Il fantasma del castello di Calendasco in una serie tv trasmessa negli Usa. Redazionale de ILPiacenza.it

Calendasco: Il gruppo di Bologna a caccia del fantasma

“The ghost places” ha scelto il castello piacentino per ambientare un episodio della serie dedicata al paranormale e al mistero. Si parla dunque americano nel castello di Calendasco, dove è stata girata la quarta puntata di una serie che sarà disponibile ad ottobre sul network televisivo Paraflixx intitolata “The Ghost Places”, cioè I luoghi fantasma. Il network che tratta temi del paranormale e del mistero ha sede a Dallas nello stato del Texas ed ha già visibili tre puntate delle sei previste di questa prima serie dedicata all’Italia. Gli episodi hanno la regia di Angelo Cannella, siciliano trapiantato nel Piacentino dove svolge il lavoro di videomaker, mentre produttore esecutivo è Matteo Marchesini e fonico è il piacentino Manuel Maestri. Titolo di questo episodio è “Murder in the Castle” cioè Omicidio nel castello, con investigazione notturna a caccia del fantasma, svolta dal gruppo di Bologna “Mistery Research Crew”. Il team si occupa di indagini del paranormale per morti in fatti tragici con attrezzature ad infrarossi, termocamere e particolari strumenti elettromagnetici. Questa quarta puntata tratta dell’omicidio avvenuto il 13 settembre del 1572 nel poderoso castello di Calendasco, un fatto di sangue efferato, qui infatti il conte Ludovico Confalonieri, viene ucciso a stilettate nel sonno dalla moglie Camilla. Il filmato del regista Angelo Cannella si avvale di una presentazione del borgo di Calendasco a cura del sindaco Filippo Zangrandi che traccia la storia del paese mettendo a fuoco la Via Francigena. Per i fatti storici legati al fortilizio la troupe si è rivolta al divulgatore storico Umberto Battini che è entrato nel dettaglio di alcuni avvenimenti accaduti tra quelle mura. Partendo proprio dalla costruzione del castello nel XII secolo, alla nascita del santo Corrado Confalonieri nel 1290 quindi all’assedio del 1482 delle truppe di Ludovico il Moro di Milano. Viene raccontato poi nel dettaglio il fatto macabro dell’omicidio del conte Confalonieri per mano della moglie Camilla e da qui il video sposta le riprese avvincenti alla notte quando iniziano le indagini a caccia del fantasma del conte Ludovico. Un filmato carico di suspence, con sottotitoli in americano, che abbiamo visto in anteprima che tiene lo spettatore con il fiato sospeso e che dal 12 ottobre sarà visibile in esclusiva sul network americano Paraflixx.vhx.tv destinato a tutti gli amanti del mistero. Insomma un castello tra dannazione e santità che per i suoi accadimenti sta interessando appassionati di paranormale d’oltre Oceano.

Il castello di Calendasco dove nella notte la moglie Camilla ha assassinato il conte Ludovico Confalonieri

Storie e leggende della Bobbio esoterica in occasione della Settimana della Letteratura organizzata da edizioni Pontegobbo

Lo spunto è dato dalla Settimana della Letteratura, manifestazione giunta alla 13^ edizione, organizzata dalle edizioni Pontegobbo di Daniela Gentili congiuntamente alla municipalità, che ci ha portati anche in questo 2023 nel borgo della Val Trebbia, Bobbio. Un’intera settimana trascorsa all’ombra dell’Abbazia di San Colombano e di piazza Santa Fara con le serate impegnate tra presentazioni di libri e incontri d’autori ma nello stesso tempo cogliendo l’occasione (anche grazie alle notizie riportate nel sito “Podere Casale”) per approfondire la conoscenza di alcuni aspetti della Bobbio esoterica.

BOBBIO (PC). Duomo s Maria Assunta, affresco Ultima Cena del 1756

Innanzitutto apprendiamo che il borgo fu con ogni probabilità sede di magioni templari, e nella Cattedrale di Santa Maria Assunta è conservata una curiosa rappresentazione dell’Ultima Cena di autore ignoto, dove Giovanni addormentato è raffigurato in modo molto effemminato, quasi a voler confermare la tesi secondo cui sarebbe in realtà Maria Maddalena, come ha sostenuto Dan Brown nel suo romanzo campione di vendite Il Codice Da Vinci, riferendosi al ben più famoso affresco di Santa Maria delle Grazie a Milano.

La Gioconda, olio su tela di Leonardo da Vinci

Ma i collegamenti con Leonardo non finiscono qui. Secondo le ricerche compiute dalla storica dell’arte Carla Glori, la donna ritratta nel quadro più famoso del poliedrico e geniale artista, La Gioconda, sarebbe in realtà Maria Bianca Sforza ed il paesaggio disegnato alle sue spalle altro non sarebbe che la campagna circostante la città di Bobbio con ancora una volta il Ponte Gobbo in bella vista. Il panorama immortalato da Leonardo, secondo la studiosa, sarebbe quello che si poteva ammirare affacciandosi dalle finestre del castello Malaspina Dal Verme di Bobbio, che ancora oggi domina la vallata.

Castello Malaspina Dal Verme di Bobbio

Ed è proprio il castello di Bobbio ad essere al centro di altre più cruente e inquietanti vicende. Secondo quanto si tramanda in paese, nel maniero edificato all’inizio del 1300 era stato costruito un pozzo del taglio, dentro al quale venivano gettati i condannati a morte, destinati a spirare dilaniati dalle lame che fuoriuscivano dalle pareti di questa crudele macchina di tortura. Diversi testimoni giurano di aver visto i fantasmi di questi sfortunati aggirarsi la notte lungo le mura del castello in cerca di pace.

Gerberto di Aurillac, papa Silvestro II, il papa stregone

Inevitabile infine concludere questa breve presentazione della Bobbio esoterica ricordando un altro personaggio storico leggendario: Gerberto di Aurillac, destinato a divenire Papa con il nome di Silvestro II, passato alle cronache anche come il Papa Mago.

Gerberto fu nominato abate del Monastero di San Colombano  e della contea di Bobbio nel 982 dall’allora Imperatore del Sacro Romano Impero Ottone II. A quel tempo l’abbazia godeva di altissimo prestigio sia culturale sia morale, e la sua biblioteca era una vera miniera di conoscenze. Qui Gerberto poté consultare numerosi testi rari ed antichi. Era uomo di grande cultura e diede un contributo importante per l’introduzione delle conoscenze arabe di aritmetica e astronomia in Europa e vi importò anche l’orologio a bilanciere. A lui sono attribuite l’invenzione di complicati strumenti musicali e soprattutto di una testa parlante in grado di rispondere in senso affermativo o negativo quando interrogata.

Il 2 aprile 999 fu nominato Papa dall’Imperatore Ottone III di cui era stato in precedenza il precettore. Le conoscenze e la cultura di Papa Silvestro II, erano tuttavia talmente grandi che attorno a lui iniziarono a fiorire le più variegate leggende al punto di attribuirgli poteri magici e rapporti con il demonio. Si ipotizzò che la testa parlante che aveva costruito fosse un Golem all’interno del quale aveva imprigionato un demone e, coincidenza significativa, durante il processo ai Templari di tre secoli dopo si parlò ancora di un Golem simile alla testa posseduta da Silvestro II. Secondo altri racconti Silvestro era entrato in possesso di un libro di magia nera. Ma l’apice della sua fama di Mago la raggiunse nella notte del 31 dicembre 999. Secondo la superstizione popolare la fine del millennio sarebbe coincisa con la fine del mondo. Ma Silvestro poco prima della mezzanotte spostò in avanti il calendario cancellando l’anno mille e salvando così il mondo dalla distruzione con un semplice trucco matematico.

Così conclusa la conoscenza con la Bobbio della magia e del diavolo bidonato da San Colombano per il fatto del ponte che fu il diavolo in persona a costruire in cambio dell’anima del primo a transitare sul ponte, ma fu scornato: il primo che venne fatto passare fu un cagnolino. Nel frattempo si è conclusa con la premiazione come piacentina dell’anno di Donatella Ronconi, editore puro e indipendente, che, come ha specificato Daniela Gentini, “con il suo coraggio imprenditoriale, la sua visione e il forte legame con il territorio ha dato un contributo fondamentale allo sviluppo di Editoriale Libertà“. Parole con le quali le edizioni Pontegobbo hanno dato appuntamento all’edizione 2024, la 14^. Dunque, arrivederci, Bobbio.

Donatella Ronconi tra Daniela Gentili e Roberto Pasquali

Sabbioneta, dichiarata Patrimonio dell’umanità dall’UNESCO, città popolata da presenze imprendibili ma percepibili

Vespasiano Gonzaga nella Sala delle Aquile

Sabbioneta. Luogo sacro e crogiolo di storia, culla di sogni ardimentosi e vibranti, di fauste speranze e amari disinganni, di soleggiati meriggi e algide albe scure e nebbiose, tempio eccelso d’arte e grazie, custode della memoria di un principe che seppe trasfondere la leggendaria sua giornata terrena nel mito eterno di una città.

