La nostra salute la fanno medici e infermieri, non i muri, non il cemento (Ar.C.)
In questo periodo molto complesso e travagliato sia a livello sociale che economico si sta assistendo, purtroppo, anche ad una strisciante e preoccupante involuzione di alcuni livelli/comparti del servizio sanitario. Ciò sembra legato soprattutto alla carenza di personale e ad una organizzazione sanitaria territoriale non ancora perfettamente sintonizzata sui reali bisogni della popolazione. Sono convinto che sia arrivato il momento di chiederci per quanto tempo ancora il sistema sanitario pubblico potrà continuare così o se, invece, non siamo giunti ad un livello di possibile pericolo! E’ risaputo, infatti, che anche i sistemi più “resilienti” hanno un limite di rottura/frattura. Ricordare che nel settore dei servizi avanzati ad elevato contenuto professionale, come quello della Sanità, il contributo del personale sia determinante per la produzione di migliori risultati è non solo superfluo ma anche umiliante per gli stessi operatori sanitari. Possiamo dire, senza ombra di dubbio, che la ricchezza delle organizzazioni di questo tipo è fatta proprio dai professionisti che vi lavorano, dalla loro professionalità e dalla loro capacità di integrare competenze e pratiche lavorative. Da questo punto di vista le persone che operano nelle organizzazioni diventano, allora, la risorsa più importante, il patrimonio principale che una Azienda Sanitaria ha a disposizione. Chiedersi allora, al di la del dibattito sul nuovo ospedale, qual è attualmente il loro stato di “salute” risulta fondamentale. Mi sembra, però, che siamo alla stregua di quella società di trasporto pubblico (non piacentina) che implementò in modo consistente il proprio parco di autobus senza tener conto di non avere autisti a sufficienza… Per cui ritengo che una riflessione vada fatta da coloro che sono e saranno responsabili delle istituzioni interessate, proprio perché prima dei nuovi “muri” abbiamo bisogno degli “operai”. E se un comitato di cittadini, suffragato da un consistente consenso, ha avanzato proposte di utilizzo “diverso” dei fondi destinati alla costruzione del nuovo ospedale significa che qualche “riflessione” va fatta sul fronte organizzativo dei servizi. Forse queste “indicazioni di lavoro” stanno anche sommessamente evidenziando ciò che molti pensano e auspicano sul versante delle prestazioni sanitarie e sulla necessità di iniziative straordinarie, anche al di fuori dai tradizionali percorsi amministrativi, riguardanti una consistente implementazione delle risorse umane senza le quali è illusoria la speranza di costruire prospet-tive future migliori e raggiungere alti livelli qualitativi nelle prestazioni erogate.
E a tal proposito, uno degli aspetti oggi più critici è rappresentato proprio dai rapporti tra la vecchia concezione organizzativa dei servizi da un lato e le nuove organizzazioni Distrettuali che vedono le cure primarie, in particolare i medici di famiglia, come parte fondamentale dei Distretti stessi.
Quando il Distretto sarà veramente il punto d’incontro tra domanda di salute ed offerta di cure, il luogo della programmazione integrata delle attività sanitarie e socio-assistenziali, il luogo della valutazione dei risultati e infine il luogo della promozione della “Prevenzione” allora si potrà parlare di un evoluto sistema organizzativo sanitario in grado di supportare in modo appropriato tutta l’attività ospedaliera. Per cui per riequilibrare l’approccio al Sistema Sanitario occorre modificare il paradigma culturale e clinico su cui finora si è basata tutta l’attività sanitaria e cioè il paradigma dell’attesa che la patologia si acutizzi per accedere ai servizi o per intervenire. Il “sistema” non può mobilitarsi solo quando il paziente si aggrava, si scompensa e diventa un paziente acuto. Ha invece una indispensabile necessità di monitorare la salute dei cittadini proprio attraverso l’attività delle “cure primarie” nel quale il medico di famiglia è il centro della organizzazione distrettuale. Quindi solo una identificazione e valutazione sistematica delle necessità sanitarie delle comunità territoriali e una completa integrazione dei servizi di primo e secondo livello potranno garantire la “produttività” del nostro sistema sanitario rispetto ai bisogni della popolazione.
