Seduto sulla sdraio nella veranda ormai chiusa, Antonio ascoltava lo sciabordio dell’acqua del fiume contro il piccolo attracco del campeggio.
Dalla roulotte lo raggiungevano i rumori soffusi di Esmeralda in procinto di coricarsi, alle prese con un laborioso ingresso nel sacco a pelo.
Attraverso la tela trasparente della veranda poteva ammirare il profilo delle vecchie case contadine e della chiesa di Brugnello abbarbicate sul dirupo, stagliate contro il cielo illuminato dall’argento della luna.
Assaporò quella serenità, lasciandosi andare sulla tela colorata della sdraio, chiudendo gli occhi e giocherellando con la collana d’ambra tra le dita.
I passi nel vialetto, rimarcati dalla ghiaia, gli sembravano in perfetto stile per un romanzetto dell’orrore di quarta serie. Sorridendo aprì gli occhi e, in quel momento, la creatura lo guardò, due fiamme rossastre nelle orbite, un ghigno feroce di soddisfazione.
Antonio rimase immobile ma, con stupore, sentì di non provare terrore, quella creatura infernale gli era familiare. Cercò di afferrare la verità nascosta nella mente mentre gli artigli penetravano nella tela, lacerandola senza difficoltà. Le zanne gli penetrarono la gola e finalmente ricordò: “Morgana!”.
Aveva cercato di fuggire dal suo destino di magia, di vivere con Esmeralda un’esistenza da comune mortale. Erano stati anni stupendi ma ora Morgana l’aveva ritrovato e la creatura lo riportava oltre il confine, nei territori dell’Altra Dimensione, in Cornovaglia.
Merlino ritornava al suo ruolo, proprio mentre Esmeralda usciva dalla roulotte per chiamare Antonio.
Naturalmente non lo trovò.
Alzando lo sguardo verso il dirupo vide un corvo spiccare il volo e dirigersi verso la luna. Nel becco stringeva una collana d’ambra.
Il corvo sentì quello sguardo, si girò verso Esmeralda, lasciò cadere la collana ai suoi piedi e una lacrima di tenera dolcezza.
Lei si chinò a raccogliere la collana mentre tra la ghiaia, dove era penetrata la lacrima, spuntavano ranuncoli colorati, disposti come due labbra, a formare un sorriso.
In quel momento, dal punto più alto del campanile, un falco dalle lunghe penne gialle si lanciò all’inseguimento del corvo.
Esmeralda ne seguì le evoluzioni a seguire il tortuoso percorso del fiume su verso le sagome delle montagne finchè, uniti, il falco dalle lunghe penne gialle mosse dal vento e, al fianco, il corvo col becco giallo a franger l’aria, insieme scomparvero all’orizzonte.
Finalmente, stringendo la collana d’ambra al seno, Esmeralda pianse, ricordando gli anni di sogno vissuti con Merlino.
Stava scritto nel destino e lei lo sapeva fin dall’inizio: non c’è spazio per Amore in un mondo invaso da demoni guerrieri, Merlino non poteva negarsi al ruolo di messaggero di pace.
Pianse, Esmeralda, ma sapeva che le ore della notte sarebbero sia pur lente trascorse.
Non le restava che attendere l’alba del nuovo giorno.
Polvere. Niente altro che polvere. Strati grigi di polvere ovunque. Sui pochi mobili, sui pavimenti, sui davanzali, sulle scale, sulle lampade a petrolio. Oltre al silenzio. Rotto solo dal fruscio leggero delle foglie mosse dalla brezza nel boschetto confinante con la casa.
Una antica casa colonica. Abbandonata da tempo, da anni, almeno a giudicare dalle ragnatele tra i mobili di legno e, naturalmente, dalla polvere.
Virgilio, con grande attenzione, entrò guardingo spianando il mitragliatore a destra, a sinistra, verso la balaustra del piano superiore. La stanchezza di troppe ore in fuga cominciava ad emergere e quella casa seminascosta tra le foreste sui monti della Val Boreca, poteva essere un ottimo punto di appoggio per fermarsi, riflettere, decidere sul futuro immediato.
Nessun rumore. Stato di abbandono confermato. Rifugio.
La schiena appoggiata alla parete di quella che poteva essere la stanza da pranzo, la cucina di una vecchia casa contadina.
Le palpebre chiuse, lentamente Virgilio sentì il corpo scivolare, si ritrovò seduto, addormentato, con la brezza del vento leggero che dalla finestra s’infiltrava, sembrava accarezzargli il viso, quasi a placare stanchezza e sofferenza.
Dieci settembre 1943. Era in viaggio da 48 ore. Non appena la radio aveva annunciato la fine della guerra. Dell’alleanza con quello che era stato il nemico giurato da sempre. Rompete le righe. Il Re in fuga verso il Sud e l’esercito abbandonato a sé stesso.
Nessun dubbio. Aveva lasciato la caserma, raggiunto la stazione, preso il primo treno diretto al nord, per anticipare le mosse degli ex alleati che certo non avrebbero perdonato quel cambio di bandiera. Del resto inevitabile. Era stato un grave errore, allearsi con il nemico di sempre contro il quale si era combattuta la lunga epopea per l’affermazione dell’identità del paese: il tradimento dello spirito del Risorgimento! Un grave errore sulla coscienza del dittatore, finalmente spodestato.
Un viaggio col cuore in gola, ad osservare con apprensione i militari incrociati nelle diverse stazioni di sosta del convoglio. Quando sarebbe scattata la caccia ai militari italiani?
In una stazione minore, Arena Po, quasi al confine piemontese, pensò bene di non rischiare oltre. Sceso dal treno guardato con una certa curiosità dal capostazione, con decisione s’era incamminato verso le lontane montagne. Una marcia senza sosta. Fino alla casa contadina che ora lo accoglieva e gli consentiva un sonno ristoratore.
Dopo molte ore la luce del giorno e il canto degli usignoli lo riportò alla realtà e finalmente si dedicò all’esplorazione della casa. Polvere, ragnatele ma anche tanti oggetti, in ordine, come di una casa vissuta anche se da tempo (e si parlava, era evidente, di anni) non più usata. Un’abitazione povera, di grande razionalità, senza sprechi.
Al piano superiore trovò lo scheletro di un letto e, su un tavolino posto di lato, una statuina di cera che raffigurava una damina settecentesca abbracciata ad un soldatino d’avorio. Con delicatezza prese in mano la coppia. Un sottile filo tricolore legava i polsi delle due statuine. Virgilio sorrise.
Fu niente altro che suggestione o veramente venne afferrato nel vortice del tempo e dello spazio per essere reso partecipe della storia della damina e del suo amato soldatino?