Città popolata da fantasmi; presenze imprendibili ma percepibili. Anche da sogni misteriosi, luminosi, che si riverberano sulle mura, sulle case, sui palazzi del potere e del piacere, a ricordare allo stordito visitatore che lui, il conditor, Vespasiano Gonzaga Colonna, è qui. Sempre.

Sabbioneta ha collezionato una serie di antichi e misteriosi miti tra cui quello del fantasma della castellana. È leggenda diffusa che nel Castello Mina della Scala avvengano manifestazioni paranormali; il fantasma della contessina Schizzi, famiglia che fu proprietaria del palazzo, che vaga alla ricerca della sorella morta per peste nel Seicento. Comparirebbe nella notte del primo plenilunio dell’anno, manifestandosi in cima allo scalone della dimora, per poi discenderlo e quindi svanire, al rintocco di una campana.

Un’altro tra i celebri miti è quello delle “ombre” che avvolgono la figura del Duca di Sabbioneta. La tradizione narra che egli avesse ucciso, con un calcio, l’unico figlio. Una circostanza che però non è mai stata accertata, poichè lo scheletro del cranio del bambino non riporta traumi. La leggenda, quindi, è destinata a rimanere tale.

“Rosalia Lombardo, la Bella addormentata”, dorme dal 6 dicembre 1920 nelle Catacombe dei Cappuccini di Palermo

Rosalia Lombardo, la mummia più bella del mondo a Palermo

E’ conosciuta come la mummia più bella del mondo: la “Bella Addormentata” si chiamava Rosalia Lombardo. “Sta dormendo” dal 6 dicembre del 1920, la piccola Rosalia. Alle Catacombe dei Cappuccini di Palermo, quando ci si avvicina al suo corpicino, lo si fa in silenzio che non è ‘religioso’ ma ‘materno’, proprio come si fa quando c’è un bimbo che dorme in una culla: stando attenti che non si svegli.
Oggi avrebbe più di 96 anni, questa piccola bimba, estremamente sfortunata, nata a Palermo il 13 dicembre 1918 e morta per un’infezione ai bronchi o probabile polmonite, dopo la Prima Guerra Mondiale, unico caso di essere umano assolutamente intatto.
Riposa in una piccola bara, oggi restaurata, all’interno delle Catacombe di Palermo, il cui Convento è conosciuto in tutto il mondo per la presenza, nei suoi sotterranei, di un vasto cimitero che attira la curiosità di numerosi turisti. Lo spettacolo macabro dei cadaveri esposti è spunto di riflessione sulla caducità della vita e sull’inutilità dell’attaccamento degli uomini alle loro fattezze esteriori.

La piccola Rosalia riposa ai piedi della santa di cui porta il nome, appunto nella Cappella di Santa Rosalia, in fondo al primo corridoio, sulla sinistra, ed è stata una delle ultime persone ad essere ammesse alla sepoltura nella cripta. Viso d’angelo, capelli biondi, zigomi paffuti, uno splendido nasino all’insù, un fiocco giallo tra i capelli. Di lei si vede solo il viso, il corpo è avvolto da una coperta, e pare che dorma, o meglio, sembra una bimba pronta a svegliarsi da un momento all’altro. Ma è solo un’illusione.
Grande merito è l’aver rivolto attenzione all’aspetto estetico per dare l’impressione non di un cadavere, bensì di una persona dormiente. Nel 1918 i suoi genitori videro la sua nascita come il più bello dei doni per poi constatare che, due anni dopo, un’infezione ai bronchi l’avrebbe portata via. Il padre, distrutto dal dolore, decise di farla”vivere in eterno”, e contattò un noto imbalsamatore dell’epoca, Alfredo Salafia, che utilizzava delle tecniche all’avanguardia, uniche, la cui formula è stata scoperta da poco. Salafia, tassidermista ed imbalsamatore palermitano, avrebbe mantenuto intatto il corpicino di Rosalia. Nel 1899 ottenne il permesso di sperimentare il suo innovativo composto sui cadaveri umani nella Scuola Anatomica del professor Randaccio, che fu in seguito presentato con successo all’Eclectic Medical College di New York.
La bambina si presenta come un piccolo angelo addormentato, con riccioli dorati che le ricadono sulla fronte e sembianze talmente autentiche da farla sembrare viva, ma sprofondata in un sonno profondo. Ma come è stato possibile fermare l’istante della morte? Nel 2009 le affannose indagini diedero i loro frutti, quando, grazie alle ricerche del paleontologo Dario Piombino Mascali, alcuni interrogativi, rimasti irrisolti per lungo tempo, trovarono finalmente risposta.
La nipote di Salafia, Anna, infatti ha consegnato un manoscritto conservato in una carpetta blu, dove era contenuta la misteriosa formula, scomparsa con la morte per ictus del Salafia nel 1933. Una miscela di formalina, glicerina, sali di zinco, alcool e acido salicilico. Quasi tutti questi ingredienti si usano ancora oggi, e ad essi si poteva aggiungere un trattamento del volto con paraffina disciolta in etere, giusto per mantenere un aspetto vivo e tondeggiante. Il Salafia con questa formula rivoluzionava le tecniche per immersione adoperate fino ad allora, che tutto davano alla mummia, tranne un aspetto naturale. Questa tecnica rappresenta uno dei primi esempi dell’uso della formaldeide per l’imbalsamazione umana.

La mummia di Rosalia, fotografata nel 2014, apre e chiude gli occhi

Nel giugno del 2014, la mummia Rosalia, ha fatto di nuovo parlare di sé.
Gli occhi della Bella addormentata sono stati fotografati a distanza di un minuto nell’arco della giornata, rilevando l’incredibile sorpresa: si aprono e si chiudono a più riprese e nelle foto scattate sembra quasi che ci sia ancora della vita. Le foto sulle palpebre della mummia Rosalia sono state scattate con una sequenza di un minuto (60 secondi) creando un vero e proprio filmato in cui gli occhi, le palpebre della piccola si aprono e si chiudono in un breve movimento. La scoperta ha destato scalpore nella città di Palermo: alcuni hanno gridato al miracolo.
Ma gli studiosi, nell’osservare le differenti foto scattate a più riprese sul volto della mummia Rosalia, hanno evidenziato il fatto che, in effetti l’apertura e la chiusura degli occhi è evidente, ma che il fenomento riguarda una particolare reazione tra l’umidità e le luci dell’apparecchio fotografico, che nella procedura di “scatto” generano una foto-decomposizione. Sarebbe proprio il processo fotografico a creare il movimento di apertura e chiusura delle palpebre visibile in tutte le foto scattate con la tempistica di un minuto.
Il corpo è stato radiografato con difficoltà perché la bara è circondata dal piombo, e sono ben visibili il fegato, il cervello e un polmone. In seguito, il corpo di Rosalia ha iniziato a manifestare alcuni segni di deterioramento, tanto che si è deciso di porla dentro ad una culla di vetro e acciaio, una capsula satura di azoto per distruggere i microrganismi, brevettata per mantenere al suo interno venti gradi di temperatura e il 65 per cento di umidità: il secondo «lettino eterno» realizzato al mondo per una mummia umida (cioè ancora piena di liquidi) dopo quella di Otzi, l’uomo preistorico di Bolzano.
Rosalia Lombardo, che ha lo stesso nome della piccola morta, aveva accusato gli studiosi di avere deteriorato la salma imbalsamata. La procura aveva chiesto l’archiviazione e l’anziana si era opposta. Il gip, tuttavia, non ha ravvisato reati.

Sia la sorella omonima che la nipote Rosanna La Ferla, hanno annunciato battaglia. “Mi pregio, con questa mia, di porre alla vostra attenzione alcuni fatti” scrive la signora Rosalia Lombardo”che hanno dell’incredibile e che hanno toccato profondamente la mia sensibilità di sorella della compianta…L’ultima volta che ho visto mia sorella, nel 2007, questa aveva un aspetto meraviglioso, con un colorito roseo e degno della fama che l’ha resa famosa in tutto il mondo, paragonandola alla bella addormentata. Purtroppo ho dovuto verificare che quella creatura che sembrava addormentata, oggi sembra un’altra persona: ha i capelli diversi, gli occhi semi aperti e il colorito, il suo meraviglioso colorito roseo è diventato di un colore strano .. sembra ossidata!”.

Ma sono cambiati i colori dei suoi capelli? Qualcuno ha rotto il vetro della bara?

Ma c’è dell’altro. I parenti denunciano anche che Rosalia “aveva un abito blu, ciuffetti raccolti in due fiocchi azzurri, i calzettoni bianchi, la vestì mia nonna in persona. Poi l’abbiamo vista con un vestitino rosa pesca, poi di nuovo blu, con un fiocco giallo e senza alcun fiocco. Ma quante volte è stata aperta la sua bara?“. I registri sostengono, tuttavia, che solo una volta si è rotto il vetro e gli anziani dicono che non è mai cambiata. Il gip ha dunque archiviato il caso, giustificando il fatto che era necessario intervenire sul corpo, al fine di preservarlo e che quindi non lo si poteva lasciare inalterato. Forse la battaglia dei familiari avrà un seguito, fino a quando essi non riusciranno ad ottenere per Rosalia quella giustizia che merita.