Una visita domiciliare del medico di famiglia può risolvere il problema senza bisogno di ricovero in ospedale (Ar.C.)
C’è da pensar maluccio di questa nostra ASL dove ormai par succedere di tutto un pò. Ma per quanto mi riguarda lascio (almeno per ora) il racconto e il commento degli avvenimenti, delle indagini in corso, delle prescrizioni sospette di morfina o di altri farmaci, degli arresti, lascio tutto alle cronache del quotidiano locale e agli altri giornaloni regionali, nazionali e online per i quali Piacenza diventa sempre più un succulento boccone utile per aumentare le vendite.
Voglio invece portare a conoscenza un episodio vissuto in prima persona. Dovendo fare un periodico controllo nei giorni scorsi, debita prescrizione medica e prenotazione Cup alla mano, mi sono presentato prima negli ambulatori di piazzale Milano per un esame preliminare alla visita medica vera e proprio (e colgo l’occasione per ricordare d’aver sputato sangue per trovare un parcheggio per invalidi, sacramentando contro un’amministrazione comunale rea di aver eliminato decine di posti senza tener conto delle necessità dei pazienti che quotidianamente usufruiscono dei servizi sanitari in loco).
Fatto tutto ho avuto necessità del completamento della visita recandomi all’interno dell’ospedale, dall’altra parte della città. Senza esitazione mi sono recato nel reparto interessato come indicato sul secondo foglio di prenotazione avuto al Cup ma nel frattempo come informava un apposito cartello, gli ambulatori in questione sono stati trasferiti in altro luogo. Quale? Ma che curiosi! Si apre un consulto tra i disorientati pazienti in attesa e alla fine, non avendo indicazioni dai sanitari e parasanitari dopo un timido tentativo di suonare un campanello e sentirci rispondere via citofono “restate in attesa“. Atteso invano un pò di tempo, si decide di scendere nell’atrio chiedendo al portinaio che effettivamente ci indirizza verso altra palazzina dove arrivo un attimo prima dell’orario prefissato. Il tempo di un Amen e s’affaccia un’infermiera che chiama il mio nome e la visita ha inizio.
Tralascio della mia reazione di stupore alla domanda da parte del medico “perché questa visita?“. Notoriamente io dedico la stragrande maggioranza del mio tempo libero a far esami utili, necessari, casuali, così, tanto per fare. Non certo perché quel medico sbarazzino al controllo precedente di circa dieci mesi prima si era raccomandato di sottopormi a nuova visita entro un anno magari rilevando che qualche problemino potrei averlo (come del resto precisato nel referto avuto allora debitamente consegnato in cartaceo appena seduto nello studio medico all’inizio della visita).
Ma niente, andiamo avanti. Visita di totale assenza di empatia ma che comunque mi appare accettabilmente scrupolosa, ad un certo punto, dopo aver presentato tutti i referti precedenti portati, ricordo e riferisco di quel problema del 2018 che aveva determinato un ricovero d’urgenza di qualche giorno. Di tutto quello però non ho portato prova documentale. Poco male. Nel sistema informatico dell’Asl piacentina sono debitamente conservate tutte le informazioni sanitarie che mi riguardano almeno per quanto alle prestazioni ricevute nell’ambito della stessa Asl piacentina. In questo caso, poi, si tratta di prestazioni ottenute nella stessa specialità e addirittura nello stesso reparto nel quale mi trovo. Dunque, penso, nessun problema, ovviamente. “Purtroppo“, commenta invece il medico, “non posso vederlo” “ma come”, dico io, “è tutto a sistema informatico, basta aprire la mia scheda personale” “non posso” “ma perché, che novità sarebbe?” “questione di privacy, da qualche tempo abbiamo disposizione di non farlo, dobbiamo rispettare la privacy“. Ammutolisco!!!
Ora, tenendo conto che nella prima fase della visita, nel corso della prestazione preliminare a piazzale Milano, il medico aveva scorrazzato a piacere nel mio passato clinico, voglio pensare che: 1) il medico ospedaliero non avesse voglia di perdere tempo per la consultazione; 2) oppure che ritenesse l’approfondimento non necessario o quantomeno non indispensabile. Ma invece la risposta avuta mi ha lasciato senza parole.
