“Letti, lenzuola e vacche: le richieste piacentine al duca Francesco Sforza”, contenziosi del 1452 ai quali il duca di Milano rispondeva per risolvere la situazione. Ricerca a cura dello storico Umberto Battini pubblicata ne ILPiacenza.it

Un ordine di Francesco Sforza

Sono curiose le lettere di ricorso per varie cause, rivolte al duca di Milano, Francesco Sforza, dai piacentini, alle quali poi seguiva una risposta. Tra le migliaia di lettere inviate dallo Sforza a Piacenza per decisioni su istanze varie ed eventuali, ne abbiamo estrapolate alcune tra quelle più fantasiose. Stiamo parlando, in questo caso, dell’anno 1452 e tanto basta ed avanza per farne una selezione. Anzi, già è curioso il fatto che il duca si prenda la briga di risolvere di persona alcune “beghe piacentine” che fanno quasi sorridere. Di prassi anche a quel tempo si “passava” per il tribunale, ma alcune cause venivano risolte dal duca in persona, che ne dava una sua lettura. Sono davvero migliaia le lettere su fatti piacentini ben conservate nell’Archivio di Stato a Milano. Scrive nel 1452 al luogotenente di Piacenza di far pagare ai “nostri homini d’armi” il prezzo di “un bove et una vacha” che erano stati rubati a un certo “Guglielmo Malaraza”. Il 9 maggio ordina che a “Iohannis Fulgosii” sia da tal Francesco restituito il letto che gli aveva rubato “restituendo dicto supplicanti lectum”. Lo stesso 19 maggio addirittura ordina al “dilecto potestati nostro Placentie” di liberare il “fiolo de Finogio”, cioè il figlio di tal Finogio che aveva “furato uno linzolo”, rubato un lenzuolo che sarà restituito al proprietario. Altra missiva del duca Sforza ordina, sempre al Podestà di Piacenza, di dargli notizie precise sul “detenuto Alberto da Groppo” che “fu trovato in tempo de nocte che l’era intrato in casa d’uno dei cittadini” per rubare. Con altra lettera d’ordine stabilisce che “misser Iacomo da Piasenza nostro famiglio” abbia riscossione di dazi in “Cropparello”, cioè Gropparello, ma non gli sia dato “el datio del porto de Trebia” che rimarrà di proprietà ducale. Con un ordine del 7 settembre 1452 stabilisce che “il cavaliero messer Otto da Mandello” non abbia più da un certo “Ihoanni de Mediolano abitante in Caorso” il taglio per dispetto del legname dei boschi “per dispecto gly fai tagliare el ligname suo delli boschi de Caorso”. Nel febbraio di quell’anno esige una indagine sugli uomini di “Gragnano Soprano, Gragnano Sottano, Campo Remoto sottano (Campremoldo di sotto) e Casalechio (Casaliggio)” perché hanno ucciso un famiglio di un uomo d’armi. Ordina “che per modo alcuno tale apto passi impunito” oltretutto gli uomini di quei luoghi “sonarono la campana ad martello et fecero cohadunare tucti li vicini circumastanti”. Addirittura con altra missiva il duca ordina al Podestà che Giacomino e Castellino “fratrum de Corvis” cioè due fratelli “abitatorum ville Quarti” abitanti a Quarto in diocesi piacentina, siano assolti e non paghino nessuna penale per i loro porci. Infatti erano accusati dai piacentini di tenere “ob certum numerum porcorum” cioè tanti porci oltre ciò che legalmente era stabilito negli “statutorum civitatis eiusdem nostre” ma per il duca non aveva più vigore quella legge particolare. In agosto manda un ordine perentorio addirittura al vicario vescovile di Piacenza con il quale lo ammonisce di non vietare ad alcuni frati di mendicare in città e nella diocesi. Infatti il vicario del vescovo aveva proibito “più in Piasentina, che in li altri loci” ai frati “questori per la casa de Sant’Antonio, de San Bono, de San Bernardo, de Sancta Maria de Roncivalia, de San Iacomo et de Sancto Spirito” le loro “questue in quella diocesi de Piasenza”. Nel caldo luglio ordina al Podestà di ridare al condottiero “Bivilaque da Verona” tutte le “vacas ex vacis” cioè le tante vacche presegli da un certo Bassano Gobbo e Giovanni del Meno, ed anzi ordina pure di rendere anche “pro vachis, quam earum fructibus” cioè i vitelli nati dalle vacche. Insomma i piacentini facevano delle istanze che, per non passare in tribunale, erano dirette personalmente al duca Francesco Sforza, il quale si prendeva la briga di leggerle e decidere, anche su questioni frivole, come abbiamo visto. Un mondo particolare, dove alle solide questioni politiche ed economiche di Piacenza, si mischiavano fatti più terra terra, popolari, dove anche un semplice letto od un lenzuolo rubati, potevano essere un serio problema da risolvere.