Ma che dire di lei, Rosalia?
Non si sveglierà come le principesse delle favole all’arrivo del principe azzurro. Era solo una bambina, con i suoi riccioli biondi sulla fronte come quando la madre la pettinò per l’ultima volta, con il colorito roseo del volto e l’espressione di quel sonno beato, che rende tutto misterioso e innaturale pensando al secolo trascorso dal suo ultimo respiro.

La piccola Rosalia riposa ai piedi della santa di cui porta il nome, appunto nella Cappella di Santa Rosalia, in fondo al primo corridoio, sulla sinistra, ed è stata una delle ultime persone ad essere ammesse alla sepoltura nella cripta.

Fonte: lacustodeditombe.blogspot.com

“Le Spettrali ‘Presenze’ nella Metropolitana di Londra”, articolo pubblicato in fb da Kella Tribi

In Inghilterra i fantasmi sono di casa, fanno un po’ parte del folklore d’oltremanica, e rientrano talvolta nello stereotipo di ciò che viene considerato British.

Tra i tanti luoghi di avvistamenti di entità sovrannaturali non poteva certo mancare la metropolitana di Londra che, con le sue 382 stazioni che si snodano sotterranee, alcune delle quali ormai abbandonate, rappresenta uno dei luoghi più iconici della capitale. Nel corso della sua lunga storia, iniziata nel lontano 1843 quando l’inaugurazione della galleria sotto il Tamigi, progettata dall’ingegnere Marc Brunel, diede l’avvio ai titanici lavori di quella che i londinesi ed i pendolari chiamano semplicemente the tube, innumerevoli sono state le testimonianze di chi ha sostenuto di aver percepito il manifestarsi di presenze paranormali.

La stazione, sulla Central Line, fu utilizzata come rifugio antiaereo nel corso della seconda guerra mondiale. Il 3 marzo del 1943, durante un bombardamento, mentre le persone correvano a ripararsi, una donna con il carrozzino inciampò, seguita da un vecchio, provocando una reazione a catena che causò la morte per soffocamento di 173 persone.

Tra i corpi recuperati figuravano 60 bambini. Numerose testimonianze del personale notturno della metro, di quando cioè la stazione è sotto controllo, ma chiusa, concordano nel riferire di avvertire continue grida di panico e di pianto di bambini.

Il rischio di incontrare un fantasma e scoprire che quel fantasma siamo noi

Avete visto un fantasma? Qualcuno vi ha raccontato di averne visto uno? Non dovete preoccuparvi più di tanto. Sono millenni che i fantasmi appaiono all’uomo. Li conoscevano già gli antichi Greci e Romani, apparivano nel Medioevo e nell’Ottocento erano di gran moda. Perché dunque non dovrebbero continuare a farsi vivi anche oggi? Sia ben chiaro, avere a che fare con gli spiriti non è facile. Spesso sono paurosi. Ma a volte fanno anche ridere. Di sicuro sono molto misteriosi. Proviamo a scoprire qualcosa di più sulla loro esistenza, vera o inventata che sia.

Un comico dell’antica Roma che si chiamava Plauto e scriveva commedie buffe, raccontò di un fantasma che impediva al padrone di casa di rimettere piede nella sua villa. E sapete che cosa faceva questo fantasma?Faceva un gran chiasso trascinando catene e ululando. Proprio come i fantasmi che immaginiamo ancora oggi.

Questa storia delle catene si ritrova spessissimo. Un altro aspetto ricorrente è che i fantasmi sono dispettosi e fastidiosi. Insomma, fanno di tutto perché le persone si accorgano di loro. Sono sempre inquieti e hanno bisogno di raccontare la loro storia.

Anche il fantasma di Plauto lo fece: era lo spettro di un uomo che era stato accolto in quella casa dal padrone precedente e che poi era stato ucciso a tradimento per rapinarlo. Vi dice niente? Già, anche questo è proprio un classico: i fantasmi sono spesso persone morte in modo violento e magari a tradimento.

Amleto, nella famosa tragedia di Shakespeare, incontra di notte lo spettro del padre che gli racconta di essere stato ucciso a tradimento dal fratello che voleva prendere il suo posto come re. La differenza è che il fantasma di Plauto in realtà non esisteva, l’aveva inventato il servo del padrone per spaventarlo e tenerlo fuori casa. Quello di Shakespeare invece diceva la verità e sembrava proprio uno spettro vero. Anche questa è una cosa che va avanti da sempre: ci sono persone che ai fantasmi ci credono e ci sono quelle che pensano che siano tutti finti.

Se lo chiedete a uno scienziato vi dirà che sono solo sciocchezze. In realtà per moltissimo tempo gli scienziati hanno studiato le apparizioni degli spettri con metodo scientifico e, insomma, un po’ ci credevano. Sarà forse perché in fondo piace un po’ a tutti avere paura. E quella dei fantasmi è una paura antichissima, legata alla paura della morte.

I fantasmi, fateci caso, non sono mai personaggi di fantasia: sono sempre lo spettro di una persona che è esistita davvero e che torna perché c’è qualcosa che non va nel modo in cui è morto.

Ma allora bisogna averne paura sì o no? Alla fine la cosa migliore da fare è conoscere le storie senza spaventarsi troppo. Semmai, dobbiamo fare attenzione a non diventare noi i veri fantasmi. Magari passando troppo tempo nel mondo di internet con lo smartphone e col tablet, perdendo il contatto con il mondo della realtà.

Le tante leggende sul giorno dei morti

Le jour des morts (Il giorno dei morti) di William-Adolphe Bouguereau, olio su tela realizzata nel 1859 ed oggi esposta al Musée des Beaux-Arts di Bordeaux, in Francia.

Ripopolano le vie del paese, fanno visita ai vivi, si presentano in casa durante la notte. Tante sono le credenze legate al ritorno dei defunti nel mondo terreno. Nelle più diverse culture spesso i morti si riaffacciano alla realtà quotidiana per nutrirsi o per assistere alla messa, per dissetarsi o per andare in pellegrinaggio. Si tratta di credenze legate, innanzitutto, all’idea che la vita e la morte sono comunque, sempre, inevitabilmente legate. Ma non solo: rappresentano anche il modo, per i vivi, per continuare a mantenere forti legami con i propri defunti. E per sentirli più vicini.

DI NOTTE, PER ASSISTERE ALLA MESSA

Una leggenda particolarmente diffusa è quella che narra che, durante le ore notturne, i morti si radunano in chiesa per sentire la loro messa, la cosiddetta “messa dei morti”. E se qualcuno entra in chiesa mentre si celebra questa funzione, corre il pericolo del contagio di morte. In Abruzzo, si ricorda questo dettagliato racconto, segnalato soprattutto nelle zone rurali attorno a Pescara: una fornaia, alzatasi di buon’ora, andava ad accendere il forno. Nel passare davanti ad una chiesa, che vide illuminata, pensò che si stesse celebrando la messa e vi entrò. La chiesa era illuminata e piena di gente. Inginocchiatasi, una sua comare, già morta, le si avvicinò dicendo: “Comare, qui non stai bene, va’ via. Siamo tutti morti e questa è la messa che si dice per noi. Spenti i lumi, moriresti dalla paura a trovarti in mezzo a tanti morti”. La comare ringraziò e andò via subito, ma per lo spavento perse la voce.

In Sicilia si crede che a celebrare la messa dei morti siano condannate le anime dei preti che ingannarono i fedeli, non celebrando, per avidità di guadagno, le messe per cui avevano ricevuto le elemosine. Queste anime, dunque, devono celebrare anno per anno una messa fino a quando non avranno soddisfatto il loro obbligo. Le messe sono invece ascoltate da quei morti che, per pigrizia o negligenza, non parteciparono alle messe in vita: i siciliani le chiamano appunto “misse scurdate”. Mentre a Catania si racconta di morti che passeggiano in processione per le strade recitando il rosario, a Salemi, in provincia di Trapani, si dice che la messa dei morti sia celebrata tra le ore di mezzogiorno ed il vespro: quando suonano le campane, chi, tratto in inganno, entra in chiesa e vede il volto cadaverico di un prete, deve fuggire immediatamente facendosi il segno della croce. Altrimenti non sopravvivrà.

In Friuli, invece, si ritiene che i morti vadano in pellegrinaggio nei santuari e nelle chiese lontane dai centri abitati, sempre di notte: i racconti parlano di defunti che escono dai cimiteri vestiti di bianco e con scarpe di seta, avvolti nel lenzuolo funebre. Chi dovesse entrare durante una di queste visite, morirebbe al canto del gallo.

DI NUOVO IN CASA, PER SFAMARSI

In molte località è segnalato il tema del ritorno dei morti nei giorni successivi al decesso: una idea forte soprattutto nell’Italia meridionale. In Molise, nel comune di Venosa, in provincia di Potenza, ad esempio, dopo che il cadavere è stato portato al cimitero, i parenti abbandonano la casa per un giorno ed una notte per permettere al morto di tornare a rifocillarsi.

