Federico I (Aliprando Caprioli, CC0, via Wikimedia Commons)
E’ molto probabile che questo fatto sia molto poco o per nulla conosciuto ai più, eppure è storicamente certo, con tanto di documentazione originale: l’imperatore Federico I, detto il Barbarossa, finiti i colossali incontri noti come Dieta, tenutisi nel 1158 nella piana ai “prata Roncaliae” – oggi Somaglia e dirimpetto al “loco qui Medianus Iniquitatis dicit” nell’ansa di Calendasco – passato il Po riprese la strada per il Piemonte.
Si parla di migliaia di persone al suo seguito alloggiate nel “tentoria” (accampamento), carovana che si muoveva con una certa celerità, ma fino ad un certo punto: c’erano i carri delle tende d’alloggio, i carri dei pali, i carri con gli attrezzi dei maniscalchi e falegnami, le cucine, le derrate alimentari, animali alla corda e tanto altro.
La grandiosa comitiva al seguito del Barbarossa, con personalità rappresentative del potere del tempo, si mosse passando sul solido ponte di barche nell’area di Cotrebbia oggi detta Vecchia e da lì puntò verso San Nicolò e poi Gragnano. In questa cronaca storica ci si attiene ai punti cruciali dell’episodio in questione, per ovvi motivi di sintesi e praticità.
Ma come si è a conoscenza di questa sosta di due giorni dell’imperatore vicino a Gragnano? Lo dimostrano ben due atti originali, uno conservato nell’Archivio di Stato di Siena e uno in quello di Firenze. Il primo è la concessione di privilegi alla città e popolo di Siena, scritto “in plano Grainyano iuxta Placentiam” (nella piana di Gragnano nelle vicinanze di Piacenza) il 29 novembre 1158 e firmato di pugno dal Barbarossa imperatore invincibile (signum domini Frederici Romanorum imperatoris invictissimi).
L’altro è una concessione e protezione per i frati benedettini del monastero di Vallombrosa, datato 30 novembre 1158 e anche questo scritto solennemente “in prato Grainyano” (nei prati di Gragnano). Per i lettori è giusto fare una specifica: con le parole in latino “in plano” come “in prato” si indicano delle vastissime aree mantenute incolte, cioè a prativo, usuale nel medioevo.
Si trattava di amplissimi spazi di soli prati demaniali, cioè di proprietà del Comune di Piacenza, e qui si potevano condurre al pascolo – previo accordi e a volte pagando un dazio – i propri animali, quali pecore, vacche, maiali, come documentato.
Ma questi luoghi, all’occorrenza, erano destinati per legge a ospitare qualche esercito di passaggio, amico o alleato di Piacenza: qui, infatti, c’era pascolo per i cavalli. Le terre erano servite da canali irrigatori per portare acqua e c’era lo spazio per piantare un accampamento di centinaia di uomini.
Federico Barbarossa riprese quindi il cammino il 1° dicembre, muovendosi dalla piana di Gragnano lungo quella che è l’attuale via Emilia Pavese, per accamparsi nuovamente, dopo tre giorni, in quel di Voghera.
La città di Piacenza in una particolare mappa del 1571
C’è un aspetto del Medioevo che è completamente all’opposto di quello che viene praticato nelle nostre moderne società: vivere la notte liberamente. Ci torna utile la pubblicazione degli “Statuta varia civitatis Placentiae” pubblicati a Parma nel 1860 dallo studioso Giuseppe Bonora, volume dal quale ricaviamo questa considerazione. Praticamente dal tramonto del sole e fino all’alba, nella società medievale piacentina, era proibitissimo avere una vita sociale fuori di casa.
A Piacenza città, al calar del sole, tutti avevano l’obbligo di ritirarsi nelle proprie abitazioni, ed il Comune “ab antiquo” aveva messo per iscritto queste regole, che poi vennero “ribadite” nel nuovo Statuto di Piacenza approvato il 19 agosto 1391.
Infatti sappiamo bene di più vecchie raccolte di leggi del Comune, ma queste sono promulgate da Gian Galeazzo Visconti, che dominava da Milano su tutto il nostro territorio e la città.
In poche parole: si viveva in un perenne coprifuoco, con obbligo per ogni cittadino di ritirarsi a casa, dalla prima ora del tramonto e così fino all’alba, e non solo era vietata la circolazione in città di persone e carriaggi, ma anche la navigazione sul Po.
La legge su questo argomento parlava chiaro: proibito circolare sia con un lume che senza e con o senza armi, chi veniva “beccato” in giro nella notte era subito arrestato.
Addirittura gli sgherri dovevano scrivere un “verbale” nel quale era obbligatorio specificare tre cose: chi fosse l’arrestato di notte, che tipo di abito vestisse ed ovviamente in quale circostanza venne trovato al momento del fermo.
Solo il giorno dopo, quando si sarebbe potuto verificare che in quella notte, a Piacenza, non fossero stati compiuti omicidi, incendi, danni vari, furti o violenze, lo si poteva rilasciare, ma gli toccava pagare una buona multa.
Così si legge nella regola su “De campana Placentie horis congruis pulsanda”, il Podestà la farà “pulsari” come consueto e “in aurora diei una vice” (all’alba una volta) mentre al tramonto “pulsetur ipsa campana xx” (la campana rintoccherà 20 volte) affinché tutti la sentano “et ad domum redire” (ritornino a casa).
E attenzione “nulla persona tam terrigena (cioè nata in loco) quam forensis (cioè straniera)” e di qualsiasi condizione, anche nobile “presumat ire de nocte” (ardisca uscire di notte) per dictam civitatem Placentie post sonum schille (dopo il suono della campana)”.
Va da sé che per alcuni il divieto non era valido, e nello specifico, la legge prevedeva la libera circolazione notturna per tutti gli addetti del Podestà, per i vari curiali, i notai in servizio ed anche per i familiari di queste persone indicate nella legge.
Solo al famoso “canto del gallo” all’alba, con il suono del campanone, la città avrebbe ritrovato la sua vivacità, dove ognuno poteva quindi riprendere le sue occupazioni, nell’attesa del tramonto e dei venti rintocchi annuncianti il coprifuoco.