*
La casa era viva, l’aria piena dei rumori della giornata di lavoro in campagna. Nella cucina tre donne preparavano i pani da lievitare. Dal cortile i richiami dei bergamini al ritorno dai pascoli dei vicini altopiani, mentre un cane abbaiava richiamando gli animali all’ordine, ai percorsi per ciascuno designati. La dura battaglia con la terra avara della montagna, in perenne lotta a contendere spazio alla foresta e ai sassi, il prezzo da pagare per essere padroni della propria esistenza. La terra (avara e spesso arida della montagna) ai contadini, ai lavoratori. La terra buona, quella della pianura, ai signori, ai padroni!
All’ombra del portico, nascosti tra le balle di fieno, la giovane Erminia affondava il viso nel foulard rosso del suo bel Cirillo e lasciava che calde lacrime lo inumidissero. “Ma non è certo colpa mia”, diceva lui mesto, avvolto nei tessuti un po’ arruffati della sua divisa garibaldina, la camicia rossa proprio da Erminia cucita con amore nelle notti dell’inverno appena passato. Ed ora, con l’arrivo della primavera, con la stagione che volgeva al bello, il generale aveva richiamato le sue truppe volontarie per una nuova campagna. Poteva forse Cirillo sottrarsi al richiamo della Patria, quella con la p maiuscola rappresentata da quel comandante che parlava con il linguaggio della gente comune? L’Italia agli italiani e le terre ai contadini. Le terre delle pianure, quelle fertili, per dirla bene! Fine dell’Italia dei padroni e dei gran signori, nell’avvento della Repubblica poteva starci anche un decoroso futuro per ogni uomo con la voglia di lavorare. Poteva lui, Cirillo, sottrarsi alla chiamata per costruire il futuro suo e di Erminia? Neanche a parlarne. Ma sarebbe durata poco, il tempo di vincere, di sistemare le cose, di rimandare a casa il nemico “e col generale, si sa, non si sta certo a perdere tempo, si combatte e si vince, giusto per ritornare al lavoro nei campi per il raccolto”.
Erminia aveva sorriso, mettendo il foulard umido al collo del suo piccolo contadino combattente volontario per un futuro migliore. “Ti aspetterò con ansia e, nell’attesa, confezionerò una bandiera tricolore per festeggiare il tuo ritorno e le vittorie che porterai”.
Anche Cirillo sorrise, infilando la mano nella sacca, estraendone una statuina d’avorio che raffigurava un soldatino d’una nazione indefinita. Un prezioso bottino, un trofeo raccolto sul campo di battaglia, sottratto ad un nemico caduto.
Il ricordo di una precedente campagna militare del reggimento asburgico in una colonia africana. Dove il soldato nemico vigilava sulla costruzione di un ospedale. Garantendosi la riconoscenza degli indigeni. Una riconoscenza resa tangibile da quel regalo prezioso. Poi il reggimento venne richiamato in patria, in Baviera e, da lì, inviato in servizio d’ordine nelle terre lombarde dove avvenne lo scontro con la banda garibaldina. Così il prezioso soldatino d’avorio passò di mano. Dall’indigeno che lo aveva intagliato al soldato asburgico in missione umanitaria. Dal soldato asburgico divenuto nemico occupante di terre d’altri, a Cirillo.
Ed ora dal fiero garibaldino alla bella Erminia come pegno per il ritorno.
*
Di nuovo Virgilio ebbe l’impressione di viaggiare nel tempo e nello spazio. Si ritrovò nella cucina della casa contadina.
*
Faceva freddo. Nel camino bruciava un piccolo tronco insufficiente ad affrontare i rigori invernali. Dalla finestra vedeva la neve, neve ovunque, tanta neve. Il comandante inverno era sceso dai monti alle pianure fermando il biondo generale dalla camicia rossa. I contadini volontari non erano tornati per il raccolto.
Erminia stava seduta, abbandonata sulla sedia, un braccio appoggiato alla tavola, l’altro a reggere la lettera. Incapace di reazioni. Incapace di piangere. La lettera che annunciava la conquista di un lontano paesino tra colline per lei sconosciute. Una battaglia eroica. Che come sempre le truppe volontarie del generale avevano vinto. Non senza eroi che non sarebbero tornati alle loro case. Eroi dei quali sarebbe rimasto imperituro il ricordo. Le lacrime. Le preghiere. Fino all’arrivo, inesorabile, dell’oblio definitivo, lo svanire del ricordo. Eroi sepolti lontano dalle loro case, dai loro cari.
Tra questi, Cirillo.
In silenzio la madre appoggiò una mano sulla spalla di Erminia per trasmetterle un conforto atteso ma senza reale speranza di lenire un dolore indicibile, infinito.
Il vecchio padre, interrotti i lavori nella stalla, restava in piedi, in silenzio, ammutolito, di fianco al camino.
*
Di nuovo, nel vortice del tempo.
*
Virgilio si ritrovò tra la gente nella piazza di un paese tra i banchi del mercato. Vestiti, stoffe, galline legate con la corda a gabbie di legno, carri con attrezzi per il lavoro, vitelli, il gran vocio delle contrattazioni e delle semplici informazioni di chi poi non aveva i soldi necessari all’acquisto di cose che ci si limitava a sognare. Riconobbe il padre di Erminia, con i baffi neri, indubbiamente molto più giovane, mentre contrattava per l’acquisto di una piccola statuina di cera bianca che raffigurava una damina in abiti da gran signora del settecento. No, niente soldi, in cambio offriva una forma di formaggio. Un sacrificio enorme. Ma per la sua piccola Erminia ne valeva davvero la pena. La bambina aveva già le sue bambole di stracci ma quella statuina sarebbe stata un dono preziosissimo. Il degno simbolo del suo orgoglio di padre.
*
Non aveva più lacrime.
Per giorni Erminia, attonita, era rimasta a fissare l’orizzonte lontano. Piangendo lacrime cariche di ricordi. Di sogni di un futuro che non sarebbe mai stato. Si avvicinò al letto. Al comodino dove nel cassetto teneva il soldatino d’avorio. Stringendolo con delicatezza nel pugno scese in cucina, dove teneva ancora la statuina di cera. Prese la bandiera tricolore che aveva intessuto attendendo il ritorno del suo bel garibaldino. La sfilacciò ricavandone un filo badando che fossero rappresentati il verde, il bianco, il rosso. Con quel filo unì i polsi della statuina e del soldatino d’avorio, li posò sulla badia, come fossero avvolti nella musica di un giro di ballo verso l’eternità.
Un’ultima carezza.
Quindi uscì nel cortile, seguendo i sentieri scavati nella neve, fino al ponte che attraversava il fiume. Lanciò uno sguardo al cielo oltre l’orizzonte. Lasciandosi scivolare nell’acqua e lentamente passare nella dimensione dove Cirillo di certo l’aspettava.