A Modica, in Sicilia, si crede che per i tre giorni successivi alla sepoltura il morto rientri a casa per sfamarsi con pane e per dissetarsi con acqua: per questo i parenti gli lasciano, di notte, la porta di ingresso socchiusa e puntellata con una sedia, sulla quale viene posato pane fresco in abbondanza. In diversi comuni intorno all’Etna, poi, si riferisce che i defunti, dopo aver girovagato per i sentieri più spopolati, diventano formiche per poter entrare, attraverso le fessure, nelle case dei loro congiunti a nutrirsi.

Giorno dei morti messicano, teschio faccia vernice

In diversi paesi dell’Aspromonte, in Calabria, in autunno i morti tornano addirittura per un mese intero. Così le famiglie mettono ogni sera sul tavolo un piatto ricolmo di cibo, la bottiglia del vino, una brocca d’acqua. In qualche paese si lascia addirittura un mazzo di carte da gioco, affinché i defunti possano ancora assaporare i passatempi della vita.

In Sardegna, in alcuni centri vicino a Sassari, i morti fanno ritorno nelle case soprattutto nella notte del primo agosto: i familiari, lasciando apparecchiata la tavola per il pasto notturno dei loro defunti, devono però evitare di mettere le posate, soprattutto forchette e coltelli, perché potrebbero diventare una arma molto pericolosa nelle mani dei morti.

Più diffusa in tutta Italia è invece la credenza che i morti tornino nella notte tra il primo ed il due novembre. In alcune aree del Veneto si tramanda che, più che per mangiare e bere, i morti tornino per riposare: nelle campagne intorno a Vicenza, la mattina del due novembre le donne si alzano più presto del solito e si allontanano dalla casa dopo aver rifatto i letti per bene, perché le povere anime del purgatorio possano trovarvi riposo per l’intera giornata. In Piemonte, nelle zone della Val d’Ossola, il due novembre, dopo il vespro, le famiglie si recano al gran completo in visita al cimitero, abbandonando discretamente le case, perché le anime dei trapassati possano rifocillarsi a loro agio: durante questo banchetto, i morti parlano fra loro, predicendo l’avvenire dei propri congiunti. La sera di Ognissanti, ossia alla vigilia del giorno dei morti, sempre in Piemonte, è vivo il costume di radunarsi a recitare il rosario tra parenti e a cenare con le castagne. Finita la cena, la tavola non viene sparecchiata: rimane imbandita col resto avanzato. Verranno i trapassati a cibarsene.

Pane dei morti

LEGUMI, IN MEMORIA DEI DEFUNTI

Nelle tradizioni popolari sono spesso i poveri a portare nutrimento e messaggi ai defunti, perché considerati immuni dal contagio della morte. Una usanza segnalata soprattutto in Calabria: le famiglie di Cosenza mandano ai loro morti il cibo preferito attraverso i disperati: lo preparano al mattino presto, per offrirlo al primo povero che passa davanti alla loro casa. Questi, lo consegnerà al defunto che, nel frattempo, si è messo in cammino per raggiungerlo. Ad Umbriatico, in provincia di Catanzaro, per la commemorazione dei defunti si preparano per i poveri speciali focacce di pane lievitato e cotto al forno, le “pitte collure”, mentre a Paola, il due novembre, si distribuiscono ai poveri fichi secchi. Gli stessi nutriranno anche i morti, usciti dal cimitero nel giorno della loro celebrazione per cibarsene.

In occasione della festa dei morti in Veneto si distribuiscono le fave, mentre in Piemonte si offrono ai poveri o gli avanzi della cena o una scodella di legumi fatti cuocere in memoria dei trapassati. In Abruzzo, dove tra i pescatori, la notte tra l’uno e il due novembre, non si può andare a pesca, perché le reti pescherebbero, al posto dei pesci, solo teschi di morti, viene di solito offerto il due novembre ai poveri del paese un piatto a base di ceci: nello stesso momento, i defunti si aggirano per le strade in cui sono vissuti, allontanando le malvagità: una credenza che si ritrova soprattutto nelle campagne intorno a Chieti.

LE STRENNE DEI MORTI

La commemorazione dei defunti ha anche un proprio cibo, un dolce fatto di marzapane, detto di solito “ossa dei morti” per la sua forma. Tipicamente siciliano è diffuso però anche in Calabria, nel padovano e nel cremonese. È il dolce che a Palermo i bambini buoni trovano la mattina del due novembre insieme ad altri regali. Mentre ai cattivi saranno riservati aglio, carbone e scarpe rotte. La leggenda racconta infatti che nella notte tra il primo e il due novembre i morti lasciano la loro dimora per scendere in città a rubare ai più ricchi pasticceri, ai mercanti, ai sarti, dolci, giocattoli, vestiti e tutto quanto hanno intenzione di donare ai loro parenti fanciulli che sono stati buoni nell’anno e li hanno pregati. Una tradizione che si è coltivata nel tempo per indurre la familiarità con la morte e con il mondo degli antenati.

La processione dei morti il 2 novembre

Fonte: orsomarsoblues.it

Castello di Agazzano: porte che si aprono, luci che rimangono accese, vetri che non si sa da dove arrivino.

Per comprendere quanto Piacenza e i suoi dintorni siano considerati una delle zone d’Italia più segnate dal mistero, basti pensare che molti studiosi e appassionati di fantasmi la ritengono la provincia più infestata d’Italia, grazie anche alla presenza di tantissimi castelli e rocche in cui si sarebbero svolti avvenimenti spesso tragici, eventi ricordati nei testi di storia ma non solo.

Uno dei luoghi di interesse per chi ama il tema delle infestazioni di fantasmi è il castello di Agazzano, in cui si aggirerebbe tuttora lo spirito di Pier Maria Scotti. Secondo le narrazioni dell’epoca, Scotti fu ucciso da Astorre Visconti e gettato nel fossato della rocca, ma il suo cadavere non fu mai ritrovato.

Pier Maria Scotti  detto il Buso era un abile spadaccino che ogni volta che colpiva una vittima con la spada lasciava il “buco”, fu ucciso nel 1529 in una locanda sita in Agazzano.  Il suo corpo gettato nel fossato  che anticamente circondava la Rocca. Nonostante questa certezza storica il cadavere come detto non è mai stato ritrovato e  la sua presenza si  sente ancora oggi tra le mura del castello e nel giardino.

Porte che si aprono misteriosamente, luci che rimangono accese, vetri trovati nelle stanze e di cui non si sa la provenienza. Sono stati compiuti diversi sopraluoghi da parte di associazioni esperte di fantasmi che hanno rilevato tracce di presenze ultraterrene. Strani avvenimenti si sono succeduti nel tempo e si è tenuti a credere che Pier Maria Scotti che amava moltissimo Piacenza e il piacentino non abbia voluto allontanarsi completamente da questi luoghi.

E’ importante ricordare che tornò appositamente dalle Americhe per riconquistare la posizione che credeva gli spettasse nella città di Piacenza e nei territori appartenenti agli Scotti. Il carattere di questo condottiero si caratterizzava per la tenacia, la cattiveria ma anche il coraggio.   Il suo errore fu quello di occupare il castello per prenderne il bottino e imporne il dominio non avvisando l’alleato Visconti… che come abbiamo visto non ne rimase molto contento.

Fonte Piacenza24 on line

“L’Abbazia di San Galgano e la spada nella roccia”, di Luisa Oranti

Nel 1148 in un paese vicino a Siena chiamato Chiusdino, nasce Galgano Guidotti. I suoi genitori, dopo anni di matrimonio e di sterilità, desideravano da molto l’arrivo di un figlio. Alla ricerca di un miracolo si recarono in pellegrinaggio alla Basilica di San Michele sul Monte Gargano, in Puglia. 

E’ stato molto probabilmente grazie a questo viaggio che i suoi genitori decisero di dargli il nome di Galgano, in onore del luogo sacro visitato. Una volta cresciuto il fanciullo diventa cavaliere, ma nel frattempo segue una vita abbastanza dissoluta e libertina. Era un ragazzo violento, ed il suo desiderio era quello di puntare ad una vita di divertimenti e di piaceri.

Le visioni dell’arcangelo Michele 

Nel 1180 Galgano però sceglie di cambiare vita, rimasto colpito da due diverse visioni dell’arcangelo Michele. Nella prima visione San Michele gli confida che vuole fare di lui un Cavaliere di Dio.  Nella seconda gli mostra il suo nuovo percorso di vita sotto la sua protezione. Galgano di conseguenza, mette in discussione la sua esistenza di uomo, decidendo di dedicarsi interamente alla vita religiosa ed a Dio vivendo da eremita. 

Per simboleggiare questa sua decisione Galgano impugna la spada che aveva ricevuto dopo esser divenuto un cavaliere, e la conficca in una roccia. Pregò poi davanti all’elsa, che si erge nella roccia come una croce.

Negli anni seguenti Galgano viene conosciuto per i suoi miracoli, morendo il 30 Novembre 1181 a Chiusdino. Viene immediatamente beatificato, e nel 1185 viene proclamato da Papa Urbano III come Santo.