Va da sé che nella notte piacentina, nei loro palazzi i nobili potevano liberamente darsi alla gozzoviglia e lo stesso valeva per il semplice cittadino, una volta chiuso l’uscio dietro di sé, tra le proprie mura ognuno se la suonava e cantava a suo modo.
Va da sé che nella notte piacentina, una volta chiuso l’uscio dietro di sé, tra le proprie mura ognuno se la suonava e cantava a suo modo.
Niente di nuovo sotto al sole: l’affitto di aree demaniali e il loro sfruttamento è una prassi antica, che già si praticava nel Medioevo piacentino. Ed è per questo indicativa la “Cartula investiture ad fictum” redatta dal notaio Homedeus Branca, il 21 dicembre del 1219 “in Placentia, in platea Sancti Iuliani”, cioè in città sulla piazza davanti alla chiesa di San Giuliano, oggi sconsacrata e ad uso privato.
Una cronaca storica che ci è restituita dal Registrum Magnum del Comune di Piacenza riguarda la concessione fatta da “Guido de Busti Placentie potestas” del fitto “imperpetuum” (per sempre) di un tratto del fiume Arda a Castellarquato.
Un certo Armannum de Vacca, abitante nel borgo collinare, riceve pieno diritto per lui ed “eiusque eredibus” (tutti i suo eredi futuri) di un tratto di “lectulo Arde a rivo Cavernensio qui est supra” fino al “pontem Arde subtanum de Castro Arquato”.
Gli è concesso il tratto a monte che parte dallo sbocco nel fiume Arda di quel canale e più giù fino al ponte, che ancora oggi è in quel punto, pagando annualmente alla festa di Sant’Andrea, il 30 novembre “duodecim denarios”.
E questo è il diritto che riceve: poter estrarre dal fiume “omnibus codanis” (tutti i sassi e le pietre che desidera) “in lectulo Arde”, quindi “omnibus pescibus” (diritto di pesca) e “omnibus lignis” (tutta la legna) che “fluxerint” (trasportata dall’acqua in alveo).
Ma non solo, gli è concesso dei “codanis, pisces et ligna” farne quello che vuole “omnem suam voluntatem faciat”, senza che nessuno possa fermarlo “sine alicuius persone contradictione”, insomma pieno possesso di qui beni.
È probabile immaginare che questo “investitore in affari” sia stato un commerciante di pietre e sassi, usatissimi nella costruzione di case, quindi vendeva il pesce pescato con grandi reti liberamente e ugual cosa faceva della tanta legna raccolta in alveo.
Gli venne messa una condizione: nel caso volesse vendere quest’appalto a qualcun altro dopo del tempo “communi Placentie requirere debet”, cioè doveva richiedere il permesso al Comune di Piacenza.
Un esempio medievale di affitto di un bene demaniale, da parte di un intraprendente e ricco residente di Castell’Arquato, quando tutto il distretto era governato dal podestà della città. Ed è logico pensare che questa sia stata una pratica in voga, anche i torrenti ed i fiumi del territorio erano infatti una buona fonte di reddito. Per giunta gli appaltanti davano a loro volta lavoro a tanti uomini del posto: un’economia a chilometro zero.
Umberto Battini alla presentazione del suo ultimo libro “Cronaca Storica Medievale Piacentina”alla Libreria Romagnosi lo scorso martedì 20 maggio.
Erano un cruccio per le autorità comunali piacentine del Medioevo. Parliamo delle vie di comunicazione e del loro completo controllo. Il nostro territorio ne contava ben tre importanti, più una strada “d’acqua”. La nostra cronaca storica è suffragata dal Registrum Magnum, dal quale emergono tanti documenti sull’argomento.
Avere il controllo su queste vie era cruciale e per vari motivi: riscossione di pedaggi, quindi introiti monetari cospicui, poi un’azione di “polizia” verso chi transitava, controllando passaggi di uomini in armi ed infine manutenzione stradale.
È ovvio che sul territorio ci fossero tante strade secondarie, anch’esse sempre attenzionate e mantenute – per il possibile – agibili in ogni stagione, soprattutto l’autunnale, dove le piogge potevano danneggiarle. Strade quindi inghiaiate alla meglio per evitare fango e buche profonde, nemiche delle ruote in legno dei carri.
La prima via era la Francigena (la franchi-ghena cioè generata dalla Francia) che “sboccava” al nord di Piacenza, varcando il Po in un passo di proprietà privata, di un monastero pavese di fondazione longobarda. Ma quel “portus Lambro et Placentia” già nel XII secolo è gestito su sponda emiliana, dal Comune di Piacenza che però dall’inizio del ‘400 lo darà in affitto a privati causa il suo declino.
La Francigena come tutti sanno, attraversa per intero la provincia ed era “un’autostrada” locale di forte impatto: mercanti, pellegrini, nobili del tempo ed eserciti amici, la percorrevano a frotte.
La seconda strada era quella della nostra Val Trebbia, che portava da Piacenza a Genova: basti ricordare che i nostri mercanti già dal 1150 usavano il porto genovese per esportare i nostri fustagni, pregiatissimi. Ma da quel porto arrivavano merci quali cotone da lavorare, pellami e prodotti utili ai tintori piacentini e quindi anche questa, strada cruciale.
E questo “caminus Janue” era però controllatissimo dai Malaspina, che imponevano le loro tassazioni ai carri di mercanzie in transito e per di più sappiamo che i pericoli di rapina, tra quelle montagne, era una cosa da mettere nel conto, si viaggiava scortati.
Per fortuna, un accordo di “pacis et concordie” fatto il 17 ottobre del 1200 a Bobbio (in territorio Bobii) e contenuto nel Registrum Magnum, tra consoli di Piacenza, Milano ed i marchesi Malaspina, ci fa sapere che vengono eliminati tutti quanti i dazi su questa strada strategica.
La terza strada era la romana Postumia, che arrivava nel nostro territorio da Tortona puntando su Castelsangiovanni e che però già in quel medioevo era stata ribattezzata “strata romea”. Praticamente la stessa cosa che facciamo noi oggi, infatti quella che sarebbe la dimenticata via Postumia è la trafficata via Emilia Pavese, che poi dal nord est cittadino punta su Cremona.