*
Un bagliore di luce arrivò agli occhi di Virgilio, seduto a terra nella cucina della casa contadina, con in mano la statuina e il soldatino ancora uniti in una danza d’amore senza fine. Un riflesso. Un riflesso del batacchio della porta. Il batacchio di bronzo. La porta d’ingresso era aperta e un raggio del sole di mezza mattina rimbalzava sul batacchio, gli colpiva gli occhi, lo riportò alla realtà. Fine del viaggio nel tempo e nello spazio.
Appena il tempo di intuire più che vedere la canna del fucile del soldato nemico che, entrando nella casa contadina, stava percependo la presenza del bandito seduto sul pavimento. Stava allungando il dito sul grilletto, alzando la canna nella direzione del bandito.
Hans. Lo stesso nome del bisnonno. Ucciso in terra di lombardia in un agguato teso da una banda di irregolari, di volontari, di garibaldini. Straccioni. Inaffidabili. Come tutti gli italiani. Traditori. Banditi.
Virgilio disperatamente rotolò a sinistra raccogliendo il mitragliatore e lanciando lontano la statuina di cera e il soldatino d’avorio. Il nemico sparò il primo colpo e per fortuna non aveva un mitragliatore. La pallottola scheggiò il pavimento, rimbalzò sulla parete mancando d’un soffio la gamba dell’italiano.
Tenendo il mitragliatore nella mano destra Virgilio, sdraiato a terra, riuscì a sparare una raffica verso la porta, proprio mentre Hans si tuffava a terra in avanti e contemporaneamente, come aveva imparato ai corsi di addestramento, ricaricava il colpo in canna del fucile.
Intanto il soldatino d’avorio, cadendo a terra, si ruppe in quattro pezzi, lasciando il braccio e un pezzo del tronco ancora legati al polso della damina di cera.
La sventagliata di piombo sparata da Virgilio mancò Hans ma una pallottola, rimbalzando contro il batacchio in bronzo della porta, ritornò nella stanza, colpendo la statuina di cera, decapitandola.
Il soldato tedesco, cadendo a terra, nonostante il dolore lancinante alle ginocchia e ai gomiti, tirò disperatamente il grilletto del fucile per anticipare il nemico. A quella distanza era impossibile sbagliare bersaglio. Partì il colpo ed inesorabile la pallottola entrò nel fianco di Virgilio andando a devastare organi vitali ponendo fine alle speranze del futuro.
La stessa pallottola, uscendo dal tronco di Virgilio, incappò nella bomba a mano che il soldato italiano teneva nel taschino della giacca. L’esplosione devastò la cucina della casa contadina. Le schegge furono fatali per Hans al quale non rimase nemmeno il tempo per ricordare le verdi pianure della sua Baviera.
Morì senza ah né bah.
Morì punto e basta.
Morì così in terra straniera.
Come il bisnonno.
*
Le mura, costruite troppi anni prima utilizzando il fango del fiume essiccato al sole, tremarono, l’equilibrio statico della vecchia casa contadina fu messo a dura prova.
Crollò il pavimento del piano di sopra.
Con un boato, mentre ancora si sollevava polvere, cedette il tetto.
La parete posteriore crollò a sua volta.
Così Hans e Virgilio, insieme ai pezzi della statuina di cera e al soldatino d’avorio, ebbero comune decorosa sepoltura. Invano cinghiali selvatici avrebbero cercato, con le zampe ed il muso cornuto, di scavare tra le macerie per procurarsi quel cibo del quale sentivano il profumo.
*
Lentamente la foresta ha ripreso possesso degli spazi rubati dall’uomo e le rovine della vecchia casa contadina sono ormai indistinguibili. Resta la natura, quella spontanea, con i suoi cicli di vita. Restano macerie e mura diroccate coperte dai muschi e dalle piante rampicanti. Tra le pareti ancora in piedi, la porta d’ingresso, ormai di legno marcio, il batacchio di bronzo che ad ogni alba si protende verso il sole.
In base alla posizione, talvolta riflessi portano raggi di luce tra gli anfratti ancora aperti nelle macerie. Disturbano il riposo del volatile che tra le macerie ha stabilito il nido e che, talvolta, infastidito, si alza in cielo. Senza dimenticare di portar con sé un ramoscello d’ulivo, forse nella speranza che quel benedetto sole, con i suoi raggi e i suoi riflessi, decida di restarsene in pace a casa sua.
Alzò la saracinesca del negozio di frutta e verdura, di faccia al monastero, al civico 12 di piazza Santa Fara, ammirando i colori del cielo e della vetta del monte che si stagliava alle spalle della torre campanaria di San Lorenzo.
Come ogni mattina prestò orecchio all’allegro vociare dei ragazzini in arrivo da vicolo Voltone, da cantone San Lorenzo, dal cantone del Castellaro, intenti a rincorrersi, a canzonarsi, ad intrecciare immancabili filarini, nel mentre si avviavano verso il quotidiano appuntamento scolastico.
Aveva appena preparato le cassette con le verdure fresche e Rosina era già sull’angolo, sotto il porticato del palazzo di fianco, ad aspettare: sempre la prima cliente della giornata, puntuale come un treno svizzero.
Mara s’allacciò il grembiule, “allora, Rosina, cosa le serviamo stamane?”
Non era un giorno qualunque, il suo Sergio quella mattina si presentava all’amministrazione dell’ospedale, per il suo primo giorno di lavoro.
Fattorino, con mansioni di aiuto al Ragioniere!
Era un bel risultato, un ottimo lavoro, ad annunciarlo in contrada San Giuseppe aveva sentito, percepito tra i vicini anche qualche invidia: il suo Sergio era a posto!
Una bella soddisfazione, dopo tanto penare.
Mamma e papà l’avevano accompagnata in paese ventanni prima, in gran segreto. Erano partiti alla mattina, dalla loro casa in zona golenale, in riva al grande fiume, a Roncaglia, approfittando di un passaggio in camion fino alla città. Da lì, in corriera, il viaggio che le era parso lunghissimo, due ore sulla strada che dalla pianura saliva in collina e infine si inerpicava tra i monti della valle della Trebbia.
Una fuga: non poteva più restare a Roncaglia, ormai per tutti era la donna posseduta dal demonio, una strega.
Una notte d’amore lunghissima, un regalo di Edmunda che l’avrebbe accompagnata per tutta la vita.
L’avevano sempre canzonata per via di quella gamba claudicante, quella gamba più piccola e più corta dell’altra, e certo lei non poteva sperare di far battere il cuore del bel Fausto.
O forse si, a ragionarci ora, potevano non significar nulla le risate di scherno dei ragazzini che sicuramente avevano, aldilà delle apparenze, ancor meno certezze di quante non ne avesse lei.
Ma, allora, quando si è giovani, ci si sente anatrocolli, si crede che l’unica bellezza che conta sia quella esteriore del cigno.
