Gli indiani si sa sono sempre piene di antiche leggende riguardanti spiriti e fantasmi che abitano le loro foreste, questa è una di queste e forse la più famosa visto che questa creatura o fantasma è stato anche oggetto di numerose serie tv e pellicole cinematografiche a tema horror, ma vediamo più nei dettagli di cosa si tratta.
Il Windigo è un’entità oscura e terrificante che appunto rientra tra le antiche leggende degli indiani del Canada.
Leggenda vuole che questo spirito si annidi nelle foreste più oscure e profonde e che sia l’essenza stessa degli incubi umani.
Proprio in queste foreste il Windigo attende e osserva.
E’ un fantasma affamato che va a caccia di viandanti solitari per attaccarli e prendere possesso del loro corpo, per questo si può tranquillamente affermare che nessun altro spirito maligno ha mai suscitato tanto terrore in una popolazione.
La leggenda narra che sia uno spettro invernale che ulula al vento e trasforma il cuore delle vittime in blocchi di ghiaccio, inoltre pare che quando il cibo in inverno scarseggiasse il Windigo entrasse nel corpo del malcapitato per renderlo nervoso e asociale e farlo cibare di carne umana.
L’unico modo per sbarazzarsi di questo spettro era quello di dare fuoco al suo ospite.
Tra i suoi poteri pare vi fosse quello di attraversare la foresta al volo e di avere una forza sovrumana inoltre era in grado di uccidere un essere umano con un solo sguardo.
Massimiliano d’Asburgo Imperatore del Messico e l’Imperatrice Charlotte
Il Castello di Miramar, oggi una delle principali attrazioni turistiche della città di Trieste, è stato costruito tra il 1856 ed il 1860 per volere dell’Arciduca Massimiliano d’Asburgo Imperatore del Messico, fu da quest’ultimo poco utilizzato per l’infausto destino che la storia gli riservò. Massimiliano, fratello dell’Imperatore Francesco Giuseppe, assieme alla consorte Carlotta Principessa del Belgio, entrarono nel castello il giorno della vigilia di Natale del 1860 dopo aver dimorato per due anni nel castelletto, una residenza più piccola all’interno del vasto parco del castello. In quel tempo Massimiliano ricopriva la carica di Governatore del Lombardo-Veneto quindi non dimorava frequentemente nel castello. Nel 1861 partì per un lungo viaggio in Brasile e nel 1864 salpò alla volta del Messico dove fu incoronato Imperatore e dove il 19 giugno del 1867 fu assassinato all’età di 35 anni, barbaramente torturato e poi fucilato da un plotone al comando di Benito Juarez. Massimiliano fu quindi riportato a Trieste l’anno successivo a bordo del Novara e da qui fu condotto a Vienna per essere sepolto nella Cripta dei Cappuccini dove riposano i membri della famiglia imperiale passati a miglior vita.
La prima grande leggenda che avvolge di mistero il Castello di Miramar vuole che lo spirito di Massimiliano non abbia mai lasciato Trieste e che il suo fantasma sia solito aggirarsi ogni notte nel grande parco del castello, non avendone potuto godere in vita, a rimirare le infinite specie di piante importate da ogni parte del mondo. Molte furono nel passato le leggendarie testimonianze di guardiani ed impavidi ragazzi che sembravano essersi imbattuti in un fantasma mite e per nulla interessato a spaventare le persone dato che in vita Massimiliano amò molto la città ed i suoi abitanti e dagli stessi triestini fu molto amato. La leggenda racconta anche di strani episodi accaduti di notte all’interno del castello con luci inspiegabilmente accese, rumori ed urla. Una cosa è ben chiara ad ogni triestino: nessuno di notte si aggira nei pressi del castello e soprattutto nessuno osa dormire una notte nel castello per via dell’altra leggenda del castello ben più nota e tragicamente fornita di riscontro.
Carlotta rientrò dal Messico per cercare, invano, tra i reali europei l’aiuto necessario al consorte per sedare la rivolta dei repubblicani di Juarez e fu durante il suo pellegrinaggio a Roma dal Papa che diede i primi sintomi di pazzia. Da questa malattia non guarì mai più e da Miramar fu riportata nel natìo Belgio dove morì all’età di 86 anni il 19 gennaio 1927 dopo aver trascorso la propria vita nella tenuta di Bouchout. Prima di lasciare il castello però, la leggenda narra che Carlotta, distrutta dal dolore e dalla rabbia per quel destino crudele riservato al suo amore, maledì il castello rivolgendosi a tutte le teste coronate ed ai capi militari sposati che in futuro vi avessero dimorato:
chiunque abiterà sotto questo tetto muoia come il mo consorte: lontano dalla patria, lontano dagli affetti, di violenta morte, in peccato mortale.
La storia sembra dar credito a questo anatema visto che praticamente tutti i personaggi illustri che dimorarono nel castello sembrano esser stati perseguitati da un terribile destino morendo prematuramente in tragiche circostanze, lontano dagli affetti, quasi sempre lontano da casa e, talvolta, in peccato mortale come Rodolfo l’erede al trono d’Austria figlio di Francesco Giuseppe e Sissi.E così fin quasi ai giorni nostri.
Conclusasi la seconda guerra mondiale, Trieste divenne Territorio Libero amministrato dal GMA, il Governo Militare Alleato anglo-americano, fino al 1956. I primi a liberare la città dall’occupazione tedesca furono i soldati dell’esercito neozelandese guidati dal Colonnello Bowman il quale credette alla leggenda del castello e preferì accamparsi con una tenda nel giardino del parco antistante per una notte sola. Sarà forse un caso ma la sua vita fu risparmiata da nefasti destini.
Incuranti della leggenda che perseguita gli ospiti del castello, i generali dell’esercito americano vi si insediarono ed anche su di loro si abbatté la maledizione.
Fu così per il Generale Charlses Moore, valoroso esponente dell’esercito americano che partendo dal castello alla volta della guerra di Corea, morì in battaglia abbattuto col suo aereo sul fiume Yalu. Non fu meno nefasta la sorte del suo successore, il Generale Vernice Musgrave MacFadden che visse per molti anni nel castello organizzando anche sontuose feste e balli. Fu richiamato in patria dal presidente Eisenhower che lo voleva al proprio fianco come consigliere ma il Generale non ritornò mai negli Usa perché durante il viaggio di ritorno fu vittima di un incidente stradale mortale nei pressi di Livorno dove si sarebbe dovuto imbarcare.
Il 26 ottobre 1954 Trieste venne definitivamente annessa all’Italia, il Castello di Miramar e tutto il suo parco furono eletti a monumento nazionale e con il tempo il castello divenne un museo. Da allora sembra che nessuno vi abbia più dormito e sembra anche che nessuno abbia ancora voglia di sfidare il maleficio che sembra abbattersi sui destini degli ospiti della dimora dei compianti Massimiliano e Carlotta che non poterono mai godere appieno del loro nido d’amore.