Ma una quarta “via” è quella fluviale del fiume Po: dal periodo longobardo al pieno medioevo, il governo comunale piacentino ha uno sviluppo economico micidiale proprio grazie ai dazi imposti ai naviganti: per fermarsi al porto, transitare o traghettare da sponda a sponda.
Questi erano i quattro principali percorsi di viaggio piacentini e l’attenzione che era messa sulla loro buona fruizione era un aspetto portante dell’economia cittadina e del territorio.
L’11 marzo 2011 alle 14.46 (le 6:46 italiane) un sisma di magnitudo 9.1, uno dei più intensi mai registrati sulla Terra, colpisce il Giappone. Meno di un’ora dopo, un’imponente onda di tsunami, alta fino a 15 metri, si abbatte sulle coste del paese, causando la morte di oltre 20.000 persone e danneggiando gravemente la centrale nucleare di Fukushima Daiichi. Ha così origine l’unico incidente nucleare, insieme al disastro di Cernobyl del 26 aprile 1986, a essere classificato come livello 7 della scala INES, il livello di gravità massima.
A 14 anni dal disastro nucleare, a Fukushima oggi è in corso un lungo e articolato processo di smantellamento del sito, destinato a durare decenni. Il governo di Tokyo ha fissato un obiettivo di bonifica tra i 30 e i 40 anni, pensando di poter chiudere le operazioni nel 2051, ma gli esperti hanno forti dubbi sulla fattibilità del piano, considerati i ritardi già accumulati.
Fukushima, lo tsunami e il disastro nucleare nel 2011
Quando l’onda dello tsunami si riversa sulla centrale nucleare di Fukushima Daiichi tre dei sei reattori, costruiti negli anni Settanta, sono in funzione, mentre un quarto reattore è utilizzato come deposito temporaneo per le barre di combustibile esaurito.
Il sistema di raffreddamento smette subito di funzionare, causando la fusione dei nuclei 1, 2 e 3 dell’impianto nei primi tre giorni, con diverse esplosioni e l’emissione di grandi quantità di radiazioni nei giorni successivi.
In reazione all’emergenza il governo istituisce una no fly zone di 30 km attorno alla struttura e un territorio di almeno 20 km di raggio viene evacuato.
Per raffreddare i reattori e stabilizzarne i resti nel corso del tempo si usa acqua di mare, che viene contaminata da livelli di radioattività tale da non poter essere rilasciata nell’ambiente. Si utilizzano così dei serbatoi di sicurezza da circa 1.000 metri cubi l’uno, via via accumulati intorno alla centrale.
Fukushima oggi: la situazione nel 2025
Nell’aprile 2021, considerando ormai esaurito lo spazio di stoccaggio, occupato da circa un migliaio di barili, il governo di Tokyo e TEPCO, la società che gestisce l’impianto di Fukushima, annunciano un piano per trattare e rilasciare l’acqua in mare aperto.
Il via alle operazioni di sversamento dei primi lotti arriva nell’agosto 2023. L’obiettivo non è solo liberare i serbatoi per lasciare il posto alle strutture dedicate al futuro smantellamento dell’impianto, ma riguarda anche questioni di sicurezza. In caso di un altro terremoto o di un altro tsunami, infatti, i barili potrebbero essere danneggiati e grandi quantità di acqua ancora non trattata potrebbero finire nell’oceano.
La procedura di purificazione, come spiega l’AIEA, l’Agenzia internazionale dell’energia atomica, utilizza un sistema avanzato di elaborazione dei liquidi, in grado di filtrare e rimuovere 62 radionuclidi. Tra questi non rientra il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno, considerato innocuo in piccole quantità.
Acqua da sversare, detriti da rimuovere
La concentrazione di questo elemento viene diluita fino a scendere a sotto 1.500 becquerel al litro, quantità ampiamente inferiore rispetto ai livelli che l’Organizzazione mondiale della sanità considera accettabili per l’acqua potabile (10.000 bq/l) e ancor più bassa rispetto al limite stabilito dal Giappone (60.000 bq/l).
Una volta trattate, le acque vengono smaltite nell’Oceano Pacifico attraverso un tunnel sottomarino, che termina a circa un km dalla costa, all’interno della distanza di 1,5 km entro la quale la pesca commerciale è proibita dal 2011.
Nell’anno fiscale 2023, che si è chiuso a marzo 2024, sono state rilasciate circa 31.200 tonnellate di acqua in quattro round, mentre per l’anno fiscale 2024, che si chiuderà a fine marzo 2025, sono programmati sette round per 54.600 tonnellate di acqua scaricata.
Dal settembre 2024 Tepco ha avviato anche un’altra fase del processo di dismissione della centrale nucleare di Fukushima, altrettanto delicata e ancora più ardua: la rimozione dei detriti di combustibile fuso. Dentro i reattori permangono circa 880 tonnellate di materiale estremamente pericoloso, che presenta livelli di radiazioni così elevate che Tepco ha dovuto sviluppare droni e robot specializzati in grado di operare al loro interno.
Il primo step ha previsto il prelevamento di piccoli campioni da analizzare per capire come smantellare in sicurezza l’impianto, in vista della definizione di un piano specifico.
Le ultime notizie da Fukushima
Le più recenti news da Fukushima riguardano lo sversamento delle acque in mare, che continua a suscitare preoccupazione tra le comunità di pescatori attive nelle vicinanze, ma anche tra i paesi che hanno coste potenzialmente interessate da eventuali conseguenze, come Cina e Corea del Sud.
L’ultimo report disponibile è relativo al mese di novembre 2024, che fornisce informazioni sullo stato dello smaltimento e sul monitoraggio della qualità dell’acqua di mare. I risultati ottenuti da TEPCO, e verificati sia dall’Agenzia giapponese per l’energia atomica (JAEA) che dall’AIEA, confermano un livello di radiazione dell’acqua campionata al di sotto dei limiti stabiliti dalle normative.