Forse, ragionando con la forza e l’esperienza dei suoi quarantasette anni, oggi farebbe la corte al bel Fausto, anzi si farebbe corteggiare, troverebbe il modo perché lui si capacitasse della voglia di stare con lei, ma allora aveva ventanni e poco più, allora l’incontro promosso da Edmunda, quella notte d’amore, una sola notte d’amore, le era parso il momento più alto che valeva una vita.
Si, la vita la valeva, perché da quella notte era nato Sergio, ma poteva essere tanto più facile.
Invece la fuga con i genitori, a nascondersi sui monti, dove non conosceva nessuno, dove nessuno la conosceva, e Sergio era diventato il figlio di un padre caduto nella sabbia della terra d’Africa, durante la battaglia del Tembien, nemmeno una tomba su cui piangere, misere ossa a consumarsi, a brillare sotto il sole inclemente.
Così l’avevano accettata, così aveva vissuto col suo piccolo commercio, vendendo i prodotti dell’orto e quelli che le portavano i contadini.
Anche in questo era stata fortunata. All’inizio erano molte le difficoltà, aveva i prodotti dell’orto, ma nessuno le portava nulla.
Un sorriso le cambiò la vita.
(Bobbio, 8 luglio 1944)
Era il sette luglio 1944, i nazisti e i fascisti avevano abbandonato il paese qualche giorno prima, di fretta e furia, tra urla, rombo di motori, richiami, soldati che saltavano sui camion, moto in partenza, camionette che sfoggiavano mitragliatrici da farti sbiancare e che finalmente se ne andavano.
Seguì il silenzio, quel silenzio carico di tensioni e di paure di un paese in attesa dell’ignoto.
Al silenzio dell’ignoto seguì il silenzio rotto dal soffuso rumore dei passi degli scarponi di quei ragazzi che arrivarono scendendo dalle vette, uscendo dal profondo dei boschi dove erano riparati. Anche loro, almeno alcuni, in divisa, vecchie divise non più assistite dalle furerie, divise da alpino, da fanteria, da carrista, perfino un marinaio, divise di un esercito che l’8 di settembre dell’anno prima era stato sciolto e i soldati abbandonati al loro destino da un Re vigliacco fuggito durante la notte oltre le linee del fronte. Molti di quei ragazzi furono catturati e deportati in Germania. Altri avevano scelto le montagne, avevano scelto di combattere contro i nazisti invasori.
Quel 7 di luglio, abbandonati i boschi dell’Alta Valle, presero possesso del paese, si accamparono, al silenzio fecero seguire urla di gioia, canti, bevute a non finire, mentre la gente guardinga se ne stava nelle case e solo dopo qualche ora i primi, coraggiosi, uscirono a fraternizzare: nasceva la “libera repubblica di Bobbio” e tra quei soldati, che i tedeschi e i fascisti chiamavano banditi, a passare la prima notte al riparo dei chiostri dell’abbazia, c’era Donato.
Veniva da Coli, una decina di chilometri più su tra le vette imbiancate e i boschi del verde perenne.
L’8 settembre del ’43 era a Cuneo, aveva indossato abiti civili e camminato, camminato, camminato al calar del sole, nascosto di giorno e a camminare la notte, tornato a casa e subito rifuggito, su nei boschi dove si formavano le prime bande di banditi.
All’alba dell’8 luglio, dopo una notte di festa, Donato fu disturbato da quella saracinesca che si alzava, ancora assonnato andò a vedere, ammirò i seni e i fianchi larghi e sorrise a Mara.
Furono mesi splendidi.
Lui arrivava, con gli scarponcini perennemente slacciati, il foulard al collo, la camicia militare aperta – del resto aveva perso i bottoni -, sembrava un divo del cinematografo, con un sorriso talmente splendente che forse bastò quello a metterla incinta.
Una coppia indissolubile e mentre conosceva la sua gente, la sua famiglia, i suoi amici, Mara, ammirando Donato che rotolava con il piccolo Sergio, poteva dirsi ad un passo dal sentirsi felice.
Della sua gamba più piccola e più corta, del suo andare claudicante?
Chi se ne ricordava più?
Lui l’afferrava per i fianchi e, ridendo, la sollevava, la faceva volare su, verso il cielo, pienamente, totalmente innamorata.
Pienamente, totalmente felice.
(Perino di Coli, 14 novembre 1944)
Arrivò il terribile inverno, arrivò l’ora del grande rastrellamento, la terribile Divisione Turkestan, le truppe mongole che riconquistarono la valle, spazzando via senza pietà tutti quei ragazzi.
Morti ovunque, morti in violentissimi scontri a fuoco diretti, morti senza più pallottole inseguiti negli angoli stretti delle strade tra le case di sasso, morti fucilati con le mani legate, morti imprecando, morti urlando, morti piangendo, morti invocando la mamma, morti colpiti alle spalle scappando, morti con odio, morti di paura, morti di dolore, morti sdraiati sul selciato a guardare verso il cielo, morti supini in piazza della cattedrale come a dormire mentre le tenebre dell’occupazione ancora stendevano il loro pesante velo tra i monti.
Donato era sceso a Perino, ai confini della libera Repubblica, sulle barricate che dovevano fermare l’orda corazzata.
Semplicemente, non tornò più.
E la gente della valle, da quel momento le si strinse d’attorno, Mara diventò una della Valle: il dolore rimaneva, ma la gente cominciò a far riferimento al negozio della Mara che aveva sempre i prodotti migliori da quelli di Coli.
(Bobbio, 29 settembre 1954)
Così Sergio cresceva, e oggi, oggi finalmente – Lei se lo vedeva -, oggi indossava la casacca di fattorino all’ospedale, con mansioni di aiuto al Ragioniere!
La Rosina non ci fece caso, ma quel giorno portò via le sue solite foglie d’insalata inumidite da una lacrima della Mara.
Una lacrima sfuggita a Mara nel mentre la sua piccola Sara arrivava correndo, scappando dai monaci della Biblioteca di Santa Fara.
Rideva, la Sara, rideva con gli occhi azzurri come le acque del fiume, riflessi verdi come l’erba dei campi dove aveva vissuto il suo papà che lei non aveva mai conosciuto.
Il suo papà, Donato, caduto per difendere il suo futuro, il futuro in libertà per la bambina, sua figlia, Sara, figlia di un grande sogno con Mara, che lui non aveva potuto vedere nascere, nella sua meravigliosa valle verde e azzurra.