Se andate a Trieste non perdete l’occasione di visitare il castello, le sue stanze ed il suo parco, nulla vi succederà anzi, Massimiliano e Carlotta ne sarebbero sicuramente felici, l’importante è che non vi azzardiate a trascorrere la notte dentro il castello perché… la storia insegna!
Un tempo proprietà di Costa della Trinità che lo tengono sino al 1872 anno in cui lo vendono ai conti Curreno, attualmente il castello di Carrù è una proprietà privata, sede amministrativa di una banca e viene aperto al pubblico solo in alcune occasioni.
Una leggenda narra che ogni primo venerdì del mese, allo scoccare della mezzanotte, il fantasma di Paola Cristina esca dal quadro in cui è raffigurata con le sembianze di Diana Cacciatrice per vagare per le stanze ed i saloni del castello di Carrù con una freccia in mano. Questa nobildonna è vissuta nel XVII secolo ed ha sposato il conte Gerolamo Maria Costa della Trinità signore di Carrù e, insieme, hanno vissuto per parecchi anni in questo castello.
Nel seicento il Piemonte è teatro di molte battaglie e la popolazione soffre a causa della peste, la fame, la carestia e le guerre. Mentre Paola Cristina va a vivere nel castello di Carrù dividendo le poche scorte della famiglia con la popolazione carrucese, il marito si schiera a fianco di Cristina di Francia vedova di Vittorio Emanuele I di Savoia contro i cognati Tommaso e Maurizio. Gerolamo Costa verrà ferito in battaglia perdendo la vista da un occhio e rimanendo claudicante per il resto della vita. Conclusa la guerra tra Principisti e Madamisti, nel castello di Carrù riprendono le feste e le cacce.
Durante una battuta di caccia la contessa Paola Cristina si allontana dal gruppo. Non vedendola tornare alla sera il marito, disperato, la va a cercare e la trova lungo il torrente, ferita a morte da una freccia. Non si è mai saputo chi sia stato a scoccare la fatale freccia ma da allora il fantasma di Paola Cristina vaga per il castello di Carrù alla ricerca del suo assassino.
La Dama Blu è uno spirito buono, una sorta di “genio” del Castello che protegge tutte le persone che si comportano bene, che sanno essere gentili e amare il prossimo. Solo i crudeli e i cattivi devono temerla…
Il castello di Carrù dove vaga il fantasma della dama blu
Lilith, simbolo di libertà spirituale che si ribellaal tentativo di sopraffazione di Adamo, non vuole sottomettersi perché si considera alla pari
Lilith è la prima moglie di Adamo, nata dalla terra esattamente come lui, ma allora perché c’è stato bisogno di convolare a seconde nozze seppellendo nell’oblio della dimenticanza la sua intera esistenza? Perché Lilith era scomoda e ribelle, per niente incline all’asservimento che le voleva essere imposto. Era stata creata da Dio come Adamo e di Adamo pretendeva le stesse libertà, ma la storia narra che il marito non fosse d’accordo con questa suo desiderio di uguaglianza. Così, piuttosto che uniformarsi a un ruolo che l’avrebbe vista assoggettata e impotente, preferì fuggire dall’Eden ed è a questo punto che fa la sua comparsa Eva: «Jahvè Dio costruì la costa che aveva tolta all’uomo formandone una donna e la condusse all’uomo. Allora l’uomo disse: “Questa volta è osso delle mie ossa, carne della mia carne”» (Genesi 2:22-25). Ecco pronta la figura femminile che serviva: una donna sottomessa a lui, sottomessa al volere di Dio. È da qui che nasce l’idea della compagna obbediente, schiva, priva di diritti, e questa visione è servita alla società patriarcale per imporre la propria dominanza.
Non è un caso che Lilith venga spesso raffigurata come un demone, associata a trasgressione e peccato per renderla malvagia, satanica, l’esatto opposto del cammino divino, come non è un caso che sia stata Eva a cogliere il frutto dell’albero della conoscenza e non Adamo. È fin troppo facile intuire una sorta di stratagemma nell’additare come peccatrice colei che non si comporta come le Scritture impongono, agire su menti influenzabili e volontà fragili tanto da scoraggiare qualsiasi parvenza di ribellione. Ma far sparire Lilith non è servito a fermare un desiderio di rivalsa che è sempre esistito, più o meno assopito, più o meno fervente, e che in questi ultimi decenni sta cominciando a farsi sentire con voce ferma. Poiché è la madre di tutte le donne, l’incarnazione della femminilità trasgressiva, del desiderio sessuale, della voglia di parità e di affermazione del proprio valore, seppure sia stata tralasciata o ridotta a presenza demoniaca, Lilith è l’archetipo della donna che non accetta limiti imposti, che vuole essere libera di esprime se stessa, libera di essere e basta. È ogni donna sulla faccia della Terra, presente, passata e futura, è il femminile e l’altro femminile, è la vera Genesi della metà più resiliente del cielo.
Lilith rappresenterebbe l’uguaglianza con l’uomo,poiché, a differenza di Eva, fu creata alla pari di Adamo. Vedendosi come la sua compagna, si ribellò alle sue richieste di sottomissione e lo lasciò. Quindi ebbe altri amori (in particolare Lucifero, l’angelo ribelle) e molti figli.
Ogni anno, in autunno inoltrato, scendeva la neve sulle montagne che circondavano la vallata. Gli uomini che abitavano la valle ne gioivano ma ancora più felici erano gli animali. Tutti gli abitanti del bosco, infatti, aspettavano l’arrivo dei primi freddi per osservare la venuta delle fate dell’inverno. Spiriti regali, le fate erano splendide, dalle lunghe chiome bianche e dai penetranti occhi del colore della neve. Uno su tutti era il più felice. Un lupo, era segretamente innamorato di una di loro, Elisea la più minuta e aggraziata di esse e ad ogni stagione la osservava da lontano. Era lì, nascosto nell’ombra quando esse danzavano o quando lei se ne andava in giro ad imbiancare i pini con il suo tocco lieve. Un giorno mentre il lupo osservava la sua fata cantare su un lago ghiacciato si trovò a passare un orso che cercava una tana per il letargo. L’orso incuriosito chiese al lupo cosa stesse facendo. L’animale intimidito indietreggiò e si mise sulla difensiva ma l’orso anziano aveva già intuito le sue intenzioni.
“Le fate hanno il cuore di ghiaccio, povero lupo, esse sono esseri egoisti, non provano sentimenti” sottolineò l’orso.
“Perché pensi che me ne importi?” rispose.
“Perché vedo il tuo sguardo lupo, i tuoi simili cercano riparo dal freddo mentre tu sei qui, in mezzo a tutta questa neve, quasi congelato, ad osservarla”.
