’autore stupito poiché la rappresentazione è andata ben oltre alla sua intenzione. Così definirei il dipinto targato estate dell’anno 2008, l’ottavo quadro della mia vita che arriva dopo un silenzio creativo durato tre anni (con un tentativo intermedio di realizzare un “ponte del diavolo” ad acquerello, finora rimasto incompiuto). In un pomeriggio di tiepido sole, nel silenzio della dacia, cullato dalla leggera brezza e dallo scorrere dell’acque del fiume Trebbia, nasce così “Vanno, vengono, a volte sfuggono, lasciano spazio ad altre” pensata come semplice riproduzione d’una grande nuvola intravista in cielo ed invece in breve, inconsapevolmente, diventa rappresentazione di un’anno di transizione, d’inatteso cambiamento e que serà, que serà, nessun saper potrà cosa torneranno ad afferrare quei due rami protesi al cielo. Il prodotto artistico dunque prende vita propria, sorride maliziosamente facendo occhiolino all’artista autore, solleva un velo sul suo presente, parla di ciò che é stato ed ora illumina altri sentieri per permettere altri incontri, un possibile futuro a venire che forse é già nel presente. Ma era solo un dipinto mio, la rappresentazione di quella nuvola intravista nel cielo d’una tiepida giornata di sole in riva al fiume! Nientaffatto, come ogni opera d’arte nasce da un’idea e dal pennello dell’autore ma in breve assume vita propria, autonoma e diventa patrimonio di chi in essa sa riconoscere il proprio essere. Artista compreso.

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[ Quella nuvola, un sogno meraviglioso transitato nel cielo ]

“Una nera farfalla vaga alla ricerca d’una luce”, dipinto a tempera, anno 2003

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[ “Una nera farfalla vaga alla ricerca d’una luce” ]

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Luglio 2003, nelle ore in cui Dalila é in camera operatoria per un intervento di particolare delicatezza, per l’esattezza il quarto – nell’arco di undici anni a partire dal 1992 -. Dal pennello prende forma una misteriosa creatura dalle vaghe sembianze d’una farfalla che intravede, oltre oscure vette dall’aspetto minaccioso, una parvenza di luce. Forse niente altro che un riflesso lunare, l’ultimo bagliore della luce che muore, o forse invece laggiù é la salvezza. Sospensione della sorte a venire nella mia sesta tela, dunque. Dalila invece la luce l’avrebbe rivista dopo sei ore circa ed era la luce del risveglio, l’uscita dal tunnel, dalla camera operatoria.

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Il quadro non è mai piaciuto a nessuno, ancora peggio di tutti gli altri e qualcuno ha pure sostenuto faccia anche paura. Pollice verso anche dai miei pur generosi figli che, pietosamente, definiscono i dipinti del loro padre “d’arte naif”, limitandosi a consigliarmi di studiare almeno un pizzico di tecnica.

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Per quanto mi riguarda sono particolarmente insoddisfatto della figura ed invece realizzato per il risultato finale della luce oltre le montagne che ignoro come possa essere uscita dal pennello. Comunque chi ha la ventura di entrare nella nostra piccola dacia in riva al fiume (il Trebbia, a Pontebarberino, poco prima dell’Orrido) può notarlo sopra al frigorifero, di fianco al televisore portatile, dietro alle mie carte di divinazione e a Topo Gigio, pupazzo simbolo degli amori infantili di Dalila.

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[ La creatura dalle vaghe sembianze di farfalla ]

“Rockdrillo vigila all’ingresso della verde Valle”, dipinto a tempera, anno 2005

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[ “Rockdrillo vigila all’ingresso della verde Valle” ]

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Lo confesso, nel corso della vita, sognandomi artista, mi sono dilettato con i pennelli. Tempere. Senza tecnica di base, senza adeguato addestramento, senza cognizione alcuna, nemmeno di come si ottengono i colori (vado a tentativi sovente stonando, oppure trovo e compero tubetti di colori preconfezionati, quasi niente o comunque il meno possibile fai da te). Sono otto le tele realizzate, tutte durante le vacanze estive, tra il 1988 e il 2008. Sei giacciono “conservate” in cantina e nella dacia in Val Trebbia. Una, la prima dipinta, fa bella mostra di sé in salotto con tanto di cornice grazie al valore affettivo che rappresenta (riproduce la veduta dalla finestra della casa a Biassa, sopra LaSpezia e all’inizio delle Cinque Terre, dove passammo un mese intero nell’anno della nascita di Edoardo) . L’ultima, dipinta dopo oltre dieci anni di “inattività” nel 2002, rappresenta la rocca di Brugnello, in Val Trebbia (la valle deputata per appunto alle vacanze, dove in campeggio si trova la piccola ma ospitale dacia in riva al fiume): regalata l’anno scorso ad un’amica su sua sostanziale richiesta, credo sia esposta su qualche parete a casa sua.

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Quanto al “rockdrillo vigila all’ingresso della verde Valle”, risale ad agosto 2005 e simboleggia un periodo particolarmente critico nella gestione del villaggio campeggio dove trascorro i miei dolci ritiri estivi. Dopo l’alluvione del 2000, quando il fiume ruppe gli argini, distruggendo decine di piazzole, travolgendo bungalow e roulotte, sommergendo tutto nel fango, ne è conseguito un vero e proprio conflitto familiare quanto alla gestione e alla proprietà.

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Alla fine l’ha spuntata chi, avendo a disposizione macchine movimento terra in grado di ripristinare gli argini violati, poteva permettersi di ricostruire ciò che le acque si erano portate via.