Ormai al traguardo finale ‘la settimana della letteratura‘ proposta come ormai tradizione a Bobbio da Edizioni Pontegobbo, ecco l’occasione per una riflessione su un anno praticamente sabbatico rispetto alle mie personali ‘vocazioni letterarie’. Nessun progetto poetico se non quelle poche e marginali liriche (tre in tutto l’anno) scritte occasionalmente ma comunque nessuna idea per una nuova pubblicazione in versi. Di converso un’ottima idea per un futuro romanzo basato sulla raccolta di testimonianze d’esperienze vissute, testimonianze raccolte che giacciono nelle pagine delle mie agende ma non una riga di sviluppo che le renda avviate verso il risultato finale, nonostante il contatto di possibile interesse da parte di un ipotetico editore. L’ipotesi di una pubblicazione (anche a pagamento da parte mia, nelle intenzioni) da distribuire gratuitamente in occasione di un’ipotetica festa di commiatto dal lavoro (tra un paio d’anni, salvo riforme della Fornero, quota 100 eccetera), praticamente un ‘testamento’ politico-sindacale legato alla mia pur lontana esperienza in fabbrica, all’interno del gotha del sistema industriale italiano. Abbandonato in bozza a far polvere all’interno di una chiavetta USB. Una sola eccezione. Su invito di Fabio Martini la presenza di un mio racconto in “Micro e Macro. Racconti da un minuto e altre storie…“, Associazione L’Inedito edizioni. “Dicono siano dolci come il miele“, racconto in realtà scritto qualche anno fa dedicato agli anziani che, per motivi di salute, sono ricoverati nel reparto di geriatria come visto e vissuto nell’ospedale della mia città. Racconto che, per un attimo, ho accarezzato l’idea di trasformare in pubblicazione autonoma anche come omaggio al Primario del reparto. Ma alla fine, viste le scarsissime ‘dimensioni’ (3 facciate della raccolta pubblicata) anche questa idea si è arenata ed è stata abbandonata. Da citare anche “Il SIgnor sette per tre ventuno – Storie di Pietro Derba” (2017, Costa editore), da un lato grande soddisfazione per l’esaurimento della tiratura ma rimasto come esperienza un pò fine a sè stessa. Insomma, che succede? Mi ripeto: anno sabbatico, fase di transizione, impegni diversi, stimoli al momento assenti, attenzioni pricipali rivolte altrove, senza nemmeno si possa pensare a sesso, birra & Rock ‘n roll. Quindi? Non mi resta che invitare alle ultime due ultime serate di Bobbio dove tra l’altro potete trovare il mio ‘Il soffio del vento, da Chernobyl a Caorso trent’anni dopo‘ pubblicato nel 2016 con Pontegobbo, ad acquistare la raccolta con il mio racconto breve (cliccando qui) e soprattutto … il 13 e 14 ottobre tutti alla maratona poetica di 25 ore che, come mi ha appena comunicato Massimo Silvotti, si svolgerà a palazzo Farnese, a Piacenza e a questo appuntamento credo spero che avrò lo stimolo di non mancare. Altrimenti dovrò iniziare a preoccuparmi. Che la vena sia esaurita?
Ma cosa diavolo sta succedendo? Pietro mi guarda, si stringe nelle spalle, gli occhi tristi da triglia bollita. Doveva andare da Wilma, è già un po’ che se la fila ed oggi finalmente ci stava a studiare diritto pubblico dell’economia, ma ormai è troppo tardi, l’ora è fuggita via.
I portoni chiusi. E’ la prima volta. Il tempio della cultura, la cattedrale del sapere, del diritto, della libertà. Le cancellate del passo carraio chiuse. Non le avevo mai notate. Non più di tanto, almeno. Forse con distrazione, senza farci caso. Non le ricordo chiuse, ed ora, ora mi sento soffocare.
A volte le giornate hanno il colore della nostra anima, dei nostri umori, del nostro sentire. Sento il cielo scuro, plumbeo, opprimente, il peso delle catene, delle libertà negate. C’è da aspettare.
Fabio sta seduto sulla panca del giardino dove a volte si studia, a volte si parla, qualcuno amoreggia. Non c’è nulla da fare, il tempo è scandito da chi si è impadronito del nostro destino. Torno nei corridoi, nelle aule, nelle biblioteche che custodiscono gelosamente i volumi delle storie di secoli di lotte, di pensieri, di confronti. Silenzio. E’ sparito anche il bidello, Luigi.
Apro la porta dell’Istituto di diritto ecclesiastico, di lì s’arriva alle spalle dell’aula magna di Medicina. L’armadio è aperto, le toghe rosse aspettano la prossima sessione di laurea. Mi lascio tentare, guardo d’attorno, non c’è nessuno, ne sfilo una dall’appendino, l’indosso, è pesa, fa un certo effetto, la ripongo, non è cosa mia, per ora, domani chissà.
C’è da aspettare. Nel cortile saranno ancora venticinque o trenta ragazzi. Passano uno alla volta e per ciascuno ci vogliono quindici minuti buoni. Nei corridoi rumori di passi, qualcuno scende dallo scalone di Giurisprudenza. Lo sciacquio dello scarico di un cesso, si apre la porta, esce Marina, lo sguardo perso, forse spaventata, incerta, non capisce, ma cosa diavolo succede? Almeno la troveranno pulita. Peccato, troppi soldi gettati nel cesso ed è fatica procurarseli. Il babbo ha un negozio in piazza a Guastalla, sotto i portici, non si nuota nell’oro, è già un dolore spenderli per pochi istanti di viaggio, non bisognerebbe, ma così è, magari verrà un tempo che non si potrà sognare più e intanto così fan tutti.
Un’ora, due ore d’inutili domande, d’attesa senza perché.
Nell’aula Salvator Allende campeggia ancora la scritta “Evviva Furia, cavallo del west”, dedica speciale al magnifico rettore, chiarissimo professor, con l’augurio di cavalcare per tutta la notte fino a Durango: anche i rettori hanno un cuore, si racconta nelle notti buie all’ombra argentea d’una luna assente. Sarà poi vero? E intanto son passate più di due ore, mi si è fermato l’orologio, non si sa più cosa pensare, né a che santo votarsi. Ardua scelta tra Santo Antonio e Santo Domingo.
Ma alla fin fine arriva il mio turno, si apre il cancello, entro nell’androne, devo passare la sacca attraverso la seconda cancellata, mani sconosciute l’esplorano, la svuotano. Una consunta agendina tascabile con la copertina azzurra, regalo di Daniela, fazzoletti di carta per il naso e per pulire gli occhiali, l’immancabile fascia di stoffa perché non si sa mai, metti di trovarti nel bel mezzo di un lancio di fumogeni, il libretto universitario con i miei trenta (pochi) e il più basso, ventiquattro, un pacchetto di crackers, la biro, copia dell’Avanti! e di Lotta Continua. Il giornale sta morendo, rischia di finire un’epoca, dobbiamo sostenerlo, difendere un presente troppo breve, già confuso nella nebbia del passato, l’ha detto anche Riccardo Lombardi.