Il lupo abbassò il viso guardando a terra. In cuor suo sapeva che sarebbe stato impossibile per lui, così rude e brutto, avvicinarsi a quell’essere angelico. In quel momento la fata guardò verso di loro e per qualche istante sorrise. Il lupo colto dall’emozione prese a scodinzolare ma l’orso si accorse che la fata in realtà stava guardando alle loro spalle un altro gruppo di fate arrivare. Le fate, fluttuanti nell’aria come fossero piume, guardando con disprezzo i due animali.
“Che orribile orso spelacchiato” disse una di loro. Provocando una risata generale.
“E che razza di animale brutto e cattivo… sembra così malvagio e sporco…”
“Bleahhh che brutti i lupi!” urlarono.
“Allontaniamoci… potrebbe farci del male” esclamò un’altra. Il disprezzo pesò sull’umore del lupo abbattendolo completamente. Il lupo intristito si fece scappare una lacrima mentre il buon orso al suo fianco cercò in qualche modo di tirarlo su di morale. Le fate riunendosi con la loro compagna si allontanarono oltre il lago. L’orso osservò Elisea girarsi con un’espressione triste verso di loro almeno un paio di volte prima di sparire all’orizzonte ma non disse nulla al povero lupo.
“Avrei voluto essere un possente leone o una tigre feroce o perché no una splendida aquila, ma sono nato lupo, un povero lupo di cui tutti hanno paura, gli esseri umani non si avvicinano a me e qualche volta quando ero ancora un cucciolo e mi avventuravo ai confini del villaggio trovavo dei bambini che mi accarezzavano e mi coccolavano ma i loro genitori se ne accorgevano subito e mi tiravano sassi e qualche volta mi rincorrevano con un bastone. Gli animali della foresta non sono diversi, impauriti e sulla difensiva nessuno mi parla e da quando mi sono perso tanto tempo fa, sono rimasto sempre solo, in una tana buia e uscendo trovavo conforto solo durante l’inverno, quando la vedevo passare ed imbiancare tutto. La neve orso, la neve mette allegria, è come se di colpo tutto diventasse magico ed inizi a credere davvero che possa essere possibile ogni cosa orso, ed io ogni volta che vedevo la neve speravo che fosse possibile non essere più solo… poi ho visto lei, quella splendida fata che portava la neve ovunque ed ho pensavo che avrei voluto essere al suo fianco per tutta la mia vita. Non avrei avuto altra ragione di vivere se non quella di essere in sua compagnia”
L’orso si commosse alle parole del lupo e lo abbracciò stretto. Il lupo era freddo, quasi congelato rispetto al calore che emanava l’orso.
“La neve ed il freddo non sono nostri amici, l’inverno uccide gli impavidi che non si trovano un riparo”
“Non mi importa orso, ho passato molti inverni senza un riparo e finché avrò fiato continuerò ad osservarla” rispose il lupo.
Passarono alcuni giorni da quell’incontro, il lupo girovagava ancora nel bosco in cerca della sua amata mentre l’orso aveva trovato una tana ed era già entrato in letargo. Era una mattina insolita, più calda rispetto alle altre ed il sole batteva forte contro ogni cosa. La fata era di nuovo sul lago e pattinava aggraziata in movenze da ballerina mentre il lupo la osservava nascosto dietro una rupe. D’improvviso la piccola fata, però, si trovò in acqua, il calore del sole e le numerose giravolte della fata avevano sciolto i ghiacci ed Elisea colta di sorpresa non seppe cosa fare ritrovandosi avvolta dalle acqua cupe del lago. Il lupo incurante di ciò che poteva succedergli si precipitò da lei. Leggero e scaltro si tuffò in acqua urlando alla fata di aggrapparsi a lui. La fata obbedì e in un batter d’occhio si trovarono entrambi a riva di nuovo.
“Grazie…” mormorò la fata ed osservò il lupo. Tremava infreddolito e morente. La fata iniziò a piangere.
“Hai rischiato la tua vita per me… mi osservi da tanto e lo so, ti vedo, perché… perché hai fatto una cosa del genere?” pianse avvicinandosi al lupo.
“Perché preferisco morire io piuttosto che non vederti più il prossimo inverno” rispose il lupo ansimante.
La fata si strinse forte nel suo manto e continuò a piangere a dirotto. Le lacrime della fata però ridavano forza ed energia al lupo che piano piano aveva smesso di tremare.
“E’ questo quello che si chiama sentimento, vero?” chiese Elisea.
“No, questo si chiama amore” rispose il lupo. La piccola fata si accucciò sul petto del lupo ed entrambi stettero in silenzio finché non si addormentarono. Da quel giorno la fata ed il lupo passarono ogni istante insieme. Le fate all’inizio li derisero ma i due non se ne preoccuparono e dopo un po’ smisero di farlo ed accettarono quella strana coppia. Tutte le cose belle però non durano in eterno e l’inverno finì in fretta, come era arrivato ed il lupo e la fata dovettero salutarsi.
“Aspettami il prossimo inverno, tornerò da te… e quando ti sentirai solo pensa a me, guarda la luna, bianca come la neve, pallida come il mio viso e luminosa come i miei capelli e pensami ed aspettami” sussurrò la fata tra le lacrime stringendo il suo amato lupo. Il lupo l’aspettò e da quel giorno ogni notte ululò alla luna sperando che la sua amata fata potesse sentirlo in attesa del prossimo abbraccio, in attesa del prossimo inverno.
Fonte in facebook: Post di FATE, GNOMI e FOLLETTI: Leggende di un mondo incantato……
“Andate, scegliete il vostro duca, ma fatelo con saggezza e attenzione perchè è facile mettere sul trono qualcuno ma è difficile poi sbarazzarsene.”
Krok (Pace) gorvernò a lungo e saggiamente. Fondò una scuola che comprendeva insegnamenti religiosi, Hymn (canti sacri), profezie e magia. Prima di questa scuola nel Paese nessuno sapeva scrivere e l’unico modo per tramandare il sapere era la memoria. La magia era considerata la più alta forma di conoscenza che si potesse mai imparare per rendere grazia agli Dei.
Si narra che durante un ritiro spirituale gli Dei consigliarono a ‘Pace’ (Krok) di lasciare il suo piccolo castello e cercare un luogo più fertile sulla costa del fiume Vltava (Moldau); così fece e lì costruì un castello che divenne la sede del comando, Vysehrad, l’alto castello. ‘Pace’ visse e vi regnò per trenta anni. Quando egli morì lasciò tre figlie femmine: Kazi, Teta, e Libuse.
Queste tre ragazze erano belle e sagge. Kazi conosceva la medicina, il potere di guarigione attraverso le erbe e piante, l’uso degli incatesimi magici, curava qualsiasi malattia anche da lontano. Viveva nel suo castello Kazín. Teta viveva nel Tetin ed era una sacerdotessa pagana.
