E’ l’aver perso il nome già ancor prima della luce ed è stato inutile lo sforzo di mia madre già ancor prima della voce ma quell’acqua quel regalo di vita immensa scorre ancora sul mio viso e offro a lei l’ultima goccia nel calice dei suoi figli.
Non saprò mai su quale sgarro o su quale offesa ci fu baratto a lanciar la pena e del desio negato non saprò mai chi ne godrà o chi mai ne avrà cura.
Stanca inerme resa muta ormai affido ai sassi le mie grida quei sassi che son gigli adesso e li ringrazio per avermi resa libera.
Non dovete credere alle parole del poeta. Non per lui le scrive e alla domanda per chi, a volte, non ricorda. Usatele come sentiero per una passeggiata all'aria aperta, oppure, nelle sere d'inverno quando vi sentite soli, come focolare. E se ne ricordate il profumo o vi sentite a casa allora sono per voi.
..facili abbandoni in quei ricordi di innocenti mattutine in chiese ormai spoglie noi mani innocenti invasi dall'odore di incenso ci raccontavamo solo storie di purezza a volte lontane dalla nostra vita di un paradiso un inferno e un purgatorio li ad attenderci in ogni momento vissute paure rinunce solo rinunce di un Dio solo per innocenti martiri ogni giorno una battaglia tra il bene ed il male sempre a domandarmi quale la via io solo testimone di di un credo.. credo in un solo Dio Padre onnipotente..
Ribellatevi al silenzio, come rose che spaccano il cemento. Liberate la voce e le sue spine.
Siate anche larve, poi farfalle. Larve di vita e del suo succo. Assaporando ogni frutto, sarà dolce gustare anche l’amaro e il suo piacere.
Ebbri di luce, aguzzate l’azzardo. Tra le crepe del tempo, siate il dardo. Come granelli di sabbia, appicciati al vento.
Ribellatevi al punto, al suo fermo. Liberate il finito, dal suo punto. Andate a-fondo. Nell’impronta, scoprite il segno e il suo disegno. L’in-finito è la sua forma, il suo senso.
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Recensione
La poesia invita a una vibrante ribellione contro il silenzio, rappresentandola con l’immagine potente delle rose che riescono a spaccare il cemento, simbolo di una forza naturale che riesce a penetrare anche le superfici più dure e impenetrabili. Questa immagine iniziale dà subito il tono di un’urgenza e di una volontà di esprimersi, di liberare la voce anche se questa può essere pungente, come le spine di una rosa.
Il percorso suggerito è quello di una trasformazione profonda, un’evoluzione che parte dalla condizione di larva, simbolo di una fase di attesa e di sviluppo, fino a diventare farfalla, simbolo di leggerezza, libertà e piena realizzazione. La poesia celebra la pienezza della vita, invitando ad assaporare ogni esperienza, dolce o amara che sia, come elementi necessari per gustare la complessità dell’esistenza stessa. È un invito a non temere le difficoltà, ma a integrarle come parte integrante del proprio cammino.
Attraverso immagini di luce e movimento, la poesia di Anna Maria Grillo sprona a rischiare, a essere audaci e a muoversi come un dardo che attraversa le crepe del tempo. La metafora del granello di sabbia portato dal vento suggerisce l’idea di piccole forze che, pur sembrando insignificanti, sono capaci di lasciare tracce, di essere agenti di cambiamento e trasformazione.
Uno dei momenti più intensi del testo è la riflessione sul “punto” e sul suo significato. Il punto, che di solito indica una fine o una conclusione, qui viene sfidato e liberato, invitando a guardare oltre il finito e a scoprire la dimensione dell’infinito. Questo infinito non è solo un concetto astratto, ma una forma viva che contiene senso, disegno e possibilità di nuove aperture. In questo modo, la poesia si fa portatrice di un messaggio profondo: non fermarsi alle apparenze o alle conclusioni, ma proseguire il cammino della ricerca, scoprendo i segni nascosti e dando vita a nuove forme.