Mani nervose, sguardi d’apparente fermezza carichi di tensione, aprono la seconda cancellata, mi ripassano la sacca, raccolgo l’adesivo con il sole che ride, caduto a terra, nella polvere che arriva da lontano, portata dal vento, da luoghi ancora sconosciuti, Three Mile Island, Chernobyl.
Mani nervose richiudono la cancellata alle mie spalle, resta ancora una porta di sbarre, ancora un chiavistello serrato, ancora mani nervose che scrutano, indagano, cercano chissà che.
Ma cosa diavolo sta succedendo? Tre uomini con la fascia rossa al braccio, Confederazione Italiana Generale Lavoratori, un mostro sacro, devo alzare le braccia, grazie, prego, ma cosa diavolo sta succedendo? Scusi, vuol ballare con me? Grazie, preferisco di no. Silenzio, nessuna risposta.
Con lo stridio del ferro contro il ferro scorre l’ultimo chiavistello, l’ultima barriera. Libero. Le scarpe da ginnastica (marca rigorosamente sconosciuta, laboratorio di produzione artigianale democratico in gruppo cooperativo, banco del mercato domenicale di Carpaneto, che più conveniente non ce n’è) volano nella galleria per arrivare in via Mazzini, col fiato sospeso, col timore dei carri armati, di mitra spianati, la fine del mondo, la Rosa dei Venti, l’ombra nera d’una dittatura che dopo trent’anni ritorna ghignante ed ancor più feroce. Invece tram, gente in bicicletta, il viale lungo il fiume, viale Basetti a sinistra, viale Toschi a destra, oltre il ponte s’intravvedono le cime del verde del Parco Ducale, tutto normale, m’infilo da Filippo, ordino focaccia e mortadella. Da bere? Minerale, grazie. Ma non ho il coraggio di chiedere cosa diavolo sta succedendo.
Supero la Pilotta, oltrepasso Lettere e Filosofia, un elicottero bianco e blu continua a sorvolare le nostre teste, ma nessuno ci bada, si conversa al bar, ci si intrattiene all’edicola, un tizio paga il posteggiatore per ritirare l’auto. Nella vetrina di Franco Maria Ricci i libri in mostra sono sempre opere d’arte e via Garibaldi è sempre viva della solita gente. Un juke box racconta la storia disperata di Lilly. La solita banda suona il rock, un cavallo galoppa senza sosta fino a Samarcanda ad incontrare la nera Signora, Capitan Uncino s’azzuffa con Peter Pan. E allora, cosa diavolo sta succedendo?
Arrivo in stazione, è un po’ come tana liberi tutti, un sospiro di sollievo, m’infilo in sala d’attesa, il solito Lecce ha un abisso di ritardo (40 minuti ufficiali, segnala il tabellone, ma alla fine son sempre di più). Toh, han tolto la vetrinetta con le violette di Parma, non c’è più religione.
La signora seduta sulla panca di fronte mi guarda un po’ di sottecchi, forse non mastica bene Lotta Continua. Il giornale non morde, non mordo neanch’io, ma la signora se ne va. Con fretta composta raccoglie le sue cose, la borsa della spesa, la copia di Gente, se ne va nell’ombra dell’ultimo sole con un sorriso sul bel viso.
La guardo distrattamente uscire, un po’ seccato, e sulla porta appare la prima giacca blu con tanto di armi ed alti pennacchi (presi in prestito dai cugini dell’Arma?). Guardo agli altri due ingressi. Altre due giacche blu si appostano, si accertano che non abbia vie di fughe, e finalmente arriva Mangiafuoco in giacca grigia e cravatta, mi invita al ballo nel suo paese dei balocchi. Ma cosa diavolo sta succedendo? Una processione.
Mangiafuoco mi offre il braccio, mi accompagna al castello, due giacche blu alle spalle, una davanti, tutta la stazione mi guarda con gli occhi gonfi d’invidia, vado a raggiunger Lucignolo. Si, sono preoccupato. Rassegnato. Ma cosa diavolo sta succedendo?
Altre ore, facce di gente curiosa, documenti di qui, chi sei di là, ti conosco mascherina, solo in una stanza con troppi rumori d’attorno, un silenzio che t’assorda, un’altra ora, ancora due eppoi tre ore. A casa saran preoccupati, si, son preoccupato anch’io, vorrei capire, anzi, vorrei andare, rinuncio a capire, voglio solo andare.
Le ombre della sera hanno già avvolto le banchine e i binari, è l’ora in cui sono chiusi i bar e sembra morta la città, mi vien da piangere, sono ore che vorrei piangere, non ho più risposte, non ho mai avuto domande, la giacca blu che arriva con un sorriso stampato sul volto illuminato dalla lampada e l’etichetta in bella mostra Digos mi sembra una fata azzurra, sono magiche le parole che mi riportano sul treno, l’ultimo appena arrivato, poi avrei passato la notte in una città non mia, senza sapere dove dormire. Mi accomodo sul vecchio sedile di velluto, tra una bruciatura e l’altra: sigaretta per bruciare il tempo, qualche macchia di caffè, turutun turutun, sessanta chilometri di strada ferrata e finalmente le alte ciminiere dell’Enel, piazzale Marconi, mi accoglie la mia città, un marocco nero mi sussurra ammicante do you want fly with me?, casa dolce casa, si torna da mammà, ancora sveglia, fuori dalla grazia di Dio per questo figlio perso chissà dove.
Sono le due della notte del 17 marzo 1978, cosa diavolo è successo? Ieri, 16 marzo, le Brigate Rosse hanno rapito Aldo Moro, il gioco è finito, Furia non galoppa più, ci hanno azzoppato.
Ieri ho aperto gli occhi al nuovo anno, consapevole che l’anno precedente se n’era andato. Insomma, tra tortelli, vin bianco, cotechini al tartufo, panettoni e torroni, l’anno era cambiato. Ma attenzione, la straordinaria illuminazione! Improvvisamente s’è aperta la mente, mi sono reso conto che anche il mese, era cambiato. Non più dicembre ma ero nel mese nuovo, gennaio! Dunque, cambiato l’anno, cambiato il mese. E se questo succedesse tutti i mesi? Sarà questa la buona nuova che ci porteranno l’anno e il mese nuovo? Dunque a febbraio saluteremo questo 2017 e sarà 2018! Dalle finestre come tradizione getteremo i piatti vecchi e così a marzo, ad aprile, maggio, giugno. Nel 2023 che s’accompagnerà a luglio avremo la grande crisi, tutti i piatti finiti e, dopo un momento di sconcerto, sarà grande festa per tutti. Apriranno decine di fabbriche nuove, la produzione andrà alle stelle e tutti ma proprio tutti tutti avremo un buon posto di lavoro, i giovani potranno aprire mutui e acquistare auto e case, l’edilizia vivrà una stagione d’oro, Marchionne annuncerà nuove linee di produzione che riporterà nel BelPaese abbandonando i lontani Stati Uniti. E i tanti cocci? Nessun problema, s’impegneranno nelle strade a spazzolare gli extracomunitari nigeriani, gli albanesi, persino i romeni e gli slavi, i profughi e gli immigrati da ogni dove che col lavoro assicurato potranno ottenere cittadinanza senza nemmeno dover sposare attempate signore italiane alle quali a titolo di consolazione garantiremo crociere consolatorie nelle isole in mezzo ai mari. Insomma, che meraviglioso anno nuovo, che meraviglioso mese nuovo! Felice come la Pasqua che verrà, ieri a quel punto mi sono riaddormentato mentre dalla finestra vedevo lassù tra le nuvole spuntare una vecchia signora vestita di stracci in groppa ad una sfavillante scopa con un sorriso sul viso che pareva un ghigno divertito e, nella mano sinistra, una bottiglia di quel buon champagne col quale ho salutato l’anno nuovo che nella notte s’era presentato all’uscio di casa.
