“Fiori liberi”, lirica di Francesco Saverio Bascio, poeta in Carpaneto piacentino

Lapidazione in Iran
E’ l’aver perso il nome
già ancor prima della luce
ed è stato inutile lo sforzo di mia madre
già ancor prima della voce
ma quell’acqua
quel regalo di vita immensa
scorre ancora sul mio viso
e offro a lei l’ultima goccia
nel calice dei suoi figli.


Non saprò mai
su quale sgarro
o su quale offesa
ci fu baratto a lanciar la pena
e del desio negato
non saprò mai chi ne godrà
o chi mai ne avrà cura.


Stanca
inerme
resa muta ormai
affido ai sassi le mie grida
quei sassi che son gigli adesso
e li ringrazio
per avermi resa libera.
Lapidazione per le donne adultere in Afghanistan

“In un solo Dio”, lirica di Grazio Pellegrino, il poeta della penna verde da Ispra

..facili abbandoni
in quei ricordi
di innocenti mattutine
in chiese ormai spoglie
noi mani innocenti
invasi dall'odore
di incenso
ci raccontavamo
solo storie di purezza
a volte lontane
dalla nostra vita
di un paradiso
un inferno e un purgatorio
li ad attenderci
in ogni momento
vissute paure
rinunce solo rinunce
di un Dio solo
per innocenti martiri
ogni giorno una battaglia
tra il bene ed il male
sempre a domandarmi
quale la via
io solo testimone di
di un credo..
credo in un solo Dio
Padre onnipotente..

“Ribelli del silenzio”, lirica di Anna Maria Grillo poetessa in Novate Milanese

Ribellatevi al silenzio,
come rose che
spaccano il cemento.
Liberate la voce e le sue spine.

Siate anche larve, poi farfalle.
Larve di vita e del suo succo.
Assaporando ogni frutto,
sarà dolce gustare
anche l’amaro e il suo piacere.

Ebbri di luce,
aguzzate l’azzardo.
Tra le crepe del tempo,
siate il dardo.
Come granelli di sabbia,
appicciati al vento.

Ribellatevi al punto,
al suo fermo.
Liberate il finito, dal suo punto.
Andate a-fondo.
Nell’impronta, scoprite il segno
e il suo disegno.
L’in-finito è la sua forma,
il suo senso.

♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦

Recensione

La poesia invita a una vibrante ribellione contro il silenzio, rappresentandola con l’immagine potente delle rose che riescono a spaccare il cemento, simbolo di una forza naturale che riesce a penetrare anche le superfici più dure e impenetrabili. Questa immagine iniziale dà subito il tono di un’urgenza e di una volontà di esprimersi, di liberare la voce anche se questa può essere pungente, come le spine di una rosa.

Il percorso suggerito è quello di una trasformazione profonda, un’evoluzione che parte dalla condizione di larva, simbolo di una fase di attesa e di sviluppo, fino a diventare farfalla, simbolo di leggerezza, libertà e piena realizzazione. La poesia celebra la pienezza della vita, invitando ad assaporare ogni esperienza, dolce o amara che sia, come elementi necessari per gustare la complessità dell’esistenza stessa. È un invito a non temere le difficoltà, ma a integrarle come parte integrante del proprio cammino.

Attraverso immagini di luce e movimento, la poesia di Anna Maria Grillo sprona a rischiare, a essere audaci e a muoversi come un dardo che attraversa le crepe del tempo. La metafora del granello di sabbia portato dal vento suggerisce l’idea di piccole forze che, pur sembrando insignificanti, sono capaci di lasciare tracce, di essere agenti di cambiamento e trasformazione.

Uno dei momenti più intensi del testo è la riflessione sul “punto” e sul suo significato. Il punto, che di solito indica una fine o una conclusione, qui viene sfidato e liberato, invitando a guardare oltre il finito e a scoprire la dimensione dell’infinito. Questo infinito non è solo un concetto astratto, ma una forma viva che contiene senso, disegno e possibilità di nuove aperture. In questo modo, la poesia si fa portatrice di un messaggio profondo: non fermarsi alle apparenze o alle conclusioni, ma proseguire il cammino della ricerca, scoprendo i segni nascosti e dando vita a nuove forme.