Sicurezza alimentare: i test sul pesce
Tra il 19 e il 21 febbraio 2025 si è tenuto uno dei monitoraggi aggiuntivi previsti dall’accordo raggiunto lo scorso settembre tra Tokyo e Pechino. In quest’occasione, come spiega il Ministero nipponico dell’economia, del commercio e dell’industria, il direttore generale dell’Agenzia internazionale per l’energia atomica Rafael Mariano Grossi si è unito agli scienziati della Repubblica Popolare Cinese, della Repubblica di Corea e della Svizzera per raccogliere campioni di acqua di mare vicino a Fukushima.
La Cina ha potuto raccogliere anche campioni di pesce, in modo da misurare la concentrazione di materiali radioattivi. Si lavora in questo modo alla revoca del divieto cinese di importazione di prodotti ittici giapponesi, emesso nell’agosto 2023, proprio quando sono iniziate le operazioni di sversamento.
L’Agenzia internazionale per l’energia atomica ha già condotto diverse analisi alimentari su sei diversi tipi di pesce, pescati al largo della prefettura di Fukushima, tra cui orate e passere di mare. La stessa Tepco conduce test in loco grazie ad apposite vasche di allevamento, anche su molluschi. Secondo i tecnici, i dati sugli effetti trascurabili del trizio sulla fauna marina sono confermati.
Fukushima oggi è abitata?
Infine, oltre agli aspetti economici e ambientali, quali sono le conseguenze demografiche e sociali del disastro nucleare di Fukushima? Il Grande terremoto del Giappone orientale, come viene chiamato il sisma dell’11 marzo 2011, ha lasciato profonde cicatrici.
All’interno della prefettura di Fukushima si erano registrati 150.000 persone sfollate, 41.000 delle quali nel 2020 non erano ancora rientrati nelle proprie case. Il distretto di Futaba, in cui ha sede la centrale nucleare, è stato colpito in modo particolarmente duro dal calo della popolazione, come scrive The Japan Times.
I comuni dell’area stanno cercando di escogitare misure per riportare i residenti o attrarne di nuovi. Un compito arduo, in un territorio che un tempo godeva di un alto tasso di natalità e di forti legami tra i suoi residenti, grazie alle stabili opportunità di lavoro fornite dalla centrale di Fukushima e dalle industrie correlate.
A tutela della popolazione il livello di radiazioni nell’aria attorno al perimetro della centrale elettrica viene monitorato regolarmente. L’impatto sulle comunità è ritenuto trascurabile, ma sono attivi sistemi per segnalare e gestire rapidamente eventuali peggioramenti.
Fonte: https://www.renewablematter.eu/
Nel distretto di Fukushima si sono registrati 150.000 evacuati. Secondo Rete Clima sono almeno 200.000 le persone a rischio tumore nei prossimi 50 anni.
Il beato papa Gregorio X nella cattedrale di Arezzo. Fu il 184° pontefice scelto dei 267 della storia della Chiesa. Convocò un concilio
Partiamo subito con due dati ufficiali: papa Gregorio X è stato l’unico pontefice piacentino ed è stato il 184° eletto al soglio dei 267 della storia della Chiesa universale. Ma in duemila anni di storia cristiana, appunto ad oggi ci sono stati “solo” 267 papi e quindi per Piacenza averne avuto uno, dovrebbe essere un onore grande, da tenere in considerazione. Quante città del mondo ed italiane, decisamente più grandi della nostra, non hanno la fortuna di annoverarne uno nella loro storia, e credeteci, pagherebbero per scriverlo nei loro annali.
Noi ci siamo accontentati di dedicargli una via cittadina, e qualche anno fa una artistica e stupenda statua opera di Giorgio Groppi che è esposta in Sant’Antonino. Nel 1651 una bella agiografia venne firmata dallo storico Pier Maria Campi. Qui tracceremo una breve cronaca storica di Tedaldo Visconti, alias il beato Gregorio X, cogliendo episodi della sua vita significativi, ma basandoci sul prezioso “Compendio” scritto dal prete piacentino don Pietro Piacenza e pubblicato nel 1876, in occasione dei 600 anni della sua morte.
Intanto scopriamo che a 27 anni Tedaldo “istruito nelle Teologiche e Canoniche discipline” venne preso a servizio dal cardinale Legato Jacopo da Pecorara per compiere le “Apostoliche Legazioni”. E così cominciò la sua carriera, pur non essendo ancora sacerdote, seguendo il cardinal Pecorara in Francia ed a Roma alla corte papale di Gregorio IX e poi di Innocenzo IV.
Nel 1242 seppur dimorante alla corte papale a Roma, venne eletto quale Vescovo di Piacenza essendo già da tempo arcidiacono di Liegi ma “giudicava troppo ai suoi oneri il peso dell’Episcopato” e vi rinunciò decisamente.
Nel 1245 assiste al primo Concilio di Lione in Francia, in compagnia dei più importanti rappresentanti laici e religiosi del tempo, finito il quale torna a Liegi e poi si reca a Parigi dove compie studi teologici universitari e fa amicizia addirittura con S. Bonaventura e S. Tommado d’Aquino.
Nel 1270 “desideroso di recarsi personalmente in mezzo ai crociati”, era in atto la cosiddetta Seconda Crociata, Tedaldo “veleggiò alla volta della Palestina” dove era il principe Edoardo d’Inghilterra, suo buon amico.
Ebbe modo quindi di vedere le battaglie “di Cavalieri Templari e Ospedalieri” e fu in quel periodo che nel settembre del 1271 “due Religiosi, uno dei Minori e uno dei Predicatori, come nunzi del Collegio Cardinalizio romano, recavano all’arcidiacono Tedaldo la notizia dell’elezione a Pontefice”. Potete leggerne l’avvenimento in un nostro recente articolo storico: è lui “l’inventore” della legge sul Conclave.
Leggiamo che “anche i Piacentini avvisati per lettera dal cardinal Ottobono, festeggiarono l’elezione a Pontefice del loro concittadino” e Tedaldo “prese il nome di Gregorio X in ossequio a S. Gregorio Magno a cui era devoto”.
Il 29 marzo del 1279, riportata per intero dallo storico Campi, scrisse una lettera “ai suoi diletti figli, il Podestà, il Consiglio e la Comunità di Piacenza”, e poco più tardi diede delle notevoli cariche a molti nobili piacentini.