Il Culto di San Galgano e di San Michele

Dopo essere stato proclamato Santo, San Galgano ed il suo mito si diffusero rapidamente, specialmente nel contesto cavalleresco. Nacque di conseguenza anche un’ adorazione ed un culto religioso per questo personaggio. Così come nel mito l’arcangelo San Michele, un angelo guerriero e protettore, è sempre rappresentato con la spada sguainata accanto al Santo Galgano.

Il loro culto era particolarmente intenso e diffuso in tutto il Medioevo, presente nella vita dei guerrieri e dei combattenti dell’epoca. Un esempio sono i Longobardi ed i Franchi che esprimevano la loro devozione attraverso pellegrinaggi e riti, oltre che nella costruzione di chiese come Mont Saint-Michel in Francia, e sulla monetazione o negli stendardi.

Le indagini scientifiche su la spada nella roccia

Sono state condotte anche delle proprie e vere indagini scientifiche per analizzare l’autenticità di questa storia. I ricercatori delle Università di Pavia, Siena, Padova e Milano hanno confermato che l’elsa che emerge dalla roccia appartiene a una vera spada, realmente conficcata nella roccia. 

Anche confrontando la cronologia della vita del Santo Galgano con le opere del ciclo arturiano realizzate dopo la morte di questo personaggio, si può facilmente ipotizzare che la sua storia sia stata la vera fonte ispiratrice della leggenda del re Artù.

Per molti altri, invece, la spada è stata considerata falsa nonostante essa sia ancora conficcata nella roccia nell’eremo di Montesiepi. Il luogo in cui Galgano si era ritirato per condurre la vita spirituale.

Questo finché una ricerca effettuata da Luigi Guarleschelli dell’Università di Pavia ha dimostrato le origini medievali dell’arma. La sua composizione metallica non mostra un uso di leghe moderne, ed il suo stile è perfettamente compatibile con quello di una spada del XII secolo.

Le Reliquie rimaste 

Le testimonianze non sono molte; la maggior parte delle tracce sono andate perdute o distrutte col tempo. Ciononostante, la chiesa di San Michele di Chiusdino conserva il teschio della testa di San Galgano. Il Museo dell’Opera del Duomo di Siena tiene esposto invece un reliquiario del XIV secolo, usato in precedenza per custodirla. Lo stesso museo, inoltre, possiede il pastorale degli abati di San Galgano. 

Molti pittori famosi, quali ad esempio Domenico Beccafumi, il Sodoma, Bartolomeo Bulgarini, Ventura Salimbeni, hanno rappresentato in diverse opere ed occasioni episodi San Galgano.

Nel 1268, fu consacrata l’Abbazia di San Galgano che visse un secolo di completa e ricca prosperità, prima di andare lentamente in declino.

Ciononostante,  San Galgano è tutt’oggi venerato come Santo dalla Chiesa cattolica e la sua spada è ancora conficcata nella roccia. Quest’ultima è possibile trovarla nell’eremo che porta il suo nome, ed è divenuta una meta di curiosi e di devoti cattolici. La sua narrazione è un simbolo forte di religiosità, e la sua spada è diventata uno strumento di pace e di speranza.

Fonte: ultimavoce.it

“Tristano e Isotta”

Tristano è orfano di padre e viene allevato da suo zio, il re Marco di Cornovaglia. Diventa un cavaliere perfetto: sa maneggiare le armi e suonare l’arpa. Già molto giovane, Tristano libera la Cornovaglia da un mostro. Tuttavia nel duello resta ferito dalla spada avvelenata del mostro e credendo ormai di essere vicino alla morte, Tristano sale su di una barca e si lascia trascinare dalle onde, in attesa di morire. Ma non muore e la barca approda sulle rive dell’Irlanda. Qui viene accolto dalla regina, fra l’altro sorella del mostro ucciso, che lo guarisce. Alla corte, Tristano conosce Isotta la Bionda, figlia della regina. Guarito, Tristano ritorna in Cornovaglia, dallo zio. Rientrato in Cornovaglia, apprende che suo zio ha intenzione di sposare la donna a cui appartiene un capello d’oro portato da una rondine: è uno strattagemma perché lo zio non si vuole sposare. Così il regno passerà in eredità al nipote Tristano. Tristano pensa che si tratti di Isotta la Bionda e parte subito per l’Irlanda per chiedere la mano di Isotta per lo zio Marco. Il re e la regina d’Irlanda accettano, anzi la regina prepara un filtro d’amore per la figlia e per il re Marco: bevendolo i due si innamoreranno e vivranno felici la loro storia d’amore. Tuttavia, durante il viaggio di ritorno dall’Irlanda in Cornovaglia, Isotta e Tristano bevono il filtro per errore e si innamorano.

Marco sposa Isotta la bionda che, però, non cessa di amare Tristano. Un giorno Marco scopre i due amanti ma, preso da pietà, non reagisce. Allora Tristano e Isotta decidono di lasciarsi: Isotta resta in Cornovaglia col marito e Tristano ritorna in Bretagna, dove, per dimenticare la ragazza sposa Isotta dalle Bianche Mani.

Un giorno Tristano, in una delle sue avventure, è ferito da un’arma avvelenata. In punto di morte, chiede di far venire accanto a lui Isotta la Bionda perché solo lei potrà guarirlo. Un suo amico accetta di andare a prendere Isotta in Cornovaglia: al ritorno la barca isserà una vela bianca se trasporta Isotta, altrimenti la vela sarà nera.

La moglie di Tristano, Isotta dalle Bianche Mani, è al corrente di tutto e quando la barca entra nel porto, presa di gelosia, annuncia al marito ormai moribondo, che la vela è nera. Quando Isotta la Bionda arriva ormai è troppo tardi: Tristano è morto ed essa muore di dolore sul corpo del suo amante. Marco viene a sapere che i due amanti sono entrambi morti e che il loro amore è la conseguenza di un filtro d’amore bevuto per sbaglio. Li perdona e li seppellisce insieme, uno accanto all’altro. Una pianta di rovo spunta dalla tomba di Tristano e penetra in quella di Isotta: se viene tagliata cresce in modo ancora più vigoroso. Questa è la prova che la morte non può separare ciò che l’amore unisce per sempre.

Fonte: studenti.it

“Il culto magico di Stonehenge”

La storia di Stonehenge inizia con dei giganti che in tempi antichi portarono grandi pietre levigate dall’Africa in Irlanda e con esse edificarono un circolo sacro sul monte Kilarus come sepolcro funebre dei quattrocentosessanta nobili soldati di Aurelio Ambrosius uccisi dai Sassoni, poi Re Uther Pendragon chiese aiuto al mago Merlino per trasportarlo nei pressi di Amesbury e per tutti fu la “pietra sospesa” Stonehenge. Nella Historia Regum Britanniae, scritta nel 1140, Goffredo di Monmouth riporta l’antica leggenda che conferisce origini magiche il suggestivo anello di pietre edificato nel neolitico sulla pianura che si stende nella regione inglese del Wiltshire ad una diecina di chilometri da Salisbury.

Dove si trova

Su un terrapieno innalzato attorno al 3.100 a.C., venne edificata un’ampia composizione circolare di grandi megaliti databile tra il il 2500 e il 2000 a.C., a lungo misterioso luogo di culto, venne poi abbandonato e gran parte delle pietre crollarono, rimesse in piedi solo nel XIX secolo, pertanto non è sicura la collocazione originaria. I complessi megalitici sono strutture preistoriche costituite da grandi rocce di vari tipi, a pietre verticali isolate sono i menhir, poi a pietre verticali allineate a pietre disposte a formare una camera sono i dolmen e infine pietre disposte a cerchio come a Stonehenge.

La maggiorparte di questi complessi diffusi in Europa risalgono al periodo tra il Neolitico alla prima Età del Bronzo, dal IV al I millennio a.C., in Bretagna ed Inghilterra sono chiamati Cromlech e rivelano l’utilizzo dell’unità di misura comune “iarda megalitica” di 829 centimetri, che testimonierebbe conoscenze matematiche e geometriche degli antichi costruttori. Simile ad altri siti megalitici nordici, come quello di Anhalt nella Sassonia tedesca e l’Anello di Brodgar nella Scozia del nord, è di gran lunga più perfezionato e imponente degli altri, per la sua unicità Stonehenge è stato dichiarato Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco nel 1986.

La disposizione dei monoliti rivelano un culto legato ad eventi astrali ben osservati e conosciuti dai costruttori, a giudicare dall’allineamento con i punti di Solstizio ed Equinozio. In tale disposizione l’elemento più importante sembra essere la cosiddetta “pietra dell’altare”, costituito da un monolite di cinque metri di arenaria verde, tutte le altre pietre principali sono di arenaria silicea, tratta da un’antichissima cava ad una trentina di chilometri nelle Marlborough Downs.

I monoliti interni “Bluestone Horseshoe” sono in maggioranza di dolerite, alcuni di criolite, arenaria e calcaree vulcaniche, molto più piccoli di circa quattro tonnellate in media, provenienti dai monti Preseli nel Galles sud-occidentale. Le pietre si trovano nel centro di un’area racchiusa da un terrapieno circolare e da un fossato esterno dal diametro di ventitre metri, la via rialzata a nord orientale collega le pietre dell’area centrale, i cui lati sono delineati da argini e fossati.