Tutela della privacy? Ma se è lo stesso paziente interessato (io) che chiede la visita e consente l’eventuale approfondimento, che c’azzecca la tutela della privacy? Tenendo peraltro conto che visita attuale e precedente diagnosticato del 2018 erano e sono per situazione clinica similare che ha interessato lo stesso reparto.
Mi è venuto da pensare che l’indicazione sia venuta da qualche burocrate con scarsa dimestichezza con le leggi, il diritto e soprattutto la tutela della salute sancita dalla Costituzione che ovviamente prevale su qualsiasi altra norma. Insomma, Servizio (visita effettuata) e Disservizio (richiamo di una norma nel caso specifico del tutto estranea alla situazione).
Meglio dunque pensare che il medico abbia ritenuto superflua la consultazione e l’approfondimento e per chissà quale invenzione abbia citato una disposizione sicuramente mal interpretata. Non da escludere comunque, nel dubbio, sia opportuno, alla visita di controllo tra un anno, cercare di effettuarla con altro medico.
Quando l’invocare la tutela della privacy potrebbe diventare una trappola limitativa
Nel ricco calendario di eventi del Festival “Transitare” dedicato alla Via Francigena che recentemente si è svolto a Calendasco particolare attenzione e curiosità ha suscitato la mostra “Antropocene-Archeologia di plastica”. Un’esposizione dei “reperti” plastici e non solo riemersi dall’alveo del Grande Fiume di questa estate raccolti da Umberto Battini, storico e appassionato del nostro Grande Placido Fiume, che ha poi provveduto all’allestimento della mostra per mettere in risalto come l’inquinamento soprattutto plastico, tenda a protrarsi per centinaia di anni, andando a rilasciare nelle acque microplastiche dannose all’ambiente e alla salute umana. In esposizione dunque oggetti d’ogni tipo raccolti nelle secche, semisepolti tra le sabbie, tra i più svariati e in qualche caso databili anche ad oltre 60 anni fa, segno che ci vorranno secoli prima che si decompongano. Il Po copre, scopre, ma fatica “a digerire” questi oggetti che necessariamente non dovrebbero essere in alveo. Servirebbe dunque una nuova consapevole e forte determinazione al pieno rispetto dell’ambiente. Calendasco è un paese con una profonda antica radice legata al Po, che lo avvolge con le sue due grandi anse, qui erano già da epoca medievale, pescatori, barcaioli e navaroli addetti ai vari porticcioli d’attracco ed é proprio da Calendasco che il nostro Umberto Battini ha voluto lanciare, riproponendo la mostra giunta alla sua 2^ edizione, un vero e proprio “grido di soccorso”. Vogliamo ascoltarlo?
Si pubblica il resoconto della giornalista Antonella Lenti relativamente alla posizione sindacale in merito alla situazione della sanità pubblica piacentina ricordando che comunque non sarà certo dalla costruzione di un nuovo ospedale delocalizzato che potranno risolversi gli attuali enormi problemi legati in particolare alla situazione di grande sofferenza relativamente alla sanità del territorio.
Ex clinic< Bwlvsxwew attuakmente in stato d’abbandono: potrebbe diventare il primo OSCO (Ospedale di Comunità) piacentino
Sanità, da qualunque punto la si guardi i problemi e le emergenze non mancano. Vecchie e nuove e forse hanno una sola matrice la convinzione-scelta, sedimentata da anni, che il sistema universalistico, fiore all’occhiello delle civiltà avanzate europee e finanziato con la fiscalità generale, nel nostro paese non può restare in equilibrio. Fino a che punto questo è un fatto oggettivo e quando diventa una scelta politica convinta?
Una domanda che oggi si va facendo sempre più cogente. Lo si vede dalle difficoltà del sistema che si ripercuotono sui cittadini costretti sempre di più a rivolgersi a servizi privati per trovare risposte che nel pubblico faticano ad avere in tempi ragionevoli. Finanziamenti ridotti, tagliati o negati, aumento della richiesta di servizi per le cronicità sono una miscela che rischia di far esplodere tutto se non si provvede.