Passeggiavo con lui, my doggy, Akira, incrocio tra mamma setter di probabili facili costumi e padre ignoto, sospettato un pastore belga in occasionale passaggio al canile municipale. Lungo il tratto della statale ormai abbandonato da anni a favore di una percorso più adatto alle corse domenicali di centauri in vena di emulare i vari Valentino Rossi, non sempre soppesando nella giusta misura i rischi annessi e connessi. Da poco avevamo superato il cimitero realizzato sul declivio della collina, un paio di chilometri prima del paese, i defunti rivolti verso il fondo valle, a salutare e dialogare col fiume che, della valle, da sempre era centro della vita. Un legame indissolubile, tra valligiani e l’acqua azzurra che scorre lungo un percorso sinuoso molto suggestivo, ricorda l’ondulante movimento delle anguille. Me li immaginavo, tutti quei morti, ad uscire dai loculi nelle notti di luna piena, giocare a carte, far quattro chiacchiere cullati dal lento ma giocoso scorrere dell’acque e dall’ululato lontano di qualche lupo tornato a popolare i boschi dell’appennino. Ammiravo un gruppo di storni tranquilli tra i rami delle piante in zona di golena e più in basso, appunto ad altezza fiume, tre splendidi aironi bianchi volteggiare tranquillamente da una riva all’altra. La vista, passando oltre la torre campanaria del paese nascosto tra le frasche che ci separavano dalle prime case, si perdeva sulle alture appenniniche che rappresentavano l’alta valle e proprio da lì, improvvisamente, scavalcando le cime, balzò feroce quel cane, al can dal Diavùl. Le zampe protese, le unghie letteralmente sguainate come spade affilate, un ringhio feroce che sembrava tuono, le zanne sinistramente bianche sulle quali si frangeva e si spegneva la luce di un raggio di sole, l’ultimo raggio del sole che muore, le orecchie tese, occhi infuocati, non lasciò scampo alcuno. Balzò sull’azzurro cielo e ne fece sol boccone senza pietà alcuna. In breve, con l’azzurro agonizzante, montò rapido implacabile il nero, tutto fu oscuro, parve d’entrare nel mondo fatto di buio, il Regno del dolore, il Regno senza speranza. Gli aironi sparirono tra le frasche sperando invano in un rifugio, gli storni s’alzarono in volo fuggendo in stormo vociante, due enormi ratti (parevano marmotte) dalla lunga coda e dal pelo grigio scuro attraversarono la strada senza nemmeno guardarci, Akira abbaiò come un forsennato ma i due ratti entrarono rapidamente tra l’erba alta del vicino campo a foraggio, scavalcando il corpo d’una volpe dal pelo arancione con la testa spappolata dall’impietosa pallottola d’un cacciatore senza pietà. Un vento freddo spazzò le tombe del cimitero, creando mulinelli di foglie, vecchi gambi di plastica lasciati giusto per creanza da lontani parenti e rari petali di fiori che furon freschi ormai secchi rinsecchiti strappati dai vasi. Una bianca capretta, forse scampata alla ‘pulizia etnica’ decretata qualche tempo prima dalla municipalità che aveva disposto la caccia e lo sterminio delle sue oltre cinquanta consimili viventi allo stato brado libere anarchiche tra colline e balzi delle prime cime appenniniche brucando l’erba dei campi contadini senza alcun rispetto di limiti, confini e legittima proprietà privata. Quella capretta, tremante, terrorizzata, balzò fuori dal loculo ancora libero dai morti dove s’era rifugiata e, belando disperatamente, uscì di corsa dai cancelli del cimitero. Akira le abbaiò forsennatamente ma venne ignorato. Un vaso mal collocato cadde andando in frantumi e la terra, sparsa sulla tomba, venne afferrata dal vento unendosi al mulinello di foglie e petali di rose fresche che l’amante aveva lasciato a ricordo del compianto bene amato in clandestinità, deponendoli senza che la legittima consorte, nonostante appostamenti con tanto di robusta verga da utilizzare alla bisogna sulla schiena della fedifraga, fosse mai riuscita ad identificarla. Anche sulla strada il vento imperversò sollevando nubi di polvere che entravano negli occhi e sulle labbra umide con notevole disagio sia da parte mia che di doggy. Un uomo in bicicletta, vecchio medico in pensione, passò pedalando forsennatamente mancando per un nonnulla di investirci. Akira guaì, mi guardò cercando salvezza e protezione. Gridai a quell’uomo di fare attenzione, perdiana, ma era già sparito oltre la curva e comunque il vento disperdeva la mia voce e la polvere mulinante m’entrò in gola facendomi tossire forsennatamente. Akira, guardandomi, abbaiò. Ma che potevo fare io, contro quel maledetto can dal Diavùl? Tornare rapidamente sui nostri passi, mentre il nero del cielo muoveva roteando minaccioso, assumendo forme minacciose, quasi volesse allungare sataniche braccia nere, afferrarci, strapparci alla terra, trasportarci lassù, dove il nero è nero, più nero del nero dipinto d’oscuro, tipo fondo del pozzo più fondo del fondo. Col cuore che accelerava i suoi battiti e bastardi sassolini che entravano tra il piede e il plantare dei sandali monacali (invisi per evidenti motivi sia al Diavùl che al so can) accelerai al cader dei primi pesanti goccioloni. Blu scuri, blu tenebra. Arrivammo all’auto appena in tempo. Al can dal Diavùl, ormai nascosto dal nero che incombeva ovunque, che copriva le cime appenniniche alla vista, lanciando latrati agghiaccianti che parevano spezzare il mondo e facevano luce, chiamò a raccolta demoni e angeli dannati e tutti accolsero il suo invito urinando con gran goduria sulla valle. Proprio come mi raccontava mia nonna quando ero bambino e sulla campagna si scatenava il temporale ed io sinceramente di bagnarmi con quell’urina non ci pensavo proprio, mi faceva un pò senso ma per fortuna la nonna aveva un buon adeguato numero d’ombrelli protettivi. Al riparo con Akira nell’abitacolo dell’auto mi lascia sfuggire un sonoro “can dal Diavùl? Ma va cagher!”. Akira abbaiò a sua volta. Accesi il motore e ce n’andammo a gran velocità ignorando le chiome delle piante circondanti la strada che parevano volerci afferrare. In breve raggiungemmo lestamente la galleria che separava l’alta dalla media valle. Due mondi. Infatti oltre la galleria al can dal Diavùl non arrivava, aveva esaurito il suo slancio, non riusciva a superare quell’altura che gli si era posta di fronte. Il cielo era azzurro come sempre e tale sarebbe rimasto. Anzi, si stava organizzando, rafforzando e presto avrebbe lui, superato quell’altura. Quota 280 metri sul livello del mare, la Linea Maginot difesa dall’esercito del cielo azzurro, i Legionari del Cielo. Consultando attraverso il cellulare via internet il bollettino meteo appresi che presto tutto il cielo si sarebbe ricomposto, avrebbe ripreso possesso dei suoi possedimenti, cacciato a pedate nel sedere al Diavùl e l’ so can, al can dal Diavùl. Il sole redivivo s’affacciò con un largo sorriso, illuminò la nostra auto. Belzebù ancora una volta scornato, la bianca capretta tornò a rifugiarsi nel loculo vuoto del cimitero, tornarono gli storni, ripresero i voli i bianchi aironi. Un minimo d’attesa e presto anche noi, io e my doggy, Akira, saremmo tornati a passeggiare su quel tratto di statale da anni abbandonato!