Io vedo, io sento, io parlo, opera di Lara Breda

“Mea culpa”, lirica di Cristina Bove, poetessa in Roma

Naufragio, di Sara Mirabella
Questo è quanto posso dire
stando nel mezzo di due mondi
il mio e il loro
con le parole messe in fila _un poco
addolorate_
ché non posso saperlo quel tormento
delle carni bruciate
o quanta acqua salata nei polmoni
prima d’essere morti

ma so della quietudine
che vivo a mio discapito _perché
sto qui nel pianificio
che tutto resetta ed infiocchetta_

provai quel gelo
non ne temetti la scadenza ma l’inizio
ebbi terrore
e ricondussi il corpo alla presenza
il cuore al gioco_Lila lo chiamano gli indù_

però nei tempi prorogati
in cui cambia l’assetto delle sorti
e di quei morti senza nome e senza voci
solo l’adeguamento delle cifre
il mio stupore
è come io possa starmene in salotto
o qui seduta ad una scrivania
a scrivere risibili dolenze

per dire in fondo che?
L’essere viva in quest’inferno non
richiede altro conforto
e la desolazione d’un momento passa
ed io mi accuso
ma con la noncuranza di chi sa
d’essere _almeno momentaneamente_
in salvo
Due donne sulla veranda con vista sul mare, olio su tela di Marcel Rieder 

” * * * “, lirica di Anna Rita Merico poeta in Poggiardo (LE) con recensione di Gian Luigi Lisi in Controverso – Buonasera24.it

Scrivevamo con la voce tramandandoci suoni che
narravano le antiche presenze
Scrivevamo con la voce lasciandoci risuonare nel petto il
battito di un tamburo
Scrivevamo con la voce donandoci sguardi acuti come
sibili di gelidi venti
Scrivevamo con la voce modulata dalle sabbie di dune che
si spostavano lente come semi della Terra
Scrivevamo con la voce scrutando i lapislazzuli dei manti stellati
Tra noi alcune possedevano il dono fondo della voce
Tra noi alcuni possedevano il dono fondo della memoria
Poi

le parole presero ad impastarsi sulle pietre

attonite le guardammo
increduli le scrutammo

ne percepimmo i graffi

Qualcosa s’era staccato da dentro
osservammo quel nudo imbozzolarsi
la sabbia prese a scivolarci tra le dita misurando un altrove
verso cui il lento scavava
Verso sera le pietre erano lì allineate all’orizzonte d’una
piega del palato
Le mani si mostrarono Nuovi gesti forgiarono infuocati il dire

Ne prendemmo grani

♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦

Recensione

In questa composizione, l’oralità si fa materia ancestrale, corpo vivente di una memoria collettiva che attraversa tempo e spazio. La voce, non semplice strumento ma sostanza primaria, diventa l’origine di un linguaggio che precede la scrittura: un codice vibrante fatto di suoni, sguardi, battiti e silenzi custoditi tra dune, stelle e tamburi.


La poesia di Anna Rita Merico si muove come un canto arcaico che affiora da una terra interiore, tra il palpito del tamburo e lo scintillio di lapislazzuli sospesi nel cielo. C’è una coralità iniziale che affratella chi porta in sé il dono della voce e chi quello della memoria, come se la trasmissione del sapere fosse inscritta in un equilibrio antico e condiviso.


Poi, l’evento di frattura: le parole si spezzano, si impastano con la pietra, si fanno corpo estraneo. L’incanto si incrina e qualcosa si perde. La scena si svuota, ma non si arrende. L’altrove, misurato da sabbia che scivola, apre una nuova possibilità di senso.


Nel finale, i gesti si rinnovano, si accendono, e il dire torna a plasmarsi come atto creatore. Raccogliere grani non è più solo un gesto agricolo o rituale, ma un recupero di senso, un’azione fondativa. La scrittura qui non si limita a ricordare, ma riattiva un’origine, un punto di contatto tra la voce e la materia, tra la parola che nasce e il mondo che la riceve. È un invito a restare in ascolto del non detto, delle fenditure che custodiscono la possibilità del nuovo.