Stonehenge: storia del solstizio d’estate e antichi rituali

È orientata verso l’alba del solstizio d’estate e conduce ai due fossati costruiti in età neolitica paralleli molto ampi e di due lunghi terrapieni, mentre il centro sacro ha forma di U con l’asse orientato al sorgere del sole del solstizio d’estate, ottenuto con la disposizione di cinque triliti, o pietre “sarsen“, poste gradualmente in altezza, in modo che la coppia più grande di pietre verticali forma l’apice della forma a U e le altre coppie opposte l’una di fronte all’altra di uguale lunghezza, infine le più corte costituiscono l’estremità della U. All’interno sta l’altare composto da una pietra di tre metri perpendicolare all’asse del sole. La collocazione nel santuario centrale delle altre pietre “Bluestone” risale al XIX sec.a.C. mentre altre sessanta formavano un cerchio tra il santuario e l’anello estremo di pietre sarsen sormontati da architravi.

L’anello estremo era formato da trenta pietre verticali con architravi in un circolo perfetto dalle altezze costanti. Oltre il terrapieno circolare e del fossato rimane il solo monolite “Hell Stone” alto quattro metri e mezzo. L’ipotesi più diffusa è che fu luogo consacrato al culto neolitico della Grande Dea, divinità femminile donatrice di fertilità e protezione, con l’alba del solstizio di estate la pietra centrale eclissava il sole levatosi all’orizzonte e la sua ombra penetrava all’interno del circolo di Stonehenge, rappresentazione del coito divino e la fecondazione, la pietra principale era un fallo e i circoli di pietra la vulva della Dea per la fecondazione nel giorno del solstizio di estate.

Chi ha costruito Stonehenge?

Nel XVIII secolo, con William Stukeley, si cominciò ad ipotizzare che dopo l’antico periodo neolitico il sito divenne un tempio che i sacerdoti Druidi interpretavano come percorso del sole e della luna, osservando i raggi del sole che passavano attraverso i tre portali allineati e cadevano sulla pietra principale nel giorno del solstizio d’estate, il 21 giugno, mentre all’alba del 21 dicembre, i raggi passavano attraverso i due portali alla fine del semicerchio interno, essi erano poi in grado di prevedere le eclissi spostando opportunamente alcune pietre.

Altre ricerche, per la presenza di tombe a tumulo nella zona, delle quali la più antica di Boscombe risale al 2.500 a.C. , hanno ipotizzato la sua natura di necropoli attorno al luogo sacro, altre ancora vi hanno individuato un complesso sacro cerimoniale legato anche al culto dei defunti.

Alcuni scienziati, come l’astronomo Norman Lockyer hanno studiato accuratamente il sito datando l’erezione dei megaliti al 2800 a.C. e una loro ricollocazione al 1560 a.C., probabilmente in seguito i culti che vi si tenevano furono abbandonati e, comunque, la zona decadde portando al crollo delle pietre, opera continuata dai cristiani che consideravano il sito opera diabolica. Dai rilevamenti appare chiaro i i cerchi concentrici sono rivolti verso il Sole e le costellazioni e secondo gli studi di Lockye servivano ad osservare il moto degli astri deducendolo alle ombre proiettate dalle pietre e da determinati allineamenti tra il Sole e gli archi che compongono i cerchi di pietre concentriche rilevabili in determinati giorni dell’anno.

Per l’astronomo americano Gerald Hawkins, Stonehenge sarebbe una sorta di strumento di calcolo basato sui movimenti del sole, della luna e delle eclissi, e il direttore del museo di Glasgow Euan Mac Kie, ipotizza l’esistenza di una vera scuola astrale nella zona di Durington Walls.

Fonte: travelgeo.org

“La storia di Iris”

C’era una volta, in un’antica foresta ai piedi dei monti, tra i ruscelli e le praterie più verdi, una casetta isolata e misera, nella quale viveva una povera fanciullina orfana col suo gattone nero Veggente, un bell’animale dal manto color della notte, e dagli occhi accesi e attenti come due lune perpetue e piene. La fanciullina, che si chiamava Iris, era dotata di una bellezza fuori dal comune. Infatti i suoi lunghi capelli d’oro, scivolavano dolcemente lungo le spalle esili, e due occhioni d’un blu acceso rischiaravano con quella luce interna, anche il bosco più ombroso nella notte più nera.
Iris amava fare lunghe passeggiate con Veggente lungo le rive dei ruscelli, nei fitti boschi di abeti, sui monti ricoperti di fiori, tra le radure isolate.

Durante queste escursioni, la fanciullina amava narrare al suo gatto, storie meravigliose e remote di Elfi che un tempo popolavano quelle montagne, di Fate che comandavano i fiori, di Gnomi che pullulavano tra le enormi radici degli olmi.

Iris amava talmente queste leggende, raccontate in un’ epoca ancora felice dalla nonna, che sempre sperava d’incontrare nelle sue uscite le creature magiche, e talvolta addirittura le pareva di scorgere, qua e là tra i cespugli di biancospino o di ginepro, qualche lume misterioso, o addirittura di udire tra i gorgoglii dei ruscelli, una risatina cristallina. Iris ovviamente sapeva che quelle visioni e quei suoni erano solo frutto della sua fantasia ma, nella sua solitudine, come fanno tutti i bambini infelici, si chiudeva in quel guscio di sogni insieme a Veggente, che pur essendo un gattone taciturno e serioso, non la lasciava mai sola e le teneva compagnia con la sua ombrosa presenza.

Una bella sera d’estate, o meglio, proprio la sera del Solstizio d’ Estate, Iris non riuscendo a prender sonno a causa di uno strano suono, che le pareva di udire in lontananza e che fendeva l’aria come un’armonia molto acuta, decise di uscire e di scoprire da dove provenisse un tanto singolare rumore. Indossò così la sua bella vestaglia fiorita, che aveva intessuto lei stessa coi fiori di bosco, e seguita da Veggente, uscì nella notte.

In quella notte di mezz’estate, il cielo era limpido come uno specchio e mostrava orgoglioso le sue perle splendenti e silenziose, esattamente come gli occhi di Veggente. La Luna, più bella che mai, troneggiava nel blu del cielo e rischiarava con la sua luce argentea, le folte cime degli abeti scuri, creando trame d’oro sui sentieri addormentati. Ammirando il bel cielo, Iris e Veggente si avviarono ad “orecchie tese”, verso la parte del bosco da dove proveniva il suono. Avvicinandosi sempre più, Iris si rendeva conto che il misterioso trillo assomigliava molto al ritmo di cento campanelli festosi e, sempre più curiosa, percorse l’ultimo tratto di foresta che la separava dal mistero.
Scorse finalmente una radura, e prudentemente si nascose con Veggente dietro un folto cespuglio di pruni, potendo dal suo nascondiglio spiare, sbalordita, lo spettacolo che le si presentava dinanzi: proprio in mezzo alla radura, bruciava un enorme falò le cui fiamme, anziché essere rosse, s’innalzavano al cielo nelle loro lingue azzurrine, emanando, invece di acre fumo, un aroma di muschio soave.

Attorno al fuoco, cosa incredibile a vedersi e a narrarsi, si stringevano un’infinità di fatine che danzavano, agitando campanellini colorati nell’aria lieve, e che cantavano melodie così dolci, da incantare anche la pietra più dura. Le fate erano piccole ed esili, i loro volti erano simili a quelli delle bamboline di porcellana, così delicati e minuti, che sarebbe bastato un soffio di vento per cancellarli; le loro vesti erano sete intrecciate di rugiada, e le loro ali parevano essere state ritagliate da una soffice nuvola notturna, così come i lunghi capelli argentei, che volavano nell’aria e che danzavano anch’essi, con le allegre fiamme del fuoco azzurrino.

Ammutolita ed eccitata più che mai, Iris usciva, senza accorgersene, sempre di più allo scoperto, approssimandosi imprudentemente al fuoco delle fate, come rapita da quel gioco di luci e colori, da quei suoni tanto soavi e trasognanti. Senza che se ne rendesse conto, alla fanciullina sfuggì un gridolino di gioia sincera, che riecheggiò nella radura e nel cielo, come l’urlo di una rondine in primavera. D’improvviso dal fuoco fatuo, scaturì come un turbine turchino che avvolse la radura e travolse Iris, la quale si ritrovò come sprofondata in una nuvola leggera, cullata da canti amici e riscaldata da un fuoco odoroso. Intravvedeva in quel celeste che la circondava, le sagome impalpabili ma presenti delle fatine che cantavano e la guardavano dolcemente, accarezzando anche Veggente che, sdraiato su una nuvola di fumo chiaro e per nulla intimorito o meravigliato, sonnecchiava come se si fosse trovato in un bel praticello assolato.