27 aprile 2010. Come ogni mattina ti svegli, almeno si fa per dire. A passo lento, strascicato, ti dirigi verso il bagno pensando con rabbia a quanti anni ti mancano alla pensione. Fa’ ‘n culo. Sei stanco di assistere allo scempio dell’etica. Da parte dei tuoi stessi compagni. Dagli amministratori che in Emilia s’ammantano di sinistra, di giustizia, di equità e intanto prendono scorciatoie, assumono fuor di concorso e inondano di quattrini le mogli dei funzionari fedeli. Come meravigliarsi poi se la Lega ottiene consensi anche tra la tua gente? Ti guardi allo specchio, quel tuo viso invecchiato, affaticato dal tempo e dai tuoi errori, dalle tue illusioni soffocate dalle ragioni di chi detiene il potere e se lo vuole conservare costi quel che costi. Operazione uno, lavi i denti superstiti, se tu ci pensavi in gioventù ora ne avresti molti di più. Una bella rima di prima mattina in ù. Tua moglie, la tua compagna di vita, è già a lavorare, la sua sveglia suona poco dopo le cinque. Qualifica operaia, nessun regalo, nessuna facilitazione, nessuna raccomandazione. C0erenza. Pagando tutti i prezzi annessi e connessi. I tuoi figli dormono. Quello giovane due sere lavora in pizzeria e col ricavato, 50 euro brevi manu, vuole pagarsi la scuola di fumetto. Quello grande, laureato, per ora sputa sangue, dura la vita se alle spalle non hai padroni e men che meno padrini, di destra e di pseudo sinistra. Operazione due, col Gillette ti fai la barba, nessuna vergogna nel guardarti allo specchio, sull’ingresso del bagno s’affaccia il muso del tuo cane, espressione interrogativa, sarebbe l’ora della passeggiata mattutina amico uomo mi scappa la pipì. Merde, ti stava fuggendo via il tempo, sei in ritardo, anche per te vale la legge dell’orologio marcatempo. Squilla il cellulare. Lidia. Dovete chiudere entro la mattinata la relazione su quel fatto del laboratorio. Ma Valeria ha la febbre, niente asilo e Lidia resterà a casa, a Caorso. Lidia. Fa la mamma e il lavoro arriva dopo. Giusto. Il lavoro al servizio del vivere individuale, non viceversa. Di nuovo, il cellulare. L’altro, quello personale, quello che hai lasciato in camera, sul comodino. E’ sempre più tardi. Akira, il tuo amico cane, ti guarda, ti supplica, non ce la fa più, limite della tolleranza superato anche se lui, al suo amico uomo, perdona tutto. Ma la pipì non la contiene più. Risquilla il cellulare. Ancora in mutande, calzette blu e maglietta della salute corri in camera, raggiungi il comodino, clicchi sul tasto verde. Ferruccio. Ieri sera la fiaccolata a Caorso. Contro la politica energetica del governo, contro il ritorno al nucleare, tecnologia superata, obsoleta, ne perde il Paese ma ne guadagna l’imprenditore Berlusconi. Ma che ci capisci tu, che ne sai della ragion di Stato e di poltrona? Credi nella forza del vento, nell’energia e nella luce del sole, era naturale, logica, la tua presenza in corteo, ieri sera, alle 20.30, a Caorso, il paese della bassa a due passi dal Grande Placido Fiume, dalla più grande centrale nucleare italiana, vecchia, obsoleta, dismessa. Per ora.500 persone. Lo leggi in internet, mentre Ferruccio ti racconta, sulle pagine dei due quotidiani locali, ignorando gli uggiolii di Akira, steso sul pavimento. Non conosci i dati della Questura ma non te ne preoccupi, non hai mai avuto simpatia, per i questurini e men che meno fiducia nelle loro verità. Una bella serata, una fiaccolata, dalla piazza del paese della bassa lungo via Roma fino al ponte Chiavenna. Hai disertato. Era la sera del compleanno di tuo figlio, quello piccolo, quello da stamane ventiduenne. Dal ponte, ti dice Ferruccio, i bambini hanno lanciato fiori bianchi nell’acque del fiume, poi sono state lette poesie che ricordano Chernobyl, il disastro nucleare di 24 anni fa. Ad un certo punto è salito sul ponte un ragazzo pelato, non si sa chi fosse, Ferruccio non lo sa. Ma ha annunciato, dice, la lettura d’una tua poesia, di quella che racconta d’una landa lontana dove non volano più aironi bianchi, dove regna il silenzio del disastro radioattivo, 'laggiù ci stava un mare verde'. Chernobyl. E la tua poesia, scritta sette anni fa, poi pubblicata sul tuo primo libro. Ti gira un po’ la testa mentre velocemente t’infili camicia e pantaloni. Tu. Poeta. Nessuna scorciatoia, nessuna raccomandazione. Riconosciuto. Per le tue idee, per i tuoi valori. Ti gira un po’ la testa. Akira non resiste più, esci di corsa mentre lui s’affanna a tirare il guinzaglio allo spasimo, destinazione la prima pianta raggiungibile. Ancora verde, ancora viva, pianta denuclearizzata.