Ci sono due fattori che hanno preparato il terreno alle condizioni che si vedono oggi: i tagli continui e ripetuti degli ultimi 30 anni e il progressivo invecchiamento della popolazione che pone una domanda sempre più alta di servizi e di presa in carico. Come fare allora? Attivi su questo tema anche i sindacati, insieme a diverse associazioni, che hanno programmato una manifestazione nazionale tenuta il 24 giugno proprio sulla difesa della sanità pubblica come diritto costituzionale di tutti i cittadini e intitolata “Articolo 32: salute, diritto fondamentale delle persone e delle comunità”. Promotore un gruppo inter-associativo “Insieme per la Costituzione” a cui, oltre ai sindacati Cgil, Cisl e Uil aderiscono diverse associazioni che hanno illustrato i contenuti dell’iniziativa. Presenti il segretario Cgil Ivo Bussacchini con Bruno Carrà e Stefania Pisaroni per il sindacato e quindi Romano Repetti (Anpi), Antonella Liotti (Arci), Angela Cordani (Federconsumatori) Giuseppe Castelnuovo (Legambiente). Tra gli scopi della manifestazione – hanno ricordato – ci sono “la tutela del diritto alla Salute per un Servizio Sanitario Nazionale e un sistema socio sanitario pubblico a cui garantire le necessarie risorse economiche e organizzative ma soprattutto il personale per contrastare il continuo indebolimento della sanità pubblica, recuperare i divari nell’assistenza effettivamente erogata, a partire da quella territoriale e dalle liste d’attesa, e valorizzare il lavoro di cura.
Alla base della manifestazione di piazza la richiesta di “un piano straordinario pluriennale di assunzioni che vada oltre le stabilizzazioni e il turnover, superi la precarietà della cura e di chi cura per garantire la salute e la dignità delle persone non autosufficienti, per la tutela della salute e sicurezza sul lavoro, rilanciando il ruolo dei servizi della prevenzione, ispettivi e di vigilanza. “La sicurezza sul lavoro e la salute vanno di pari passo – ha ricordato Bruno Carrà – gli infortuni mortali sul lavoro nel 2022 in Italia sono stati 1090 (tre morti al giorno) e gli infortuni assommano per lo stesso periodo a 700mila e, se vogliamo dare un dato piacentino, eccolo: nei primi quattro mesi del 2023 gli infortuni da noi sono stati 1.440. Una questione grave che richiama a gran voce il rilancio del sistema di prevenzione, ispettivo e di vigilanza e, in secondo luogo, la necessità di non concedere finanziamenti alle imprese che non rispettano i protocolli di legalità”. Avere una sanità pubblica – sostengono gli aderenti a Insieme per la Costituzione – vuol dire garantire le cure per tutte e tutti, in tutto il Paese, e fermare la privatizzazione della sanità e della salute”.
Un sistema da riformare perché non imploda
Di recente l’assessore alla sanità della Regione Emilia Romagna Raffaele Donini ha parlato della necessità di riformare il sistema per evitarne il collasso e quindi il progressivo smantellamento e la conseguente privatizzazione che, per certi aspetti, è già in atto. “Ciascuno di noi – ha richiamato Romano Repetti (Anpi) nell’incontro con il sindacato – si trova già nelle condizioni di rivolgersi obbligatoriamenteai servizi a pagamento per accelerare gli esami edaccertamenti.
