“Il dirupo di Brugnello”, racconto ritrovato in un vecchio file, mystèriosamente escluso dalla pubblicazione in “Vietato attraversare i binari. Servirsi del sottopassaggio”, racconti di viaggio sul treno toccato in sorte.

Il borgo di Brugnello nella Valle della Trebbia

Seduto sulla sdraio nella veranda ormai chiusa, Antonio ascoltava lo sciabordio dell’acqua del fiume contro il piccolo attracco del campeggio.

Dalla roulotte lo raggiungevano i rumori soffusi di Esmeralda in procinto di coricarsi, alle prese con un laborioso ingresso nel sacco a pelo.

Attraverso la tela trasparente della veranda poteva ammirare il profilo delle vecchie case contadine e della chiesa di Brugnello abbarbicate sul dirupo, stagliate contro il cielo illuminato dall’argento della luna.

Assaporò quella serenità, lasciandosi andare sulla tela colorata della sdraio, chiudendo gli occhi e giocherellando con la collana d’ambra tra le dita.

I passi nel vialetto, rimarcati dalla ghiaia, gli sembravano in perfetto stile per un romanzetto dell’orrore di quarta serie. Sorridendo aprì gli occhi e, in quel momento, la creatura lo guardò, due fiamme rossastre nelle orbite, un ghigno feroce di soddisfazione.

Antonio rimase immobile ma, con stupore, sentì di non provare terrore, quella creatura infernale gli era familiare. Cercò di afferrare la verità nascosta nella mente mentre gli artigli penetravano nella tela, lacerandola senza difficoltà. Le zanne gli penetrarono la gola e finalmente ricordò: “Morgana!”.

Aveva cercato di fuggire dal suo destino di magia, di vivere con Esmeralda un’esistenza da comune mortale. Erano stati anni stupendi ma ora Morgana l’aveva ritrovato e la creatura lo riportava oltre il confine, nei territori dell’Altra Dimensione, in Cornovaglia.

Merlino ritornava al suo ruolo, proprio mentre Esmeralda usciva dalla roulotte per chiamare Antonio.

Naturalmente non lo trovò.

Alzando lo sguardo verso il dirupo vide un corvo spiccare il volo e dirigersi verso la luna. Nel becco stringeva una collana d’ambra.

Il corvo sentì quello sguardo, si girò verso Esmeralda, lasciò cadere la collana ai suoi piedi e una lacrima di tenera dolcezza.

Lei si chinò a raccogliere la collana mentre tra la ghiaia, dove era penetrata la lacrima, spuntavano ranuncoli colorati, disposti come due labbra, a formare un sorriso.

In quel momento, dal punto più alto del campanile, un falco dalle lunghe penne gialle si lanciò all’inseguimento del corvo.

Esmeralda ne seguì le evoluzioni a seguire il tortuoso percorso del fiume su verso le sagome delle montagne finchè, uniti, il falco dalle lunghe penne gialle mosse dal vento e, al fianco, il corvo col becco giallo a franger l’aria, insieme scomparvero all’orizzonte.

Finalmente, stringendo la collana d’ambra al seno, Esmeralda pianse, ricordando gli anni di sogno vissuti con Merlino.

Stava scritto nel destino e lei lo sapeva fin dall’inizio: non c’è spazio per Amore in un mondo invaso da demoni guerrieri, Merlino non poteva negarsi al ruolo di messaggero di pace.

Pianse, Esmeralda, ma sapeva che le ore della notte sarebbero sia pur lente trascorse.

Non le restava che attendere l’alba del nuovo giorno.

“Speriamo sia una colomba quella che in cielo bianca vola”, racconto dai giorni della Resistenza di Claudio Arzani

“Speriamo sia una colomba quella che in cielo bianca vola” è stato pubblicato in “Vietato attraversare i binari Servirsi del sottopassaggio”, Vicolo del Pavone editore, 2009

Polvere. Niente altro che polvere. Strati grigi di polvere ovunque. Sui pochi mobili, sui pavimenti, sui davanzali, sulle scale, sulle lampade a petrolio. Oltre al silenzio. Rotto solo dal fruscio leggero delle foglie mosse dalla brezza nel boschetto confinante con la casa.

Una antica casa colonica. Abbandonata da tempo, da anni, almeno a giudicare dalle ragnatele tra i mobili di legno e, naturalmente, dalla polvere.

Virgilio, con grande attenzione, entrò guardingo spianando il mitragliatore a destra, a sinistra, verso la balaustra del piano superiore. La stanchezza di troppe ore in fuga cominciava ad emergere e quella casa seminascosta tra le foreste sui monti della Val Boreca, poteva essere un ottimo punto di appoggio per fermarsi, riflettere, decidere sul futuro immediato.

Nessun rumore. Stato di abbandono confermato. Rifugio.

La schiena appoggiata alla parete di quella che poteva essere la stanza da pranzo, la cucina di una vecchia casa contadina.

Le palpebre chiuse, lentamente Virgilio sentì il corpo scivolare, si ritrovò seduto, addormentato, con la brezza del vento leggero che dalla finestra s’infiltrava, sembrava accarezzargli il viso, quasi a placare stanchezza e sofferenza.

Dieci settembre 1943. Era in viaggio da 48 ore. Non appena la radio aveva annunciato la fine della guerra. Dell’alleanza con quello che era stato il nemico giurato da sempre. Rompete le righe. Il Re in fuga verso il Sud e l’esercito abbandonato a sé stesso.

Nessun dubbio. Aveva lasciato la caserma, raggiunto la stazione, preso il primo treno diretto al nord, per anticipare le mosse degli ex alleati che certo non avrebbero perdonato quel cambio di bandiera. Del resto inevitabile. Era stato un grave errore, allearsi con il nemico di sempre contro il quale si era combattuta la lunga epopea per l’affermazione dell’identità del paese: il tradimento dello spirito del Risorgimento! Un grave errore sulla coscienza del dittatore, finalmente spodestato.

Un viaggio col cuore in gola, ad osservare con apprensione i militari incrociati nelle diverse stazioni di sosta del convoglio. Quando sarebbe scattata la caccia ai militari italiani?

In una stazione minore, Arena Po, quasi al confine piemontese, pensò bene di non rischiare oltre. Sceso dal treno guardato con una certa curiosità dal capostazione, con decisione s’era incamminato verso le lontane montagne. Una marcia senza sosta. Fino alla casa contadina che ora lo accoglieva e gli consentiva un sonno ristoratore.

Dopo molte ore la luce del giorno e il canto degli usignoli lo riportò alla realtà e finalmente si dedicò all’esplorazione della casa. Polvere, ragnatele ma anche tanti oggetti, in ordine, come di una casa vissuta anche se da tempo (e si parlava, era evidente, di anni) non più usata. Un’abitazione povera, di grande razionalità, senza sprechi.

Al piano superiore trovò lo scheletro di un letto e, su un tavolino posto di lato, una statuina di cera che raffigurava una damina settecentesca abbracciata ad un soldatino d’avorio. Con delicatezza prese in mano la coppia. Un sottile filo tricolore legava i polsi delle due statuine. Virgilio sorrise.

Fu niente altro che suggestione o veramente venne afferrato nel vortice del tempo e dello spazio per essere reso partecipe della storia della damina e del suo amato soldatino?

*

La casa era viva, l’aria piena dei rumori della giornata di lavoro in campagna. Nella cucina tre donne preparavano i pani da lievitare. Dal cortile i richiami dei bergamini al ritorno dai pascoli dei vicini altopiani, mentre un cane abbaiava richiamando gli animali all’ordine, ai percorsi per ciascuno designati. La dura battaglia con la terra avara della montagna, in perenne lotta a contendere spazio alla foresta e ai sassi, il prezzo da pagare per essere padroni della propria esistenza. La terra (avara e spesso arida della montagna) ai contadini, ai lavoratori. La terra buona, quella della pianura, ai signori, ai padroni!

All’ombra del portico, nascosti tra le balle di fieno, la giovane Erminia affondava il viso nel foulard rosso del suo bel Cirillo e lasciava che calde lacrime lo inumidissero. “Ma non è certo colpa mia”, diceva lui mesto, avvolto nei tessuti un po’ arruffati della sua divisa garibaldina, la camicia rossa proprio da Erminia cucita con amore nelle notti dell’inverno appena passato. Ed ora, con l’arrivo della primavera, con la stagione che volgeva al bello, il generale aveva richiamato le sue truppe volontarie per una nuova campagna. Poteva forse Cirillo sottrarsi al richiamo della Patria, quella con la p maiuscola rappresentata da quel comandante che parlava con il linguaggio della gente comune? L’Italia agli italiani e le terre ai contadini. Le terre delle pianure, quelle fertili, per dirla bene! Fine dell’Italia dei padroni e dei gran signori, nell’avvento della Repubblica poteva starci anche un decoroso futuro per ogni uomo con la voglia di lavorare. Poteva lui, Cirillo, sottrarsi alla chiamata per costruire il futuro suo e di Erminia? Neanche a parlarne. Ma sarebbe durata poco, il tempo di vincere, di sistemare le cose, di rimandare a casa il nemico “e col generale, si sa, non si sta certo a perdere tempo, si combatte e si vince, giusto per ritornare al lavoro nei campi per il raccolto”.

Erminia aveva sorriso, mettendo il foulard umido al collo del suo piccolo contadino combattente volontario per un futuro migliore. “Ti aspetterò con ansia e, nell’attesa, confezionerò una bandiera tricolore per festeggiare il tuo ritorno e le vittorie che porterai”.

Anche Cirillo sorrise, infilando la mano nella sacca, estraendone una statuina d’avorio che raffigurava un soldatino d’una nazione indefinita. Un prezioso bottino, un trofeo raccolto sul campo di battaglia, sottratto ad un nemico caduto.

Il ricordo di una precedente campagna militare del reggimento asburgico in una colonia africana. Dove il soldato nemico vigilava sulla costruzione di un ospedale. Garantendosi la riconoscenza degli indigeni. Una riconoscenza resa tangibile da quel regalo prezioso. Poi il reggimento venne richiamato in patria, in Baviera  e, da lì, inviato in servizio d’ordine nelle terre lombarde dove avvenne lo scontro con la banda garibaldina. Così il prezioso soldatino d’avorio passò di mano. Dall’indigeno che lo aveva intagliato al soldato asburgico in missione umanitaria. Dal soldato asburgico divenuto nemico occupante di terre d’altri, a Cirillo.

Ed ora dal fiero garibaldino alla bella Erminia come pegno per il ritorno.

 *

Di nuovo Virgilio ebbe l’impressione di viaggiare nel tempo e nello spazio. Si ritrovò nella cucina della casa contadina.

*

Faceva freddo. Nel camino bruciava un piccolo tronco insufficiente ad affrontare i rigori invernali. Dalla finestra vedeva la neve, neve ovunque, tanta neve. Il comandante inverno era sceso dai monti alle pianure fermando il biondo generale dalla camicia rossa. I contadini volontari non erano tornati per il raccolto.

Erminia stava seduta, abbandonata sulla sedia, un braccio appoggiato alla tavola, l’altro a reggere la lettera. Incapace di reazioni. Incapace di piangere. La lettera che annunciava la conquista di un lontano paesino tra colline per lei sconosciute. Una battaglia eroica. Che come sempre le truppe volontarie del generale avevano vinto. Non senza eroi che non sarebbero tornati alle loro case. Eroi dei quali sarebbe rimasto imperituro  il ricordo. Le lacrime. Le preghiere. Fino all’arrivo, inesorabile, dell’oblio definitivo, lo svanire del ricordo. Eroi sepolti lontano dalle loro case, dai loro cari.

Tra questi, Cirillo.

In silenzio la madre appoggiò una mano sulla spalla di Erminia per trasmetterle un conforto atteso ma senza reale speranza di lenire un dolore indicibile, infinito.

Il vecchio padre, interrotti i lavori nella stalla, restava in piedi, in silenzio, ammutolito, di fianco al camino.

 *

Di nuovo, nel vortice del tempo.

*

Virgilio si ritrovò tra la gente nella piazza di un paese tra i banchi del mercato. Vestiti, stoffe, galline legate con la corda a gabbie di legno, carri con attrezzi per il lavoro, vitelli, il gran vocio delle contrattazioni e delle semplici informazioni di chi poi non aveva i soldi necessari all’acquisto di cose che ci si limitava a sognare. Riconobbe il padre di Erminia, con i baffi neri, indubbiamente molto più giovane, mentre contrattava per l’acquisto di una piccola statuina di cera bianca che raffigurava una damina in abiti da gran signora del settecento. No, niente soldi, in cambio offriva una forma di formaggio. Un sacrificio enorme. Ma per la sua piccola Erminia ne valeva davvero la pena. La bambina aveva già le sue bambole di stracci ma quella statuina sarebbe stata un dono preziosissimo. Il degno simbolo del suo orgoglio di padre.

*

 Non aveva più lacrime.

Per giorni Erminia, attonita, era rimasta a fissare l’orizzonte lontano. Piangendo lacrime cariche di ricordi. Di sogni di un futuro che non sarebbe mai stato. Si avvicinò al letto. Al comodino dove nel cassetto teneva il soldatino d’avorio. Stringendolo con delicatezza nel pugno scese in cucina, dove teneva ancora la statuina di cera. Prese la bandiera tricolore che aveva intessuto attendendo il ritorno del suo bel garibaldino. La sfilacciò ricavandone un filo badando che fossero rappresentati il verde, il bianco, il rosso. Con quel filo unì i polsi della statuina e del soldatino d’avorio, li posò sulla badia, come fossero avvolti nella musica di un giro di ballo verso l’eternità.

Un’ultima carezza.

Quindi uscì nel cortile, seguendo i sentieri scavati nella neve, fino al ponte che attraversava il fiume. Lanciò uno sguardo al cielo oltre l’orizzonte. Lasciandosi scivolare nell’acqua e lentamente passare nella dimensione dove Cirillo di certo l’aspettava.

*

Un bagliore di luce arrivò agli occhi di Virgilio, seduto a terra nella cucina della casa contadina, con in mano la statuina e il soldatino ancora uniti in una danza d’amore senza fine. Un riflesso. Un riflesso del batacchio della porta. Il batacchio di bronzo. La porta d’ingresso era aperta e un raggio del sole di mezza mattina rimbalzava sul batacchio, gli colpiva gli occhi, lo riportò alla realtà. Fine del viaggio nel tempo e nello spazio.