Questo è quanto posso dire stando nel mezzo di due mondi il mio e il loro con le parole messe in fila _un poco addolorate_ ché non posso saperlo quel tormento delle carni bruciate o quanta acqua salata nei polmoni prima d’essere morti
ma so della quietudine che vivo a mio discapito _perché sto qui nel pianificio che tutto resetta ed infiocchetta_
provai quel gelo non ne temetti la scadenza ma l’inizio ebbi terrore e ricondussi il corpo alla presenza il cuore al gioco_Lila lo chiamano gli indù_
però nei tempi prorogati in cui cambia l’assetto delle sorti e di quei morti senza nome e senza voci solo l’adeguamento delle cifre il mio stupore è come io possa starmene in salotto o qui seduta ad una scrivania a scrivere risibili dolenze
per dire in fondo che? L’essere viva in quest’inferno non richiede altro conforto e la desolazione d’un momento passa ed io mi accuso ma con la noncuranza di chi sa d’essere _almeno momentaneamente_ in salvo
Due donne sulla veranda con vista sul mare, olio su tela di Marcel Rieder
Scrivevamo con la voce tramandandoci suoni che narravano le antiche presenze Scrivevamo con la voce lasciandoci risuonare nel petto il battito di un tamburo Scrivevamo con la voce donandoci sguardi acuti come sibili di gelidi venti Scrivevamo con la voce modulata dalle sabbie di dune che si spostavano lente come semi della Terra Scrivevamo con la voce scrutando i lapislazzuli dei manti stellati Tra noi alcune possedevano il dono fondo della voce Tra noi alcuni possedevano il dono fondo della memoria Poi
le parole presero ad impastarsi sulle pietre
attonite le guardammo increduli le scrutammo
ne percepimmo i graffi
Qualcosa s’era staccato da dentro osservammo quel nudo imbozzolarsi la sabbia prese a scivolarci tra le dita misurando un altrove verso cui il lento scavava Verso sera le pietre erano lì allineate all’orizzonte d’una piega del palato Le mani si mostrarono Nuovi gesti forgiarono infuocati il dire
Ne prendemmo grani
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Recensione
In questa composizione, l’oralità si fa materia ancestrale, corpo vivente di una memoria collettiva che attraversa tempo e spazio. La voce, non semplice strumento ma sostanza primaria, diventa l’origine di un linguaggio che precede la scrittura: un codice vibrante fatto di suoni, sguardi, battiti e silenzi custoditi tra dune, stelle e tamburi.
La poesia di Anna Rita Merico si muove come un canto arcaico che affiora da una terra interiore, tra il palpito del tamburo e lo scintillio di lapislazzuli sospesi nel cielo. C’è una coralità iniziale che affratella chi porta in sé il dono della voce e chi quello della memoria, come se la trasmissione del sapere fosse inscritta in un equilibrio antico e condiviso.
Poi, l’evento di frattura: le parole si spezzano, si impastano con la pietra, si fanno corpo estraneo. L’incanto si incrina e qualcosa si perde. La scena si svuota, ma non si arrende. L’altrove, misurato da sabbia che scivola, apre una nuova possibilità di senso.
Nel finale, i gesti si rinnovano, si accendono, e il dire torna a plasmarsi come atto creatore. Raccogliere grani non è più solo un gesto agricolo o rituale, ma un recupero di senso, un’azione fondativa. La scrittura qui non si limita a ricordare, ma riattiva un’origine, un punto di contatto tra la voce e la materia, tra la parola che nasce e il mondo che la riceve. È un invito a restare in ascolto del non detto, delle fenditure che custodiscono la possibilità del nuovo.
Mostrami come si bacia e poi potrò capire ogni cosa anche l'amore e perché quegli abissi che chiamate occhi si bagnano di lacrime amare. Dimmi se sono bravo o se sono stato troppo delicato quando ti accarezzavo tra il cielo e la terra mentre qualche fiore sbocciava nel profumo del mondo prima di dire addio.