Ad esempio, tra le tante storicamente documentate, fece Podestà di Benevento il nobile piacentino Giacomo Arcelli, ad Orvieto invece Jacopo Confalonieri, che era, notate bene, il padre del nostro S. Corrado nato nel 1290 a Calendasco.
Un uomo nettamente “guelfo”, cioè credeva nei valori del “Potere Temporale di Re ed Imperatori” ma come “Diritto derivato da Dio stesso”, cioè dal Potere Religioso esercitato dal papa vicario di Cristo in terra.
Indisse l’importante secondo Concilio di Lione e predicò lì una nuova Crociata: insomma un uomo sanguigno, che aveva assistito alle battaglie dei cavalieri crociati in Palestina, uomo vero e temprato del suo tempo, ma anche un teologo provato di sana dottrina.
Abbiamo toccato “di sponda” alcuni episodi della vita di questa papa di Piacenza, ma sarebbe opportuno ridare alle ristampe il prezioso “Compendio” dedicato al beato papa Gregorio X.
Una bella e tenace figura d’uomo, un bel “campione di piacentinità”, per dirla in forma forse campanilistica, ma indubbiamente efficace.
Non è una “bufala”: il conclave che eleggerà nei prossimi giorni il nuovo Papa è stato “inventato” da un piacentino, nato qui a Piacenza nel 1210 o giù di lì, così dicono gli storici. Si tratta di Tedaldo Visconti, figlio del podestà Oberto, di famiglia nobile e che fece gli studi religiosi per diventare diacono, nella scuola che operava nella nostra Cattedrale. Eletto Papa il 1° settembre 1271, prese il nome di Gregorio X, ma si insediò il 27 marzo 1272, pochi mesi dopo che fu scelto dai 19 cardinali riuniti a Viterbo.
In effetti la data del suo insediamento è anche quella in cui è consacrato vescovo. Fino a quel momento era solo un diacono e per questo, il 19 marzo di quell’anno, lo fecero anche sacerdote e così, ricevuti gli “ordini sacri”, salì al Soglio Pontificio.
Sulla figura storica del papa piacentino Gregorio X che è anche Beato, torneremo a tempo debito, nel pressante presente, dove ci sarà il Conclave cui sono puntati gli occhi del mondo, vogliamo mettere in risalto un dato di fatto: la moderna forma d’elezione papale l’ha inventata di sana pianta questo piacentino.
Dopo tre anni che il mondo era senza figura del papa, Tedaldo viene eletto mentre si trovava in Terra Santa e come detto, al suo ritorno si insediò ufficialmente divenendo il 184° Papa della Storia della Chiesa.
Come capo della Chiesa, durante il secondo Concilio di Lione da lui indetto, emanò una costituzione apostolica, cioè un atto diretto papale, il 16 luglio 1274, titolata “Ubi Periculum” (Dove è il pericolo) che istituiva le norme per eleggere il nuovo papa, e si badi bene, molte d’esse sono ancora in vigore.
Ad esempio tradotto dal testo in latino: “non sia permesso ad alcuno recarsi dagli stessi cardinali per parlare segretamente”, “chi agisse contrariamente, mandando uno scritto in segreto, incorra ipso facto nella scomunica”.
Si legge anche questo severo ammonimento ai cardinali elettori: “li scongiuriamo per il prezioso sangue che Egli (Cristo) ha sparso perché riflettano con attenzione sul loro dovere quando si tratta di eleggere il Vicario di Gesù Cristo, il successore di Pietro, colui che regge la chiesa universale e il suo gregge”.
Questa “Constitutio” venne anche osteggiata apertamente da qualche papa successivo, ma poi inserita nel Codice di Diritto Canonico da papa Bonifacio VIII nel 1298, venne riabilitata e resa legale ed efficacie, e naturalmente, nei secoli i futuri papi fecero delle modifiche a queste leggi.
Tuttavia il “cum clave” (con la chiave) mantiene molte regole del papa di Piacenza: entro 10 giorni della morte del papa i cardinali devono riunirsi, devono abitare in luoghi a loro comuni e isolati dal mondo ed altre norme.
Comunque anche il papa San Giovanni Paolo II confermò molte di queste antiche norme nel 1996 con la sua costituzione sul conclave, la “Universi Dominicis Gregis”.
Le norme per l’elezione del nuovo pontefice, come abbiamo visto brevemente, sono il frutto “celeste” del beato papa Gregorio X da Piacenza, le cui spoglie riposano nella cattedrale di Arezzo.
Gregorio X, il Papa che non era prete, protagonista del conclave più lungo della storia
Piacenza nel 1543 affresco in Santa Maria di Campagna
Molte delle regole d’amministrazione che ancora oggi si riferiscono al “decoro et ornamento di detta Città” di Piacenza sono lo specchio di pratiche già in essere in epoca farnesiana. Argomento di cui si era in parte trattato analizzando un decreto comunale di quel tempo, la “grida” datata 1° aprile 1595 con in elenco dieci nuove norme da seguire per costruire case e mantenere in ordine strade, fossi e canali cittadini.
Tra le altre cose, al punto numero sette della grida, si impone «alli muratori o altri simili operarii» che in nessuna maniera «debbano buttare a terra alcun vecchio fabbricato o casa e neanche “farne alcuna nova senza licentia d’esso officio». E anche non possono “detti muratori”, senza consenso dell’ufficio dell’Ornamento, rifare di nuovo le strade – «non debbano fare selegato de novo» – né rifarne una vecchia senza consenso, sotto pena di una multa.
Le stesse procedure con le nuove norme, si mettono in pratica anche per coloro che «si sono creati di novo cittadini», cioè quegli uomini del contado che venivano a vivere a Piacenza come residenti. Si riferisce l’abitudine per i “forestieri” che prendevano “licentia” di cittadini, di erigere le loro case senza badare tanto alla forma ed alle procedure.
Si rammenta che «tali persone alcune volte fanno le loro case sopra a strade e siti che poco giovano all’ornamento della Città», quindi è deciso che «tutti quelli che c’haveranno da fabricare tali case di novo» prima aspettino la visita e il beneplacito degli addetti dell’Ufficio della Politica dell’Ornamento, con penale di ben 25 scudi e la “demolitione” dell’edificio. E si avvisa che per mantenere «a serviggio publico» le mura, fossi e terrapieni difensivi «alla fortificazione di qua della Città», cioè dalla parte interna, non si potrà costruire nessun tipo di edificio senza «havere lasciato il debito spacio di braccia 60».