… nel petto battito di tamburo …

“PROFUMI DI DONNA”, lirica di Tamara Nazarii poetessa in Varese con recensione di Gian Carlo Lisi pubblicata in Controverso rubrica di BuonaSera24.it

Profumi d’amore,
di vita, di fiori.
Profumi di tempo,
di raggi di sole.
Profumi di mamma,
di tenerezza,
ogni tanto di lacrime
è di tristezza…
Di preoccupazioni,
è di dolore.
Profumi di nonna,
nel profondo del cuore.
Profumi di pane,
è di saggezza,
di femminilità,
è di leggerezza…
Sei unica,
sei immortale,
com’è il vento
che porta le onde,
del mare…

♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦

Recensione

Questa poesia si sviluppa come un delicato elenco sensoriale, in cui ogni verso affida al profumo il compito di custodire ricordi, emozioni, legami. Il lessico è semplice, quotidiano, ma carico di significati profondi: ogni “profumo” diventa una traccia sottile di presenza femminile, un passaggio che lascia il segno nel tempo e nell’anima. L’autrice costruisce una mappa affettiva che si snoda attraverso immagini olfattive, capaci di richiamare volti e gesti, momenti e stati d’animo.


La figura della donna emerge con forza e delicatezza, stratificata in esperienze diverse ma collegate da un unico filo emotivo. C’è la madre, simbolo di amore e protezione; la nonna, custode di saggezza e memoria; c’è la donna in quanto tale, con la sua femminilità fatta anche di leggerezza e intuizione. Ma non manca il riconoscimento delle sue fatiche, della malinconia che ogni tanto affiora, delle lacrime e delle preoccupazioni che fanno parte del suo essere.


Il ritmo breve e spezzato dei versi accompagna questa coralità di immagini, quasi come una nenia interiore, un canto che non pretende solennità ma che proprio nella sua semplicità risulta intenso e sincero. L’uso del profumo come filo conduttore è particolarmente efficace: invisibile e persistente, come certi ricordi o certe presenze che non ci lasciano mai davvero.


La chiusa, con quel paragone al vento che porta le onde del mare, suggella la poesia con un’immagine di continuità e libertà. La donna diventa così una forza naturale, vitale e senza tempo, che accompagna il fluire della vita con grazia silenziosa. Non è solo un omaggio, ma una dichiarazione d’amore verso ciò che resta anche quando tutto passa.

Vento tra i capelli, olio su tela di Annasan

“Libertà an-negata”, lirica di Maria Rosaria Quarta di Novoli (LE) pubblicata in Controverso su BuonaSera24.it con recensione di Gian Carlo Lisi

Libertà
sulle ali di un uccello
sulle acque del mare
su un vascello.
Libertà
nel superare
un muro
camminando
mano nella mano
verso orizzonti
dove tutto è umano.
Libertà
al costo della vita
alla ricerca
di una speranza
nel futuro.
Libertà:
bi-sogno agognato
e da tanti
mai trovato.

♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦

Recensione

C’è una forza limpida e immediata in questi versi, che affrontano il tema della libertà con chiarezza e coraggio, rivelando una sincerità emotiva che colpisce chi legge e invita a una riflessione sul senso profondo di questo valore universale. Maria Rosaria Quarta sceglie un linguaggio essenziale, ma denso di significato, capace di parlare a tutti. La poesia non si perde in astrazioni: tocca desideri, ostacoli, ferite che appartengono all’esperienza umana collettiva. L’inizio suggerisce un respiro ampio: il volo, il mare, il vascello – immagini di movimento, sogno, slancio. Ma subito arriva la concretezza: un muro da superare, mani da stringere, orizzonti da cercare insieme. E il sogno si fa cammino faticoso, rischio, scelta radicale. Nel gioco sul termine “bi-sogno” c’è tutto: una libertà che è urgenza vitale e insieme ideale lontano, spesso negato. L’autrice riesce a dare voce a chi lotta per qualcosa che dovrebbe essere naturale. Non è solo una poesia: è un segnale, una presa di posizione. Rimane addosso, come una domanda che non smette di cercare risposta.

Libertà verso la luce, di Cristina De Blasio

“Il cammino di Santiago”, lirica di Tonino Cristiano di Porano (TR) con recensione di Gian Carlo Lisi in Controverso, rubrica poetica di BuonaSera.it

Affronto il mio piccolo
cammino di Santiago,
appena fino alla piccola
discarica del paese.

Poi torno, non epurato
dalle mie colpe, ma anzi
più carico dei pensieri
lievitati nel cammino solitario.

♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦

Recensione

Con pochi versi, ma con grande efficacia, questa poesia riesce a sovvertire le aspettative del lettore fin dal primo momento. Il celebre “cammino di Santiago” — immagine archetipica del pellegrinaggio, della purificazione, della ricerca interiore — viene subito ridimensionato, ridotto quasi a un’ironica parodia, che però non rinuncia a dire cose vere e profonde. Il percorso non attraversa terre lontane o antichi monasteri, ma termina alla piccola discarica del paese, luogo quanto mai umile, persino degradato. Eppure, proprio in questo contrasto risiede la forza del testo.