“Il lenzuolo è mio!”, “Neanche per sogno: l’è ‘l mi, lo giuro nel nome di Dio e del Duca”

Un episodio del Medioevo: una penale di mille soldi piacentini per proteggere un criminale. Una ricerca storica di Umberto Battini

Tribunale medievale

Ci siamo ributtati nel pieno Medioevo piacentino perché ci ha incuriosito un documento particolare. Si tratta di una “cartula promissionis”, cioè di un documento legale con delle particolari “promesse” a cui tener fede. La carta è datata 13 aprile 1197 ed è un atto notarile redatto in città a Piacenza “in camera veteri palatii”, cioè in una camera del palazzo vecchio, da dove si esercitava il potere, prima della costruzione del “Gotico” di piazza Cavalli. Ci fa riflettere su due cose: anche in quel Medioevo, come risaputo, c’erano “gatte da pelare”, però, in casi come in questo, si dava “un colpo al cerchio ed uno alla botte”. Un gruppo di nobili possidenti della Valtrebbia, e questo lo abbiamo desunto dal cognome di due di questi, cioè “Berno e Segalino da Perducca”, l’area collinare del monte Pietra Perduca, con altri sette uomini, si fanno “fideiussore” per un certo “Nichola Gaidanus”. Non certo un tipino per bene questo Nicola, che ne aveva combinate di cotte e di crude nel “districtu Placentie”, cioè nel territorio piacentino. Ma ora questi uomini si fanno garanti e si assumono l’obbligo di pagare una fortissima somma, se costui farà ancora danni. Intanto sono presenti Antonino Fontana che rappresenta il Comune insieme con i consoli “Oberto Vicomite, Alberico Vicedomino, Oberto Scorpiono” ed altri testimoni e con quest’atto formale non si scherza più: “dare nomine pene mille solidos Placentinorum”, cioè è stabilita una penale di mille soldi piacentini, una cifra enorme. Infatti questo “Nichola Gaidanus de cetero homicidium seu furtum, incendium aut guastum alicui de districtu Placentie fecerit”, è colpevole di omicidi, furti, incendi e guasti (danni) e tutti nell’accezione plurale. Sarebbe interessante sapere come mai un pluriomicida, ladro, incendiario e demolitore di tante case e beni, l’abbia fatta franca completamente, bastando una fideiussione da parte di alcuni suoi conoscenti, compreso un suo familiare, un certo “Lombardus Gaidano”, per non andare a processo. La carta notarile è ben leggibile, conservata nel “Registrum Magnum” del Comune di Piacenza, e non lascia tanto spazio alla fantasia: carta canta. Di positivo c’è che, oltre al fatto reale di questi uomini che si impegnano a pagare la gravosa pena pecuniaria, nel caso il famigerato “Nichola” commettesse ancora reati, anche quell’altro Lombardo Gaidano, si impegna formalmente, mettendoci la faccia. Difatti leggiamo che Lombardo promette “insuper per se in totum pro predictis mille solidis dare et solvere” circa i mille soldi da dare al Comune di Piacenza, oltre al fatto di sottoporre a “iudicio” cioè a giudizio lo stesso Nicola se ancora commetterà “maleficiis”, cioè dei reati con gravi accuse “si de eo lamentatio facta fuerit”. Come è finita non lo sappiamo, probabile che l’accusato si sia “messo in riga” perché stavolta se fosse finito tra le mani del tribunale, non l’avrebbe scampata, e sappiamo bene come si procedeva: tortura prima e la forca poi.

Criminale medievale condannato alla gogna

“Il medievale porto sul Po di Veratto (Santimento), luogo di dogana”, un intervento del ricercatore storico Umberto Battini

L’attraversamento del Po approdava su di una golena dove una via detta “strada regia di Veratto” conduceva verso Monticelli Piacentino (oggi pavese)