In pratica tra le mura e le abitazioni doveva rimanere uno spazio verde di circa trenta metri e nell’area più difensiva, dove erano le cannoniere («mura et ragioni delle canoniere») si doveva lasciare uno spazio di centoventi braccia, l’equivalente di circa sessanta metri.
Inoltre, «si commanda che niuno habbi ardire di cavare creta, giara, o altro terreno» dalle rive delle fosse e nelle vicinanze – con grave multa -, ma si fa presente che «quando sarà bisogno di creta o terra per murare» è permesso «andare a pigliarla nel fosso della Città fori la Porta di Borghetto o alla Fodesta vicino al Ponte». Regole che, tutto sommato, sembrano puntare al buon senso, dando alla città un assetto sul modo di edificare fatto con criterio, rispettando confini, strade e vicinato, senza per questo togliere al dominio ducale farnesiano le proprie luci e ombre.
Oggi, via Genova: dall’una casa all’altra “poco meno” di 30 metri
Sebbene Piacenza ne vanti più d’una, e alcune con un proprio antico oratorio, le Confraternite laicali religiose hanno avuto una buona diffusione anche in provincia. A farne un sintetico, ma efficacie resoconto, sia di quelle cittadine che del contado, è stato don Marco Villa con il suo “Confraternite laicali di Piacenza e Diocesi” edito dalla Banca di Piacenza nel 1998. È da questo lavoro che si prende spunto per tracciare l’elenco di quelle del territorio, tutte con una ricca storia alle spalle, ma purtroppo per questi tempi, ormai pressoché cadute nell’oblio e poco valorizzate.
A Borgonovo l’elenco ne indica ben quattro, tra cui la “Confraternita di San Pietro o del Gonfalone”, dedita soprattutto al culto mariano, già esistente nel XIV secolo. L’abbigliamento indicato era molto penitenziale: una cappa di tela molto grezza, praticamente di sacco, con una piccola altra cappa e cordone ai fianchi.
Segue quella dedicata a San Rocco, dove nel borgo venne edificato nel 1535 un oratorio devozionale a uso dei confrati laici, ovviamente qui si pregava per impetrare la sconfitta della peste, che nel 1524 imperversava potente. Vengono poi indicate la Confraternita “dell’Immacolata Concezione”, sorta nel 1600 e quella di San Giuseppe, con proprio Oratorio del 1611, ma demolito nel 1950.
A Pontedellolio ci fu la trasformazione di quella dei “disciplinati di San Rocco” del 1578 in quella detta “di San Giovanni decollato” nel 1660, con la propria chiesa ampliata nel Settecento, come appare ancora oggi.
A Vicobarone l’antica devozione a San Rocco spinse a creare una Confraternita già nei primi decenni del Cinquecento, poi ufficializzata dal vescovo di Piacenza Zandemaria nel 1661 e addirittura aggregata a quella di Roma nel 1663.
A Rivergaro il vescovo Rangoni nel 1613 approva quella di San Rocco, sempre unita con quella importante romana e i devoti iscritti insieme al loro cappellano, ebbero anche dei seri diverbi con il parroco.
Nel piccolo borgo di Rivalta, sul fiume Trebbia, dal 1726 era sorta la “Confraternita delle Stimmate di S. Francesco detta dei Cordigeri”, con particolare attenzione alle feste francescane. La veste dei confratelli laici era penitenziale: un vestito di sacco grezzo, con cordone grigio e un cappuccio calato sul viso. Si riunivano nella cappella dedicata a San Francesco che era nella chiesa del borgo.
A Fiorenzuola viene ricordata quella “della Morte e dell’Orazione”, con annesso all’oratorio anche un ospizio per pellegrini, d’antica fondazione; nel 1617 viene unita all’Arciconfraternita romana, e ancora nel 1789 distribuivano ogni giorno pane ai poveri. Sempre nella cittadina dal 1723 era stata fondata da un gruppo di devoti quella di “San Giuseppe degli Agonizzanti” e si riunivano per il culto nell’oratorio dedicato alla Madonna di Caravaggio.
Nel grande borgo di Cortemaggiore sono indicate due confraternite: quella fondata agli inizi del Cinquecento, detta “dello Spirito Santo”, con proprio oratorio, nel tempo abbattuto per ricostruirvi quello intitolato a San Giuseppe. E per la redenzione degli schiavi caduti nelle mani dei turchi nel 1681 nasce la confraternita “della Santissima Trinità o del Riscatto”, con sede nell’oratorio di Santa Maria delle Grazie.
Che l’espansione di questi sodalizi religiosi sia stata molto più ampia, è un dato di fatto, ma intanto l’aver messo l’attenzione su alcuni di questi porta a riflettere sulla realtà odierna; nel Piacentino le confraternite laicali restano come piccoli baluardi, difficilmente valorizzate e fuori dai radar della vita d’ogni giorno.
I dazi servivano anche per pagare gli operai che ripulivano il fiume dai tronchi che ostacolavano la circolazione delle barche
Nel Medioevo c’era un attivo Magistrato Camerale qui a Piacenza, che per la “Longa del Po”, regolava la navigazione e cosa primaria, l’imposizione di dazi alle imbarcazioni. Abbiamo messo l’attenzione su di un documento emesso a Piacenza il 22 gennaio del 1753 che imponeva nuovi dazi da versare “nelle mani del sig. Capitano Tenente del Bergantino del Po, Pietro de Paoli”.
Praticamente c’era una imponente circolazione di imbarcazioni con mercanzie varie e per i vari attracchi, come era consuetudine, ci si affidava a poderosi tronchi infissi nel fiume. Ce ne erano veramente troppi, molto pericolosi per la stessa navigazione e per questo si decise di toglierne dal letto del fiume un buon numero, ma per fare questa operazione, ovviamente, bisognava pagare gli operai.
Si legge infatti che “resta impedita la navigazione, da quantità di colonne, che sono infisse nel letto di detto fiume, quasi dirimpetto al fortino di Fodesta”, e per questo si decide “lo sgombramento di esse colonne”.