Appena il tempo di intuire più che vedere la canna del fucile del soldato nemico che, entrando nella casa contadina, stava percependo la presenza del bandito seduto sul pavimento. Stava allungando il dito sul grilletto, alzando la canna nella direzione del bandito.

Hans. Lo stesso nome del bisnonno. Ucciso in terra di lombardia in un agguato teso da una banda di irregolari, di volontari, di garibaldini. Straccioni. Inaffidabili. Come tutti gli italiani. Traditori. Banditi.

Virgilio disperatamente rotolò a sinistra raccogliendo il mitragliatore e lanciando lontano la statuina di cera e il soldatino d’avorio. Il nemico sparò il primo colpo e per fortuna non aveva un mitragliatore. La pallottola scheggiò il pavimento, rimbalzò sulla parete mancando d’un soffio la gamba dell’italiano.

 Tenendo il mitragliatore nella mano destra Virgilio, sdraiato a terra, riuscì a sparare una raffica verso la porta, proprio mentre Hans si tuffava a terra in avanti e contemporaneamente, come aveva imparato ai corsi di addestramento, ricaricava il colpo in canna del fucile.

 Intanto il soldatino d’avorio, cadendo a terra, si ruppe in quattro pezzi, lasciando il braccio e un pezzo del tronco ancora legati al polso della damina di cera.

La sventagliata di piombo sparata da Virgilio mancò Hans ma una pallottola, rimbalzando contro il batacchio in bronzo della porta, ritornò nella stanza, colpendo la statuina di cera, decapitandola.

Il soldato tedesco, cadendo a terra, nonostante il dolore lancinante alle ginocchia e ai gomiti, tirò disperatamente il grilletto del fucile per anticipare il nemico. A quella distanza era impossibile sbagliare bersaglio. Partì il colpo ed inesorabile la pallottola entrò nel fianco di Virgilio andando a devastare organi vitali ponendo fine alle speranze del futuro.

La stessa pallottola, uscendo dal tronco di Virgilio, incappò nella bomba a mano che il soldato italiano teneva nel taschino della giacca. L’esplosione devastò la cucina della casa contadina. Le schegge furono fatali per Hans al quale non rimase nemmeno il tempo per ricordare le verdi pianure della sua Baviera.

Morì senza ah né bah.

Morì punto e basta.

Morì così in terra straniera.

Come il bisnonno.

*

Le mura, costruite troppi anni prima utilizzando il fango del fiume essiccato al sole, tremarono, l’equilibrio statico della vecchia casa contadina fu messo a dura prova.

Crollò il pavimento del piano di sopra.

Con un boato, mentre ancora si sollevava polvere, cedette il tetto.

La parete posteriore crollò a sua volta.

 Così Hans e Virgilio, insieme ai pezzi della statuina di cera e al soldatino d’avorio,  ebbero comune decorosa sepoltura. Invano cinghiali selvatici avrebbero cercato, con le zampe ed il muso cornuto, di scavare tra le macerie per procurarsi quel cibo del quale sentivano il profumo.

*

Lentamente la foresta ha ripreso possesso degli spazi rubati dall’uomo e le rovine della vecchia casa contadina sono ormai indistinguibili. Resta la natura, quella spontanea, con i suoi cicli di vita. Restano macerie e mura diroccate coperte dai muschi e dalle piante rampicanti. Tra le pareti ancora in piedi, la porta d’ingresso, ormai di legno marcio, il batacchio di bronzo che ad ogni alba si protende verso il sole.

In base alla posizione, talvolta riflessi portano raggi di luce tra gli anfratti ancora aperti nelle macerie. Disturbano il riposo del volatile che tra le macerie ha stabilito il nido e che, talvolta, infastidito, si alza in cielo. Senza dimenticare di portar con sé un ramoscello d’ulivo, forse nella speranza che quel benedetto sole, con i suoi raggi e i suoi riflessi, decida di restarsene in pace a casa sua.

Pace, olio su tela di Arturo Tosi

“Mara nella verde valle della Trebbia”, racconto di storia partigiana di Claudio Arzani

Foto archivio Museo della Resistenza Piacentina

(Bobbio, 29 settembre 1954)

Alzò la saracinesca del negozio di frutta e verdura, di faccia al monastero, al civico 12 di piazza Santa Fara, ammirando i colori del cielo e della vetta del monte che si stagliava alle spalle della torre campanaria di San Lorenzo.

Come ogni mattina prestò orecchio all’allegro vociare dei ragazzini in arrivo da vicolo Voltone, da cantone San Lorenzo, dal cantone del Castellaro, intenti a rincorrersi, a canzonarsi, ad intrecciare immancabili filarini, nel mentre si avviavano verso il quotidiano appuntamento scolastico.

Aveva appena preparato le cassette con le verdure fresche e Rosina era già sull’angolo, sotto il porticato del palazzo di fianco, ad aspettare: sempre la prima cliente della giornata, puntuale come un treno svizzero.

Mara s’allacciò il grembiule, “allora, Rosina, cosa le serviamo stamane?

Non era un giorno qualunque, il suo Sergio quella mattina si presentava all’amministrazione dell’ospedale, per il suo primo giorno di lavoro.

Fattorino, con mansioni di aiuto al Ragioniere!

Era un bel risultato, un ottimo lavoro, ad annunciarlo in contrada San Giuseppe aveva sentito, percepito tra i vicini anche qualche invidia: il suo Sergio era a posto!

Una bella soddisfazione, dopo tanto penare.

Mamma e papà l’avevano accompagnata in paese ventanni prima, in gran segreto. Erano partiti alla mattina, dalla loro casa in zona golenale, in riva al grande fiume, a Roncaglia, approfittando di un passaggio in camion fino alla città. Da lì, in corriera, il viaggio che le era parso lunghissimo, due ore sulla strada che dalla pianura saliva in collina e infine si inerpicava tra i monti della valle della Trebbia.

Una fuga: non poteva più restare a Roncaglia, ormai per tutti era la donna posseduta dal demonio, una strega.

Una notte d’amore lunghissima, un regalo di Edmunda che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita.

L’avevano sempre canzonata per via di quella gamba claudicante, quella gamba più piccola e più corta dell’altra, e certo lei non poteva sperare di far battere il cuore del bel Fausto.

O forse si, a ragionarci ora, potevano non significar nulla le risate di scherno dei ragazzini che sicuramente avevano, aldilà delle apparenze, ancor meno certezze di quante non ne avesse lei.

Ma, allora, quando si è giovani, ci si sente anatrocolli, si crede che l’unica bellezza che conta sia quella esteriore del cigno.

Forse, ragionando con la forza e l’esperienza dei suoi quarantasette anni, oggi farebbe la corte al bel Fausto, anzi si farebbe corteggiare, troverebbe il modo perché lui si capacitasse della voglia di stare con lei, ma allora aveva ventanni e poco più, allora l’incontro promosso da Edmunda, quella notte d’amore, una sola notte d’amore, le era parso il momento più alto che valeva una vita.

Si, la vita la valeva, perché da quella notte era nato Sergio, ma poteva essere tanto più facile.

Invece la fuga con i genitori, a nascondersi sui monti, dove non conosceva nessuno, dove nessuno la conosceva, e Sergio era diventato il figlio di un padre caduto nella sabbia della terra d’Africa, durante la battaglia del Tembien, nemmeno una tomba su cui piangere, misere ossa a consumarsi, a brillare sotto il sole inclemente.

Così l’avevano accettata, così aveva vissuto col suo piccolo commercio, vendendo i prodotti dell’orto e quelli che le portavano i contadini.

Anche in questo era stata fortunata. All’inizio erano molte le difficoltà, aveva i prodotti dell’orto, ma nessuno le portava nulla.

Un sorriso le cambiò la vita.

(Bobbio, 8 luglio 1944)

Era il sette luglio 1944, i nazisti e i fascisti avevano abbandonato il paese qualche giorno prima, di fretta e furia, tra urla, rombo di motori, richiami, soldati che saltavano sui camion, moto in partenza, camionette che sfoggiavano mitragliatrici da farti sbiancare e che finalmente se ne andavano.

Seguì il silenzio, quel silenzio carico di tensioni e di paure di un paese in attesa dell’ignoto.

Al silenzio dell’ignoto seguì il silenzio rotto dal soffuso rumore dei passi degli scarponi di quei ragazzi che arrivarono scendendo dalle vette, uscendo dal profondo dei boschi dove erano riparati. Anche loro, almeno alcuni, in divisa, vecchie divise non più assistite dalle furerie, divise da alpino, da fanteria, da carrista, perfino un marinaio, divise di un esercito che l’8 di settembre dell’anno prima era stato sciolto e i soldati abbandonati al loro destino da un Re vigliacco fuggito durante la notte oltre le linee del fronte. Molti di quei ragazzi furono catturati e deportati in Germania. Altri avevano scelto le montagne, avevano scelto di combattere contro i nazisti invasori.

Quel 7 di luglio, abbandonati i boschi dell’Alta Valle, presero possesso del paese, si accamparono, al silenzio fecero seguire urla di gioia, canti, bevute a non finire, mentre la gente guardinga se ne stava nelle case e solo dopo qualche ora i primi, coraggiosi, uscirono a fraternizzare: nasceva la “libera repubblica di Bobbio” e tra quei soldati, che i tedeschi e i fascisti chiamavano banditi, a passare la prima notte al riparo dei chiostri dell’abbazia, c’era Donato.

Veniva da Coli, una decina di chilometri più su tra le vette imbiancate e i boschi del verde perenne.

L’8 settembre del ’43 era a Cuneo, aveva indossato abiti civili e camminato, camminato, camminato al calar del sole, nascosto di giorno e a camminare la notte, tornato a casa e subito rifuggito, su nei boschi dove si formavano le prime bande di banditi.

All’alba dell’8 luglio, dopo una notte di festa, Donato fu disturbato da quella saracinesca che si alzava, ancora assonnato andò a vedere, ammirò i seni e i fianchi larghi e sorrise a Mara.

Furono mesi splendidi.

Lui arrivava, con gli scarponcini perennemente slacciati, il foulard al collo, la camicia militare aperta – del resto aveva perso i bottoni -, sembrava un divo del cinematografo, con un sorriso talmente splendente che forse bastò quello a metterla incinta.

Una coppia indissolubile e mentre conosceva la sua gente, la sua famiglia, i suoi amici, Mara, ammirando Donato che rotolava con il piccolo Sergio, poteva dirsi ad un passo dal sentirsi felice.

Della sua gamba più piccola e più corta, del suo andare claudicante?

Chi se ne ricordava più?

Lui l’afferrava per i fianchi e, ridendo, la sollevava, la faceva volare su, verso il cielo, pienamente, totalmente innamorata.

Pienamente, totalmente felice.

(Perino di Coli, 14 novembre 1944)

Arrivò il terribile inverno, arrivò l’ora del grande rastrellamento, la terribile Divisione Turkestan, le truppe mongole che riconquistarono la valle, spazzando via senza pietà tutti quei ragazzi.

Morti ovunque, morti in violentissimi scontri a fuoco diretti, morti senza più pallottole inseguiti negli angoli stretti delle strade tra le case di sasso, morti fucilati con le mani legate, morti imprecando, morti urlando, morti piangendo, morti invocando la mamma, morti colpiti alle spalle scappando, morti con odio, morti di paura, morti di dolore, morti sdraiati sul selciato a guardare verso il cielo, morti supini in piazza della cattedrale come a dormire mentre le tenebre dell’occupazione ancora stendevano il loro pesante velo tra i monti.        

Donato era sceso a Perino, ai confini della libera Repubblica, sulle barricate che dovevano fermare l’orda corazzata.

Semplicemente, non tornò più.

E la gente della valle, da quel momento le si strinse d’attorno, Mara diventò una della Valle: il dolore rimaneva, ma la gente cominciò a far riferimento al negozio della Mara che aveva sempre i prodotti migliori da quelli di Coli.

(Bobbio, 29 settembre 1954)

Così Sergio cresceva, e oggi, oggi finalmente – Lei se lo vedeva -, oggi indossava la casacca di fattorino all’ospedale, con mansioni di aiuto al Ragioniere!

La Rosina non ci fece caso, ma quel giorno portò via le sue solite foglie d’insalata inumidite da una lacrima della Mara.

Una lacrima sfuggita a Mara nel mentre la sua piccola Sara arrivava correndo, scappando dai monaci della Biblioteca di Santa Fara.

Rideva, la Sara, rideva con gli occhi azzurri come le acque del fiume, riflessi verdi come l’erba dei campi dove aveva vissuto il suo papà che lei non aveva mai conosciuto.

Il suo papà, Donato, caduto per difendere il suo futuro, il futuro in libertà per la bambina, sua figlia, Sara, figlia di un grande sogno con Mara, che lui non aveva potuto vedere nascere, nella sua meravigliosa valle verde e azzurra.