Tra i molteplici luoghi di porto sul Grande Fiume piacentino, notevole è anche quello nel territorio di Santimento, nella antica località Veratto vecchio. Per la precisione, le località con questo toponimo sono due: Veratto Coletta e quello detto degli Arcelli. La documentazione più importante si trova all’Archivio di Stato di Milano nel fondo del monastero benedettino di San Salvatore di Pavia, in quanto questi monaci possedevano terre proprio al di qua ed al di là del Po in questi luoghi. Notevole però anche il fondo mappe piacentino, dove viene evidenziato il luogo di questo porto assai importante e dal quale si evincono non pochi dati. Scopriamo intanto che il porto di Veratto era detto “di Cainfango” ma abbiamo letto anche che fosse censito come “Caifango” o “Cachinfango”, probabilmente perché la zona abbastanza sortumosa creava un fango “caino”, che cioè intrappolava e rendeva difficile il tragitto. Una strada “bianca” di ghiaia veniva costantemente tenuta in buone condizioni, addirittura una mappa ci mostra “la strada nuova di Sarmato che va al porto” e che quindi conduceva in direzione del traghetto di Cainfango. Infatti il paese di Sarmato usufruiva di questo passaggio fluviale in maniera notevole, così come anche tutti coloro che provenivano da Rottofreno e luoghi circostanti. Il porto era ubicato nella località di Veratto Arcelli di Santimento ma venne poi spostato a metà del ’700 alla foce in Po del torrente Tidone, dopo che venne tagliato il torrente per “addrizzare il corso” con una lunga diatriba in tribunale a Piacenza. Dalle mappe del ’500 e ’600 abbiamo appurato che il Tidone anticamente costeggiava l’ansa di Po destra ed aveva foce poco oltre la località di Soprarivo di Calendasco. Con il taglio del torrente, il porto venne spostato alla foce dalla parte del Veratto Coletta, le mappe sono chiare al riguardo: qui era anche la “Dogana” cioè il casottino dove gli esattori piacentini chiedevano la famosa gabella di traghetto. L’attraversamento del Po approdava su di una golena dove una via detta “strada regia di Veratto” conduceva verso Monticelli Piacentino (oggi pavese) ed anche qui ritroviamo un casotto del dazio ben indicato sulle mappe. Con il tempo il Veratto dalla parte di Sarmato venne nomato “dei Volpe Landi” e solo nell’800 venne dotato di una chiesa, mentre al Veratto vecchio la chiesa era molto antica. Purtroppo essa è andata completamente diroccata, ma dalle mappe consultate siamo comunque riusciti a “leggere” dove fosse collocata con precisione ed è una buona ipotesi che nel periodo medievale la chiesa al porto di “Cainfango” fosse di proprietà del benedettini pavesi. Infatti ancora nel ’700 possedevano terre al ridosso del Po proprio in quel luogo, sulle due sponde e come altri documenti indicano già erano possessori “ab antiquo” anche della piccola chiesa nel luogo della Bastia, che solo secoli dopo diverrà un oratorio sottoposto alla parrocchiale di Santimento. Al porto di Cainfango del Veratto al servizio di Sarmato, erano anche presenti sulla sponda piacentina, alcuni mulini natanti che pagavano regolare tassa a Piacenza. Uno dei tanti porticcioli sul Grande Fiume piacentino, che univa in maniera stabile le due sponde, con le sue genti e le sue strade, e qui una era detta addirittura “regia”.

Barca natante sul Po

San Rocco guaritore dalla peste e l’oratorio scomparso. Intervento dello storico Umberto Battini in IlPiacenza.it in occasione delle numerose feste come sempre celebrate il 16 agosto lo

Non si contano le feste sanrocchine del 16 agosto in varie località della Diocesi piacentina, dal Po alla collina e su fino ai monti: riti sacri, processioni e momenti di festa “di forchetta” immancabili. Non si contano quadri e statue dedicati a san Rocco, riconoscibilissimi: un uomo in abiti da pellegrino, con bordone e una piaga mostrata sopra una gamba e con un piccolo cagnolino ai suoi piedi che tiene tra le mascelle un tozzo di pane. Rocco il santo della peste, sciagura medievale non rara, il santo che, se invocato, “liberava” da questa calamità e qui a Piacenza un miracolo “rocchiano” non indifferente avvenne addirittura nel 1630. Ce lo riporta ben descritto lo storico Campi nella sua “Dell’Historia Ecclesiastica di Piacenza” edita dal Bazachi nel 1662 dove ci racconta questo miracolo, un fatto pratico, d’emergenza e forse a legger bene tra le righe, anche “un’ultima spiaggia” per gli infettati. Leggiamo dalla “Vita Sancti Rochi” scritta in latino nel 1478 dal Diedo che infatti in quel medioevo “Placentia truci pestilentia vexata” cioè era Piacenza oppressa da una crudele pestilenza. L’antefatto: San Rocco dopo la sua “mal cacciata” da Piacenza nel 1327, perché ormai anche lui stesso piagato da un bubbone pestifero, si fermò qualche giorno al guado del fiume Trebbia presso il luogo detto già in antico “Casa di Rocco”. Si mise a vivere in una capanna nella vicinanza del fiume, l’acqua fresca corrente gli dava ampio sollievo alla piaga infetta, fino a che dopo pochi giorni passò il Trebbia e s’incamminò su quella che comunemente si chiamava “strada romea” in direzione Sarmato. E arriviamo quindi al ben memorato 1630, tempo nel quale in città e nel distretto incombeva “il mortifero morbo contagioso” che infettò e portò alla morte centinaia di persone. Leggiamo dal Campi che ancora in quel tempo “era a Case di Rocco un tugurio o meglio vogliamo dire capanna, secondo l’antica tradizione”, quindi da quel 1327 lì si conservava con venerazione da secoli il capanno dove dimorò il santo per pochi giorni. I piacentini, ricordando i fatti rocchiani, furono ripresi da “tal divozione verso il benedetto Santo” che alcuni d’essi, per tentarle tutte “entrati in detta capanna” ecco che “vi furono ivi rinchiusi e per molto tempo vi stettero”. E continua il racconto “per li meriti di quello restarono in vita e senza lesione alcuna del pestilenzial malore” anzi specifica il Campi che purtroppo il morbo “allhora vuotò quasi tutte le case dé Cittadini, e de gli habitanti ancora nel Contado” cioè causò molti morti. Ma ecco che scopriamo che quel tugurio venne trasformato in quel secolo, per il miracolo assodato, “in un picciolo Oratorio” voluto e pagato dal “Medico Collegiato il Dottore Girolamo Moraggi”. E così da allora pure in quel posto “si celebra ogn’anno la festa del Santo e una Messa ogni settimana”, ma purtroppo, cambiati i tempi, dell’Oratorio dedicato a San Rocco vicino al Trebbia ormai da immemore tempo anche ai giorni nostri non c’è più né l’ombra né il ricordo. Una curiosità storica ci viene invece dal libretto fatto stampare a Piacenza sempre nelle “stamperie ducali Bazachi”, riguardante “La Vita di S. Rocco” con una prefazione dedicatoria firmata da “Li Guardiani & Fratelli della Compagnia di San Rocco di Piacenza” datata 5 novembre 1604. Il prezioso piccolo testo riporta una stampa del santo dipinta mano (cosa rara e preziosa) ed è dedicato al vescovo di Piacenza mons. Claudio Rangoni, lo stesso che nel 1617 in curia approverà e firmerà il documento notarile che attesta della nascita fisica di san Corrado Confalonieri in Calendasco e non a Piacenza. Nel testo non si cita mai il paese di Sarmato ma una “valle e selva” a cui “era vicino un picciolo Castello, nel quale habitavano molti nobili uomini, tra i quali il più ricco era uno detto Gottardo, uomo di gran pietà e fede e perciò grato a Dio”. Anche circa il cognome di Gottardo, che alcuni poi diranno dei Pallastrelli, nell’antico testo non è scritto, tantomeno si legge di grotta ma piuttosto di “tugurio” dove abitò il santo. Sappiamo che altre “Vitae S. Rochi” ci parlano invece di Sarmato, di un rivo e che il santo della peste, venne preso “in custodia e amicizia” da tal nobile Gottardo residente nei paraggi, proprietario del cane che “allungava” il pane ogni giorno al povero santo piagato, rubandolo dalla tavola. Lo storico Campi ci dà date, luoghi e avvenimenti precisi di San Rocco in terra piacentina, lo stesso santo che si venera nell’oratorio a lui dedicato che è a cento metri dal duomo in città in via Legnano, fondato nel 1577 dalla Confraternita del santo. Insomma tra miracoli e narrazioni, qualche curiosità storica da approfondire compare sempre tra le righe, ma la certezza è che San Rocco rimane amato e ben conosciuto nell’immaginario collettivo piacentino, e specialmente nella sua bella festa agostana.