Profumi d’amore, di vita, di fiori. Profumi di tempo, di raggi di sole. Profumi di mamma, di tenerezza, ogni tanto di lacrime è di tristezza… Di preoccupazioni, è di dolore. Profumi di nonna, nel profondo del cuore. Profumi di pane, è di saggezza, di femminilità, è di leggerezza… Sei unica, sei immortale, com’è il vento che porta le onde, del mare…
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Recensione
Questa poesia si sviluppa come un delicato elenco sensoriale, in cui ogni verso affida al profumo il compito di custodire ricordi, emozioni, legami. Il lessico è semplice, quotidiano, ma carico di significati profondi: ogni “profumo” diventa una traccia sottile di presenza femminile, un passaggio che lascia il segno nel tempo e nell’anima. L’autrice costruisce una mappa affettiva che si snoda attraverso immagini olfattive, capaci di richiamare volti e gesti, momenti e stati d’animo.
La figura della donna emerge con forza e delicatezza, stratificata in esperienze diverse ma collegate da un unico filo emotivo. C’è la madre, simbolo di amore e protezione; la nonna, custode di saggezza e memoria; c’è la donna in quanto tale, con la sua femminilità fatta anche di leggerezza e intuizione. Ma non manca il riconoscimento delle sue fatiche, della malinconia che ogni tanto affiora, delle lacrime e delle preoccupazioni che fanno parte del suo essere.
Il ritmo breve e spezzato dei versi accompagna questa coralità di immagini, quasi come una nenia interiore, un canto che non pretende solennità ma che proprio nella sua semplicità risulta intenso e sincero. L’uso del profumo come filo conduttore è particolarmente efficace: invisibile e persistente, come certi ricordi o certe presenze che non ci lasciano mai davvero.
La chiusa, con quel paragone al vento che porta le onde del mare, suggella la poesia con un’immagine di continuità e libertà. La donna diventa così una forza naturale, vitale e senza tempo, che accompagna il fluire della vita con grazia silenziosa. Non è solo un omaggio, ma una dichiarazione d’amore verso ciò che resta anche quando tutto passa.
Libertà sulle ali di un uccello sulle acque del mare su un vascello. Libertà nel superare un muro camminando mano nella mano verso orizzonti dove tutto è umano. Libertà al costo della vita alla ricerca di una speranza nel futuro. Libertà: bi-sogno agognato e da tanti mai trovato.
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Recensione
C’è una forza limpida e immediata in questi versi, che affrontano il tema della libertà con chiarezza e coraggio, rivelando una sincerità emotiva che colpisce chi legge e invita a una riflessione sul senso profondo di questo valore universale. Maria Rosaria Quarta sceglie un linguaggio essenziale, ma denso di significato, capace di parlare a tutti. La poesia non si perde in astrazioni: tocca desideri, ostacoli, ferite che appartengono all’esperienza umana collettiva. L’inizio suggerisce un respiro ampio: il volo, il mare, il vascello – immagini di movimento, sogno, slancio. Ma subito arriva la concretezza: un muro da superare, mani da stringere, orizzonti da cercare insieme. E il sogno si fa cammino faticoso, rischio, scelta radicale. Nel gioco sul termine “bi-sogno” c’è tutto: una libertà che è urgenza vitale e insieme ideale lontano, spesso negato. L’autrice riesce a dare voce a chi lotta per qualcosa che dovrebbe essere naturale. Non è solo una poesia: è un segnale, una presa di posizione. Rimane addosso, come una domanda che non smette di cercare risposta.
Il profumo fresco dal caprifoglio m'attirava rampicante al muretto e dalla delicatezza sottile sorpreso le mille corolle ho guardato capaci di tanto mio stordimento. Era un giorno di maggio amica dal cuore fiorito che spingi per te il mio canto. Ti sia in un simile tempo fragrante di gioia bel dono.
Affronto il mio piccolo cammino di Santiago, appena fino alla piccola discarica del paese.
Poi torno, non epurato dalle mie colpe, ma anzi più carico dei pensieri lievitati nel cammino solitario.
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Recensione
Con pochi versi, ma con grande efficacia, questa poesia riesce a sovvertire le aspettative del lettore fin dal primo momento. Il celebre “cammino di Santiago” — immagine archetipica del pellegrinaggio, della purificazione, della ricerca interiore — viene subito ridimensionato, ridotto quasi a un’ironica parodia, che però non rinuncia a dire cose vere e profonde. Il percorso non attraversa terre lontane o antichi monasteri, ma termina alla piccola discarica del paese, luogo quanto mai umile, persino degradato. Eppure, proprio in questo contrasto risiede la forza del testo.