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Una persona di scarsissima sensibilità umana sicuramente poco propensa alla fantasia e alla poesia. Come ha subito scoperto quella roccia nera, di probabile origine vulcanica persa nella notte dei tempi come la montagna alle sue spalle (la Pietra Parcellara). Posta in mezzo al percorso del fiume proprio nel punto in cui disegnava l’ansa che lo portava altrove lontano dalla vista, soprannominata da qualcuno “il cappello del marajà” per la sua imponenza, veniva spesso usata per stendersi al sole da avvenenti figliole e da signore che Dio le abbia in gloria.

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Personalmente, anche quando l’alluvione aveva deviato il percorso del fiume portando quella roccia all’asciutto rendendola ancora più imponente, la vedevo come il rockdrillo, guardiano di quel che era stato il fiume e il nostro piccolo villaggio, garante insomma del ritorno alla normalità.

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La nuova proprietà non ebbe invece esitazioni privilegiando il calcolo dell’interesse economico proprio, spostando subitaneamente la roccia, utilizzandola più a valle per realizzare uno sbarramento al flusso delle acque come da appalto pubblico assegnato.

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Ora il fiume continua a scorrere come d’abitudine ma quanto al villaggio, perso quel guardiano, le presenze “fisse”, quelle a contratto annuale, sono ridotte da cento a venticinque unità.

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[ Il guardiano Rockdrillo, particolare ]

Sogni dautore: Osvalda, infermiera in pensione, una vita di lavoro, di fronte a “Idee da Brugnello”, poesia dipinta

Che cosa significa essere scrittori, poeti, in generale artisti? Una domanda spesso dibattuta nei forum dei siti letterari (vedi, ad esempio, in ozoz.it) alla quale alcuni rispondono in base allo stato delle vendite dei “prodotti” artistici sfornati: dimmi quanti libri hai venduto, dimmi quanto valgono le tue tele e ti dirò chi sei.

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Beh, in questo senso il mio valore di mercato non va molto lontano ma, a dire il vero, non è d’arte che vivo. Posso vivere l’arte per passione. Si potrebbe allora sostenere, con marginalità, escluso dai grandi circuiti che contano.

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Da dilettante, magari di talento. Son piccole, le mie cose, le mie poesie, i miei racconti. Piccole in quanto destinate a pochi, quei pochi che posso raggiungere perché vicini al mio ambiente di vita.

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Alcuni di quei pochi, però, provano emozioni, di fronte alle mie cose e riuscire a trasmettere, a far vivere, a suscitare emozioni è il massimo dei sogni di un artista e poco importa se sono pochi: il risultato è raggiunto.

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Poesie, racconti, dicevo. Ma potrei aggiungere fotografie. Dipinti.

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Nella mia vita ho “giocato”, mi sono dilettato con i pennelli in due periodi, nel 1983, quando nato Edoardo per un mese ci siamo isolati a Biassa, sperduto paesetto all’ingresso delle Cinque Terre e ancora nel 2003, in un mese passato tra i monti dell’appennino piacentino in riva al fiume Trebbia, nella dacia affittata per far correre e crescere liberi nell’ambiente naturale Fabrizio ed Edoardo.

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Sei quadri in tutto, sei tempere realizzate in assenza di tecnica, sei semplici panorami rimodellati, nelle intenzioni, con gli occhi della poesia.

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Osvalda, infermiera dello psichiatrico in pensione, marito operaio, una famiglia semplice, una vita di lavoro dedicata alla crescita delle due figlie e oggi dei tre nipoti. Quel dipinto, “Idee da Brugnello”, lo aveva definito bellissimo già tre anni fa ed io mi chiedevo se non esagerava, se mi canzonava. Ma ieri, quando è entrata nella nostra dacia per salutare me e Dalila, rivedendolo il suo sguardo s’è accesso d’ammirazione.

 

La chiesa sul dirupo che si eleva dai sassi del fiume, il Trebbia, ed una pianta dai lunghi rami priva di foglie che sembra alzare il suo urlo di dolore contro le minacce all’ambiente naturale. Nel cielo, tra le nuvole bianche, un falco libra nell’aria. Brugnello, frazione della Corte Brugnatella, appunto.

E’ bellissimo”, ha sussurrato. Nei suoi occhi ho letto emozione, ho letto la poesia che quel dipinto sapeva trasmetterle. No, non per questo tornerò a dipingere, ormai è definito che la mia arte si esprime non attraverso i pennelli ma in diversa forma.

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Certo comunque in forma semplice, capace di parlare alle persone di tutti i giorni, le persone antiche, le persone che la cosiddetta “era moderna”, quella dell’aziendalismo spinto, dell’individualismo sfrenato, dell’arrivismo senza scrupoli,  vorrebbe superate, inutili, marginalizzate. Ricordo un amico, a sua volta operaio, Francesco Bonomini, mi disse “io capisco poco di poesia, la tua però la capisco, è semplice, alla mia portata”. Per questo, a sue spese, venne a suonare, ad accompagnare con il suo organetto diatonico le mie rap-presentazioni poetiche.

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Sapere con semplicità trasmettere emozioni, entrare in sintonia con le persone del mio mondo, quello semplice, piccolo, antico, capace ancora di solidarietà, questo mi fa sentire artista. Per questo, nonostante mi chiedesse il prezzo, quel quadro ieri a Osvalda l’ho regalato. Ottenendo due baci sulle guance e poi via, se n’è andata di corsa, gongolando, felice, di corsa per al più presto “farlo vedere al mio Luigi”.