Al vescovo Rogerio Caccia dobbiamo l’angil dal Dòm e il portale del paradiso. Un articolo a cura dello storico Umberto Battini

La sua tomba medievale, un sarcofago in pietra scolpito, si trova nella nostra cattedrale qui a Piacenza, nel braccio destro del transetto dove è esposto anche il corpo di san Giovanni Battista Scalabrini ed è stata murata sospesa. Rogerio Caccia nacque a Vigolo Marchese, dove la sua famiglia aveva delle proprietà, anche se è attestata come casata cittadina già dal 1153. Diventò quindi prevosto della chiesa di Vigolo e poi gli venne affidata la carica di canonico del capitolo del duomo in città. Qui comincia la sua ascesa di buon prelato, con uno spiccato senso per l’arte e la pietà religiosa, come vedremo. Nel 1338, con tanto di bolla d’approvazione di papa Benedetto XII, divenne vescovo della diocesi di Piacenza. Era un uomo che non trascurò l’aspetto militare difensivo, ma soprattutto dalle cronache risulta molto vicino ai poveri, ai quali presta carità. Tra gli storici che ne trattarono ricordiamo il Campi che ci lascia qualche ottima informazione. Intanto dobbiamo al gusto artistico religioso del vescovo Rogerio Caccia, se nel 1350 l’architetto Pietro Vago edificò il “Portale del Paradiso”, nel pronao di settentrione della Basilica di Sant’Antonino. Se guardate bene vi potete ritrovare la lapide originale in pietra scolpita che riporta in latino la data e un epitaffio: ricorda che nel 1350 (MCCCL) questa parte venne edificata per volontà del vescovo Rogerio Caccia (Rogerii Cacie Epi Placentini). Cosa notevole è che il 6 luglio del 1341 il vescovo piacentino aveva fatto sistemare sul campanile il grandioso “Angelo” sempre da Pietro Vago, una statua in rame dorato, girevole e “segnavento”. Il famoso “Angìlon dal Dòm” tanto amato dai piacentini e che nel tempo ha subito vari restauri conservativi importanti ed in quello del 1964 vennero messi finalmente anche quattro fari per illuminarlo ogni notte. In Duomo poi fece anche costruire un altare (oggi scomparso) dedicato alla patrona dei pescatori e barcaioli del Grande Fiume, Sant’Agnese martire, anche se nel suo quartiere cittadino presso “il canale della Fodesta” già c’era una antica chiesa dedicata alla santa. La sua tomba medievale riporta anch’essa scolpita nella pietra la data della morte ed il suo nome. oltre agli stemmi del famiglia. Rogerio Caccia fu il sessantunesimo vescovo della nostra diocesi, morì ormai anziano nella domenica 8 febbraio 1354. Un personaggio che ci ha lasciato due importantissimi manufatti di arte del medioevo piacentino, appunto l’Angelo del campanile ed il superbo portale del Paradiso in Sant’Antonino.