Il murales di Bansky accompagna il racconto dell’amore di Mara e di Donato pubblicato in “Vietato attraversare i binari Servirsi del sottopassaggio”, edizioni Vicolo del Pavone, 2009

Il mio anno letterario sabbatico: non resta che partecipare (da spettatore) alla settimana della letteratura a Bobbio. Per il resto solo idee e un breve racconto stampato a cura dell’Associazione L’inedito

Ormai al traguardo finale ‘la settimana della letteratura‘ proposta come ormai tradizione a Bobbio da Edizioni Pontegobbo, ecco l’occasione per una riflessione su un anno praticamente sabbatico rispetto alle mie personali ‘vocazioni letterarie’. Nessun progetto poetico se non quelle poche e marginali liriche (tre in tutto l’anno) scritte occasionalmente  ma comunque nessuna idea per una nuova pubblicazione in versi. Di converso un’ottima idea per un futuro romanzo basato sulla raccolta di testimonianze d’esperienze vissute, testimonianze raccolte che giacciono nelle pagine delle mie agende ma non una riga di sviluppo che le renda avviate verso il risultato finale, nonostante il contatto di possibile interesse da parte di un ipotetico editore. L’ipotesi di una pubblicazione (anche a pagamento da parte mia, nelle intenzioni) da distribuire gratuitamente in occasione di un’ipotetica festa di commiatto dal lavoro (tra un paio d’anni, salvo riforme della Fornero, quota 100 eccetera), praticamente un ‘testamento’ politico-sindacale legato alla mia pur lontana esperienza in fabbrica, all’interno del gotha del sistema industriale italiano. Abbandonato in bozza a far polvere all’interno di una chiavetta USB. Una sola eccezione. Su invito di Fabio Martini la presenza di un mio racconto in “Micro e Macro. Racconti da un minuto e altre storie…“, Associazione L’Inedito edizioni. “Dicono siano dolci come il miele“, racconto in realtà scritto qualche anno fa dedicato agli anziani che, per motivi di salute, sono ricoverati nel reparto di geriatria come visto e vissuto nell’ospedale della mia città. Racconto che, per un attimo, ho accarezzato l’idea di trasformare in pubblicazione autonoma anche come omaggio al Primario del reparto. Ma alla fine, viste le scarsissime ‘dimensioni’ (3 facciate della raccolta pubblicata) anche questa idea si è arenata ed è stata abbandonata. Da citare anche “Il SIgnor sette per tre ventuno – Storie di Pietro Derba” (2017, Costa editore), da un lato grande soddisfazione per l’esaurimento della tiratura ma rimasto come esperienza un pò fine a sè stessa. Insomma, che succede? Mi ripeto: anno sabbatico, fase di transizione, impegni diversi, stimoli al momento assenti, attenzioni pricipali rivolte altrove, senza nemmeno si possa pensare a sesso, birra & Rock ‘n roll. Quindi? Non mi resta che invitare alle ultime due ultime serate di Bobbio dove tra l’altro potete trovare il mio ‘Il soffio del vento, da Chernobyl a Caorso trent’anni dopo‘ pubblicato nel 2016 con Pontegobbo, ad acquistare la raccolta con il mio racconto breve (cliccando qui) e soprattutto … il 13 e 14 ottobre tutti alla maratona poetica di 25 ore che, come mi ha appena comunicato Massimo Silvotti, si svolgerà a palazzo Farnese, a Piacenza e a questo appuntamento credo spero che avrò lo stimolo di non mancare. Altrimenti dovrò iniziare a preoccuparmi. Che la vena sia esaurita?

“Ma cosa diavolo sta succedendo? Ieri, 16 marzo 1978 …”, racconto di Claudio Arzani

1978, Roma, Manifestazione femminista. Foto di Gabriella Mercadini

Ma cosa diavolo sta succedendo?
Pietro mi guarda, si stringe nelle spalle, gli occhi tristi da triglia bollita. Doveva andare da Wilma, è già un po’ che se la fila ed oggi finalmente ci stava a studiare diritto pubblico dell’economia, ma ormai è troppo tardi, l’ora è fuggita via.

I portoni chiusi. E’ la prima volta. Il tempio della cultura, la cattedrale del sapere, del diritto, della libertà.
Le cancellate del passo carraio chiuse. Non le avevo mai notate. Non più di tanto, almeno. Forse con distrazione, senza farci caso. Non le ricordo chiuse, ed ora, ora mi sento soffocare.

A volte le giornate hanno il colore della nostra anima, dei nostri umori, del nostro sentire. Sento il cielo scuro, plumbeo, opprimente, il peso delle catene, delle libertà negate.
C’è da aspettare.

Fabio sta seduto sulla panca del giardino dove a volte si studia, a volte si parla, qualcuno amoreggia. Non c’è nulla da fare, il tempo è scandito da chi si è impadronito del nostro destino.
Torno nei corridoi, nelle aule, nelle biblioteche che custodiscono gelosamente i volumi delle storie di secoli di lotte, di pensieri, di confronti. Silenzio. E’ sparito anche il bidello, Luigi.

Apro la porta dell’Istituto di diritto ecclesiastico, di lì s’arriva alle spalle dell’aula magna di Medicina. L’armadio è aperto, le toghe rosse aspettano la prossima sessione di laurea. Mi lascio tentare, guardo d’attorno, non c’è nessuno, ne sfilo una dall’appendino, l’indosso, è pesa, fa un certo effetto, la ripongo, non è cosa mia, per ora, domani chissà.

C’è da aspettare. Nel cortile saranno ancora venticinque o trenta ragazzi. Passano uno alla volta e per ciascuno ci vogliono quindici minuti buoni.
Nei corridoi rumori di passi, qualcuno scende dallo scalone di Giurisprudenza.
Lo sciacquio dello scarico di un cesso, si apre la porta, esce Marina, lo sguardo perso, forse spaventata, incerta, non capisce, ma cosa diavolo succede? Almeno la troveranno pulita. Peccato, troppi soldi gettati nel cesso ed è fatica procurarseli. Il babbo ha un negozio in piazza a Guastalla, sotto i portici, non si nuota nell’oro, è già un dolore spenderli per pochi istanti di viaggio, non bisognerebbe, ma così è, magari verrà un tempo che non si potrà sognare più e intanto così fan tutti.

Un’ora, due ore d’inutili domande, d’attesa senza perché.

Nell’aula Salvator Allende campeggia ancora la scritta “Evviva Furia, cavallo del west”, dedica speciale al magnifico rettore, chiarissimo professor, con l’augurio di cavalcare per tutta la notte fino a Durango: anche i rettori hanno un cuore, si racconta nelle notti buie all’ombra argentea d’una luna assente. Sarà poi vero?
E intanto son passate più di due ore, mi si è fermato l’orologio, non si sa più cosa pensare, né a che santo votarsi. Ardua scelta tra Santo Antonio e Santo Domingo.

Ma alla fin fine arriva il mio turno, si apre il cancello, entro nell’androne, devo passare la sacca attraverso la seconda cancellata, mani sconosciute l’esplorano, la svuotano. Una consunta agendina tascabile con la copertina azzurra, regalo di Daniela, fazzoletti di carta per il naso e per pulire gli occhiali, l’immancabile fascia di stoffa perché non si sa mai, metti di trovarti nel bel mezzo di un lancio di fumogeni, il libretto universitario con i miei trenta (pochi) e il più basso, ventiquattro, un pacchetto di crackers, la biro, copia dell’Avanti! e di Lotta Continua.
Il giornale sta morendo, rischia di finire un’epoca, dobbiamo sostenerlo, difendere un presente troppo breve, già confuso nella nebbia del passato, l’ha detto anche Riccardo Lombardi.

Mani nervose, sguardi d’apparente fermezza carichi di tensione, aprono la seconda cancellata, mi ripassano la sacca, raccolgo l’adesivo con il sole che ride, caduto a terra, nella polvere che arriva da lontano, portata dal vento, da luoghi ancora sconosciuti, Three Mile Island, Chernobyl.

Mani nervose richiudono la cancellata alle mie spalle, resta ancora una porta di sbarre, ancora un chiavistello serrato, ancora mani nervose che scrutano, indagano, cercano chissà che.

Ma cosa diavolo sta succedendo? Tre uomini con la fascia rossa al braccio, Confederazione Italiana Generale Lavoratori, un mostro sacro, devo alzare le braccia, grazie, prego, ma cosa diavolo sta succedendo? Scusi, vuol ballare con me? Grazie, preferisco di no. Silenzio, nessuna risposta.

Con lo stridio del ferro contro il ferro scorre l’ultimo chiavistello, l’ultima barriera.
Libero.
Le scarpe da ginnastica (marca rigorosamente sconosciuta, laboratorio di produzione artigianale democratico in gruppo cooperativo, banco del mercato domenicale di Carpaneto, che più conveniente non ce n’è) volano nella galleria per arrivare in via Mazzini, col fiato sospeso, col timore dei carri armati, di mitra spianati, la fine del mondo, la Rosa dei Venti, l’ombra nera d’una dittatura che dopo trent’anni ritorna ghignante ed ancor più feroce.
Invece tram, gente in bicicletta, il viale lungo il fiume, viale Basetti a sinistra, viale Toschi a destra, oltre il ponte s’intravvedono le cime del verde del Parco Ducale, tutto normale, m’infilo da Filippo, ordino focaccia e mortadella. Da bere? Minerale, grazie. Ma non ho il coraggio di chiedere cosa diavolo sta succedendo.

Supero la Pilotta, oltrepasso Lettere e Filosofia, un elicottero bianco e blu continua a sorvolare le nostre teste, ma nessuno ci bada, si conversa al bar, ci si intrattiene all’edicola, un tizio paga il posteggiatore per ritirare l’auto. Nella vetrina di Franco Maria Ricci i libri in mostra sono sempre opere d’arte e via Garibaldi è sempre viva della solita gente.
Un juke box racconta la storia disperata di Lilly. La solita banda suona il rock, un cavallo galoppa senza sosta fino a Samarcanda ad incontrare la nera Signora, Capitan Uncino s’azzuffa con Peter Pan. E allora, cosa diavolo sta succedendo?

Arrivo in stazione, è un po’ come tana liberi tutti, un sospiro di sollievo, m’infilo in sala d’attesa, il solito Lecce ha un abisso di ritardo (40 minuti ufficiali, segnala il tabellone, ma alla fine son sempre di più). Toh, han tolto la vetrinetta con le violette di Parma, non c’è più religione.

La signora seduta sulla panca di fronte mi guarda un po’ di sottecchi, forse non mastica bene Lotta Continua. Il giornale non morde, non mordo neanch’io, ma la signora se ne va.
Con fretta composta raccoglie le sue cose, la borsa della spesa, la copia di Gente, se ne va nell’ombra dell’ultimo sole con un sorriso sul bel viso.

La guardo distrattamente uscire, un po’ seccato, e sulla porta appare la prima giacca blu con tanto di armi ed alti pennacchi (presi in prestito dai cugini dell’Arma?).
Guardo agli altri due ingressi. Altre due giacche blu si appostano, si accertano che non abbia vie di fughe, e finalmente arriva Mangiafuoco in giacca grigia e cravatta, mi invita al ballo nel suo paese dei balocchi.
Ma cosa diavolo sta succedendo?
Una processione.

Mangiafuoco mi offre il braccio, mi accompagna al castello, due giacche blu alle spalle, una davanti, tutta la stazione mi guarda con gli occhi gonfi d’invidia, vado a raggiunger Lucignolo. Si, sono preoccupato. Rassegnato.
Ma cosa diavolo sta succedendo?

Altre ore, facce di gente curiosa, documenti di qui, chi sei di là, ti conosco mascherina, solo in una stanza con troppi rumori d’attorno, un silenzio che t’assorda, un’altra ora, ancora due eppoi tre ore. A casa saran preoccupati, si, son preoccupato anch’io, vorrei capire, anzi, vorrei andare, rinuncio a capire, voglio solo andare.

Le ombre della sera hanno già avvolto le banchine e i binari, è l’ora in cui sono chiusi i bar e sembra morta la città, mi vien da piangere, sono ore che vorrei piangere, non ho più risposte, non ho mai avuto domande, la giacca blu che arriva con un sorriso stampato sul volto illuminato dalla lampada e l’etichetta in bella mostra Digos mi sembra una fata azzurra, sono magiche le parole che mi riportano sul treno, l’ultimo appena arrivato, poi avrei passato la notte in una città non mia, senza sapere dove dormire.
Mi accomodo sul vecchio sedile di velluto, tra una bruciatura e l’altra: sigaretta per bruciare il tempo, qualche macchia di caffè, turutun turutun, sessanta chilometri di strada ferrata e finalmente le alte ciminiere dell’Enel, piazzale Marconi, mi accoglie la mia città, un marocco nero mi sussurra ammicante do you want fly with me?, casa dolce casa, si torna da mammà, ancora sveglia, fuori dalla grazia di Dio per questo figlio perso chissà dove.

Sono le due della notte del 17 marzo 1978, cosa diavolo è successo?
Ieri, 16 marzo, le Brigate Rosse hanno rapito Aldo Moro, il gioco è finito, Furia non galoppa più, ci hanno azzoppato.

 


L’anno nuovo che a febbraio arriverà

Ho un sogno, olio su tela di Francesco Ferrulli

Ieri ho aperto gli occhi al nuovo anno, consapevole che l’anno precedente se n’era andato. Insomma, tra tortelli, vin bianco, cotechini al tartufo, panettoni e torroni, l’anno era cambiato. Ma attenzione, la straordinaria illuminazione! Improvvisamente s’è aperta la mente, mi sono reso conto che anche il mese, era cambiato. Non più dicembre ma ero nel mese nuovo, gennaio! Dunque, cambiato l’anno, cambiato il mese. E se questo succedesse tutti i mesi? Sarà questa la buona nuova che ci porteranno l’anno e il mese nuovo? Dunque a febbraio saluteremo questo 2017 e sarà 2018! Dalle finestre come tradizione getteremo i piatti vecchi e così a marzo, ad aprile, maggio, giugno. Nel 2023 che s’accompagnerà a luglio avremo la grande crisi, tutti i piatti finiti e, dopo un momento di sconcerto, sarà grande festa per tutti. Apriranno decine di fabbriche nuove, la produzione andrà alle stelle e tutti ma proprio tutti tutti avremo un buon posto di lavoro, i giovani potranno aprire mutui e acquistare auto e case, l’edilizia vivrà una stagione d’oro, Marchionne annuncerà nuove linee di produzione che riporterà nel BelPaese abbandonando i lontani Stati Uniti. E i tanti cocci? Nessun problema, s’impegneranno nelle strade a spazzolare gli extracomunitari nigeriani, gli albanesi, persino i romeni e gli slavi, i profughi e gli immigrati da ogni dove che col lavoro assicurato potranno ottenere cittadinanza senza nemmeno dover sposare attempate signore italiane alle quali a titolo di consolazione garantiremo crociere consolatorie nelle isole in mezzo ai mari. Insomma, che meraviglioso anno nuovo, che meraviglioso mese nuovo! Felice come la Pasqua che verrà, ieri a quel punto mi sono riaddormentato mentre dalla finestra vedevo lassù tra le nuvole spuntare una vecchia signora vestita di stracci in groppa ad una sfavillante scopa con un sorriso sul viso che pareva un ghigno divertito e, nella mano sinistra, una bottiglia di quel buon champagne col quale ho salutato l’anno nuovo che nella notte s’era presentato all’uscio di casa.