C’è una tensione evidente tra l’altezza simbolica del riferimento e la modestia della realtà vissuta. Il pellegrino non è un viaggiatore mistico, ma un uomo comune che si confronta con la propria quotidianità, con i pensieri che affollano la mente e con un senso di colpa che non si dissolve nel cammino, ma anzi si intensifica. L’uso dell’avverbio “appena” e della parola “piccolo” smonta con ironia ogni retorica dell’eroismo, lasciando spazio a una verità più spoglia, più umana.
E proprio qui il testo tocca una corda profonda: non è tanto la meta a contare, quanto il percorso interiore. Anche una passeggiata apparentemente insignificante può diventare momento di confronto con sé stessi, specchio delle proprie inquietudini. Il ritorno non è liberazione, non è catarsi, ma semmai una conferma della complessità del vivere. I “pensieri lievitati” nel silenzio del cammino solitario suggeriscono che anche l’ironia può diventare strumento di consapevolezza.
Tonino Cristiano, con pochi tocchi precisi, costruisce una poesia che è insieme disincantata e spirituale, amara ma anche affettuosa verso la condizione umana. Un piccolo capolavoro di misura e profondità.
Tutti figli venduti alla stessa terra di madri sempre in attesa braccia solo per il dolore Come se non ci fosse Altro luogo per nascere dove le notti si sostituivano ai giorni Sempre in attesa dell'alba sudore della fronte Madri tutte con la stessa storia da raccontare sempre gravide madri a volte stanche sempre spose come la prima notte il destino che ha aperto sempre le loro porte creature divine Quante parole perdute! Niente domande Nessuna risposta in un pianto inascoltato Sguardi perduti In altri sguardi di noi piccoli nati pieni di vita lontano quel mondo di preghiere e di Santi Amore e rassegnazione tutte in un mosaico vinte da quella arcaica cantilena rassegnazione Così la vita.
Viene in silenzio la notte avvolgendoti nell'ombra recante in sè tutti i sogni e per averne ti arrendi chiudi le finestre degli occhi il buio esterno lasciando per viaggiare col cuore là dove il desiderio ti porta in mondi buoni di luce a respirare l'amore.
È un giardino dove poter gridare forte Gridare forte facendo l’amore È un giardino di sesso e di amore Senza l’ombra della distinzione È un giardino innevato e fiorito Senza stagioni al passato È un giardino fruttato, disperato, Dove ci si ama anche quando piove È un giardino dove siamo disperati Innamorati senza l’ombra della distinzione È un giardino a piedi scalzi Senza sveglia, senza vestiti, coi nostri odori È un giardino dove ritrovi ogni tuo amore Che è una cosa soltanto, e assomiglia al tuo nome È un giardino dove accarezzo i tuoi fianchi, Dove mai siamo stanchi, infilo le dita nei dolci sapori dei frutti maturi È un giardino dove il vento muove i fili d’erba Dove nudo non porta peccato È un giardino dove puoi sentirti innamorato Quello che mi piace È un giardino dove rifugiarci ad amarci Dove abbiamo pace.
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Recensione
Spazio di libertà e desiderio, il giardino descritto in questa poesia si apre come un luogo mentale e fisico insieme, dove l’amore si manifesta senza pudore e senza confini. Ogni verso è un varco che conduce a un altrove intimo, in cui il corpo diventa linguaggio e i sensi dettano la legge di una convivenza affettiva e passionale, sottratta a ogni distinzione imposta.
L’andamento ripetitivo dell’incipit “È un giardino…” dà ritmo alla narrazione poetica, trasformandola in una sorta di invocazione dal tono onirico, a tratti estatico. I contrasti – neve e fioritura, nudità e pace, frutti maturi e pioggia – sono elementi che convivono senza contraddirsi, come a voler affermare la coesistenza di dolcezza e tormento, pienezza e bisogno. Il testo diventa così un luogo dell’amore totale, in cui la carne e l’anima si rispecchiano.