L’angil dal m

La chiesa della Bastia e quella di Santimento. Nella bassa del Grande Fiume la storia locale di paesi e frazioni: a cura dello storico Umberto Battini

Qui nella bassa del Grande Fiume la storia locale di paesi e frazioni resta lì, assopita dalle stagioni e inerte, ma pronta per esser raccolta e raccontata. Partiamo da lontano, dal solito e intrigante medioevo piacentino, che in molti casi abbiamo vivido e lucido sotto agli occhi ma che, da inconsapevoli, non teniamo in alcun conto. Che ci si arrivi dalla via Emilia Pavese di Rottofreno oppure da Calendasco, nel piccolo paese di Santimento e nella frazione ben indicata di Bastia, troviamo qualche monumento storico. In paese, sulla piccola piazza, ci accoglie la possente chiesa in cotto ingrandita nel ‘700 e cento metri oltre sul suo fianco, il castello, nel tempo rimaneggiato ma ancora riconoscibile, abitazione privata da secoli. Poco fuori s’arriva alla località Bastia, un grande cartello lo indica: qui resta una antichissima chiesetta con un agglomerato di edifici agricoli, e poco prima il “Molino del Vescovo”, con l’antica ruota nel fossato. Anche le mappe “topografiche” più antiche d’archivio non potevano fare a meno di indicare questa località detta Bastia. Con il termine Bastia si indica un agglomerato fortificato antico, fatto con materiale di terra, macigni in sasso e pali, improvvisato per proteggere appunto un luogo abitato, e quindi perlomeno di fondazione senza alcun dubbio medievale. Facendo un minimo di ricerca storica documentale, possiamo affermare che la prima chiesa “ufficiale” del territorio fu appunto questa nel luogo della Bastia che è di almeno duecento anni più vecchia di quella parrocchiale del paese. Infatti la chiesa di Santimento, venne edificata da zero, dalle sue fondamenta “solo” nell’anno 1291 per mano di ricchi “privati”, dal Campi sappiamo di due atti notarili del notaio Oberto di Bardi del 27 aprile e 18 maggio 1291 che trattano del fatto. I fratelli mercanti “Giovanni e Alberto Palmerii detti Toscani” fanno “erigere sul territorio di Santimento” una chiesa titolata a S. Giovanni Battista, della quale hanno il patronato cioè loro personale proprietà, da passare agli avi. Con una benedizione il primo maggio 1291 il vescovo di Piacenza Ugo “collocò la prima pietra” ed il 18 dello stesso mese confermò “Rettore Pietro de Robaroli sacerdote presentato dagli stessi patroni”. Con certezza invece sappiamo che la proprietà della chiesa della Bastia era del monastero benedettino di San Salvatore di Pavia: infatti avevano varie proprietà agricole già dall’anno mille anche in questi luoghi. Non deve sorprendere, funzionava in questo modo, basti ricordare che il monastero di San Sisto di Piacenza aveva proprietà anche a Guastalla ed oltre. I benedettini di Pavia avevano privilegi imperiali a loro concessi che ricadevano sul luogo della Bastia, del Veratto che era “porto di Po” e del non mai ben identificato luogo detto nelle carte d’archivio Troia. Una ricca documentazione su questi luoghi è nel fondo del “Monastero di S. Salvatore di Pavia” che si conserva in Archivio di Stato a Milano. Ecco cosa ci riferisce lo storico piacentino Campi: nel 1303 con rogito del 13 ottobre Giovanni Scotto permuta i beni di Santimento con quelli di Varsi (da non confondere con Varzi in Oltrepò Pavese) con il vescovo di Piacenza Ugo, che qui nei dintorni già aveva beni della “Mensa Vescovile”. Il borgo di Varsi è in provincia di Parma, in Val Ceno ma però in diocesi piacentina, con chiesa pievana di fondazione longobarda. Precisamente i beni di Varsi ceduti al nobile Scotto riguardavano il castello e molte terre con diritti annessi di decime e vassallaggi vari, mentre il vescovo a Santimento s’impossessa “del castello, della torre (oggi scomparsa), tremila pertiche di terra, giurisdizione, con tantissime rendite di fitti di terreni” compresi alcuni nelle zone citate nelle carte notarili che sono a Calendasco, Rottofreno e Soprarivo. Strano a dirsi, ma le carte d’archivio ci danno quindi come più antica la chiesetta di Bastia di Santimento, e per fortuna questo edificio, seppur nel tardo ’700 rimaneggiato ancora trasuda dalle sue mura la storia di queste terre tra la via Emilia e il Po. E se oggi l’edificio sacro, ormai in disuso è ancora lì, bello e solido lo si deve alla solerte cura delle generazioni della famiglia dei fratelli Antonio e Giuseppe Covini, proprietari, che lo custodiscono da decenni con grande generosità. Lì infatti pregarono anche i loro genitori, nonni e avi e tante genti di quel lembo di florida terra ottimamente coltivata, con solide radici storiche.