“Al can dal Diavùl”, racconto di Claudio Arzani

Passeggiavo con lui, my doggy, Akira, incrocio tra mamma setter di probabili facili costumi e padre ignoto, sospettato un pastore belga in occasionale passaggio al canile municipale. Lungo il tratto della statale ormai abbandonato da anni a favore di una percorso più adatto alle corse domenicali di centauri in vena di emulare i vari Valentino Rossi, non sempre soppesando nella giusta misura i rischi annessi e connessi. Da poco avevamo superato il cimitero realizzato sul declivio della collina, un paio di chilometri prima del paese, i defunti rivolti verso il fondo valle, a salutare e dialogare col fiume che, della valle, da sempre era centro della vita. Un legame indissolubile, tra valligiani e l’acqua azzurra che scorre lungo un percorso sinuoso molto suggestivo, ricorda l’ondulante movimento delle anguille. Me li immaginavo, tutti quei morti, ad uscire dai loculi nelle notti di luna piena, giocare a carte, far quattro chiacchiere cullati dal lento ma giocoso scorrere dell’acque e dall’ululato lontano di qualche lupo tornato a popolare i boschi dell’appennino. Ammiravo un gruppo di storni tranquilli tra i rami delle piante in zona di golena e più in basso, appunto ad altezza fiume, tre splendidi aironi bianchi volteggiare tranquillamente da una riva all’altra. La vista, passando oltre la torre campanaria del paese nascosto tra le frasche che ci separavano dalle prime case, si perdeva sulle alture appenniniche che rappresentavano l’alta valle e proprio da lì, improvvisamente, scavalcando le cime, balzò feroce quel cane, al can dal Diavùl. Le zampe protese, le unghie letteralmente sguainate come spade affilate, un ringhio feroce che sembrava tuono, le zanne sinistramente bianche sulle quali si frangeva e si spegneva la luce di un raggio di sole, l’ultimo raggio del sole che muore, le orecchie tese, occhi infuocati, non lasciò scampo alcuno. Balzò sull’azzurro cielo e ne fece sol boccone senza pietà alcuna. In breve, con l’azzurro agonizzante, montò rapido implacabile il nero, tutto fu oscuro, parve d’entrare nel mondo fatto di buio, il Regno del dolore, il Regno senza speranza. Gli aironi sparirono tra le frasche sperando invano in un rifugio, gli storni s’alzarono in volo fuggendo in stormo vociante, due enormi ratti (parevano marmotte) dalla lunga coda e dal pelo grigio scuro attraversarono la strada senza nemmeno guardarci, Akira abbaiò come un forsennato ma i due ratti entrarono rapidamente tra l’erba alta del vicino campo a foraggio, scavalcando il corpo d’una volpe dal pelo arancione con la testa spappolata dall’impietosa pallottola d’un cacciatore senza pietà. Un vento freddo spazzò le tombe del cimitero, creando mulinelli di foglie, vecchi gambi di plastica lasciati giusto per creanza da lontani parenti e rari petali di fiori che furon freschi ormai secchi rinsecchiti strappati dai vasi. Una bianca capretta, forse scampata alla ‘pulizia etnica’ decretata qualche tempo prima dalla municipalità che aveva disposto la caccia e lo sterminio delle sue oltre cinquanta consimili viventi allo stato brado libere anarchiche tra colline e balzi delle prime cime appenniniche brucando l’erba dei campi contadini senza alcun rispetto di limiti, confini e legittima proprietà privata. Quella capretta, tremante, terrorizzata, balzò fuori dal loculo ancora libero dai morti dove s’era rifugiata e, belando disperatamente, uscì di corsa dai cancelli del cimitero. Akira le abbaiò forsennatamente ma venne ignorato. Un vaso mal collocato cadde andando in frantumi e la terra, sparsa sulla tomba, venne afferrata dal vento unendosi al mulinello di foglie e petali di rose fresche che l’amante aveva lasciato a ricordo del compianto bene amato in clandestinità, deponendoli senza che la legittima consorte, nonostante appostamenti con tanto di robusta verga da utilizzare alla bisogna sulla schiena della fedifraga, fosse mai riuscita ad identificarla. Anche sulla strada il vento imperversò sollevando nubi di polvere che entravano negli occhi e sulle labbra umide con notevole disagio sia da parte mia che di doggy. Un uomo in bicicletta, vecchio medico in pensione, passò pedalando forsennatamente mancando per un nonnulla di investirci. Akira guaì, mi guardò cercando salvezza e protezione. Gridai a quell’uomo di fare attenzione, perdiana, ma era già sparito oltre la curva e comunque il vento disperdeva la mia voce e la polvere mulinante m’entrò in gola facendomi tossire forsennatamente. Akira, guardandomi, abbaiò. Ma che potevo fare io, contro quel maledetto can dal Diavùl? Tornare rapidamente sui nostri passi, mentre il nero del cielo muoveva roteando minaccioso, assumendo forme minacciose, quasi volesse allungare sataniche braccia nere, afferrarci, strapparci alla terra, trasportarci lassù, dove il nero è nero, più nero del nero dipinto d’oscuro, tipo fondo del pozzo più fondo del fondo. Col cuore che accelerava i suoi battiti e bastardi sassolini che entravano tra il piede e il plantare dei sandali monacali (invisi per evidenti motivi sia al Diavùl che al so can) accelerai al cader dei primi pesanti goccioloni. Blu scuri, blu tenebra. Arrivammo all’auto appena in tempo. Al can dal Diavùl, ormai nascosto dal nero che incombeva ovunque, che copriva le cime appenniniche alla vista, lanciando latrati agghiaccianti che parevano spezzare il mondo e facevano luce, chiamò a raccolta demoni e angeli dannati e tutti accolsero il suo invito urinando con gran goduria sulla valle. Proprio come mi raccontava mia nonna quando ero bambino e sulla campagna si scatenava il temporale ed io sinceramente di bagnarmi con quell’urina non ci pensavo proprio, mi faceva un pò senso ma per fortuna la nonna aveva un buon adeguato numero d’ombrelli protettivi. Al riparo con Akira nell’abitacolo dell’auto mi lascia sfuggire un sonoro “can dal Diavùl? Ma va cagher!”. Akira abbaiò a sua volta. Accesi il motore e ce n’andammo a gran velocità ignorando le chiome delle piante circondanti la strada che parevano volerci afferrare. In breve raggiungemmo lestamente la galleria che separava l’alta dalla media valle. Due mondi. Infatti oltre la galleria al can dal Diavùl non arrivava, aveva esaurito il suo slancio, non riusciva a superare quell’altura che gli si era posta di fronte. Il cielo era azzurro come sempre e tale sarebbe rimasto. Anzi, si stava organizzando, rafforzando e presto avrebbe lui, superato quell’altura. Quota 280 metri sul livello del mare, la Linea Maginot difesa dall’esercito del cielo azzurro, i Legionari del Cielo. Consultando attraverso il cellulare via internet il bollettino meteo appresi che presto tutto il cielo si sarebbe ricomposto, avrebbe ripreso possesso dei suoi possedimenti, cacciato a pedate nel sedere al Diavùll’ so can, al can dal Diavùl. Il sole redivivo s’affacciò con un largo sorriso, illuminò la nostra auto. Belzebù ancora una volta scornato, la bianca capretta tornò a rifugiarsi nel loculo vuoto del cimitero, tornarono gli storni, ripresero i voli i bianchi aironi. Un minimo d’attesa e presto anche noi, io e my doggy, Akira, saremmo tornati a passeggiare su quel tratto di statale da anni abbandonato!

Un piccolo uomo come tanti, una mattina come tante. Ieri, 24 anni dopo Chernobyl, a Caorso, non più nucleare e una tua poesia

 

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Caorso, 26 aprile 2010, fiaccolata antinucleare

  Foto da Libertà, quotidiano di Piacenza

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27 aprile 2010. Come ogni mattina ti svegli, almeno si fa per dire. A passo lento, strascicato, ti dirigi verso il bagno pensando con rabbia a quanti anni ti mancano alla pensione. Fa’ ‘n culo. Sei stanco di assistere allo scempio dell’etica. Da parte dei tuoi stessi compagni. Dagli amministratori che in Emilia s’ammantano di sinistra, di giustizia, di equità e intanto prendono scorciatoie, assumono fuor di concorso e inondano di quattrini le mogli dei funzionari fedeli. Come meravigliarsi poi se la Lega ottiene consensi anche tra la tua gente? Ti guardi allo specchio, quel tuo viso invecchiato, affaticato dal tempo e dai tuoi errori, dalle tue illusioni soffocate dalle ragioni di chi detiene il potere e se lo vuole conservare costi quel che costi. Operazione uno, lavi i denti superstiti, se tu ci pensavi in gioventù ora ne avresti molti di più. Una bella rima di prima mattina in ù. Tua moglie, la tua compagna di vita, è già a lavorare, la sua sveglia suona poco dopo le cinque. Qualifica operaia, nessun regalo, nessuna facilitazione, nessuna raccomandazione. C0erenza. Pagando tutti i prezzi annessi e connessi. I tuoi figli dormono. Quello giovane due sere lavora in pizzeria e col ricavato, 50 euro brevi manu, vuole pagarsi la scuola di fumetto. Quello grande, laureato, per ora sputa sangue, dura la vita se alle spalle non hai padroni e men che meno padrini, di destra e di pseudo sinistra. Operazione due, col Gillette ti fai la barba, nessuna vergogna nel guardarti allo specchio, sull’ingresso del bagno s’affaccia il muso del tuo cane, espressione interrogativa, sarebbe l’ora della passeggiata mattutina amico uomo mi scappa la pipì. Merde, ti stava fuggendo via il tempo, sei in ritardo, anche per te vale la legge dell’orologio marcatempo. Squilla il cellulare. Lidia. Dovete chiudere entro la mattinata la relazione su quel fatto del laboratorio. Ma Valeria ha la febbre, niente asilo e Lidia resterà a casa, a Caorso. Lidia. Fa la mamma e il lavoro arriva dopo. Giusto. Il lavoro al servizio del vivere individuale, non viceversa. Di nuovo, il cellulare. L’altro, quello personale, quello che hai lasciato in camera, sul comodino. E’ sempre più tardi. Akira, il tuo amico cane, ti guarda, ti supplica, non ce la fa più, limite della tolleranza superato anche se lui, al suo amico uomo, perdona tutto. Ma la pipì non la contiene più. Risquilla il cellulare. Ancora in mutande, calzette blu e maglietta della salute corri in camera, raggiungi il comodino, clicchi sul tasto verde. Ferruccio. Ieri sera la fiaccolata a Caorso. Contro la politica energetica del governo, contro il ritorno al nucleare, tecnologia superata, obsoleta, ne perde il Paese ma ne guadagna l’imprenditore Berlusconi. Ma che ci capisci tu, che ne sai della ragion di Stato e di poltrona? Credi nella forza del vento, nell’energia e nella luce del sole, era naturale, logica, la tua presenza in corteo, ieri sera, alle 20.30, a Caorso, il paese della bassa a due passi dal Grande Placido Fiume, dalla più grande centrale nucleare italiana, vecchia, obsoleta, dismessa. Per ora.  500 persone. Lo leggi in internet, mentre Ferruccio ti racconta, sulle pagine dei due quotidiani locali, ignorando gli uggiolii di Akira, steso sul pavimento. Non conosci i dati della Questura ma non te ne preoccupi, non hai mai avuto simpatia, per i questurini e men che meno fiducia nelle loro verità. Una bella serata, una fiaccolata, dalla piazza del paese della bassa lungo via Roma fino al ponte Chiavenna. Hai disertato. Era la sera del compleanno di tuo figlio, quello piccolo, quello da stamane ventiduenne. Dal ponte, ti dice Ferruccio, i bambini hanno lanciato fiori bianchi nell’acque del fiume, poi sono state lette poesie che ricordano Chernobyl, il disastro nucleare di 24 anni fa. Ad un certo punto è salito sul ponte un ragazzo pelato, non si sa chi fosse, Ferruccio non lo sa. Ma ha annunciato, dice, la lettura d’una tua poesia, di quella che racconta d’una landa lontana dove non volano più aironi bianchi, dove regna il silenzio del disastro radioattivo, 'laggiù ci stava un mare verde'. Chernobyl. E la tua poesia, scritta sette anni fa, poi pubblicata sul tuo primo libro. Ti gira un po’ la testa mentre velocemente t’infili camicia e pantaloni. Tu. Poeta. Nessuna scorciatoia, nessuna raccomandazione. Riconosciuto. Per le tue idee, per i tuoi valori. Ti gira un po’ la testa. Akira non resiste più, esci di corsa mentre lui s’affanna a tirare il guinzaglio allo spasimo, destinazione la prima pianta raggiungibile. Ancora verde, ancora viva, pianta denuclearizzata.