La figlia più giovane, Libuse, aveva il dono della profezia: andava in trance e prediva il futuro. Tra le tre sorelle era la più saggia e cara, per questo fu scelta, dopo la morte del padre, per diventare la guida della sua gente. Si trasferì dal suo castello Libusin per vivere in Vysehrad . E tutti nella sua terra vissero felici e contenti.
Secondo la leggenda Libuse regnò dal 700 al 738 sulla Boemia evitandone, così, la sua divisione. Sposò Premysl l’Aratore ed ebbero 3 figli: Nezamysl, Radobyl e Lidomir.
La principessa Libuse si occupava anche delle questioni giudiziarie del suo popolo, era lei che dirimeva le controversie degli abitanti. Essendo saggia si riteneva che potesse vedere il futuro e sapesse immediatamente trovare la verità.
Non essendoci, all’epoca, un regolare tribunale, la gente si recava da lei personalmente per risolvere i loro disaccordi. Libuse li accoglieva nel cortile del suo castello ai piedi di un albero di Tiglio, sotto un gazebo, circondata da 12 uomini, i più saggi del suo regno. Una volta Libuse si dovette pronunciare in merito ad una questione tra due vicini che litigavano per i loro confini.
Con la massima onestà diede ragione al più giovane dei due. Questo giudizio mandò su tutte le furie l’altro contendente che in un impeto di rabbia gridò a squarciagola per farsi ascoltare da tutti dicendo: “Ma che giustizia ci si può aspettare da una donna? Capelli lunghi e cervello corto. Mandatela a cucire e girare il fuso, non occuparsi delle leggi e della giustizia. Dove si è visto mai che una donna giudica le questioni degli uomini, solo qui. Siamo lo zimbello delle nazioni, non possiamo avere ancora questo tipo di giustizia!“
Rimasero tutti stupiti ma nessuno si pronunciò in difesa di Libuse. Lei si accorse che nessuno ebbe il coraggio di parlare a suo favore e questo le provocò vergogna e dolore. Guardò negli occhi quell’uomo e rispose:” Hai ragione! Sono una donna e regno come una donna, non con una spranga di ferro ma con compassione, proprio ciò che tu ritieni una debolezza. Tu hai bisogno di regole ferree e la tua richiesta sarà soddisfatta. Và a casa ora, in pace! Lascia che la gente scelga l’uomo che possa regnare su di loro e io lo sposerò su due piedi.“
Detto ciò si chiuse in se stessa e mandò a chiamare le sue sorelle Teta e Kazi; si ritirò nell’angolo più lontano del suo segreto giardino dove a nessuno era permesso andare. Rimase sola con se stessa innanzi a Perun, un idolo di legno, con una testa d’argento e una barba d’oro. Restò lì tutto il giorno, anche al buio per riflettere sull’accaduto e su quello che sarebbe successo. Le sue sorelle la raggiunsero. Le tre donne si consultarono sino all’alba. Il mattino seguente, Libuse chiamò i capi clan per comunicare loro il giorno in cui si sarebbe tenuta la manifestazione per la scelta del suo futuro marito, fissato per quello successivo al raccolto. In molti parteciparono alla cerimonia: vennero giovani, vecchi, uomini a cavallo, a piedi. La corte del castello era pronta per la manifestazione. Tutti si chiedevano chi avrebbe scelto.
Le trombe suonarono per richiamare l’attenzione verso Libuse, seduta sul trono con ai lati le sue sorelle. Libuse tenne un discorso: “Voi tutti sapete perchè vi ho convocati qui. Voi non avete apprezzato la libertà che vi ho dato, così gli dei mi hanno detto di riferirvi che io non regnerò a lungo. Voi volete un uomo, un duca, che i vostri figli serviranno, che terrà per sè i migliori cavalli e buoi e alzerà le tasse per i suoi capricci. Volete un padrone e siete disposti a pagare purchè non abbiate una donna a regnare su di voi. Così sia! Avanti, scegliete il vostro duca, ma fatelo con saggezza e attenzione perchè è facile mettere sul trono qualcuno ma è difficile poi sbarazzarsene. Comunque, se lo desiderate posso aiutarvi a decidere.” Tutti chiesero: “Si consigliaci!“
Libuse andò in trance e con voce sommessa descrisse il luogo e l’uomo che sarebbe diventato suo marito:“Andate, portategli il mio messaggio, è lui il duca che diventerà mio marito e vi guiderà. Il suo nome è Premysl e i suoi discendenti regneranno in eterno. Non dovrete chiedere la strada. Il mio cavallo bianco vi condurrà, basta seguire lui. Quando il cavallo si fermerà davanti ad un aratore e nitrirà, quell’uomo sarà Premysl.“
A Triora, in Liguria, tra il 1587-89, avvenne un processo alle streghe a cui venne imputata una grave carestia. A causa della Santa Inquisizione vennero processate donne presumibilmente considerate fattucchiere vista la (presunta) attività satanica nel luogo ed in particolare vicino al Lago Degno.
Per quella tragedia Triora ancora oggi viene considerata un borgo pregno di anime vaganti e vendicatrici di quelle streghe le quali si dice utilizzassero della cenere maledetta creata dalla cremazione autoindotta di Satana, cenere che poi veniva utilizzata per essere gettata nei campi creando così siccità e carestie.
Lo spirito della strega Basùria, una di loro, ancora oggi dimorerebbe in alcune cavità denominate Bocche delle Streghe, tra Cassana e Pignone (ovvero grotte di Toirano) anche se in realtà si pensa che in tutta la Liguria esse continuino a vagare incutendo timore nei poveri malcapitati che le incontrassero.
La strega Basùra cerca in realtà di allontanare tutti coloro che cerchino di entrare nella sua grotta tanto che il vento forte produce suoni inquietanti, passando per le cavità della grotta, in modo tale da allontanare qualsivoglia curioso.
I veri sheoques sono gli spiriti che infestano i sacri cespugli del biancospino e le verdi fortezze.
In giro per tutta l’Irlanda ci sono campicelli circondati da fossati che si ritiene siano antiche fortificazioni e ripari per il bestiame. Sono queste le Fortezze, o Forti, o royalties, come vengono a seconda dei casi chiamati.
Qui, sposandosi tra loro, vivono i folletti di terra.
Si dice che molti siano i mortali dal cuore impuro che si sono lasciati adescare e che sono finiti nel loro cupo mondo. Molti di più sono invece quelli dal cuore puro che hanno ascoltato la loro musica fatata fino a che ogni umano interesse e gioia ha lasciato i loro cuori, ed essi sono diventati grandi veggenti contadini o Guaritori , oppure grandi musicisti contadini o poeti come Carolan, che raccoglieva le sue melodie dormendo su di un Forte abitato da folletti; oppure morivano dopo un anno e un giorno, per vivere per sempre, da allora in poi, tra i folletti in perenne beatitudine.