Come è da sempre risaputo, la medicina la paga il malato, e quindi si decise, in accordo però con i “Paroni” delle navi, che erano i proprietari piacentini di barche ad uso lavorativo e mercantile, di istituire dazi maggiorati.
La nuova tassazione sulla navigazione è fatta dopo avere “sentita l’Università de Paroni” cioè l’associazione dei padroni di imbarcazioni soprattutto mercantili da trasporto, quindi pagano “tutti quelli che tengono legni navigabili”, sia piacentini che forestieri.
Scopriamo che sul Po vi erano grandi “rascone” cioè zatteroni governati da quattro rematori, con poco pescaggio, quindi naviganti anche in acque basse e con grande quantità di carico.
Addirittura si tassa “ogni cerano proveniente dal Lago Maggiore”, i “cerani” erano queste grandi barche da carico, che scendevano lungo il fiume Ticino, toccando Pavia, fino al Po, direzione Piacenza, Cremona ed oltre verso Venezia.
Si fa però presente che “tutti quelli hanno e tengono nelle acque piacentine legni navigabili e che non sono soliti condurre mercanzia né altro” saranno tassati solo una volta all’anno.
Tutti gli altri, sia piacentini che forestieri, “saranno tenuti al pagamento della tassa ogni qual volta passeranno con i loro legni carichi, sia per andare all’in su, come per l’andare a seconda dell’acqua”, non pagando quando navigano vuoti. Questa nuova tassa, come detto voluta per pagare le spese per togliere le colonne non più utili infisse nel Po, è deciso che “dovrà cessare una volta raggiunta la somma di denaro, che occorre per eseguire quanto sopra”.
Tutto sommato un buon esempio di amministrazione fluviale. Siamo nel tempo nel quale reggeva Parma e Piacenza il duca Carlo III di Borbone, figlio di Elisabetta Farnese. Ed il Grande Fiume ancora una volta ci mostra una vitalità economica molto forte, una importante fonte di reddito per tanti piacentini, esperti ed apprezzati barcaioli.
Il decoro cittadino, per chi amministra, è una questione sempre all’ordine del giorno. Per questo è interessante andare a vedere tra vecchie scartoffie per comprendere in che modo s’affrontava la cosa nel tempo del dominio farnesiano.
Ci è tornato utilissimo un “bando et crida da essere osservati qui dentro la Città, et per qual si voglia persona”. Queste norme per la manutenzione sono datate 1° aprile 1595. Sono emesse dal governatore cittadino e dai deputati all’Ornamento, per regolare il modo di costruire, riparare e mantenere in ordine strade, selciati, ponti e volte dei rivi.
Questa “Crida sopra le strade et fabriche della Città di Piacenza” è suddivisa in 10 punti, ben articolati e descritti, ma la nostra lettura sarà centrata solo su alcuni aspetti, per ovvii motivi di sintesi.
Intanto leggiamo che buona parte delle strade cittadine erano selciate “selegate”, cioè con sassi di fiume (da qui il detto “piasintein dal sass”), ed allora si ordina “et comanda che tutte quelle persone che c’hanno i selegati rotti dinanti alle loro case” facciano le riparazioni opportune a loro spese.
Il problema era che i sassi col tempo e per il fatto dei passaggio anche dei carri, venivano divelti e si creavano buche, larghe e profonde, e per questo ognuno, per quel che riguardava la strada dinanzi la propria abitazione, era tenuto a ripararla.
Al punto 2 addirittura “si ordina et commanda che si debba salegare tutte le strade della Città” affinché “si possi commodamente caminare per la Città”. Facendo un paragone, è quello che succede oggi, quando le strade cittadine godono di un’asfaltatura ormai “allo stremo” con buche fastidiose e meritevoli di rifacimento.
In quel tempo la città era costellata da canali e rivi di varie dimensioni e per questo si ordina “di raconciare li ponti, volte, boche, et murelle de quadrelli, et fatti in calcina” ed ovviamente a spese “gli conducenti dell’acque” cioè dei padroni dei canali.
Curioso questo ordine: “ogni persona qui dentro la Città debbano portare via dalle strade et piazze” addirittura dei “monti di terra, legnami, ledami (letame) et altri simili”.
Le strade erano sia in “sasso” che “in quadrelli (mattoni)”, e quest’ultimi ovviamente più delicati, però posti in punti laterali, infatti si fa presente che “carattieri (carretto a due ruote trainato da un animale o da un uomo), barozzeri (biroccio a due ruote) et carochieri (carrozze)” purtroppo “non si contentano d’andare sopra gli selegati de sassi” ma passano “sopra gli selegati di quadrelli”, spezzandoli. Ed ovviamente il danno era ingente, per questo si decide una multa imponente di ben “soldi venti”, ma tutto questo succedeva anche “per la strettezza della strada”, quando si incrociavano ad esempio due “barozzeri”.
Questa in sintesi, è la prima parte di questo importante documento originale, che ci fa comprendere modi, forme e maniere per mantenere “l’ormanento cittadino” nel ‘600, purtroppo però, gettando sul groppone del cittadino le spese vive.
Da sinistra: Federico Scarpa, Giordano Persicani, il sindaco Trabacchi, Stefano Pareti e Marcello Vittorini
Fra pochi mesi saranno trascorsi 50 anni dalla elezione il 26 luglio 1975 della Giunta comunale di Piacenza, presieduta dal sindaco Felice Trabacchi. Mi si consenta un ricordo, anche perché ero presente in quella Giunta e voglio raccontarvi della mia esperienza.
Il giorno dopo quella data, Libertà dedicava la seconda pagina all’avvenimento “Trabacchi nuovo sindaco di Piacenza”. Ciò avveniva dopo la lontana esperienza di Giuseppe Visconti ed Ettore Crovini nell’immediato dopoguerra. Più in basso un riquadro era intitolato “Chi è il nuovo sindaco”. Da chi era composta la nuova Giunta? Da sei assessori comunisti (Silvana Rossi, Luciano Beltrametti, Renuccio Tirelli, Giorgio Cavazzuti, Pierangelo Solari e Carlo Jotis), e da sei assessori socialisti (Bruno Villa vicesindaco, Alessandro Milani, Stefano Pa-reti, Francesco Gazzola, Federico Scarpa e Luciano Pallavera).