Parrocchia di Santimento

“La guerra dei Bepi”, People edizioni, 2023, racconti di vicende dei familiari di Andrea Pennacchi vissute tra Prima, Seconda Guerra Mondiale e agguato al contingente di pace in Somalia perché un esercito straniero in armi non fa mai pace.

In questo volume Pennacchi ci racconta tre storie che si intrecciano con la storia del nostro Paese. Le prime due sono anche parte integrante della storia della sua famiglia visto che i protagonisti sono suo nonno nella prima e suo padre della seconda. Il “primo” Bepi, il nonno di Pennacchi, in “Una feroce primavera” vive la sua personale Prima Guerra Mondiale mandato al fronte come carne da cannone e incredibilmente tornato a casa sano nel fisico ma devastato nell’anima. Del resto, vi è mai capitato di conoscere qualcuno che si è trovato a vivere un tratto della sua vita in uno scenario di guerra? Ebbene, spesso tace, racconta rispondendo alle domande ma restando sulle generali, evitando di ricordare della paura, dell’odio verso il nemico che non conosci ma che ha ammazzato tanti tuoi camerati. Col fuoco dei cannoni o del fucile, col gas, con le baionette innescate. Odio, anche se in realtà quel nemico sapevi benissimo non avevi motivo di odiare, che come te voleva solo spogliarsi di quella divisa che qualche sovrano chiuso nella sua reggia gli aveva imposto d’indossare. In “Mio padre. Appunti sulla guerra civile”, il secondo capitolo del libro, Pennacchi ci racconta invece della Seconda Guerra Mondiale vissuta da sua padre che a 17 anni sceglie il nome “Bepi” come partigiano – proprio in onore al padre – ma che viene arrestato dalle milizie fasciste a seguito della confessione con omi cognomi e indirizzi ottenuta da un compagno catturato e sottoposto a tortura. Viene spedito nel campo di concentramento di Ebensee in Austria. Anche il secondo Bepi tornerà a casa, ridotto ad uno scheletro ambulante, grazie all’arrivo degli americani badando ad evitare di avventarsi – come purtroppo tanti altri – sulle razioni di quei soldati: lo stomaco non regge e la morte ne è la drammatica conseguenza per molti. Un’esperienza terribile tanto che non ne riuscirà a parlarne col figlio, che per ricostruirla sarà costretto a cercare documenti fra l’Italia e l’Austria. Infine “Checkpoint Pasta. Il paradosso del cane” ci catapulta invece a Mogadiscio, in Somalia, il 2 luglio del 1993, dentro un autoblindo del contingente italiano che collabora all’operazione internazionale “Restore Hope”. In cinque atti riviviamo l’attacco subito dagli uomini delle nostre Forze Armate nei pressi del Checkpoint Pasta della città somala, il primo scontro armato che ha coinvolto il nostro esercito dopo la Seconda Guerra Mondiale. Uomini partiti per quella che veniva definita una missione di pace, soldati – molti di leva, partiti volontari – convinti dalla retorica dei politici naturalmente al sicuro nelle loro case nel BelPaese di aiutare un popolo affamato e come tali di essere benvenuti, benvoluti, rispettati. Ma armi, fucili, blindati, carri armati, divise militari non fanno mai pace. E anche questa esperienza lascerà negli uomini del mezzo blindato segni incancellabili nel resto delle loro vite. In conclusione, Pennacchi ci ricorda che non esiste guerra “giusta”, guerra è sempre sinonimo di ferocia e crudeltà, di distruzione, di morte e a pagare sono sempre soprattutto le popolazioni civili, gli anziani, le donne, i bambini. Una lezione che dovrebbe invitarci alla riflessione rispetto al fatto che attualmente inviamo le nostre armi a sostegno di una guerra in corso negandoci ad ogni sforzo per trovare una soluzione diplomatica al conflitto. Un libro breve ma duro e indimenticabile, contro la logica delle armi, contro la guerra. #sempredallapartedellapace .

La pace non si fa mai armi alla mano

“L’elenco dei dazi pagati a Piacenza dal Medioevo al 1700: i cittadini erano già sottoposti ad una importante tassazione”, un articolo dello storico Umberto Battini