Ma di colpo tutto sprofondò nell’oscurità, e l’ultima immagine che Iris scorse, fu di nuovo quella del limpido cielo del solstizio d’Estate. Si risvegliò nel suo lettino, nella sua casetta, nel suo boschetto, col suo gattino accanto e rasserenata da un sogno talmente bello, ma delusa che fosse terminato.
Si sedé e si stiracchiò. D’un tratto l’occhio le cadde su una piccola cassa d’argento, che era stata posata ai piedi del letto. Incuriosita aprì lo scrigno e, con uno stupore indescrivibile, lo scoprì colmo d’oro e gioielli così luccicanti e rari, da far invidia persino a quelli di una regina. Tra gli smeraldi e gli enormi rubini, Iris trovò una bustina celeste, all’interno della quale vi erano un mucchietto di campanelli colorati e la seguente lettera: “Ad Iris, la fanciullina più curiosa del bosco, le pietre più belle, affinché possa vivere come una regina ed essere felice, e a Veggente, il gatto sonnacchione, affinché possa indossare un collare di diamanti. Un abbraccio d’argento, dalle Fate del Solstizio”.

Da quel giorno, la vita di Iris cambiò completamente e non dové più patire né la fame, né la solitudine. Andò a vivere con Veggente in un bellissimo castello, e si circondò dei sui amici più fedeli, ma mai dimenticò la generosità delle fatine che ancora oggi, nella notte del Solstizio d’Estate, danzano e cantano intorno al falò azzurrino, attendendo che qualche bambino triste, solo e incuriosito, invochi timidamente il loro magico aiuto.

Fonte: avalonelcuore.jimdofree.com

“La Regina delle rose”

La Regina delle Rose viveva un tempo in un giardino segreto. Elegante e profumata, la sovrana aveva tutte le caratteristiche più belle dei fiori dai quali prendeva il nome. Viveva su una collina, circondata da un roseto ricco e in perenne fioritura. Tutti gli abitanti del luogo le volevano bene e le riconoscevano estrema saggezza, le richiedevano consigli e la invitavano alle feste, dai matrimoni ai compleanni.

La sua vita scorreva tranquilla, beata, si godeva le belle giornate del suo giardino e stava al sole solo quando non bruciava eccessivamente, al fine di non ledere la sua pelle perfetta. Non aveva mai avvertito il bisogno di uscire dal suo giardino incantato, perché lì, c’era tutto quel che la rendeva felice.

Oggi, ormai anziana, è sempre stupenda e rammenta con orrore il tempo nel quale si innamorò. Il suo cuore puro di fiore, fu catturato dalla bellezza di un giovane suddito.

Lui andava a recarle visita tutti i giorni, insieme conversavano e sognavano il futuro. Un giorno il ragazzo le manifestò che avrebbe desiderato sposarla, ma non poteva assolutamente presentarla agli amici. Lei era troppo bella, troppo perfetta, troppo diversa da tutti. “Dovrai cambiare” pretese il giovane “e adattarti a noi. Se cercherai di essere meno buona e gentile, meno solare e vivace, gli altri non mi faranno notare quanto siamo diversi.

La Regina delle Rose fu molto colpita, interdetta, non riusciva a spiegarsi come poteva essere una buona cosa, diventare meno bella e gentile. Un giorno chiamò il suo innamorato e gli disse: “Se tu mi ami, devi avere il coraggio di accettare tutto ciò che sono. E se sono diversa dai tuoi amici, forse loro mi apprezzeranno per questo, altrimenti non vale la pena di conoscerli. Non cambierò per te, non rinnegherò mai quello che sono.”

Da allora i due non si sono mai più visti, e la sovrana è ancora serena, contenta di non aver accettato di diventare qualcun altro, pur di essere accettata…

Fonte: avalonelcuore.jimdofree.com

“La fata scura”

Le Fate, si sa, sono esseri impalpabili e sensibili, che vivono di preferenza nei boschi ed ovunque vi sia vegetazione di cui prendersi cura, poiché una tra le loro funzioni, è proprio quella di seguire tutti i delicati processi di generazione e rigenerazione di piante, fiori ed alberi. Le Fate amano molto condividere le loro danze e i loro giochi con altri Spiriti della Natura che abitano la Terra e gli altri Elementi, e in generale sono attratte da tutto ciò che è piacevole e leggero, compresi i pensieri, mentre rifuggono le atmosfere cupe e tristi che le appesantiscono, levando loro luce e vitalità.

Queste Fate che presiedono alla vegetazione, nascono generalmente nelle notti di Luna Piena: quando un raggio di Luna incontra una goccia di rugiada, si forma come una nuvoletta di vapore opalescente, che si addensa fino a diventare una sorta di minuscolo batuffolo, un bozzolo soffice e scintillante fatto dei sogni più belli, dal quale con il primo raggio di Sole, emerge una nuova Fata circondata dal suo alone luminoso.

Una notte nel Bosco, proprio mentre la Luna nutriva coi suoi raggi il candido bozzolo, nel quale si stava formando una Fatina vegliata dagli Spiriti della Natura, passò una enorme nube nera che oscurò completamente l’astro e la sua luce. Non era una nube qualunque, fatta di pioggia, lampi e tempesta. Era una nube terribile che, passando sulle città degli uomini, si era saturata di rabbia, gas e frenesia, di rancore e rumori assordanti, di tutte le emozioni più corpose e grevi, di tutti i pensieri violenti. In due parole, puro veleno.

Al passaggio della nube davanti alla Luna, immediatamente il bozzolo iniziò a sussultare e a contrarsi, e la sua luce iniziò ad affievolirsi. Invano Fate, Elfi, Gnomi e Folletti si prodigarono intorno all’embrione di Fata: una cosa simile non era mai accaduta, e nessuno sapeva cosa fare. Non restava che attendere l’alba.

L’alba giunse, e col primo raggio di Sole, l’involucro, ormai simile ad un grumo di ragnatela rinsecchita, si ruppe. Tutti trattennero il fiato, e alla vista della creatura che faticosamente fuoriuscì dal bozzolo, non riuscirono a trattenere un gemito di orrore: era un essere informe e inquietante, senza contorni definiti, una Fata Scura, densa e stropicciata come non se n’erano mai viste prima, dal viso e dal corpo segnati da solchi ancor più scuri, che la rendevano simile ad un frutto avvizzito.

Ammutoliti dallo stupore e dal timore, le creature del Bosco indietreggiarono svelte di un buon passo, distanziandosi dall’ultima nata. Questa percepì il freddo e la distanza, e divenne ancor più informe e rinsecchita.

È davvero brutta con quelle rughe…!” mormorò una Fata Azzurrina, e sul volto della Fata Scura, comparvero immediatamente altri solchi.

È cosi scura e densa!” fece eco un’altra Fata, e Scura divenne ancor più scura e densa, e si accigliò.

Sembra così goffa e contorta per essere una Fata…” disse uno Gnomo, e Scura si sentì intorpidire le gambe già malferme, finendo carponi a terra.

Era appena venuta al mondo e non capiva cosa le stesse accadendo, ma di certo non era affatto piacevole. “E questo è niente! Guardate, senza luce com’è, le piante appassiranno al suo tocco!” gridò una Fata Verde, allarmando tutta la comunità del Bosco. “E i semi non germoglieranno!” terminò un’altra.

Scura, disorientata, si guardava intorno mentre il suo sguardo si faceva sempre più torvo e, chissà perché, offuscato.

“Una Fata con questo aspetto, non può che essere malvagia o portare sfortuna…” bisbigliò uno Gnomo, sottovoce sì, ma non abbastanza. Scura si voltò dalla sua parte, proprio quando una grossa ghianda si stava staccando dalla quercia sovrastante, e che colpì lo Gnomo dritto sulla testa. A quel punto ci fu un parapiglia generale: frattanto che alcuni Gnomi soccorrevano l’incauto sfortunato, Fate e Folletti si abbandonavano ad animati commenti. “Allora è vero che porta sfortuna!” faceva uno. “È lei stessa una sfortuna per la nostra comunità!” diceva un altro, e così via.

Scura sentiva dolore dappertutto, intanto che il corpo le si raggrinzava ancora, e che un dolore al torace si faceva sempre più acuto; il suo corpo si accartocciava e il suo sguardo diventava sempre più annebbiato, fino a che un liquido salato prese a scorrerle dagli occhi lungo il viso. Poi qualcosa in lei si spezzò, e con un urlo che raggelò i presenti, fece un balzo e si trascinò via, barcollando nel folto del Bosco.

Mentre passava accanto al ruscello, l’istinto le suggerì di specchiarvisi, per vedere cosa spaventasse tanto chi l’aveva accolta, ma le Ondine stesse, alla sua vista arretrarono, cosicché l’acqua si ritirò. Era veramente troppo per la piccola Fata Scura che, con un grugnito insieme sdegnoso e rassegnato, sparì rifugiandosi in quell’angolo scuro del Bosco, dove il Sole non batteva mai.