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“Grassa risata dal banco dei giocattoli all’autogrill”, racconto d’ordinari orrori di Claudio Arzani




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Neve Piani Peso, olio su tela, di Tullio Crali

www.quadreriablarasin.it/.../paginaita6890.aspx

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Una breve sosta alla stazione di servizio di Stradella. Fino a quel punto era andata abbastanza bene. Un po’ di foschia, campi e colline imbiancate a perdita d’occhio. Ma lì, sull’autostrada, i mezzi antineve avevano lavorato bene, si viaggiava sull’asfalto apparentemente pulito. Salvo qualche chiazza di neve ghiacciata nei brevi tratti all’ombra, ma bastava una buona dose di prudenza. Certo, come consigliavano alla radio, meglio sarebbe stato restarsene a casa. Oppure montare gomme termiche. Ma non aveva avuto scelta. Dal reparto della clinica avevano telefonato la sera precedente: in mattinata la mamma sarebbe stata dimessa. Il fatto che da ore nevicasse e che lui abitasse a 103 chilometri di distanza poco importava. Al reparto interessava il posto letto, il resto erano problemi suoi. Non aveva simpatia, per quella casa di cura privata abituata a dar la caccia a pazienti con residenza in una regione diversa: ricoverarli significava poter contare su contributi pubblici altrimenti destinati altrove. Per questo aveva molti dubbi sulla necessità del ricovero della mamma disposto per eseguire un esame, una coronarografia, di particolare delicatezza. Non che fosse medico o potesse vantare particolari competenze. Soltanto gli pareva una decisione non da poco, il sottoporre ad un esame come quello una signora con 83 inverni alle spalle. Un po’ sfruttare le scarse capacità di analisi critica di una vecchietta con un’unica colpa: aver fiducia di quel medico che visitava privatamente a suon di bigliettoni. Ma la mamma è la mamma. Una testa dura. Difficile da far ragionare. Specie quando convinta delle sue scelte basate sul sentito dire e il passa parola popolare era tutto dalla parte delle capacità professionali di quel medico. Impossibile allora farla ragionare, convincerla a riflettere su quel ricovero, sull’opportunità di sentire altre campane. Troppo spaventata. Facilissimo, del resto, spaventarla, evidenziare la necessità del ricovero nella clinica lontana, tacendo sul fatto che lo stesso esame potrebbe essere fatto nell’ospedale cittadino. Business. Laddove salute (altrui) e interessi economici  del professionista medico e delle strutture sanitarie in generale si sovrappongono, si confondono, lasciano ampio spazio a dubbi e perplessità. Esame invasivo, prorompente ingresso di corpo estraneo nella vena femorale, alla ricerca di occlusioni. Se l’immaginava, la scena. Camici bianchi che con grandi sorrisi avevano sottoposto alla mamma un foglio informativo. A lei, nata e cresciuta in campagna! Sorrise, affettuosamente. Ricordando l’ultimo appunto lasciato sul tavolino del telefono: “la chiave del garage cela papà”. Informativa sui rischi di un esame invasivo. Consenso informato. Responsabilità scaricate dal personale sanitario. Rischi consapevolmente condivisi dalla paziente. Ma non fatemi ridere! Se l’immaginava, la scena. Qui, signora, deve firmare qui, le aveva detto un camice bianco con le labbra a mostrare due ammirevoli arcate di denti splendenti e scintillanti. Cosa poteva fare, la mamma? Un diploma di quinta elementare strappato coi denti, aveva firmato. Così le avevano detto, così aveva fatto. E da quel momento l’ufficio amministrativo della clinica poteva contare su un consistente versamento economico da parte della regione di residenza della mamma. Mobilità passiva, il termine tecnico. Ma inutile farsi il sangue marcio. Un caso come tanti, uno dei tanti, niente di veramente trascendentale o scandaloso. In fondo tutto era andato bene, in fondo l’unico inconveniente era quel viaggio tra la neve. Che comunque ormai da qualche ora non cadeva più. Attenzione, dunque, ma niente di più. Prudenza, moderando la velocità nei tratti che potevano rappresentare qualche rischio in più. Come avvertivano i cartelli luminosi che ogni tanto spuntavano ai bordi della strada. Ringraziò la barista che gli aveva servito un buon caffè caldo macchiato, ormai 50 chilometri erano alle spalle, ne restavano altrettanti. Si avviò verso l’uscita del grill. Seguendo il percorso obbligato tra i banchi posti in funzione di tentazione all’acquisto. Sussultò, nel sentire, superata la bacheca dei cd musicali, una grassa risata provenire proprio dagli scaffali allineati in buon ordine. Si fermò, incuriosito. Alla terza risata riuscì ad identificare l’autore. In una cesta, tra quattro pupazzi di diavoli rossi di peluche, una specie di maialino rosa, un grugno di discutibile bellezza e per questo istintivamente naturalmente accattivante, il pelo macchiato e in disordine, ad intervalli regolari se la rideva di gusto. Ironicamente. Forse con una punta di sadismo. Un maialetto satanello.  Ma coinvolgeva. La tensione per il fatto della mamma. La sanità con i medici a badar molto alla cassetta e non si sa quanto alla salute altrui. La strada da divorare, la neve, il ghiaccio. La risata del maiale malfatto, dicendola come di moda, diversamente bello, stemperavano la tensione. Sì, probabilmente sarebbe piaciuto anche alla mamma. Un bel regalo, per la sua vecchia. Detto fatto, ancora una volta l’addetto commerciale della rete degli autogrill l’aveva vinta. Un pupazzo altrimenti invendibile passava di mano, salutava i diavoli rossi di peluche, usciva dal mucchio del banco contestualmente all’uscita di un paio di banconote dal portafoglio dell’incauto viaggiatore di passaggio. Ridacchiò tra sé, risalendo in auto, per l’essere caduto nella trappola dell’addetto commerciale. Ma, ora, si sentiva rilassato. Rientrò sulla striscia d’asfalto autostradale in accelerazione, schiacciando con la mano destra il pulsante dell’autoradio. Living, loving, she’s just a woman, le note di un vecchio successo anni settanta della sua gioventù. Robert Plant, i Led Zeppelin. Come fu definita la loro musica? Il martello di Dio. Un istante. Spazio temporale infinitesimale. Il poliziotto, scendendo dall’auto, sentì una stretta allo stomaco, vedendo quel corpo steso sull’asfalto in una posizione improbabile. Il calzino d’un viola acceso, la scarpa finita chissà dove, come la testa. Sbalzato dall’auto ridotta ad un ammasso di rottami, travolta dal bisonte dell’asfalto, il camion che forse aveva frenato e, a quel punto, la chiazza di ghiaccio in agguato aveva colpito senza pietà. Una stretta allo stomaco ma era parte del mestiere, di scene terribili purtroppo ne aveva viste molte, in quattordici anni di onorato servizio di pattuglia e di vigilanza sulla striscia d’asfalto. Ma a tutto c’è un limite! Sentendo quella risata provenire dai rottami dell’auto distrutta. Forse un bambino, di certo sotto shock, chissà in quali condizioni, il poliziotto s’appoggiò al guard-rail, dando di stomaco. All’orrore c’è un limite, Dio buono!  Intanto in clinica la mamma, messa a sedere su una sedia dall’alba, quando le inservienti l’avevano invitata a lasciare il letto per poter cambiare le lenzuola, sempre più pallida, con due vistose ecchimosi al braccio sinistro e un gran mal di stomaco, con un filo di voce chiese l’ora alla compagna di camera. Le dieci e venti. Ondeggiò un istante. Quindi, lateralmente, cadde a peso morto dalla sedia. Forse un semplice svenimento, un malore di poco conto, una stanchezza legata anche alle lunghe ore di digiuno che dal giorno prima le avevano imposto i medici e le infermiere, negandole anche una semplice tazza di the. Una caduta di poco conto, nulla di grave. Se, cadendo, non avesse battuto la testa contro lo stipite appuntito dell’armadietto dove teneva la valigia chiusa con vestaglia, indumenti intimi, le ciabatte da camera. Istanti. In quel momento, il poliziotto si allontanava dal guard-rail, lo stomaco in rivolta, un gran sapore d’acidi e succhi gastrici in bocca. Istanti.  Il pupazzo del maiale, schiacciato tra il sedile e la lamiera del cofano penetrata nell’abitacolo dell’auto, smise di ridere. Semplicemente: batterie esaurite, da sostituire.

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Roma, quanto è bella Roma. Ma non per viverci. Truffaldina, opprimente, nababba per nababbi, meglio la grigia Milano




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Roma, 15 gennaio 2010, piazza Navona sul far della sera

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In viaggio per un’illusione, Fabrizio convocato per una collaborazione con una società di produzione e casting cinetelevisivo. A Roma, naturalmente. Riflessione?  Per giocarsi una speranza comunque occorrono soldi e, per sostenere i ragazzi, è una fortuna che il mio stipendio sia un buon stipendio. Anche se guadagnarlo costa tensione e qualche rischio di responsabilità. Se io fossi un operaio salariato, se avessi seguito le orme del babbo a far il ferroviere, personale viaggiante, potremmo sognarcelo, di partire per la lontana Roma. Così è la società capitalistica, commenta Fabrizio: ti illude di essere autonomo ma in realtà ti misura sui soldi che hai e dei soldi ti rende schiavo.

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Città di serie A, città di serie B, paesi di serie Subbuteo, c.c.t.f., città completamente tagliate fuori. L’alta velocità ferroviaria ha ridefinito pesi e misure del BelPaese. Piacenza è finita in serie Z, niente alta velocità e pendolari abbandonati al loro destino. Le FrecceRosse passano volando sul territorio deturpato dai lunghi condotti di cemento armato che tagliano in due il panorama mentre sulla linea ordinaria può capitare di ogni cosa. Malcomune della nuova provincia emarginata: l’altoparlante della stazione di Bologna annuncia la sospensione dei convogli, quelli ordinari, con destinazione la riviera. Causa rinvenimento ordigni bellici nella stazione di Viserba a mare. Quanto all’Intercity da Lecce viene conclamata la consueta ora di ritardo ma tutti tranquilli: TrenItalia si scusa per il quotidiano disagio.

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Roma, 15 gennaio 2010, oscure presenze nel Ghetto ebraico: Fabrizio Arzani (di spalle) e Ferruccio Braibanti (indicante)

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Bologna. Frammenti di un sogno. Era il 1977 e pensammo si profilasse all’orizzonte il mondo nuovo. Dieci anni prima i figli della borghesia illuminata, con le loro belle giacchette e le cravattine d’ordinanza, avevano fatto il 68 sputacchiando, contando sulla copertura garantita dai babbi,  sui poliziotti figli del proletariato. Poi, dismesse le giacchette, avevano indossato l’eschimo, facendone sfoggio arrivando a scuola sulle potenti moto giapponesi. E ancora oggi, divenuti alti dirigenti nell’aziendina di papà o nell’ente governato dal Partito, con quel 68 rompono le palle. Ma nel 1977 oggi negletto e dimenticato, fischiando Berlinguer alla Sapienza di Roma, si affermava che tutto era cambiato, s’affacciava un nuovo ceto sociale, i figli della classe operaia che, zitti zitti, erano entrati nelle Università. Brutti, sporchi e cattivi. Indiani metropolitani, Streghe che facevano tremare. Sogno breve, movimento ed autonomia, vocazione libertaria intollerabili, per il potere. Quello clericopapalino, quello nostalgico del ventennio ma anche quello del Grande Partito Rosso custode dell’ortodossia. Stazione di Bologna, sulla banchina del binario 6, aspettando l’Eurostar AV 9565, passa un ormai vecchio ragazzo del 77, vestito come allora, niente eschimo da boutique ma jeans e piumino usato da mercatino delle pulci, peccato siano passati trentanni e il mondo abbia preso ben altre direzioni. Messo male. Frammento di un sogno andato infranto, tardosauro che sopravvive nella riserva indiana dei sottoportici bolognesi. Apre il pugno mostrando un mucchietto di monete, ne chiede qualcuna ancora, ad alcuni per mangiare, ad altri per poter acquistare il biglietto del treno per tornare a casa, magari a Gualtieri, o a San Giovanni in Persiceto, paeselli c.c.t.f.. Lo guardo in cagnesco: colpevole di un fallimento, di essere caduto nella trappola, di aver permesso ai detentori del potere di soffocare il Movimento sotto valanghe di polvere bianca, di eroina, di provocazione e di repressione, di aver accettato d’imboccare la via morta di un’insurrezione armata in realtà voluta e limitata a pochi emarginati estranei al Paese. Lo guardo in cagnesco, niente soldi da parte mia.

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Roma, 15 gennaio 2010 – Per fugar dubbi sulla localizzazione

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Il treno megagalattico, specie nell’aspetto del costo del biglietto, arriva a Termini con 5 minuti di ritardo. Canonico, nella norma. In Giappone il governo si scusa per una manciata di secondi di ritardo registrati in tutto l’anno nell’intero sistema dei trasporti. Ma, dice Fabrizio, l’Italia è l’Italia.  Che non vuol dire niente ma così è.

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La convocazione si rivela una piccola bufala degna, quanto ad inventiva, più di Napoli che non di Roma, ma in verità tutto il Paese è Italia. L’Italia degli inventori e dei sognatori. Oltrechè dei truffatori. Fabrizio, accogliendo l’invito apparso in internet, aveva fatto richiesta per aderire ad un casting. Indicando nel modulo i ruoli di regia, aiuto regia, sceneggiatura. Società al secondo piano di un palazzo rinascimentale tirato a lucido in via Mazzini (l’immagine e la presentazione sono fondamentali), pochi passi dalla sede della Rai. Colloquio, poi, diceva l’operatore convocante al telefono, “ti facciamo fare qualche fotografia e qualche ripresa”. Bene. Ma da che parte della Canon? E qui si scopre che l’uno parla di mele e l’altro di pere. In realtà il posto offerto è solo quello da attore. Meglio. Aspirante attore. Qualche foto, un provino e si viene inseriti in un “archivio” a disposizione per eventuali chiamate. Previo, naturalmente, pagamento di 49 euro/anno per spese di segreteria.  E chi, senz’arte né parte, non sogna di essere protagonista di fronte all’occhio della telecamera? Che sono mai, per centinaia di ragazzi e ragazze, 49 euro in cambio di un sogno? Dunque. Quel sottile equivoco che costa il viaggio a Roma e vale la speranza che, tanto per tanto, il chiamato accetti e, per iniziare, metta mano al portafoglio. Senza escludere che, presto o tardi, per qualche ruolo da comparsa venga anche chiamato. Meglio ancora: qualche particina in trasmissioni televisive. Da pubblico. Plaudente a comando, badando bene a tener desta l’attenzione, guai a mostrar noia a c’è posta per te. Si fa fatica, ma oggi posso, sia pur con qualche fatica, garantire a Fabrizio la forza della coerenza: “sto studiando e sputando sangue per costruire una professionalità, non per far numero e scena dalla Ventura”. No, non arriveremo a Roma ammessi a passare dalla cloaca. “Piuttosto, dice Fabrizio, vado a fare il benzinaio e presto o tardi troverò un’officina che mi faccia lavorare e nel tempo libero continuerò a far girare la macchina da presa”. Per ora arriva una telefonata, dall’assessorato del Comune di Piacenza: propone di proiettare il cortometraggio di Fabrizio in un cinema d’essai. Piacenza non è Roma ma almeno tutto è chiaro e trasparente: appuntamento a martedi prossimo per i dettagli.