L’interrogativo che si pone dunque è come riformare, senza ridurlo, il livello delle prestazioni ai cittadini. È qui la vera sfida che sembra quasi rasentare l’impossibile. Al momento i problemi maggiori sono due e investono anche il sistema piacentino: da un lato la carenza di medici e infermieri soprattutto in certi reparti. In primis quello dell’emergenza che colpisce i Pronto soccorso – i concorsi sono andati deserti – come anche la rianimazione e le terapie intensive dove si registra la carenza di anestesisti, ma nella stessa situazione si trova anche la medicina di base con una mancanza preoccupante dei medici di medicina generale. “La situazione nella nostra realtà si può dire drammatica non solo per alcuni reparti ma per tutte le 24 categorie professionali della sanità – segnala Stefania Pisaroni, sindacalista Cgil. Una situazione – ha proseguito – che sta portando, in assenza di finanziamenti, ad allungare le liste d’attesa”. Finanziamenti che, per quanto si sta profilando a livello nazionale non arriveranno. Un fatto grave che porta a penalizzare quelle regioni che, in tempi di pandemia, hanno predisposto (e pagato) servizi e interventi previsti a livello statale e che ora non vengono rimborsati. “Tra le regioni più attive – ricorda a questo proposito il segretario della Camera del lavoro di Piacenza Ivo Bussacchini – c’è la regione Emilia Romagna. Quello che sta succedendo non è altro che il frutto di una scelta politica che agisce su un sistema sanitario che si trova in grande affanno. Sì, non ci sono dubbi: è una scelta politica di parte”.
Rivedere il piano sanitario locale del 2017
Sul fronte sanitario a Piacenza c’è una piattaforma – presentata nel novembre dello scorso anno – in cui si chiede la revisione del piano sanitario provinciale “Futuro in salute” perché confezionato nel 2017 prima della pandemia.
È evidente che quell’esperienza ha completamente messo in discussione tutte le scelte di politicasanitaria adottate fino a quel momento. Anche su questo il coordinamento di sindacati e associazioni è concorde nel ritenere che quel piano debba essere riaperto, ridiscusso chiedendo, soprattutto, che le nuove indicazioni siano confrontate con il territorio.
“Non devono restare decisioni ad esclusiva valutazione da parte dei tecnici – rimarca Giuseppe Castelnuovo di Legambiente e del Coordinamento medicina territoriale. Se è indubbio che ci sono problemi nazionali (il numero chiuso nelle università oppure la scelta di non finanziare le borse di specializzazione) a livello locale è necessario fare di più per la sanità territoriale. Ogni giorno arrivano segnali che aggravano la preoccupazione sul venire meno di servizi fondamentali per il territorio come per la chirurgia a Fiorenzuola o per la Rianimazione a Castel San Giovanni, ogni giorno porta una carenza per i futuri servizi…”. Anche sul tema della Case della Comunità (ex Case della salute) l’orizzonte non è molto chiaro secondo il sindacato. È esplicito il segretario Bussacchini. È fondamentale – dice – definire quale modello di sanità si vuole seguire. Questo comprende tutto il sistema: le 6-7 Case della Comunità, gli ospedali territoriali fino anche al nuovo ospedale. La sua sollecitazione tocca un nervo fondamentale: dare gambe ai presupposti fino ad ora solo elencati nei programmi teorici. “Ma vediamoli nel concreto questi progetti” Esorta. Bussacchini poi, riferendosi alla prospettiva dell’uso tecnologico come la diffusione della telemedicina su cui si punta anche attraverso gli investimenti strutturali, si dice convinto che questo non potrà avvenire da un momento all’altro ma che sarà necessaria una fase di transizione e di passaggio. E quindi la domanda implicita: il sistema sanitario attuale è pronto per gestire questa fase delicata? Secondo associazioni e sindacati resta dunque più che valida la richiesta avanzata alcuni mesi fa di rivedere il piano provinciale sanitario che è datato 2017 e quindi non considera la “rivoluzione” imposta dall’esperienza condotta durante la pandemia da Covid 19.
“Il modello di sanità che vorremmo dovrà essere incentrata sull’integrazione tra servizi sanitari e servizi sociali con una riorganizzazione della Rete ospedaliera che dovrà essere più flessibile con strutture ospedaliere modulari, più tecnologiche e inserite in modo ottimale nel contesto urbano e territoriale. È con queste caratteristiche – sottolineava tra l’altro il documento sindacale – che si dovrà realizzare il nuovo ospedale di Piacenza, senza penalizzare ma valorizzando il ruolo e la funzione degli ospedali periferici (Fiorenzuola, Castelsangiovanni, Ospedale di montagna di Bobbio). È indispensabile inoltre completare la pianificazione delle strutture territoriali per garantire una reale continuità di cura tra ospedale e territorio anche al fine di intercettare precocemente i bisogni di salute: Dovrà essere data priorità al completamento e a nuove realizzazioni di Case di Comunità con riferimento a quanto previsto dalla Missione 6 del Pnrr”.