Questi Sheoques sono, nel complesso, buoni; hanno però un’abitudine assai perfida, un’abitudine degna di una strega. Rapiscono i bambini figli di coloro i quali si erano macchiati di gravi crimini contro la natura e lasciano al loro posto un folletto avvizzito, magari vecchio mille o duemila anni. Certe volte invece ad essere rapiti sono proprio gli artefici di quei crimini o altri adulti, maschi o femmine, membri della loro stessa famiglia.
Vicino al villaggio di Coloney, nello Sligo viveva una vecchia che è stata rapita in gioventù. Quando è tornata a casa, dopo sette anni, non aveva più le punte dei piedi perchè se le era consumate ballando.
Ogni tanto si sente di qualche persona a cui i folletti di terra hanno fatto davvero male, ma bisogna dire che in questi casi le vittime se lo erano quasi sempre meritato come per esempio quelle due persone uccise nel distretto della contea di Down che si dice siano state uccise dai Sheoques perché colpevoli di aver sradicato dei cespugli dei biancospino che appartenevano proprio ai Sheoques.
Tra i folletti più famosi d’Irlanda c’è sicuramente il Leprecauno, il calzolaio delle fate, un piccolo ometto dai capelli e barba rossi, il vestito verde e una tuba in testa.
Il leprecauno è il più ricco, e il più taccagno, di tutti gli abitanti del Piccolo Popolo, in quanto, confezionando le sue scarpe magiche, è riuscito a guadagnarsi una grande fortuna che tiene in una pentola d’oro nascosta alla base dell’arcobaleno.
Nessuno, nemmeno gli altri esseri fatati, sa come raggiungerne il nascondiglio segreto!
Narra però una storia che un giorno due fratelli si trovarono a passeggiare nel bosco…
Calò la sera e si trovarono vicino ad un Biancospino, albero molto amato da fate e folletti, quando iniziarono a sentire una musica allegra.
Incuriositi rimasero fermi a guardare e ben presto la radura si popolò di piccoli esseri fatati, che danzavano felici al chiarore della luna.
Un piccolo ometto vestito di verde e dalla barba rossa si accorse di loro, e li invitò ad unirsi ai festeggiamenti, offrendo loro una buona bottiglia di whiskey e un pezzo di carbone, raccomandando che lo tenessero in tasca e non lo tirassero fuori sino all’indomani mattina.
I due fratelli erano assai scettici, ma non se la sentirono di contraddire un leprecauno: non si sa mai che scherzetti possa combinare per ripicca!
Così si unirono alle danze e si divertirono come matti per tutta la notte, finendo poi per addormentarsi sull’erba fresca.
Al mattino, presi dalla curiosità, frugarono nelle tasche alla ricerca del carbone ma al suo posto trovarono una manciata di monete d’oro.
Sbalorditi si interrogarono sul da farsi.
Il maggior dei due fratelliesclamò pieno di meraviglia
“Che fortuna! Se riusciremo a farci amico il leprecauno potremmo guadagnare un sacco di soldi senza più aver bisogno di lavorare!”
ma l’altro dissentì scuotendo il capo:
“No, fratello, non bisogna mai abusare della gentilezza del piccolo popolo. Godiamoci questo dono e torniamo a casa.”
“Torna pure a casa tu se vuoi, codardo! Io resterò qui sino a sera ed aspetterò che torni il leprecauno.”
Sbuffò il fratello maggiore, e così fece.
Lasciato solo sulla collina, aspettò la sera.
Nuovamente, puntuali, tornarono i folletti e il leprecauno, che lo invitarono a ballare ancora insieme a loro.
Il leprecauno lasciò al ragazzo un altro pezzettino di carbone con le stesse raccomandazioni della notte precedente.
Al mattino il ragazzo mise le mani in tasca tutto speranzoso di trovarci una gran fortuna, ma, ahimè, si ritrovò solo con una manciata di carbone.
Anche le monete ottenute la prima sera erano scomparse.
Sconsolato e con la coda tra le gambe tornò a casa e raccontò il fatto al fratello, che lo ammonì:
“Te l’avevo detto, non devi mai mostrarti irrispettoso verso la generosità dei folletti. Sei stato troppo avaro e sei stato punito!”
Ma poi il suo sguardo si addolcì:
“Tieni, prendi un po’ del mio oro, dividiamolo come da buoni fratelli!”
E da allora i giovani non ebbero più problemi economici (chissà che qualche leprecauno non ci abbia messo lo zampino..?) e il maggiore di loro imparò che dall’avarizia non si può ottenere altro che una manciata di carbone.
In un piccolo paese dell’astigiano, si ricorda ancora la famosa Sabrota, una strega del luogo che per la sua statura era detta “la Longia”. Brutta come solo le streghe sanno essere brutte, Sabrota la Longia è ancora viva nella tradizione del paese, anche se, naturalmente, nessuno sa dire in quale epoca sia vissuta. Dedita ai sabba, pratica di erbe e di filtri, esperta di ogni diavoleria, Sabrota si reca spesso su una radura dove convergono anche le altre masche della valle. I montanari sostengono che sotto quegli alberi avvengano feste infernali e ricordano d’aver trovato molte volte alcuni ciuffi di capelli, un segno evidente delle streghe. Anche Sabrota la Longia si trasforma in gatto: un soldato, di chissà quale epoca, mentre attraversa i boschi del paese in una notte buia viene assalito da un gattaccio dal pelo irto e dagli occhi di brace. L’uomo non si lascia vincere dalla paura e, sfoderata la spada, colpisce il felino a una zampa. Un miagolio straziante e l’ animale scompare. Il giorno dopo il medico del paese deve andare a curare Sabrota la Longia d’una ferita da taglio al braccio.
Naturalmente ognuno la detesta, anche se la teme e pensa che tutti i mali del paese siano da incolparsi alla sua presenza. La strega getta il malocchio: un uomo, venuto a lite con lei per questioni di interesse, la trascina in giudizio e riesce a farla condannare; qualche giorno dopo il primo dei suoi tre figli muore d’un male misterioso e nel giro di poche ore lo seguono i fratelli. Il padre, disperato e armato d’ un falcetto, si reca da Sabrota per vendicarsi, ma nell’atto stesso in cui cerca di colpirla cade a terra tramortito. Quando riprende i sensi è fuori di sé, dà in smanie, è stralunato: si crede un cane e corre per la campagna abbaiando, si crede un vitello e muggisce. Soltanto il prete con i suoi esorcismi riesce a salvarlo. Quando la strega muore gli uomini del paese rifiutano di portare la bara al cimitero. Nessuno osa avvicinarsi; infine tre uomini, decisi a liberarsi da quella dannazione, provvedono al trasporto, ma durante il tragitto si accorgono che la bara è stranamente leggera. Giunti al cimitero la schiodano: è vuota!