C’è una tensione evidente tra l’altezza simbolica del riferimento e la modestia della realtà vissuta. Il pellegrino non è un viaggiatore mistico, ma un uomo comune che si confronta con la propria quotidianità, con i pensieri che affollano la mente e con un senso di colpa che non si dissolve nel cammino, ma anzi si intensifica. L’uso dell’avverbio “appena” e della parola “piccolo” smonta con ironia ogni retorica dell’eroismo, lasciando spazio a una verità più spoglia, più umana.


E proprio qui il testo tocca una corda profonda: non è tanto la meta a contare, quanto il percorso interiore. Anche una passeggiata apparentemente insignificante può diventare momento di confronto con sé stessi, specchio delle proprie inquietudini. Il ritorno non è liberazione, non è catarsi, ma semmai una conferma della complessità del vivere. I “pensieri lievitati” nel silenzio del cammino solitario suggeriscono che anche l’ironia può diventare strumento di consapevolezza.


Tonino Cristiano, con pochi tocchi precisi, costruisce una poesia che è insieme disincantata e spirituale, amara ma anche affettuosa verso la condizione umana. Un piccolo capolavoro di misura e profondità.

“Sempre in attesa”, lirica di Grazio Pellegrino poeta della penna verde in Ispra

Tutti figli venduti
alla stessa terra
di madri sempre in attesa
braccia solo per il dolore
Come se non ci fosse
Altro luogo per nascere
dove le notti si sostituivano ai giorni
Sempre in attesa dell'alba
sudore della fronte
Madri tutte
con la stessa storia
da raccontare
sempre gravide
madri a volte stanche
sempre spose
come la prima
notte
il destino
che ha aperto
sempre le loro porte
creature divine
Quante parole perdute!
Niente domande
Nessuna risposta
in un pianto inascoltato
Sguardi perduti
In altri sguardi di noi
piccoli nati
pieni di vita
lontano quel mondo
di preghiere e di Santi
Amore e rassegnazione
tutte in un mosaico
vinte da quella
arcaica cantilena
rassegnazione
Così la
vita.

“Il giardino”, lirica di Elia Bianco, poeta in Pozzuolo del Friuli (UD) con la recensione di Gian Carlo Lisi in Controverso (BuonaSera24.it)

È un giardino dove poter gridare forte
Gridare forte facendo l’amore
È un giardino di sesso e di amore
Senza l’ombra della distinzione
È un giardino innevato e fiorito
Senza stagioni al passato
È un giardino fruttato, disperato,
Dove ci si ama anche quando piove
È un giardino dove siamo disperati
Innamorati senza l’ombra della distinzione
È un giardino a piedi scalzi
Senza sveglia, senza vestiti, coi nostri odori
È un giardino dove ritrovi ogni tuo amore
Che è una cosa soltanto, e assomiglia al tuo nome
È un giardino dove accarezzo i tuoi fianchi,
Dove mai siamo stanchi, infilo le dita nei dolci sapori dei frutti maturi
È un giardino dove il vento muove i fili d’erba
Dove nudo non porta peccato
È un giardino dove puoi sentirti innamorato
Quello che mi piace
È un giardino dove rifugiarci ad amarci
Dove abbiamo pace.

♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦

Recensione

Spazio di libertà e desiderio, il giardino descritto in questa poesia si apre come un luogo mentale e fisico insieme, dove l’amore si manifesta senza pudore e senza confini. Ogni verso è un varco che conduce a un altrove intimo, in cui il corpo diventa linguaggio e i sensi dettano la legge di una convivenza affettiva e passionale, sottratta a ogni distinzione imposta.


L’andamento ripetitivo dell’incipit “È un giardino…” dà ritmo alla narrazione poetica, trasformandola in una sorta di invocazione dal tono onirico, a tratti estatico. I contrasti – neve e fioritura, nudità e pace, frutti maturi e pioggia – sono elementi che convivono senza contraddirsi, come a voler affermare la coesistenza di dolcezza e tormento, pienezza e bisogno. Il testo diventa così un luogo dell’amore totale, in cui la carne e l’anima si rispecchiano.