Il sindaco Trabacchi, nel suo discorso di insediamento, (non si trattò di un vero e proprio discorso programmatico, che avrebbe tenuto in una successiva riunione consiliare), affermò che “il tema principale della nuova amministrazione sarebbe stato quello della partecipazione dei cittadini che sarebbero stati ascoltati e avrebbero potuto far ascoltare la loro voce attraverso i comitati di quartiere” oggidì e da tempo ormai soppressi. Disse inoltre: “Potremo anche sbagliare in qualcosa, fare una strada in meno, non rettificare una curva, non costruire un marciapiede, ma su un punto siamo sicuri che non falliremo, quello della partecipazione”.
L’anonimo redattore del quotidiano cui era stata affidata la presentazione del nuovo sindaco e di quella storica seduta consiliare, commentava: « …Trabacchi è sempre stato eletto in Comune dove si è distinto per la sua oratoria logica e stringata nella quale l’ironia e la battuta hanno una notevole parte».
Crisi occupazionale: i casi Jole e Arbos
In realtà il problema che più tenne occupata la nuova amministrazione fu quello della crisi economica e occupazionale, dapprima con la fabbrica Jole di via Torta n. 7, che Trabacchi requisì per 15 giorni onde garantire e conservare il posto di lavoro alle 43 dipendenti. L’azienda era in una grave situazione debitoria verso le banche, l’esattoria comunale e la stessa Previdenza sociale. La requisizione era avvenuta con i poteri previsti dalla Legge 20 Marzo 1865 n. 224, fino al 30 settembre.
Questo atto aprì anche un contenzioso con la Prefettura perché il Prefetto respinse le tesi comunali negando che per il provvedimento esistesse l’urgenza richiesta dalla legge per un simile intervento eccezionale, che rientrava semmai nelle competenze del Prefetto.
La replica del Sindaco al Prefetto ribadiva che la norma invocata nel provvedimento “ non ha indicato uno, bensì due organi legittimati al suo esercizio…”.
Ancora più grave fu il problema Arbos, considerato che mentre proseguiva il caso Jole, il 26 settembre 1975 l’azienda, da qualche anno di proprietà della White Spencer Mieras, aveva inoltrato ai propri dipendenti “440 lettere di licenziamento”. I sindacati subito intervenuti chiesero di conoscere le motivazioni di quell’atto e presero contatti con le autorità locali, le forze politiche, i parlamentari e la Regione Emilia Romagna.
La crisi aziendale dell’Arbos si sarebbe conclusa solo il 10 febbraio 1976, con l’acquisizione da parte dei fratelli Magni. Alla vertenza prese parte l’intera comunità piacentina di città e provincia, con il Comune di Piacenza in prima linea, negli incontri, nelle manifestazioni e nei dibattiti. Per tutta la nostra Giunta, sindaco Trabacchi in testa, era ormai un secondo lavoro perché dovevamo svolgere contemporaneamente i compiti istituzionali e seguire le gravi vicende di un’azienda che la città aveva nel cuore.
Il programma della maggioranza
Libertà del 18 dicembre 1975 dava conto di una seduta fiume del Consiglio comunale, con ondata di critiche della minoranza al programma presentato dalla maggioranza. Si distinse un affondo del capogruppo democristiano Nerio Ghillani (ex sindaco) che liquidò l’elaborato della Giunta con le parole: « …, questa bozza di programma non è altro che un barile di aria fritta!».
Gli rispose da par suo Mario Cravedi, capogruppo del Pci che auspicò una larga intesa democratica e una diretta partecipazione dei cittadini al governo della città.
Di Felice Trabacchi vorrei ricordare come lo descrisse Luciano Beltrametti, assessore ai Lavori Pubblici: « Era un uomo che sapeva ascoltare la gente. I cittadini gli erano molto vicini».
Da parte mia ho devo ancora oggi rilevare che una sua caratteristica era quella di non prendere sotto gamba le ragioni dei cittadini, fossero essi lavoratori o imprenditori, commercianti o disoccupati, artigiani, eccetera. Non bastava che i suoi assessori dessero una risposta burocratica, perché anche una richiesta inaccoglibile poteva dar luogo a spunti o idee da tenere in considerazione nel futuro, sempre nell’interesse della città. Quello di Trabacchi era il volto gentile del potere perché era il sindaco dell’ascolto.
Dialogo
Ma era anche il sindaco del dialogo, che non scendeva mai a compromessi di basso profilo. Il discrimine per lui era l’interesse pubblico che doveva sempre prevalere su ogni interesse personale.
Fu anche come dicevo sindaco della partecipazione, che lui coniugava in modo aperto, non limitato alle sedi istituzionali ma estesa ad ogni possibile luogo di incontro e di confronto: nelle fabbriche, nelle parrocchie, nelle cooperative, nei circoli sportivi, nelle sedi delle associazioni private e in quelle culturali, con i comitati spontanei: ovunque ci fosse una possibilità di dialogo e di ascolto, aderendo ad ogni piega della vita associata piacentina.
Volle condividere dall’inizio fino alla conclusione la vertenza Arbos, destreggiandosi tra lavoratori e sindacati, tra imprenditori e funzionari pubblici, intervenendo a tutte le assemblee di fabbrica e facendone argomento di una seduta del Consiglio comunale e partecipando con tutta la Giunta alla cena di fine anno nella mensa aziendale, in un momento di grande incertezza e preoccupazione. L’anno nuovo, il 1976, avrebbe poi portato quella soluzione che tutta Piacenza attendeva.
Concludo ricorrendo ad una espressione singolare cui il sindaco Felice Trabacchi ricorse in un Consiglio comunale, che lasciò stupita l’assemblea: « Bisogna che questa iniziativa sia slatentizzata». Il consesso ne imparò il significato: sia fatto emergere ciò che è latente.
Grazie, Felice. La tua lezione e il tuo esempio sono sempre attuali, anche per le nuove generazioni. Come già dissi al termine di una tua celebrazione a cura di Cittàcomune: hai convissuto con il potere senza lasciartene sedurre.