Le masche sono una figura di rilievo nella credenza popolare piemontese: generalmente sono donne apparentemente normali, ma dotate di facoltà sovrannaturali tramandate da madre in figlia o da nonna in nipote, o per lascito volontario ad una donna giovane. Secondo la tradizione, i poteri delle masche comprendono l’immortalità ma non l’eterna giovinezza o la salute: sono quindi vulnerabili e soggette alle malattie e all’invecchiamento. Quando decidono di averne abbastanza di questa vita, per poter morire devono trasmettere i poteri ad un’altra creatura vivente, che spesso è una giovane della famiglia, ma alcune volte può essere un animale o un vegetale.
Le masche hanno il potere della bilocazione e della trasformazione in animali, vegetali o oggetti. Possono far uscire l’anima dal corpo e volare immaterialmente nello spazio, mentre non possono farlo fisicamente; poiché durante il volo magico il corpo resta incustodito ed inanimato, l’attività delle masche è quasi esclusivamente notturna.
Una masca poteva essere una donna che conosceva le erbe e sapeva preparare infusioni dal sicuro effetto, oppure praticare riti magici e oscure maledizioni. Le masche da un lato venivano interpellate dalla gente perché, credendole dotate di poteri magici, avrebbero potuto guarire malanni, allontanare oscuri presagi, difendere da malocchi e dannazioni, propiziare una stagione favorevole. D’altra parte, per via delle loro pratiche, potevano anche venire guardate con sospetto o timore, ed essere accusate di danni e sventure.
Le masche, accusate di fare la fisica – una sorta di fattura maligna e pericolosa, una stregoneria – si dovettero sovente nascondere o ritrovare in luoghi di cui la gente portò sempre timore, luoghi già magici o spettrali, di cui si tramandarono fiabe e leggende. Luoghi come il Roc d’le Masche, appunto.
Minoritarie rispetto alle masche “domestiche”, esistono anche masche “sovrannaturali”, spiriti antichi della Natura e dei boschi che sfuggono l’umano consesso per quanto loro possibile, e che diventano vendicative e spietate quando disturbate nella quiete del loro habitat consueto. Questo tipo di masche, pur essendo incorporeo, assume gli aspetti più svariati quando deve rapportarsi agli uomini: o donna vecchia e brutta, o, per contro, giovane bellissima, o animale selvatico etc. etc. Rispetto alle masche “domestiche” hanno un potere più grande nel controllo del clima: possono dominare gli elementi e scatenare bufere, grandinate, temporali, nebbie o siccità prolungate.
Al contrario delle streghe, le masche piemontesi non hanno commercio col demonio e non praticano il Sabba; per contro, non sono nemmeno condizionate, intimorite o controllate dall’elemento religioso; anzi, le masche “domestiche” frequentano la chiesa, vanno a messa e ricevono i sacramenti come tutte le altre donne della comunità, resta il fatto che poi quasi tutte la leggende ( soprattutto nel biellese ) narrano di convegni con il Diavolo…
In alcune località, soprattutto tra la bassa Langa e l’Astesana, accanto alle masche esistono anche i “masconi”, sia pure in numero esiguo. Questi “masconi” hanno ricevuto i poteri casualmente da una masca in fin di vita, ma non lo possono trasmettere ad altri: ciò spiegherebbe perché le masche appartengono al sesso femminile nella stragrande maggioranza dei casi. Saltuariamente alcune masche o alcuni masconi, oltre ai poteri, dispongono anche del libro del comando, un testo contenente varie formule e incantesimi che ne rafforzano i poteri. Ad esempio si racconta di masche o masconi che sfogliando il libro del comando in un verso o nell’altro potevano leggere il futuro o il passato.
Ancor oggi è di uso comune in Piemonte commentare scherzosamente la caduta “soprannaturale” (accidentale) di oggetti (ad esempio una forchetta che cade dalla tavola), o la temporanea “scomparsa” di oggetti che si ritenevano a portata di mano con l’espressione “A j son le Masche” .
Le masche hanno spesso trovato ospitalità nel paese di Vonzo posto a 1200m di quota, dove da sempre erano accolte le genti più perseguitate in cerca di rifugio. Da questo sono nati numerosi aneddoti e racconti. Per esempio: le masche avevano una notte della settimana preferita per uscire e incontrarsi, praticare i loro riti magici e sabbatici. Era quella del venerdì: in questa notte era bene evitare con cura di uscire dai sentieri segnalati, lontano da santuari e luoghi non benedetti.
Stesso discorso per la notte fatata del primo novembre, notte in cui le anime dei morti prendevano il volo e le masche si intermediavano con esse, rafforzando il proprio potere. Si usava, prima di andare a dormire, lasciare sul tavolo un piatto colmo di castagne bollite e già pelate, in modo che le anime dei defunti potessero saziarsi compiaciute senza importunare i vivi. Trovarsi da soli la notte del primo novembre nei sentieri tra i boschi che univano i solitari villaggi alpestri poteva davvero essere pericoloso: non erano sufficienti i numerosi piloni votivi e la più ferrea delle fedi per tenere lontani spettri e masche.
Una fiaba racconta di una persona che si trovava la notte del primo novembre a dover percorrere da sola il sentiero che collegava Vonzo a Chialamberto. Solamente la difesa di un’anima della propria famiglia, che passava di lì per caso, e qualche preghiera presso i numerosi piloni votivi sui lati del sentiero gli consentiva infine il ritorno a casa, tra innumerevoli sentori di oscure presenze, masche e visioni che si animavano nel bosco durante il viaggio.
C’è da dire che non tutti gli spiriti erano cattivi. Ad esempio, lo spirit-fulét si divertiva a combinare innocui scherzi, come muovere i tetti di case per non lasciar dormire, imbrattare le maniglie delle porte o i muri di pece. Non era cattivo, se nessuno osava interferire con il suo lavoro, altrimenti…
Le masche invece ogni tanto erano davvero cattive. Si dice che una volta rapirono un bambino di Candiela e lo portarono in cima a una acuminata roccia nei ripidi pendii sotto il Soglio (un piccolo insieme di case ad est di Vonzo). Si riunì un gruppo di coraggiosi che tutta la notte seguì le urla del bimbo, senza trovarlo. Solo la mattina dopo, quando la masca svanì, fu possibile individuare la roccia prima occultata da un tenebroso sortilegio. Il bimbo raccontò che tutta la notte una donna vestita di nero, muta, restò con lui regalandogli di tanto in tanto alcune caramelle, per poi sparire sul fare del giorno.
Ma tra le fiabe, la più famosa fu quella che ebbe come oggetto proprio il Roc d’le Masche e il suo magico trasporto fino a Lanzo per soddisfare una bravata ai danni del Diavolo.