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Roma, 15 gennaio 2010 – Campo dei Fiori, luci nella notte

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Eppoi, a dirla tutta, ma come si vive a Roma? Appartamento 60 mq. Zona Trastevere 580mila euro. Affitto bilocale zona Campo de’ fiori Mille euro mensili. Attico piazza Navona UnMilioneDuecentoSessantamila euro. Monolocale 4mila euro d’affitto. Ma che razza d’Italia è questa? Stipendio mensile di un operaio 1.100 euro! Ferruccio ci porta a mangiare nel ghetto ebraico. Qui, dice, di venerdi è tutto chiuso ma lui conosce un locale che fa eccezione. Chissà che film ha visto, Ferruccio. Luci, colori ed effetti speciali, concretezza limitata. Passata la fontana delle tartarughe, finiamo in piazza, a Campo dei Fiori. Molta gente a passeggio nonostante il freddo gennaiolo. Tre pantere carabiniere e una dozzina di militi in straordinario ordinario notturno. Si mangia in piazza. Saltimbocca, Tagliata, Ossobuco, cannelloni, spaghetti all’amatriciana. Niente carciofi alla giudea, non bisogna esagerare col pretendere cucina tradizionale altrimenti tedeschi ed americani che mangiano? Primo, secondo, contorno, acqua minerale, una birra media, mezzo gotto, caffè. Simpatia e disponibilità romanesche. Poi il conto. 122 euro, 41 a testa. Belìn, alla faccia! Paghiamo la piazza, dice Ferruccio. Ma come fanno, a vivere, i romani? Forse mangiano rintanati in casa i carciofi introvabili in trattoria.

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Eppure Roma è bella. Una, dieci, mille città. Roma monumentale, tanto grande da risultare opprimente, dice Fabrizio. Roma rinascimentale, Roma romantica, la Roma del ventennio, la città degli anni sessanta, la città degli anni ottanta, la Roma dei parchi e la Roma della tangenziale, la città popolaresca, la città papalina. Roma è sporca, Roma è opprimente, a Roma si muore, è bellissima Roma turistica, ma impossibile da vivere. Lo pensa Fabrizio. Meglio Milano, che al confronto non ha nulla ma è compatta, unitaria, ben organizzata per viverci. No, dico, non puoi dire così, Milano è terribile, senza fantasia, orientata solo all’impresa. Roma è mille città, scegli quella che più ti aggrada e ti sentirai un Re. Sul FrecciaRossa delle 7.15 una signora si sente in obbligo d’intervenire, io abito a Roma ma ti trovi chiuso nel tuo quartiere, è spenta, ti spegni, mille volte meglio Milano.

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Roma, 15 gennaio 2010 – Campo dei Fiori,tavola imbandita in piazza

“Disse, che bello averti incontrata e nell'ombra un angelo custode sbuffò”, racconto di Claudio Arzani








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Vento di primavera, olio su tela, di Carmelo Raniolo

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Disse, che bello averti incontrata. Mesi e mesi ad ascoltare, a conversare, consapevole dell’importanza di quel periodo. Nessun incontro, a sentir quei tali filosofi antichi di nuove ere, avviene per caso, semplicemente giunge il momento giusto nel quale il cammino si incrocia con chi in quel momento, proprio in quel momento, giusto in quel momento e non in un altro, può darci quel qualcosa di cui s’avverte necessità. Sesso. Amore. Conforto. Forse semplicemente speranza. Di tutto o anche solo frammenti, polvere di reciprocità. Dipende. Dal bisogno. Qualcuno crede siano angeli custodi che, invisibili nell’ombra, si arrabattano per cercare la persona giusta, adatta a quel bisogno, allineata a quel momento, per far sì che i due cammini si incrocino. Altri ritengono sia semplicemente madama la Fortuna. Messer il caso. In qualche caso le frecce pungenti di tal Cupido. Talvolta semplicemente malandrino fu quel sorriso. Sta di fatto che l’incontro avviene e, come un fiume in piena, l’energia fluisce, scorre, sommerge l’alveo rinsecchito dopo il troppo tempo passato. Da quando le mani impietose di un contadino avevano chiuso le paratìe, bloccato il deflusso normale quotidiano dell’acque. Disse, che bello averti incontrata. Nel momento giusto, al posto giusto. Quel pasto consumato nel locale in piazza, all’ombra dell’imperiosa antica torre medioevale, la tovaglia a quadrettini, il sapore della trattoria. Invero si trattava di semplice imitazione, niente altro che un bar con piccola cucina, piatti da consumare in fretta in attesa di rientrare al lavoro, a ciascuno un diverso portone d’ingresso. Sembri una diva del cinema, aveva sentenziato una bambina nera di passaggio, padrona del tuo destino, eppure fragile, ferita, un’aquila trapassata dalla freccia del Cupido sbagliato, freccia con la punta di metallo intinta nel veleno, capace di aprire varchi dolorosi nella carne. Resistevi e brillavi, sospirò tra sé, di quella luce magica che avvolge chi non ha paura di incamminarsi lungo i tortuosi sentieri della conoscenza e dell’affermazione dell’anima. Che bello, disse, averti incontrata, sfiorata in percorsi paralleli. Sentieri paralleli. Fino a quel cartello, due indicazioni, verso le pianure del nord-est e le vette del nord-ovest, indicazioni divergenti, che bello, disse, averla incontrata, viaggiato insieme lungo la valle scarlatta, attraversato i ponti della città riflessa nell’acque del fiume vestito delle sembianze d’un lago. Poi le prime colline, un sentiero a destra, un viottolo appena abbozzato nell’erba piegata a sinistra, chissà lei cosa fa, si chiedeva, aldilà della cresta della collina. D’un fatto – e se ne sentiva protagonista – era consapevole, ne era certo, non son più sangue le gocce che imperlano il viso. Sia dell’una quanto dell’altro e il compito assegnato, formalmente definito dal popolo dell’ombra nel momento dell’incontro, era stato adeguatamente assolto, dall’una e dall’altro. Il viottolo raggiunge il bosco, devia ancora a sinistra, abbandona la collina, ne raggiunge un’altra. Disse, che bello l’averla incontrata, fu dolce quel tempo, ma il limitare del bosco s’avvicina, chi aspetta tra le frasche del bosco? Ogni incontro ha il suo senso, ogni incontro ha il suo tempo. Secondo le credenze di alcuni, non c’è pace, non c’è tregua per gli angeli custodi al lavoro nei regni dell’ombra. Giungerà, anche per loro, il tempo d’una meritata pensione?  No, non è questo, si disse, scrollando il capo, non è questo quel tempo. Di certo, confermò convinto, son mutati i bisogni, s’affaccian nuovi comuni sensi, giro di valzer, cambio turno per gli angeli quelli stanchi, altro incontro s’annuncia sul far d’una nuova sera.

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Rising fog, oil on canvas, by Allison J Smith

oil-painting-art.blogspot.com/








Roma, troppo buia quando vien la sera, la paura si nasconde in metropolitana tra troppo sporco e molti slavi




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Venere ristrutturata, di Man Ray
"Dada e surrealismo riscoperti"
Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma
In mostra fino al 7 febbraio 2010
http://www.romeguide.it/mostre/dadaeilsurrealismo/dadaeilsurrealismo.html

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La paura che attanaglia, la paura che fa novanta e mette le ali ai piedi, che fa accelerare il passo e il battito del cuore mentre secca la gola. Maggio 2007, la giornata romana volgeva al termine, ormai il buio della sera avvolgeva la grande città, i suoi monumenti, i turisti frettolosi e i romani che lentamente s’avviavano verso casa. Ormai tardi per i programmi del giorno e ancora presto per la serata. Quanto sei bella Roma, quann’è sera. La fermata del metrò nel piazzale dei Cinquecento direzione stazione Tiburtina è un po’ defilata. Sporca. Cartacce ovunque, rifiuti, resti del pasto di qualche clochard. All’ingresso, sulla rampa di scale che porta underground, sottoterra, una banda di stranieri, marocchini, equadoregni o forse più semplicemente camorristi italiani. Passare senza guardare, svelto il passo, fisso l’occhio, le dita incrociate. No, se mammà m’avesse fatto femmina, non sarei sceso in quell’antro profondo, fossi stato femmina avrei preso un taxi. Evitando quelli abusivi, selezionando un taxi di quelli ufficiali e se possibile con taxista femmina. Come a ballare. Com’è che le femmine van sempre ai bagni in coppia? Bagni e taxi donna con donna una verità da affermare. Stazione del metrò, maggio 2007, il cuore in corsa, il cuore in gola, le luci abbassate, troppi angoli bui e banchine vuote. La paura fa novanta ma arrivò il convoglio, data l’ora semivuoto, l’autista azionò il meccanismo che apriva le porte emettendo uno sbuffo d’aria. Niente di minaccioso nel metrò romano, i presunti camorristi restarono in alto, sulle scale, indifferenti al mio passaggio. Certo, fossi stato una femmina. Prima che l’autista potesse richiudere le porte del convoglio, una giovane ragazza, gonna blu aderente e generosa nel mostrare ginocchia e cosce, riuscì a scendere di corsa le scale salendo sul treno. Uno dei camorristi la guardava. Dal taschino estrasse una sigaretta slava, portandola alle labbra.

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Dono, di Man Ray
"Dada e surrealismo riscoperti"
Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma
In mostra fino al 7 febbraio 2010
http://www.romeguide.it/mostre/dadaeilsurrealismo/dadaeilsurrealismo.html

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Buio. Il piazzale di fronte a stazione Tiburtina mi lasciò stupito per il buio. Forse a causa di un cantiere che ne occupava buona parte. Erano mille e mille i punti oscuri dove poteva nascondersi il malintenzionato. Armato. Finite le guerre nei territori slavi sull’altra riva del mare, dell’Adriatico, acquistare un’arma residuato bellico, un kalashnikov, nel BelPaese era facile come bere acqua minerale, gasata o naturale a piacere e scelta. In quel bar tabaccheria nel piazzale del mercato ortofrutticolo nella mia città padana mi fermavo sul far della sera, conclusa la giornata di lavoro. Seduto in un tavolino un po’ defilato, sull’angolo più lontano dal banco, bevevo, solo, la Ceres. Chi puntava ai cavalli, chi governava il traffico di qualche ragazza generosa di sesso a pagamento, il gruppo dei salernitani, gli slavi che, a gruppi di quattro, tiravano il collo alle Heineken. Un’umanità varia che muoveva di fronte ai miei occhi disinteressati, persi in un mondo oltre, nei pensieri, nei progetti, nelle visioni poetiche che non potevano essere condivise. Talvolta arrivava E.B. a spezzare il muro della solitudine, ad introdursi, ad imporsi nel silenzio ovattato che andavo cercando. Non riuscivo a nascondere il fastidio dell’ascoltare le sue dissertazioni sul malessere per l’intervenuto cambio al vertice della sua azienda, il Consorzio Agrario, o per il furto subito nella villetta al mare, nelle Cinque Terre o per quella palla che sentiva crescere sotto l’ombelico. Forse una semplice ernia ma la paura fa novanta, non aveva il coraggio di presentarsi ad un esame di indagine diagnostica e verifica medica in ospedale. Poi finalmente se ne andava. Una sera, entrando, mi salutò con un cenno del capo, quasi imbarazzato, non venne al mio tavolo. S’avvicinò ai quattro slavi. Parlarono a lungo. Infine uno del gruppo venne al mio tavolo: “il tuo amico vuole un’arma, ma noi non ci fidiamo, quello è toccato, vogliamo una garanzia. La tua”. Chissà per chi m’avevano preso. No, nessuna garanzia, quello è toccato, non è affidabile. Alla fine E.B. la pistola riuscì a procurarsela in un altro bar, forse sempre dagli slavi, forse da altri reduci di un qualche conflitto minore in uno speduto angolo d’Africa. Giravano molte armi, nel BelPaese, molte arrivavano dagli arsenali dell’ex Armata Rossa, dall’Ucraina, dalla Romania, dall’Albania. Forse quella palla intorno all’ombelico era un tumore, forse E.B. alla fine il coraggio di affrontare una visita medica l’aveva trovato e il verdetto non era stato quello atteso. Forse per questo un giorno, sceso in garage, aveva caricato quella pistola per l’ultimo colpo. Troppe armi, nel BelPaese, troppi slavi, troppi angoli bui nel piazzale antistante la stazione Tiburtina.

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Il violino d’Ingres, di Man Ray
"Dada e surrealismo riscoperti"
Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma
In mostra fino al 7 febbraio 2010
http://www.romeguide.it/mostre/dadaeilsurrealismo/dadaeilsurrealismo.html

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Mancava qualche ora, alla partenza dell’Intercity, l’ultimo treno a partire prima della chiusura notturna della stazione. Il tempo di attraversare il piazzale passando dai lunghi tratti al buio ai pochi angoli illuminati dalla fioca luce di lampioni ormai inadeguati. Un uomo con un giubbotto nero di finta pelle stava inveendo in rumeno contro la ragazza sul marciapiede colpevole di una mise troppo rilassata. Altri due parlottavano fumando una sigaretta. Nel bar sulla destra il cameriere portava casse di acqua minerale salendo dalla cantina. Da una finestra la musica di un complesso rock che non conoscevo. Proseguendo finalmente una trattoria con un tavolo libero, qualche tedesco e un gruppo di signore di mezza età in gita con il parroco. Mentre attendevo le portate e l’immancabile vino dei castelli, chiesi una copia del Messaggero alla ricerca di qualche notizia sulla nascita della nuova formazione di sinistra che si negava alla nascita del Partito Democratico. Poche righe. Tutto lo spazio a disposizione il quotidiano lo dedicava alla notizia d’una ragazza molestata da una banda di lupi alla stazione Piramide del metrò. Ragazzi sedicenni. Di Agrigento. Saliti a Roma alla ricerca di lavoro.