L’autore guida in questa dimensione con immagini fortemente sensoriali, capaci di suscitare una partecipazione visiva e tattile: i corpi nudi, i fianchi accarezzati, i sapori dei frutti, il vento tra i fili d’erba. Tutto vibra di una naturalezza ancestrale, in cui l’amore non ha stagioni né colpe, ma solo presenza.
Il giardino descritto non è un sogno, ma un’urgenza: quella di tornare a un sentire primitivo e sincero, dove l’amore può finalmente somigliare al nome di chi lo pronuncia. Elia Bianco è un autore contemporaneo che esplora le dinamiche dell’amore e dell’identità attraverso una scrittura viscerale e immaginifica. La sua poesia si muove tra corpo e linguaggio, restituendo voce a emozioni nude e universali.
I riflessi nostalgici dei ricordi d’amore, opera di Andrea Alfani
Mi piace aggirarmi tra lapidi e graniti e marmi ammuffiti leggere date numeri e nomi che ci richiamano a sciogliere nodi.
Sotto, giace un mucchio d’ossa ogni vena già rinsecchita ma la linfa dei vasi scorre libera nei canali della terra avita.
Cerchiamo un luogo sacro dove pregare i nostri cari eppure lì non sono ormai, sono gigli appassiti letame per i nuovi fiori per nuovi miti.
«I morti non sono assenti sono esseri invisibili» saggio diceva il santo mentre dai miei occhi asciugo il pianto.
Quando ti voglio cercare non ho luogo dove andare ma solo lo spazio grande e vuoto che mi collega all’universo ignoto.
Qui, siamo piccoli gnomi di terra ma, oltre la materia immota, luce infinita ruota.
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Recensione
Una riflessione intensa e meditativa sul confine tra vita e morte, sul significato della memoria e sul destino del corpo dopo il trapasso. Con un linguaggio limpido e diretto, l’autrice attraversa fisicamente e spiritualmente il cimitero, spazio simbolico che diventa occasione per interrogarsi su ciò che resta — e ciò che muta.
I versi iniziali, dove la voce poetica si aggira “tra lapidi e graniti / e marmi ammuffiti”, stabiliscono fin da subito un tono contemplativo, quasi disincantato. La concretezza delle immagini — date, numeri, nomi, ossa — restituisce un’idea di fine tangibile, ma non definitiva. Il corpo, spogliato di vita, si reinserisce nel ciclo naturale: “letame per i nuovi fiori / per nuovi miti”. In questa trasformazione, la morte diventa fermento, possibilità generativa.
Roncolato contrappone poi la ritualità del lutto — “cerchiamo un luogo sacro / dove pregare i nostri cari” — alla realtà di un’assenza che non si lascia contenere in spazi fisici. La citazione del santo, “i morti non sono assenti / sono esseri invisibili”, suggerisce una sopravvivenza dell’essere in una dimensione altra, sottile, che esiste oltre la materia.
I versi finali si allargano fino a toccare una visione cosmica: gli esseri umano, “piccoli gnomi di terra”, sono parte di un disegno più grande, che sfugge alla comprensione ma in cui la luce infinita ancora “ruota”. C’è in questa chiusa un senso di fiducia profonda, quasi mistica, che affida all’universo la continuazione di ciò che non si vede più, ma che esiste comunque.
La composizione affrontano il tema della morte senza retorica, con compostezza e profondità, trovando nella natura e nel cosmo le coordinate di una nuova presenza.
Non so tu ma ogni mattina, dalla vita, ricevo un regalo, a volte gradito, altre volte un po meno.
Un cuore che pulsa. lo scodinzolare del cane. un viaggio sognato sulla vela del sonno e il ritorno, al sorgere del sole, sulla tua spalla che dorme. l’onda del mare che s’infrange lontano e la sabbia dell’isola sotto i miei piedi.
Le nuvole si fanno ombre inquiete e graffiano sui vetri mentre fuori piove e il sole, imprigionato dietro i cancelli del cielo, ha le ore contate per risplendere ancora.
E poi, ci sono mattine che ad aprire il regalo non sono da sola