Investimenti sì, ma l’insoddisfazione resta alta
Su una griglia generale insiste una realtà locale la cui voce si fa sentire più da vicino. Ci sono aspetti peculiari di cui la sanità piacentina ha sempre sofferto e riguarda i tempi di attesa nodo cruciale per la risposta al bisogno di salute. Si fa strada una forte insoddisfazione da parte dei cittadini preoccupati di intravedere lo spettro di un ridimensionamento dei livelli essenziali di assistenza. L’altra componente della discussione intorno alla salute e ai servizi necessari per mantenere il sistema sono i tempi necessari per dare concretezza agli investimenti. E qui sta il primo paradosso. Infatti, se dopo la pandemia le carenze del sistema sanitario hanno portato all’allargamento delle maglie europee per poter dare linfa ai servizi mancanti (soprattutto nei paesi più colpiti dal Covid), a distanza di alcuni mesi dalla dichiarazione della fine dell’emergenza pandemica sembra che il Piano di ripresa e resilienza, che avrebbe dovuto avere la sanità come
centro degli interventi, sia diventato molto meno impellente e urgente. Tanto da far pensare che la strada che si vuole intraprendere sia un’altra. Quale? Si vedrà. Intanto resta stampata sulla carta la “missione 6” del Pnrr sulla sanità indirizzata su due filoni. Da un lato l’obiettivo di “Migliorare gli ospedali e le strutture sanitarie, anche contro i terremoti; diffondere di più l’assistenza di prossimità così da garantire le cure, soprattutto alle categorie più fragili”. E poi per l’aggiornamento tecnologico e digitale con lo scopo di “Rinnovare i sistemi digitali, rafforzare gli strumenti di raccolta, elaborare e analizzare i dati per garantire la diffusione del fascicolo sanitario elettronico ed erogare i livelli essenziali di assistenza in maniera omogenea”.
Questi i progetti da realizzare entro il 2025
Per Piacenza sono 23 i milioni del Pnrr che finanzieranno opere inserite nei due percorsi sopra ricordati e che saranno utilizzati per riformare il sistema dell’assistenza territoriale. Così ha segnalato di recente la direttrice generale dell’Ausl Paola Bardasi. Finanziamenti quindi indirizzati a quali interventi? Quasi 8 milioni di euro sono destinati a sei strutture di Case di Comunità e alla presa in carico delle persone. Secondo lo schema 1 milione e mezzo dal Pnrr andranno al completamento della Casa di Comunità di Fiorenzuola su un costo complessivo di 5milioni e 500mila euro. Troverà spazio nell’ex municipio di via Garibaldi; 233mila saranno destinati alla ristrutturazione di quella di Piacenza 1 (Piazzale Milano) mentre una consistente cifra di 3 milioni e 404mila euro saranno destinati alla nuova costruzione della Casa della comunità Piacenza Belvedere che troverà spazio nell’ex omonima clinica di via Gadolini da anni inutilizzata e abbandonata la cui progettazione è conclusa e i lavori saranno terminati entro il 2025. Un’altra cifra importante 2 milioni 763mila euro per la nuova costruzione della Casa di Comunità a Rottofreno e infine due piccoli interventi di manutenzione
rispettivamente di 35mila euro e 50mila euro rispettivamente per la struttura di Borgonovo e Cortemaggiore. Case della salute o di Comunità lo stato dell’arte Nel post pandemia, insieme alle Case della Comunità (in Emilia Romagna Case della Salute), altri nuovi termini sono diventati familiari come gli Ospedali di comunità. Saranno tre quelli da realizzare uno di questi troverà spazio nell’edificio dell’ex clinica Belvedere e a Castel San Giovanni. Quali le funzione di un ospedale di Comunità? Del tutto nuova perché dovrà coprire un servizio che oggi è inesistente e occuparsi di chi non può più restare nell’ospedale per acuti ma ancora non può accedere al proprio domicilio. Si sa che gli investimenti previsti e i progetti sulla carta dovranno con attenzione essere riempiti di contenuti, di funzioni, di nuove tecnologie e soprattutto di professionisti. La nota dolente, come