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La bella stagione, di Max Ernst
"Dada e surrealismo riscoperti"
Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma
In mostra fino al 7 febbraio 2010
http://www.romeguide.it/mostre/dadaeilsurrealismo/dadaeilsurrealismo.htm




A Roma, a Roma, chiamavano le trombe all’adunanza generale: è nella capitale che sorge un nuovo sole, il sole dell’avvenire

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Il manifesto della mostra "Dada e surrealismo riscoperti",
 500 opere esposte al museo del Vittoriano a Roma
fino l 10 febbraio 2010

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Una voce che parla al BelPaese? Conviene abbia il megafono nella città eterna altrimenti rischia di perdersi tra le poltrone vuote di un uditorio di periferia. Nei primi anni sessanta le segreterie dello scudo crociato democristiano e del sole nascente socialista dopo lunghe estenuanti trattative trovarono il giusto equilibrio per avviare la prima esperienza di governo comune. Il diavolo e l’acqua santa. Due acerrimi nemici storici all’abbraccio, i rappresentanti della classe padrona dominante e il partito storico dei lavoratori. Un accordo siglato all’ombra di piazza Mercanti, la sede della municipalità di Piacenza, città padana al confine tra Emilia, Lombardia, Piemonte, un lembo di Liguria. Un evento storico, destinato a cambiare il volto del BelPaese. Per questo era impensabile che una simile alleanza potesse nascere in un lembo di terra sostanzialmente marginale, nodo stradale e ferroviario che univa nord e sud in quanto punto di transito obbligato ma nulla più. Intervennero le segreterie nazionali per stoppare l’ardito disegno politico: l’alleanza si sarebbe fatta ma tre anni dopo e non certo in periferia. L’accordo sarebbe stato sottoscritto a Roma e ne sarebbe nato il primo governo nazionale di centrosinistra.

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L.H.O.O.Q., di Marcel Duchamp
"Dada e surrealismo riscoperti"
Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma
In mostra fino al 7 febbraio 2010
http://www.romeguide.it/mostre/dadaeilsurrealismo/dadaeilsurrealismo.html

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In quell’inizio d’estate 2007 finalmente il destino giungeva a compimento. Dieci lunghi anni di cammino nelle fila dei Democratici di sinistra erano giunti al termine. Un lungo, sofferto Congresso, il quarto ed ultimo del Partito nato dalle ceneri del vecchio e più grande Partito comunista del mondo occidentale e da una costola del disciolto Partito Socialista, quella che aveva in Valdo Spini il suo leader naturale. Una grande maggioranza aveva decretato la fine del simbolo della quercia mandato in soffitta nella prospettiva della storica alleanza con la componente cattolica, in pratica quella che era stata la corrente di sinistra della vecchia Democrazia Cristiana. “Sono nato socialista, non morirò democristiano”, avevo concluso il mio intervento all’assise provinciale di fronte ad una platea poco interessata alle mie posizioni. Qualche settimana dopo, al congresso regionale, sotto il grande tendone nel parco in periferia a Bologna ero stato tra i pochi ad applaudire con forza il compagno Franco Benaglia che, a nome della corrente, annunciava l’astensione dalla votazione degli organismi dirigenti deputati a concludere il percorso di scioglimento del Partito per avviare la costituzione del nuovo soggetto politico. A Firenze, infine, finalmente, tra le lacrime, Fabio Mussi aveva ufficializzato la rottura definitiva, il saluto ai compagni che avevano scelto di fondare il Partito Democratico: no, noi non saremmo stati della partita. Da quel momento erano passate diverse settimane e finalmente i vertici nazionali avevano dato fiato alle trombe dell’adunanza: tutti a raccolta al Palasport, all’Eur, naturalmente a Roma, nella capitale del Regno e dell’Impero, nasceva Sinistra Democratica per il socialismo europeo.

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Scolabottiglie, di Marcel Duchamp
"Dada e surrealismo riscoperti"
Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma
In mostra fino al 7 febbraio 2010
http://www.romeguide.it/mostre/dadaeilsurrealismo/dadaeilsurrealismo.html

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L’EuroStar partiva dalla stazione poco dopo le sei della mattina. A Firenze salì sul treno proprio Valdo Spini, posto prenotato poco più avanti del mio, si tuffò nei fogli del discorso che avrebbe letto all’adunata, per le ultime correzioni. Parlavo al telefono con Fausto Chiesa e Ferruccio Braibanti, commentando che non riuscivo a tollerare oltre una pseudo sinistra di governo che, almeno nell’Azienda pubblica fonte del nostro stipendio, sembrava aver perso la capacità progettuale riducendosi ad una mera gestione del potere nel nome del Direttore Generale, Francesco Ripa di Meana. Era possibile immaginare una sinistra capace di essere cosa diversa dal ventre molle di quella balena bianca che era stata la Democrazia Cristiana? Sceso a Termini in quasi perfetto orario, in attesa della grande adunanza fissata per il pomeriggio, perso di vista il compagno professor Valdo Spini, afferrai al volo l’invito telefonico della compagna AnnaMaria, persa di vista dopo il suo trasferimento nell’urbe. Un incontro preliminare nella magica via Veneto, la via dei vip e dei paparazzi. Un taxi di quelli abusivi per far presto e sentire una stretta allo stomaco definito il prezzo della corsa, un cappuccino con pasticcini sprofondando nella poltrona di pelle nella hall di un bar da favola, amabilmente conversando d’arte, poesia, di sogni letterari, di un romanzo ancora nel cassetto che già lei aveva sentenziato da revisionare. E del mal di vivere, quello spleen che spingeva AnnaMaria, ormai così diversa dalla bellezza dei miei ricordi, a negarsi il cibo. Quando l’amore ormai appassito diventa una gabbia, una prigione dalla quale non riusciamo ad uscire che soffoca il nostro io. Quando l’amore passato diventa malattia che nel caso di AnnaMaria si chiamava anoressia. Una passeggiata comune nel parco di villa Borghese per raggiungere la fermata del metrò destinazione l’Eur. No, AnnaMaria non prendeva parte alla grande avventura. In quella via che non so, sotto il tiepido sole di Roma, prendendoci per mano per un saluto che forse sarà l’ultimo addio della nostra vita, lei disse, “Vai, vai a farti male, destino triste della sinistra che si divide nell’ennesimo gruppuscolo del 2%”.  Triste profeta di sventura. Sul metrò erano molti i compagni, chi solo, chi in piccoli gruppi, chi a leggere l’Unità, chi sfogliando Liberazione. Prime ore del pomeriggio. Atmosfera d’una nuova alba, un luminoso sole radioso accarezzava la capitale del Regno. Un anno dopo, alle elezioni, naufragava la Sinistra l’Arcobaleno: tutti a casa, a ricominciare da capo.

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L’isola del tesoro, di René Magritte
"Dada e surrealismo riscoperti"
Complesso del Vittoriano, via San Pietro in carcere, Roma
In mostra fino al 7 febbraio 2010
http://www.romeguide.it/mostre/dadaeilsurrealismo/dadaeilsurrealismo.html

Roma, generosa matrona custode d’amori ritrovati ma attenzione, mal coglie mentire alla bocca della verità

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Sandro di Camillo: Berlin babylon
Città diverse avvolte l’una dentro l’altra, strette pigiate indistricabili

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Roma, generosa sorridente matrona che avvolge suadente nell’abbraccio dei suoi colli gli amori, quelli giovani, quelli antichi, gli amori stanchi, amori perduti, amori ritrovati. Quanto può durare un amore? Una notte, giorni struggenti, mille anni, oltre la vita, oltre la morte. Son sempre più rari gli amori per sempre e forse sono solo illusioni. Gli amori, quel fuoco che arde, che brucia, che non conosce ostacoli, gli amori come fuoco che arde lentamente si spengono. Restano i rapporti. Fiamme a basso tono, magari ancora più semplicemente braci sotto la patina grigia delle ceneri. O forse è questo l’amore vero? Non i fuochi scoppiettanti, le fiamme animelle che volano verso il cielo, che saltano, danzano, incontenibili. Mordono. Talvolta fanno male. Fiammelle animelle attaccano gli abiti delle genti, ardono, distruggono, divorano gli incauti che imprudenti s’avvicinano troppo all’ardente pira. Io e Dalila. Quell’amore incoronato nel 1983 sull’altare della chiesa a svettare sulle valli dell’Appennino, da tempo camminava zoppicando, dietro l’angolo s’intravedeva l’ultima fermata, il capolinea. Ma quell’angolo così vicino, non l’abbiamo superato. Non allora e a dire il vero, ancora oggi, non ancora. Chissà, forse domani forse mai. Que serà, serà, nessuno saper potrà, che mai succederà, que serà, serà. Il segreto? Comuni interessi, visioni comuni. Con quel pizzico di buona volontà per coltivarli, quegli interessi, cercando di limitare quanto invece inevitabilmente divide. O forse a dominare la scena, a guidare i nostri destini, il caso, la fortuna. Ad un passo da quell’angolo dietro il quale aspettava il capolinea trovammo sulla nostra strada un grande interesse comune, l’arte. L’impressionismo, l’ottocento, il secolo romantico. Dopo tanti anni interamente dedicati ai figli ci ritagliammo uno spazio nostro. Il caso: un depliant nel cellophane che avvolgeva l’Espresso conservato per mesi vicino all’apparecchio telefonico con un invito infine raccolto. Salimmo su un Intercity diretto a Torino per ammirare la grande mostra “gli impressionisti e la neve”. Che terminava con un grande dipinto a parete intera. Pareva l’ombra di due mostri oscuri incombenti sull’umanità. Era la visione notturna d’un panorama norvegese, una casa immersa nella neve, tra piante ad alto fusto slanciate verso il cielo. Un grande maestro: Edvard Munch. Uno shock, uno spettacolo d’indescrivibile bellezza. Poche settimane dopo la notizia d’una grande mostra interamente dedicata al Maestro. Naturalmente a Roma. Era il 2005, l’occasione, dopo dieci e più anni, per il ritorno.

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Norma Rossetti: Scampia periferia nord, Napoli
Palazzi diroccati e interni lussuosi, muri ammuffiti e arredi barocchi, degrado e criminalità nella prima piazza di droga d’Europa

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Un’occasione per ripercorrere insieme le strade, i luoghi, gli odori, le sensazioni vissute singolarmente. E Roma seppe essere generosa accogliendoci nei suoi vicoli, permettendoci di scoprire quei luoghi che, a posteriori, è poi difficile distinguere tra reale e sogno. Che comunque restano impresse indelebili nei ricordi. La città dell’arte. Munch al Vittoriale, l’altare della Patria, Giovanni Antonio Canal detto il Canaletto e in piazza San Pietro una grande mostra dedicata a Maria, una Signora vestita di luce. Seduti, insieme, su un divanetto provvidenziale. Stanchi, stravolti, assonnati, le gambe a pezzi dopo troppo camminare in un lasso di tempo troppo limitato. Le meraviglie a portata di mano. La bocca della verità dove immancabilmente timidamente e con circospezione infilammo la mano badando a non contare frottole per evitare la drastica punizione. Le meraviglie nascoste. Il ristorante di Alessio, all’angolo tra Via Viminale e via Principe Amedeo, la scala che porta ad altezza cantina, il menù tipico del mangiare alla romana. La piccola trattoria a conduzione familiare a pochi passi dal Pantheon, un piccolo tavolo a due e la tovaglia a quadri come usava negli anni cinquanta  e sessanta nelle campagne. La voglia di ritrovare argomenti comuni, raccontarsi del passato comune, alzare veli sul futuro prossimo venturo possibile. Seduti al bar in piazza Navona, ad ammirare due carabinieri in alta uniforme a cavallo, in attesa di vedere affacciarsi Marta Marzotto.

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Fabio Rizzo:where o when
Tempo e spazio fuor di schema

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Scritte sui muri, residui d’un anno ormai niente altro che celebrazione di quel che è stato, che poteva essere e che ormai resta solo sogno e illusione. Il 1968 degli intellettuali borghesi e il 1977 dei figli della classe operaia. Gruppo proletario anarco insurrezionalista: presente! Diceva la scritta in via della Scrofa, destinataria la sede di Alleanza nazionale ex Movimento Sociale, ma ormai a far tremare le gambe non erano più i rivoluzionari della falce e martello. Morte le ideologie, smascherate da Reagan e dal Papa polacco, facevano già paura gli islamici di Bin Laden. In piazza San Pietro, per superare il colonnato del Bernini, lunga attesa sotto il sole in coda per passare all’esame dei metal detector.  Pedaggio obbligato per poter scendere nelle Grotte Vaticane, ad ammirare l’ultimo riposo di Giovanni Paolo II. Era vecchio, era stanco, se n’era andato. Erano venuti in migliaia di migliaia. Treni, torpedoni, una grande kermesse nazionalpopolare, lungo il percorso del corteo, piccole resse per guadagnare i bagni montati oltre le transenne. Scarsa ponderazione, molta troppa emozione. Squilibrio. Lungo via della Conciliazione ad una finestra ancora sventolava un lenzuolo con la scritta “Santo subito”. Roma, città vissuta in una giornata, che vale l’eternità. Una storia, mille vicende, infinite forme d’amore.

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Marco Vacca: Rifugiati

Roma, ahi que dolor: nel traffico caotico, sirena squillante, si faceva largo un’ambulanza. Portava un malato o fumanti pizze?