Oggi le masche non ci sono più. Gli alpeggi son stati quasi tutti abbandonati e Vonzo è diventato un villaggio turistico. Nessuno si riunisce più nelle stalle la sera per raccontare fiabe, confortevoli carrozzabili uniscono tutti i paesi e gli antichi sentieri non sono più praticati, men che mai di notte. Il Roc d’le Masche è solo una grossa pietra dai curiosi incavi e dalla mole imponente. Eppure, ancora oggi, qualcuno giura, il venerdì notte, di aver avvisto…
Giufà, il ragazzino sicilianosenza malizia e furberia
Giufà è un ragazzino siciliano privo di qualsiasi malizia e furberia, credulone, facile preda di malandrini e truffatori di ogni genere. Giufà si caccia spesso nei guai, ma riesce quasi sempre a uscirne illeso, spesso involontariamente. Giufà vive alla giornata, in maniera candida e spensierata. Giufà è da secoli uno dei protagonisti leggendari delle storielle che hanno accompagnato molte generazioni di giovani siciliani.
GIUFA’ TIRATI LA PORTA
Una volta la madre di Giufà andò alla messa e disse a suo figlio: “Giufà vado alla messa; tirati la porta e mi vieni a trovare in chiesa.“
Giufà, come uscì sua madre piglia la porta e si mette a tirarla; tira tira, tanto forzò che la porta se ne venne. Allora se la carica sulle spalle e va in chiesa a buttarla davanti a sua madre:“Qua c’è la porta!”
Naturalmente sua madre gli diede una buona dose di legnate.
Sono cose da fare queste?
Giufà “Tira la porta”
GIUFA’ E LA LUNA
Giufà una notte, passando vicino ad un pozzo, vide la luna riflessa nell’acqua. Pensando che fosse caduta dentro decise di salvarla. Prese un secchio lo legò ad una corda e lo buttò nel pozzo.
Quando l’acqua fu ferma e vide la luna riflessa nel secchio cominciò a tirare con tutta la sua forza.
Il secchio, salendo rimase, però, impigliato nella parete del pozzo. Allora Giufà si mise a tirare ancora con più forza e tirando, tirando spezzò la corda e finì a gambe all’aria e cadde a terra.
Alzando gli occhi verso l’alto, per cercare un appiglio per rialzarsi, vide nel cielo la luna.
La sua soddisfazione fu grande e disse a sé stesso ad alta voce: “Sono caduto per terra e mi sono un po’ ammaccato, ma, in compenso, ho salvato la luna dall’annegamento!“
Giufà e la luna
GIUFA’ E LE UOVA
Partendo per un lungo viaggio di lavoro, Giufà andò da un contadino per comprare delle uova sode per il viaggio. Ma, non avendo soldi a sufficienza, li chiese in prestito, promettendo di pagarli al ritorno.
Giufà, però, si intrattenne lontano dal paese per alcuni anni, in quanto aveva trovato un lavoro che gli rendeva bene. Quando ebbe sufficienti monete d’argento si decise di tornare a casa, dove fu accolto festosamente da tutti. Il contadino che gli aveva venduto le uova sode, saputo anche che Giufà aveva fatto un po’ di soldi, si presentò a casa di Giufà per incassare il credito e gli cercò 500 dinari. Giufà, strabiliato per la richiesta esosa, si rifiutò di pagare e, vista l’insistenza del contadino, decise di rivolgersi ad un giudice.
Fissato il giorno per l’udienza, il contadino si presentò dal giudice con puntualità, ma Giufà non si fece vedere. Quando tutti erano quasi spazientiti per l’attesa, Giufà giunse in tribunale.
Il Giudice cominciò l’udienza e per primo volle sentire il contadino, che disse: “Ho chiesto cinquecento dinari, perché, a suo tempo non mi pagò le dodici uova e non si fece più vedere. Ma da quelle uova, signor giudice se non le avessi lessato, sarebbero potuti nascere 12 pulcini, che una volta cresciuti avrebbero creato altri pulcini, che a loro volta avrebbero creato tante galli e galline da farmi un allevamento enorme.”
Il giudice sembrava convinto dalle ragioni del contadino, ma correttamente volle sentire le ragioni di Giufà e disse:“Giufà prima spiegami perché sei arrivato con tanto ritardo e poi fammi sentire le tue ragioni!“
Giufà rispose:“Chiedo scusa per il ritardo signor giudice, ma a casa mi erano rimaste delle fave lessate e, allora, avevo deciso di piantarle nell’orto in modo da avere piante nuove per il raccolto del prossimo anno.“
Il giudice, già stufo per l’attesa, si arrabbiò molto e disse a Giufà con voce forte:“Sei uno stupido presuntuoso! Come fai a pensare che dalle fave cotte ti possa nascere una pianta? Mai sentita una cosa così!“
Giufà, allora rispose sornione: “Ha ragione signor Giudice. Ma, perché non chiede al contadino come fanno a nascere dei pulcini da uova sode! Non le sembra più incredibile questa?“
Convinto dalle ragioni esposte con arguzia, il giudice fece vincere Giufà, che così pagò solo il costo di 12 uova sode.
La Giubiana, malvagia megera, esce di notte dai boschi
Giubiana, è un nome che, nei vari dialetti locali, assume il significato di fantasma, di strega o di sgualdrina.
Giubiana, in realtà, era una malvagia megera che, l’ultimo giovedì di gennaio, usciva di notte dai boschi in cerca di un bambino da mangiare.
Si racconta che, la brutta e magrissima strega con le calze rosse, un giorno giunse presso un’abitazione attratta da un delizioso profumo. Una mamma, vedendola arrivare, per proteggere suo figlio, decise di tenderle una trappola preparando un grosso pentolone pieno di squisito risotto con zafferano e luganega al quale la strega non sapeva resistere.
Giubiana mangiò, con calma, assaporando boccone dopo boccone quella pietanza così succulenta. Ma, presa dal suo pasto, non considerò lo scorrere del tempo e rimase lì fino al sorgere del giorno. Ormai per lei era troppo tardi. I raggi del sole, si sa, uccidono le streghe! Fu così che Giubiana si polverizzò, mettendo fine al pericolo per i bambini.
Ancora oggi, l’ultimo giovedì del mese di gennaio, è tradizione in Lombardia e in Piemonte, accendere grandi falò (rogo della Giubiana) e bruciare un fantoccio di paglia, vestito di stracci, dalle sembianze di una strega mentre si mangia risotto con zafferano e luganega accompagnato da un buon vin brulè.
Questa usanza, non ricorda solo la leggenda della Giubiana, ma riconduce anche ai riti celtici che, tradizionalmente, davano alle fiamme vimini intrecciato a forma umana (attribuendolo a divinità pagane) per scacciare l’inverno e i malesseri dell’anno trascorso e propiziare il raccolto, le semine e il benessere per l’anno appena iniziato.