Monete e dazi da pagare

Mettere mano alla borsa per pagare qualche tassa obbligata non è mai stato il forte di nessuno, tanto meno nei secoli passati. Le imposte indirette sui consumi, cioè i dazi per merci importate, esportate o che sono in transito nel territorio Piacentino, sono davvero molte ed anche particolari, riferendoci appunto ai secoli passati. Scartabellando tra ottimi studi storici, abbiamo potuti rintracciare alcune decine di tipi di dazio applicati tra il 1300 e il ‘700 qui a Piacenza e nel territorio, ne elenchiamo solo alcuni. Il Po era croce e delizia: permetteva di trasportare via nave e grandi barconi merci d’ogni genere, ma non si scappava dal “Dazio del porto grande alla Romea”. Passeggeri e merci traghettate da porta Borghetto, dove era il porto antico, versavano tassa di pedaggio; sempre per il Po c’era la tassa  “di corda” per l’attracco, la tassa “di palifactura” per legarsi ai pontili e quelle “di porto” e di “ripatico”, oltre a quella “di pesca” e “di fondacia” cioè barche ormeggiate lontano dalla riva. Non sono meno antiche la tassa di “diritto di porto” e “di naulo” cioè per usare imbarcazioni di proprietà camerale (statale) o di appaltanti cioè concessionari, in questa specie ricadeva anche il dazio “di traghetto”, e si pensi che erano applicate già dal tempo longobardo. I macellai erano tassati per poter macellare e vender carne: pagavano “dazio delle Beccarie”, chi vendeva vino sfuso dava dazio detto “bolla del vino”, ma anche i tanti forestieri pagavano per l’ingresso ed il soggiorno in città. Dovevano versare il dazio sulla “bolletta delle persone”, un dazio questo che anche noi moderni turisti paghiamo nei luoghi di villeggiatura detta “tassa di soggiorno”. Particolare è il dazio sui “contratti dei suini” per la compravendita di maiali, d’altra parte, come recita il proverbio, “del maiale non si butta nulla” e ben lo sapevano i nostri avi. Anche il dazio su “uova e pollame” non è meno curioso come poi quello detto “della grassina” dovuto per la macellazione e vendita di carne suina, ma prima si pagava dazio “per la contrattazione di animali”, cioè la compravendita del bestiame. Nulla insomma sfuggiva alle grinfie dei governanti di turno, anche se abbiamo sorvolato sulle tassazioni alle varie tipologie di mercanzie per la vendita e produzione di tessuti o sulla loro importazione ed esportazione fuori distretto. Come noi oggi, già dal medioevo a Piacenza si pagava il “dazio dei contratti” che riguardava la vendita degli immobili, quali case o altro; non scordiamo il dazio “alle porte” un diritto di pedaggio per il transito in città in entrata ed uscita. Curioso il dazio “per olio d’oliva e olio da ardere”, quello per “legna e carbone”, e un altro per “la vendita di pelli bovine”; non sfugge a dazio “pesce fresco e salato”, come era tassata la importazione o esportazione “di vino e aceto”. Non poteva mancare la tassa sul “sale”, diritto doganale versato dalle navi sul Po che erano dirette verso Torino, Pavia e Milano, provenienti da Venezia; per il vino comunque erano previste varie tipologia di tassazione: una per il “vino venduto in città”, una tassa per quello venduto “fuori città” e poi il dazio per il “vino venduto al minuto”. Insomma niente di nuovo sotto al sole, più che a leggere di tasse di riscossione dal tempo medievale fino al settecento piacentino, sembra un più o meno moderno elenco di riscossioni.

L’esattore delle tasse

“L’arte degli ortolani a Piacenza negli statuti del 1769: le prescrizioni previste per questa professione duecentocinquanta anni fa”. Una ricerca storica di Umberto Battini pubblicata da IlPiacenza.it

Banco di ortolani

Torniamo indietro nel tempo di 250 anni per andare a mettere il naso dentro a qualcosa di curioso: gli Statuti “dell’Arte degli Ortolani” piacentini, un mestiere, come dice appunto il nome, di coltivatori di orti e di tante verdure d’ogni genere. Li abbiamo rinvenuti nel prezioso volume Statuti di Corporazioni Artigiane Piacentine” a cura di Emilio Nasalli Rocca, un grande studioso di Piacenza, stampato a Milano nel 1955. Sono tra l’altro firmati di pugno e approvati da Guglielmo Du Tillot, in data 18 aprile 1769, primo ministro del Ducato per conto di Filippo di Borbone e contro-firmati dal “Signor Consigliere Fioruzzi Governatore di Piacenza”. Questi Statuti recano subito al primo capitolo il fatto che è “statuito ed ordinato, che qualunque Ortolano ascritto al Paratico (associazione)” partecipi all’adunanza dei soci tutti annuale, nella loro sede di Piacenza, il 17 di gennaio “nel giorno di Sant’Antonio Abate”. Chi avrebbe mancato al raduno annuale, sarebbe incorso in una multa “di soldi venti” salvo impedimenti gravi testimoniati dai “Consoli” del Paratico. Un dato: chiunque coltivi orti e verdure per venderle, sia “abitante in Città che nel Distretto, di miglia sei di lontananza dalla medesima” (circa 9 chilometri) non potrà esercitare “l’Arte di Ortolano” senza essere iscritto, con multa salatissima. L’area quindi andava dalla città fino a Pontenure, Rottofreno, Gossolengo, Gariga e Quarto, più o meno in questo distretto erano compresi gli ortolani veri e propri, quelli iscritti al paratico. Si fa obbligo a qualsiasi “famiglio o lavorante” di non poter cambiare padrone se questi non si siano accordati con un regolare “contratto” da registrare nel paratico. La festa solenne degli ortolani era il 15 di agosto “nel giorno della Assonzione della B. V.” con messa “alla Chiesa Cattedrale” portando una offerta e anche “il Pallio” (lo stendardo). Viene proibito di “vendere Ortaglie d’acun sorta” il giorno di Natale e di Pasqua mentre nelle normali domeniche, si poteva far banco e vender verdura ma non per il tempo “che dura la celebrazione” delle messe. Al capitolo XV si proibisce di portare nel luogo “della riunione del paratico” qualsiasi oggetto da difesa “armi, arnesi, bastoni od altro stromento offensivo”, con pena d’essere denunciati “all’offizio Criminale” piacentino, che non scherzava affatto. Si chiarisce poi che “li Rivendaruoli e Riccatoni, in nessuna stagione” cioè quelli che compravano dagli ortolani iscritti piccole quantità da rivendere, “non posson vendere alcuna sorta di Ortaglia sulla Pubblica Piazza dé Cavalli”. I poveri “rivendaruoli” potevano comprare dopo “l’ora nona” (le tre del pomeriggio) e quindi avevano permesso di vendere “per le pubbliche Strade”, al modo di procacciarsi di che vivere alla giornata. Si chiarisce nello Statuto che “gli Erbaggi ed Ortaglie” di padroni di orti con braccianti, anche se non iscritti, possono vendere ma sempre dopo “l’ora nona” e per strada, ma mai quindi con banco in Piazza Cavalli. Un particolare: chi era proprietario di terra e aveva un orto che oltrepassava “le pertiche sei” (un’area grande circa una volta e mezzo un campo da calcio moderno) era obbligato a farlo lavorare “da Ortolano approvato”, ovviamente pagandolo. Un mestiere, quello inteso nel senso di questi Statuti, praticamente scomparso, oggi troviamo verdure al cosiddetto “chilometro zero”, un poco sulla falsa riga di quella che nel ’700 a Piacenza si chiamava “Arte degli Ortolani”.