L’autore guida in questa dimensione con immagini fortemente sensoriali, capaci di suscitare una partecipazione visiva e tattile: i corpi nudi, i fianchi accarezzati, i sapori dei frutti, il vento tra i fili d’erba. Tutto vibra di una naturalezza ancestrale, in cui l’amore non ha stagioni né colpe, ma solo presenza.


Il giardino descritto non è un sogno, ma un’urgenza: quella di tornare a un sentire primitivo e sincero, dove l’amore può finalmente somigliare al nome di chi lo pronuncia. Elia Bianco è un autore contemporaneo che esplora le dinamiche dell’amore e dell’identità attraverso una scrittura viscerale e immaginifica. La sua poesia si muove tra corpo e linguaggio, restituendo voce a emozioni nude e universali.

I riflessi nostalgici dei ricordi d’amore, opera di Andrea Alfani

“Sepolcri”, lirica di Alessandra Roncolato poetessa in Spresiano (TV) con recensione di Gian Carlo Lisi in Controverso (BuonaSera24.it)

Mi piace aggirarmi tra lapidi e graniti
e marmi ammuffiti
leggere date numeri e nomi
che ci richiamano
a sciogliere nodi.

Sotto, giace un mucchio d’ossa
ogni vena già rinsecchita
ma la linfa dei vasi scorre libera
nei canali della terra avita.

Cerchiamo un luogo sacro
dove pregare i nostri cari
eppure lì non sono
ormai, sono gigli appassiti
letame per i nuovi fiori
per nuovi miti.

«I morti non sono assenti
sono esseri invisibili»
saggio diceva il santo
mentre dai miei occhi asciugo il pianto.

Quando ti voglio cercare
non ho luogo dove andare
ma solo lo spazio grande e vuoto
che mi collega all’universo ignoto.

Qui, siamo piccoli gnomi di terra
ma, oltre la materia immota,
luce infinita
ruota.

♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦ ♦◊♦

Recensione


Una riflessione intensa e meditativa sul confine tra vita e morte, sul significato della memoria e sul destino del corpo dopo il trapasso. Con un linguaggio limpido e diretto, l’autrice attraversa fisicamente e spiritualmente il cimitero, spazio simbolico che diventa occasione per interrogarsi su ciò che resta — e ciò che muta.

I versi iniziali, dove la voce poetica si aggira “tra lapidi e graniti / e marmi ammuffiti”, stabiliscono fin da subito un tono contemplativo, quasi disincantato. La concretezza delle immagini — date, numeri, nomi, ossa — restituisce un’idea di fine tangibile, ma non definitiva. Il corpo, spogliato di vita, si reinserisce nel ciclo naturale: “letame per i nuovi fiori / per nuovi miti”. In questa trasformazione, la morte diventa fermento, possibilità generativa.

Roncolato contrappone poi la ritualità del lutto — “cerchiamo un luogo sacro / dove pregare i nostri cari” — alla realtà di un’assenza che non si lascia contenere in spazi fisici. La citazione del santo, “i morti non sono assenti / sono esseri invisibili”, suggerisce una sopravvivenza dell’essere in una dimensione altra, sottile, che esiste oltre la materia.

I versi finali si allargano fino a toccare una visione cosmica: gli esseri umano, “piccoli gnomi di terra”, sono parte di un disegno più grande, che sfugge alla comprensione ma in cui la luce infinita ancora “ruota”. C’è in questa chiusa un senso di fiducia profonda, quasi mistica, che affida all’universo la continuazione di ciò che non si vede più, ma che esiste comunque.

La composizione affrontano il tema della morte senza retorica, con compostezza e profondità, trovando nella natura e nel cosmo le coordinate di una nuova presenza. 

“Ricordi 2018”, lirica di Ileana Zara, poetessa in Casalgrande

Guardando il mare, olio su tela by Gaetano Minale

Non so tu ma ogni mattina, dalla vita,
ricevo un regalo, a volte gradito,
altre volte un po meno.

Un cuore che pulsa. lo scodinzolare del cane. un viaggio sognato sulla vela del sonno
e il ritorno, al sorgere del sole,
sulla tua spalla che dorme. l’onda del mare
che s’infrange lontano e la sabbia dell’isola sotto i miei piedi.

Le nuvole si fanno ombre inquiete
e graffiano sui vetri mentre fuori piove
e il sole, imprigionato dietro i cancelli del cielo,
ha le ore contate per risplendere ancora.

E poi, ci sono mattine
che ad aprire il regalo non sono da sola

Gocce di pioggia sui vetri delle finestre