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Christian Lutz: protokol
Scatti fotografici dietro le quinte tra potere e diplomazia

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Una favoletta che, a tutte le latitudini, piace ai potenti, a chi si trova ad occupare una poltrona e non ha nessuna intenzione di mollarla: non fate gli yesman. Siate autonomi, dite la vostra, solo così potrete contribuire al miglioramento, alla crescita che si rivelerà utile per tutti. Nel concreto, in verità in otto casi su dieci il superiore di turno vi guarderà con sospetto, sentirà messa in discussione la sua leadership e cercherà di ghigliottinarvi alla prima occasione o, ove di buon cuore, di emarginarvi in una posizione dalla quale non possiate nuocere. La memoria riporta al 1994, grandi cambiamenti in atto nell’Azienda, leadership in discussione. Da un lato un direttore, Mario Camoni, forte dell’età, dell’esperienza, dell’autorevolezza, dei legami con i vertici della Curia e del partito centrista di governo. Dall’altro il giovane rampante, Marco Teggia, esponente di Comunione e Liberazione, un sistema di potere in fase di costituzione con i giusti agganci con la vicina Lombardia. Importante stampella professionale del primo, mio malgrado: il Teggia riteneva tassello rilevante nel suo disegno di successione pretendere il mio allontanamento. Come ottenerlo? Semplice. Minacciando più o meno direttamente, tramite i suoi “colonnelli”, amici e colleghi che erano ritenuti miei alleati: piccole azioni di disturbo, ventilati cambi d’ufficio e di funzione, negazioni di straordinari e di altri diritti contrattuali. Dopo un paio di mesi di pressioni psicologiche e di larvate minacce da parte del “sistema di alleanze” vicino alla cordata che faceva capo al Teggia, arrivò la convocazione presso la sede centrale da parte del MegaDirettore, il numero due dell’Azienda, tal Mario Forlani, che mi ufficializzava il mio essere indesiderato. Motivazione? Valutazione negativa del mio operato? Nulla di tutto questo, semplicemente, a suo dire, mi trovavo nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Avessi esercitato il sacrosanto diritto alla difesa della mia posizione? Probabilmente sarebbe calata la mannaia sulla quotidianità delle persone che mi erano più vicine, i colleghi e soprattutto le colleghe che lavoravano con me e per me. Per quanto poi mi riguardava direttamente Forlani sventolò lo spettro della possibile dichiarazione dell’esubero: ero di troppo e, a quel punto, cancellato il mio posto di lavoro dalla pianta organica aziendale, avrei dovuto accettare il primo posto disponibile in chissà quale altra città della Regione. Giustizia, ingiustizia. Un dettaglio: eran tutti cattolici democristiani. Preti neri. Nell’anima. Al bivio tra lo scontro duro e il rivedersi a Filippi, scelsi di sedermi sulla sponda del fiume ad attendere il passaggio del cadavere del nemico (non sapevo allora che non si trattava solo d’un espressione di colore e che veramente avrei letto sul quotidiano prima del funerale dell’uno e un paio d’anni dopo dell’altro). In quel momento non mi rimase che salvare il salvabile, contrattare una sconfitta onorevole. Cambiai sede di lavoro ottenendo il diritto all’indennità di trasferta e, come ciliegina sulla torta, la partecipazione finanziata ad un aggiornamento professionale a Roma. Ogni minaccia a colleghi e colleghe venne a cadere mentre lo speaker della stazione annunciava la partenza dell’InterCity destinazione la Città eterna, era dicembre, tempo di un ritorno dopo tre anni di assenza.

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Paolo Miserini: i Sacconi Rossi
La processione in Roma del 2 novembre in memoria degli annegati del Tevere

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Aria di Trastevere, lungotevere Ripa, poteva essere un ritorno di fiamma, un soggiorno tra le braccia d’una amante mai dimenticata, mai cancellata dal cuore. Ma il tempo a disposizione era troppo ridotto, i luoghi nei quali tornare troppo numerosi, il piacere della tavola nelle trattorie non certo adatto a diete equilibrate povere di grassi, i mesi di tensione, le pressioni psicologiche subite, tutto l’insieme si scatenò inaspettatamente nella notte, in albergo. Autodiagnosi da Inferno dantesco: flebite anale. Meglio ancora: tromboflebite! Impossibile darne conto e al solo ricordo il cuore pare gelarsi, un sottile velo di sudor freddo orla la fronte. Era stata una giornata di gran corsa. Conclusa l’aula nel tardo pomeriggio, attraversato Ponte Palatino, una camminata a passo svelto fino a largo di piazza Argentina, le vetrine di Corso Vittorio Emanuele, un passaggio in San Pietro per acquisti d’oggetti religiosi richiesti da casa per concludere con un salto in piazza Navona ad ammirare i quadri dipinti dagli artisti di strada. No, non così va vissuta Roma, non a quella velocità parossistica tipica del milanese e del commenda della Brianza. Inutile presentarsi alle 7.30 della sera in trattoria per consumare un pasto in una sala deserta. Inutile bussare alle otto della mattina allo sportello d’un ufficio pubblico o strimpellare il campanello dello studio d’un legale. La punta più alta del traffico mattutino è dopo le nove, ci si sveglia tardi e si va tardi al lavoro e magari si finisce tardi la giornata, cena alle 22 fin oltre la mezzanotte. Forse un fatto di clima, forse un essere speciale, ineguagliabile, l’animus romano, S.P.Q.R. ovvero Sono Pazzi Questi Romani. O Son Polente? Son lenti, flemmatici, voglia di lavoro saltami addosso ma lentamente che piano piano me scanso. Fermate il mondo, me gira la testa, scendo n’attimo a riposar. Quella sala in trattoria, zona Montecitorio, deserta alle 19.30 non presentava tavoli disponibili dopo le 21. Antipasti al banco self-service, gnocchi alla romana, scottadito con patate, dessert, caffè e ammazzacaffè. Non è gradevole scoprire e raggiungere quel punto che il fisico non regge e il sangue gioca scherzi di discutibile simpatia. Non è facile passare il tempo in una lunga notte con Roma ammantata in un velo di dolore.

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Sara Munari: Oceano Indiano
Baccano, polvere, movimento continui nell’altra India che non ti aspetti

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L’alba, sorgere del sole come momento di liberazione dal buio delle tenebre, dal terrore del vampiro e dal dolore concentrato là dove non batte il sole. A passi lenti, badando all’appoggio equilibrato della pianta del piede, prima il destro, poi il sinistro, lancinanti dolori d’una punta di lancia infilata là dove più tenera risulta la pelle, destinazione il pronto soccorso dell’ospedale che, a quell’epoca, era sull’isola Tiberina, nel bel mezzo del Tevere, barca di cemento pronta a staccare gli ormeggi per navigare tra le case di faccia al fiume. Ricordo d’er buchetto, locale ad una stanza in via Principe Amedeo, un unico tavolo e la testa d’un cinghiale a far da insegna: piatto unico pane, porchetta e vin bianco dei castelli, roba genuina ricca di quel pepe che, come stava scritto col gesso sulla lavagnetta, brucia er buco der culo. Appunto. Un medico dall’aria simpatica infilò alla mano con inqualificabili intenzioni un guanto di gomma, gli osservai che non erano gradite ma comunque erano impossibili introduzioni di qualunque genere fossero. Mi mise a tacere invitandomi ad abbassare i pantaloni e a non far lo spiritoso che, data la circostanza, non era il caso. Ero d’accordo, c’era poco da ridere e men che meno da scherzare ma fu l’ennesima dimostrazione che ciascuno di noi è il miglior medico di se stesso. Trasalì, il cerusico, guardando l’enormità, ed iniziò a togliere il guanto di lattice. Non sarei arrivato integro in val Padana, a suo dire. Ma non potevo restare in Roma, città d’amor, per conoscerne fino in fondo i sobborghi profondi del dolore. Con delle garze uso pannolone, il medico generoso cercò di darmi una mano per assorbire l’eventuale esplosione in corso di viaggio. Ricordi e racconto spiacevole ma il dolore non è mai gradevole. Fu un viaggio lunghissimo, interminabile, ma alfine approdai in riva al Grande Placido Fiume del nord, mi aspettava Dalila con l’auto, per portarmi in ospedale. Tre giorni dopo tutto era rientrato negli alvei della normalità e il primario Pistacchi sentenziò che non era necessaria operazione alcuna. Steso nel letto sempre a pancia in giù, massimo con dovuta attenzione, di lato, tirai un lungo sospiro di sollievo.  Tempo di ritorno a casa. Con rigida prescrizione cautelativa: per alcune settimane brodini, insalate, carotine poco olio, bistecchine carne bianca poco sale. Come stare in ospedale.

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Mario Spada: Gomorra on set

Roma città d’incanti e di stupor: ma che ce frega ma che c’importa se ‘l mondo par andare nella direzione quella sbajata

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Olivio Argenti: immagini di una gioventù dedita alla droga e alla violenza

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Fortunato quell’uomo che, nella capitale per fatto professionale, si ritrova con un pomeriggio libero nella fresca aria dell’autunno romano. Era il 1990, gli aerei iniziavano a scaldare i motori nelle basi Nato, “desert storm”, la tempesta sul deserto attendeva di esplodere, occorreva ripristinare la sovranità territoriale del piccolo (ma ricchissimo di petrolio) Kuwait invaso dalle truppe di Saddam Hussein. Il dittatore aveva osato troppo, contato su un’inesistente acquiescenza del gendarme americano di fronte al fatto compiuto e invece dal petrolio del Kuwait le mani doveva proprio toglierle. Così aveva, alzando i toni della voce, ribadito George Bush. Era stato un agosto di grandi movimenti. Il 2 alcune centinaia di carrarmati iracheni avevano iniziato l’invasione ignorando i moniti americani e dell’Onu. Da quel momento, mentre i giorni e le settimane passavano, le diplomazie erano freneticamente al lavoro ufficialmente per trovare una composizione pacifica alla crisi, George Bush incontrava il Presidente sovietico Gorbaciov, navi americane e di altri sei paesi occidentali tra i quali l’Italia facevano rotta verso il Golfo Persico. A fine agosto con Dalila ero in tenda in ValTrebbia, in riva al fiume. Durante la notte i cacciabombardieri Tornado in addestramento di volo sorvolavano la valle, provenendo dalla base di San Damiano. Aria di guerra, un senso di angoscia, di incertezza del futuro riempiva quelle notti. Il 14 settembre i Tornado sarebbero finalmente partiti per la zona delle ancora eventuali operazioni militari e mentre gli aerei capaci di portare ordigni nucleari partivano, salivo sull’InterCity che mi portava a Roma. Il mondo intero stava col fiato sospeso. Mentre in aula ascoltavamo i nuovi indirizzi di economia aziendale per sostenere una sanità sempre più in difficoltà nell’affrontare la crescita dei bisogni a Kuwait City venivano prese d’assalto le ambasciate del Canada, Paesi Bassi e Francia: tre francesi venivano sequestrati, Francois Mitterand prometteva alla Nazione ritorsioni e, tanto per far capire che non scherzava, espelleva tutti gli iracheni dal territorio del paese d’oltralpe. In questo clima si svolgeva quel soggiorno romano: col fiato sospeso nella generale incertezza. L’annuncio che il docente dell’università di Bologna dava forfait fu dunque l’occasione per lasciarsi andare a dove spinge il vento, o meglio la leggera brezza romana che delicatamente sembrava accarezzare il viso. Passo dopo passo, sceso dal metrò che dall’Eur mi aveva riportato in centro, mi ritrovai sotto la volta per nulla oscura di stazione Termini. In quell’istante l’altoparlante annunciava la partenza del treno per Albano Laziale. Perché no?

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Franco Pinna: incontri con la taranta nel salentino nel 1959

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Viaggio in direzione dei castelli romani, lungo una linea inizialmente realizzata all’epoca dello Stato Pontificio, occasione per conoscere e gustare dal finestrino l’atmosfera della campagna attorno alla Capitale. Niente più traffico assordante ma piccole case distanziate l’una dall’altra immerse nei campi dell’agro pontino. All’ombra dei resti del grande acquedotto romano stagliato contro l’azzurro cielo con splendide arcate veri gioielli d’architettura capaci di superare l’usura del tempo. Un ambiente che favoriva la fuga nei meandri della storia, immaginando le carrozze e i cavalieri a calcare rumorosamente le pietre della via Appia in attesa di giungere nell’allora Capitale del mondo civile con le sue meraviglie dalle quali mi stavo allontanando per scoprire un mondo non meno affascinante. Nello scompartimento precedente al mio qualcuno ascoltava una radio a transistor. Lo speaker del radiogiornale stava commentando le dichiarazioni di Saddam: “abbiamo dalla nostra parte un milione di mussulmani”. La minaccia di uno scontro tra due civiltà, di un mondo diviso in due fazioni pronte allo scontro finale, era sempre più concreta.

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Andrea Attardi: diario siciliano

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In bilico tra la tendenza al rilassamento per la bellezza del paesaggio e l’attenzione alle notizie provenienti dallo scompartimento vicino, superata la stazione di Marino Laziale, improvvisamente e per quanto ne potevo sapere inaspettatamente il convoglio entrò in una galleria, la voce della radio andò trasformandosi in un incomprensibile gracchiare, per infine tacitarsi del tutto. Invero nulla di chè, 315 metri nel buio d’una delle tante gallerie di questo nostro BelPaese in costante passaggio tra pianura e rilievi ora collinari ora montani. Ma all’uscita inevitabile restare a bocca aperta di fronte all’inatteso scenario del lago Albano. Oltre tre kilometri di lunghezza, il bacino all’interno di un grande cratere vulcanico, costeggiato dal binario unico della ferrovia posto praticamente con l’acqua a lambire le ruote del treno e il costone del cratere ad elevarsi sull’altro fianco, uno sguardo estasiato al finestrino vistalago ad ammirare lo specchio dell’acqua, uno sguardo preoccupato al finestrino sull’altro lato a lambire la vegetazione del costone roccioso. Il viaggio continuò poi verso la stazione di Castel Gandolfo ed infine il convoglio concluse la corsa ad Albano Laziale lasciandomi a passeggiare tra le viuzze e le vetrine delle botteghe del paese ancora capace di qualche attrattiva turistica nonostante la lontananza dalla Roma conclamata dalle guide turistiche. Ma l’uscita dalla galleria di Marino e la vista del lago con il treno che pareva viaggiar sull’acque rimarranno per sempre tra le meraviglie ammirate di questo mondo. Roma che sa sempre sorriderti, che sa sempre stupirti, che non puoi mai credere di conoscere per intero. A sera, al rientro al centro dell’urbe, la notizia: Saddam aveva minacciato di colpire i pozzi petroliferi del medio oriente e per fortuna le Borse erano già chiuse. Nulla avrebbe però evitato l’indomani una delle giornate più nere per l’economia mondiale. Come un gatto che gioca col topo “Desert Storm” restava ancora chiusa nella tana ma l’anfora era ormai piena quasi fino all’orlo. Perché la parola passasse alle armi bisognava solo aspettare che Bush riconoscesse a Gorbaciov neutralità in caso di intervento sovietico di fronte alle mire indipendentistiche delle popolazioni del Baltico e del Caucaso. Il 16 gennaio 1991 le truppe della forza multinazionale iniziavano l’avanzata per liberare il Kuwait dall’invasore iracheno. Di certo centinaia di turisti anche in quel giorno s’aggiravano tra le monumentali meraviglie romane e i soliti quotidiani convogli ferroviari entravano sferraggliando nella galleria Marino.

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Massimo Bottarelli: il cielo può allargarsi
(libertà non è itinerare vago e sprovveduto libertà è partecipazione)