Un Elfo dal cuore sensibile, aveva assistito pensieroso alla sequela di avvenimenti che avevano gettato il Bosco nel panico, panico che, come ben si sa, non si addice molto agli Spiriti Fatati. Gli Elfi, creature che amano profondamente la compagnia delle Fate, sono fortunatamente molto rapidi nel captare l’essenza degli eventi e a formulare soluzioni. L’Elfo aveva notato che la piccola Fata Scura era peggiorata a vista d’occhio, dopo la sua nascita, come se avesse dato corpo ai timori e alle previsioni dei suoi compagni sconcertati. E indubbiamente, era stato l’influsso di quella nube, a causare questo insolito fenomeno. L’Elfo si mise allora alla ricerca della Fata, certo di poter rimediare alla situazione, e la scovò raggomitolata nel freddo e buio angolo del Bosco, dove crescevano soltanto i funghi velenosi.

L’Elfo non aveva paura di Scura, perché aveva il cuore leggero come l’Aria e l’Aria non si può ferire, quindi le si avvicinò e cominciò a soffiarle attorno, piccoli vortici leggeri come lui, tentando di solleticarla per farla almeno sorridere. Ma Scura non ne voleva sapere, e con uno “sgrunt” sì girò dalla parte opposta. Allora l’Elfo volò a raccogliere dal fiore più vicino, una goccia di nettare dolcissimo e lo offrì alla Fata, intrufolandosi tra le foglie marce che la celavano.

Scura si irritò ancor di più e, per scacciare l’intruso, cercò di colpirlo, ritrovandosi tutta imbrattata di nettare che suo malgrado, così assaggiò. Tutta quella dolcezza sembrò placare il suo tormento, e finalmente Scura si addormentò.

Nel frattempo l’Elfo aveva riunito l’assemblea, esponendo un piano che aveva convinto gli Spiriti della Natura abitanti nel Bosco. Tutti quanti, dispiaciuti per essersi lasciati travolgere dalle loro paure e per aver abbandonato a se stesso un membro della comunità del Bosco in difficoltà, si misero all’opera, cercando di aiutare quella piccola Fata Scura che forse essi stessi, inconsapevolmente, avevano contribuito a far diventare un mostro. Fate, Gnomi, Elfi e Folletti, lavorarono tutto il giorno per sfoltire la vegetazione che, nel luogo in cui Scura si era rifugiata, ostacolava il passaggio della luce.

Verso il tramonto, trasportarono nel luogo in cui Scura giaceva, una gran quantità di profumati petali di fiori dai più bei colori, e senza svegliare la piccola, li sostituirono alle foglie avariate che la nascondevano alla vista. Poi la vegliarono tutta la notte e, mentre la luce della Luna che filtrava tra i rami e le foglie la accarezzava dolcemente, cantarono per lei.

Sei una Fata bellissima…” intonava un Elfo; “…luminosa e leggera…” proseguiva una Fata; “…Sei sensibile e flessuosa…” cantava qualcuno; “…gentile ed elegante…” concludeva qualcun altro, e così in coro, per l’intera notte, gli Spiriti Fatati del Bosco tesserono gli elogi di quella piccola Fata, trasmettendole dal profondo del cuore parole e pensieri accoglienti, colmi d’amore e di tenerezza.
Giunse l’alba, e la Fatina si svegliò con uno strano solletico nel torso. Il dolore era un ricordo lontano, forse un brutto sogno. Qualcosa in lei era mutato, e nello stiracchiarsi del risveglio percepiva il suo corpo trasformato, leggero. Le Salamandre dei primi raggi di Sole la riscaldarono, mentre timida faceva capolino tra bellissimi colori che non aveva mai visto.

Agli occhi della comunità del Bosco, che aveva vegliato tutta la notte, apparve una bellissima Fatina Lilla e Rosa, luminosa, titubante e stupita almeno quanto loro, di un tale miracolo di trasformazione, operato dal potere dell’amore e della fiducia, trasfusi da tutti quei cuori sinceri, riuniti insieme.

Fonte: avalonelcuore.jimdofree.com

“La fata del lago”

Nella conca di Prêz si possono rilevare le tracce di un antichissimo lago, la cui memoria si perde nel tempo. Neppure i più vecchi lo videro con i loro occhi ma, per sentito dire, raccontavano che, nei tempi dei tempi, sulle rive ridenti d’erbe e fiori viveva in una grotta una Fata. Con la gente non era né buona né cattiva, ma si prendeva cura del lago, così le acque, sempre limpide e pure, donavano piacevole frescura ai boschi circostanti e, defluendo, irrigavano i campi e i prati, che erano verdi e rigogliosi.

Della Fata i montanari conoscevano soltanto la voce, perché, quando era felice, cantava, ed il suo canto dolcissimo si spandeva per tutta la vallata. Si diceva che fosse assai bella, ma nessuno l’aveva mai accertato coi suoi occhi, poiché la Fata non voleva esser vista ed evitava la presenza umana, spesso trasformandosi in serpe, per nascondersi meglio.

Un giorno due pastorelli, che sedevano tranquilli al riparo di una roccia, udirono levarsi un canto a non molta distanza da loro.È una donna che canta” disse il maggiore. “Ma non conosco nessuna donna che sappia cantare così.

La voce s’avvicinava. I ragazzi rimasero immobili, in ascolto, trattenendo persino il respiro. Quando la melodia si spense, nessuno dei due si azzardava a parlare, per timore d rompere l’incanto. Ed ecco che la Fata sbucò da un cespuglio, avvolta come in manto dai lunghi capelli dorati. I pastorelli non avevano mai visto una creatura di tanta bellezza, né chioma così lucente, né occhi simili a quelli, del colore del cielo specchiato nell’acqua.

È la Fata del Lago…!” bisbigliò il più piccino.

Ssssst!” lo zittì l’altro, timoroso di spaventarla.

Troppo tardi: la Fata si era accorta della loro presenza. Si coprì anche il volto con i biondi capelli e fuggì verso il lago, così rapida e leggera che l’erba non si piegava neppure sotto i suoi passi. Seguendo il suo primo impulso, i pastorelli la inseguirono, ma la persero in breve di vista e, giunti sulla riva, si fermarono, per cercare una traccia che non poterono trovare. Ad un tratto, sull’altra sponda del lago, scorsero una grossa serpe dalle squame d’oro che brillavano al sole. Non sapevano che ci fossero serpenti così grandi, fuggirono spaventati, rinunciando a cercare la Fata.
Per giorni e giorni non si sentì più cantare in riva al lago, ma spesso chi si trovava a passare di lì avvistava la serpe, che tosto si sottraeva agli sguardi con guizzo repentino.

Un giorno un cacciatore di Fontainemore, la sorprese mentre si sporgeva da una pietra sull’acqua per contemplarvisi, come in uno specchio. Era lì, immobile, senza alcun sospetto, distesa sulla roccia, con le sue scaglie dai bagliori d’oro. L’uomo imbracciò il fucile e sparò un colpo. Colpita a morte, la serpe si lasciò scivolare nel lago.

In breve le onde ribollirono di sangue. Poi, lentamente, il livello dell’acqua calò, i flutti presero a defluire nel torrente Pacolla, e di lì si riversarono nel Lys, tingendolo di rosso.

Con la Fata morì anche il suo lago. Sorgenti fino allora abbondanti si inaridirono all’improvviso. La conca di Prêz si prosciugò e tutto, attorno, intristì poco a poco. Sulle rive scomparve ogni traccia di vegetazione; lungo il declivio, non più irrigato, il suolo si fece arido e brullo…

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“L’inverno e la primavera”, di Esopo

La Primavera e l’Inverno sono due stagioni completamente opposte, che non sono mai riuscite a trovare la corretta armonia per andare d’accordo. Fortunatamente esse non devono convivere, infatti, quando compare una, deve umilmente ritirarsi l’altro.

Un giorno il signor Inverno si trovò faccia a faccia con la giovane signorina Primavera. L’anziana stagione, con quella sua aria sapiente prese a dire: “Mia cara amica, tu non sai essere decisa e determinata. Quando giunge il tuo periodo annuale, le persone e gli animali ne approfittano per precipitarsi fuori dalle loro case o dalle loro tane, e si riversano in quei prati che tu, con tanta premura, hai provveduto a far fiorire. Essi strappano i giovani arbusti, calpestano senza pietà l’erba ed assorbono ogni sorso di quel sole splendente che, col tuo arrivo diventa più caldo. I tuoi frutti vengono ignobilmente raccolti e divorati e infine, con il baccano e la cagnara che tutti fanno, non ti permettono neppure di riposare in pace. Invece io incuto timore e rispetto con le mie nebbie, il freddo e il gelo. La gente si rintana in casa e non esce quasi mai per paura del brutto tempo, e così mi lascia riposare tranquillo.

La bella e dolce Primavera, colpita da quelle parole, rispose: “Il mio arrivo è desiderato da tutti e le persone mi amano. Tu non puoi nemmeno immaginare cosa significhi essere tanto apprezzati. È una sensazione bellissima che non potrai mai provare, perché con il freddo che porti al tuo arrivo, anche i cuori più caldi si raggelano.”

L’inverno non disse più nulla e si fermò a riflettere. Forse, essere ammirati ed amati dagli altri, poteva anche essere una bella sensazione.

Per ottenere rispetto ed amore, non serve utilizzare la forza ed incutere paura.
I migliori risultati, si ottengono con la bontà e la sensibilità.

Fonte: avalonelcuore.jimdofree.com