si è detto, che tutto il sistema sanitario lamenta. Inoltre va detto che dopo 17 anni dalla loro istituzioni in molte regioni non esistono ancora le Case della salute che ora dovranno essere convertite nella nuova definizione di Case della Comunità. In molti casi quindi si tratta di un progetto del tutto nuovo e completamente da realizzare. Per quanto riguarda la Regione Emilia Romagna sono 124 le Case della salute dichiarate attive secondo un dossier prodotto dalla Camera dei deputati nel 2021, nello stesso periodo in tutta Italia ne erano state censite 554. Quanto agli ospedali di comunità in Emilia Romagna sono 26 attivi con 359 posti letto. Nello schema che fotografa lo stato dell’arte, a quella data, alcune regioni tra cui la Lombardia, la Puglia e la Campania non risultavano attive Case della salute. A uno sguardo più ravvicinato la presenza di Case della salute in Emilia Romagna non è distribuita con omogeneità sui territori provinciali. A Piacenza si contano quella di Borgonovo, di Bettola (che svolge anche un servizio per i malati oncologici), di Carpaneto e Gropparello, di Cortemaggiore, di Monticelli, di
Podenzano, di San Nicolò e Piacenza. Edifici e finanziamenti a parte, sono i contenuti delle Case della Comunità che sollevano le maggiori preoccupazioni perché dovrebbero intensificare e strutturarsi come un servizio capace di dare risposte all’aumento delle cronicità che investono soprattutto gli anziani che se vivono più a lungo, hanno una qualità della vita più compromessa. Il contesto demografico Tutto questo avviene in un contesto demografico che invecchia e che pertanto necessita di strutture e servizi sempre più affinati. Vale a dire medici sempre più vicini, capaci di prendere in carico il paziente con costanza e periodicità. Iniziative che portano a costi molto alti. Per dirla in breve: ostacoli e difficoltà insormontabili che di giorno in giorno si evidenziano. Sullo sfondo dei problemi contingenti di cui quotidianamente si dà notizia, bisogna ricordare che sembra ormai quasi dimenticata l’esperienza della pandemia. Ma quel periodo ha messo in ginocchio (in tanti casi questo è successo) il sistema sanitario e ha messo in evidenza come siano indispensabili – in tempi brevissimi che forse sono già scaduti – le iniziative per potenziare i servizi più vicini al cittadino. Detto e fatto? No. Tutto ancora di là da venire.
Nessuna risposta diretta ieri alle osservazioni del Comitato Salviamospedale per il quale riqualificare e potenziare l’attuale struttura di via Taverna si deve e si può.
Non rrispondere, però, prescindere dall’analisi seria delle osservazioni, fa pensare e soprattutto ci fa chiedere “a quale scopo? “.
Quel cche disturba è quando la politica diventa parole di circostanza. Ieri i defunti per Covid sono stati celebrati e ricordatipubblicamente nel “Giardino di Vita” tra via Portapuglia e via dell’Orsina. Presenti Sindaca, Vescovo, rappresentanti di varie realtà pubbliche e, per l’Ausl, il Direttore Sanitario molto critico verso gli episodi in crescita di violenza contro i sanitarie verso le indagini avviate dalla magistratura per la verifica di quanto fatto all’epoca per i pazienti ipotizzando possibili errori.
Bene, sicuramente. Tuttavia se nel contempo il simbolo del ricordo di quei giorni di tragedia viene fatto sparire dall’atrio dell’ospedale, le parole nelle celebrazioni pubbliche svolte nel luogo lontano dalla tragedia vissuta da tanti piacentini, rischiano di suonare vuote, addirittura urticanti.
DIventa così impossibile dimenticare che quel quadro per mesi era stato dimenticato a terra dietro un vaso con pianta e che solo di recentemano anonima l’aveva pietosamente risistemato. Indubbiamente infastidendo qualcuno. Così però rendendo poco credibile la celebrazione in pompa magna al “Giardino di Vita”.
AGGIORNAMENTO DI DOMENICA 19 MARZO ORE 15.09: il quadro è tornato nell’atrio dell’ospedale, misteriosa libera uscita finita.