Piazza Statuto è un luogo considerato negativo, in quanto coincide con il vertice del triangolo di magia nera di cui la città farebbe parte, insieme a San Francisco e a Londra. Pare che gli antichi romani avessero collocato in questa zona della città la necropoli e la vallis occisorum ovvero il patibolo dove venivano giustiziati i criminali. Ad aggiungere caratteristiche negative a questo luogo ci pensa poi lo snodo centrale delle fognature posto al centro della piazza che, nell’antichità, venivano chiamate “cloache” ossia “bocche dell’inferno”. Il monumento più famoso di questa piazza, la Fontana del Traforo del Frejus, pare sia suscettibile di un’interpretazione diversa dalla versione tradizionale, che vuole che questo monumento sia un omaggio ai minatori caduti duranti i lavori del traforo: per gli illuminati il Genio alato rappresentato in cima è la personificazione di Lucifero, che guida le forze dell’oscurità, guardando con aria di sfida le forze benigne, ossia l’oriente, simbolo di luce e nascita. Inoltre, in precedenza sulla sua testa era collocata una stella a cinque punte che poi fu rimossa: forse un terzo occhio? Infine, nella piazza si trova anche l’obelisco geodetico, che sta a indicare il passaggio del 45° parallelo che, per gli esperti di magia, indica il centro delle potenze maligne della città.
occhi del diavolo in via Lascaris
Invia Lascaris in passato c’era una Loggia Massonica. Alla base del palazzo, oggi sede di una banca, si trovano delle strane fessure a forma di occhi, che dovevano essere dei punti di sfiato o di illuminazione per i locali nel sottosuolo. Negli anni, a causa della loro strana forma, si è diffusa la credenza che si tratti degli occhi del diavolo.
Il Diavolo a Palazzo Trucchi di Levaldigi
Palazzo Trucchi di Levaldigi, in via XX Settembre, presenta un batacchio centrale che raffigura il demone con due serpenti mentre scruta chiunque bussi alla porta. Per questo è meglio conosciuto come il Portone del Diavolo, un luogo che sarebbe carico di energia negativa e attorno al quale si narrano tante leggende. Quella più inquietante è sicuramente la storia dell’origine del portone: molti raccontano che questo sia comparso improvvisamente in una notte, durante la quale un apprendista stregone invocò inutilmente Satana, che lo imprigionò per sempre dietro la porta. Ad avvalorare l’ipotesi, misteriosi omicidi e sparizioni. Una su tutte, la storia del Maggiore Melchiorre Du Perril scomparso al suo interno nel 1817 e ritrovato vent’anni dopo, murato tra due pareti.
Ultime ore del condannato, al Rondò della Forca tutti stan ad aspettar
Tra corso Regina Margherita e corso Valdocco, vicino all’antica prigione in via Corte d’Appello, si trovava il patibolo dove venivano uccisi i condannati a morte fino al 1863. Si tratta di un luogo che è da sempre stato legato alla morte e alle tenebre e quindi entrato di diritto nella lista dei luoghi della magia nera di Torino.
A Castropignano, un piccolo paese molisano in provincia di Campobasso, viveva una fanciulla talmente bella da essere soprannominata “la Fata”. Giunto il giorno felice del suo matrimonio con un fortunato giovane del luogo, Antonio, per volere della legge che vigeva in quell’epoca, lo ius primae noctis, la pastorella avrebbe dovuto passare la prima notte di nozze con il duca, signore feudale del suo territorio che appunto ne aveva il diritto nei confronti di quello che era un suo servo.
Dunque Fata, conclusa la cerimonia, fu condotta al castello dalle guardie del duca affinché costui esercitasse il suo ius prime noctis, il diritto alla prima notte. Fata si sentì morire all’idea di dover sottostare a questa crudele legge e, per sottrarsi al disonore, si diede a una fuga disperata che la portò fin sulla cima della grande roccia del Cantone, un piccolo rilievo roccioso situato a poca distanza dal castello d’Evoli. Braccata dalle guardie e senza altra via di scampo, preferì morire lanciandosi dallo strapiombo sottraendosi al disonore per amore con una fine davvero tragica.
Da allora quell’enorme masso si chiama “Cantone della Fata” e la gente del posto ancora oggi non solo vede la roccia come simbolo d’amore, ma la identifica come il punto esatto in cui si aggira il fantasma della giovane bellissima donna che vaga ancora per le sue amate e allor tristi terre..
La bella principessa Ninfa, viveva con il padre nel castello sul lago, proprio alle pendici dei monti Lepini, in terre che oggi sono i giardini del Lazio. Quindi per millenni, le paludi malsane dominavano e rendevano dura la vita della gente. Latifondi soffocati dalle grandi paludi infestate di malaria e zanzare, non potevano essere coltivati e rendere.
Per secoli, la gente si teneva lontano da quelle acque malsane. Cionondimeno, il padre di Ninfa, che adorava la figlia e desiderava rendere le terre fertili, voleva ad ogni costo bonificare quei territori. Un giorno allora decise di convocare nel suo castello i due re confinanti. I dignitari accettarono l’invito. Si trattava di Martino, dolce e buono, di cui la bella Ninfa era segretamente innamorata. L’altro era il Moro, che invece era uno stregone malvagio. Il signore del castello, decise di promettere la figlia in sposa a colui che fosse riuscito a operare la bonifica.
La vita era dolce per la bella Ninfa che viveva a poca distanza, in direzione del mare, ma le paludi significavano pericolo e vita impossibile. Era necessario prosciugare le paludi. Senza perdersi d’animo, Martino si dette da fare con grande determinazione per costruire canali e ogni opera d’ingegno, per riuscire nell’impresa. Eppure, non riuscì affatto a scacciare la palude da quelle terre.
Moro, invece, astuto, non si dette da fare, ma solo nell’ultimo giorno stabilito dal re, con una magia e un colpo di mano prosciugò la palude. Ninfa allora, perdutamente innamorata di Martino, decise di sottrarsi a quel matrimonio che non voleva.
Ella, per non andare in sposa a Moro, si gettò nel lago e scomparve per sempre nelle acque oscure e putride. Si dice che quando una giovane vita innocente si spezzi, anche il cielo, e ogni elemento piangano non solo la vita, ma anche l’amore perduto.
Ancora oggi si racconta che il fantasma della bella Ninfa si aggiri come un’anima in pena nella zona in cui visse. C’è chi giura di averla vista riflessa nelle acque che scorrono oggi nei “Giardini di Ninfa”, o tra le ninfee che galleggiano abbandonate alla placida corrente. Oggi, ricchi di fiori di ogni genere, tra ruscelli, viottoli e piante ornamentali i giardini di Ninfa sono un piccolo paradiso.
Fonte: https://latina.italiani.it/
Il fantasma della principessa Ninfa aleggia tra i ruscelli