Come funzionava un processo politico-religioso nel 1300 a Piacenza. Il verbale pubblico del 1309 di inizio del processo ai Templari. La ricerca dello storico Umberto Battini pubblicata in IlPiacenza.it

Non sappiamo se in quel giorno ci sia stata una classica “estate di San Martino” nella nebbiosa Piacenza di quell’11 novembre del 1309 che cadeva in lunedì. Fatto sta che in cattedrale c’è la proclamazione solennissima della “Lettera papale” di inizio del processo “contra Templarios facta in civitate Placentie”. In città si diede lettura pubblica della citazione papale per il processo templare stilando anche un verbale di pugno dal notaio piacentino curiale “Egidium Crosum”. Ne riportiamo una sintesi, nella nostra personale traduzione dal latino dal documento originale che tutt’ora si conserva nell’archivio curiale di Ravenna. Era un uso normalissimo, in casi di solenni annunci, sia di carattere positivo che negativo come in questa occasione, farlo in cattedrale: si convocava il popolo per mezzo del messo e trombettiere ufficiale “corriere et tubatore” e “con lettura solenne a voce alta” (voce preconia) al “solito more” al solito modo consueto, e così è verbalizzato. Si invitavano quindi ad accorrere “tam Clero quam Populo Placentino” tutto il Clero e il Popolo Piacentino (maiuscoli nel testo in latino originale) da parte del vescovo lì presente sulla sua cattedra. Tutto succede al “sono campane grosse” del duomo a mezzogiorno “hodie post nona” (le ore canoniche religiose vanno tra le 12 e le 15), perché sia da tutti ben ascoltato, compreso e reso di dominio pubblico “ad audiendum et intelligendum pubblicari” quanto contenuto nell’atto formale. Quel verbale è prezioso ancora oggi per tutti noi, per comprendere come funzionava un processo politico-religioso svolto in ogni parte d’Europa, viene “legi et vulgarizari litteras et processus” cioè è declamata ad alta voce anche in volgare cioè in italiano per farla comprendere a chiunque, perché buona parte della gente non sapeva né leggere né scrivere. In duomo a Piacenza si raduna una folla senza precedenti “maxima multitudine” è scritto chiaro nel verbale, quindi pensiamo alcune migliaia di persone data anche la portata del fatto. Cavalieri che erano anche monaci, e qui in città da tutti ben conosciuti, arrestati per esser sottoposti a processo inquisitoriale, che significava per il popolo, in soldoni, una sola cosa: tortura e a Piacenza in quegli anni già c’erano stati roghi di eretici. Tra i testimoni dell’evento citati a “voce preconia” c’è anche “Rogerio Cacia Canonico Placentino” della cattedrale, già un tempo prevosto a Vigolo Marchese e poi anni dopo divenuto addirittura vescovo di Piacenza, la cui medievale tomba è visibile ancor oggi in duomo. Il processo, come riporta l’atto, è voluto dal papa Clemente V “contra Ordinem Templariorum et ipsos Templarios et singulares personas ipsium Ordinis” cioè contro tutto l’Ordine d’ogni luogo e ogni singolo Templare in persona. E non basta, viene letto a “voce preconia” che saranno soggetti a processo anche tutti coloro che si faranno “fautores, receptatores et defensore ipsorum Templariorum” cioè complici (fautores), chi li nasconde e gli dà rifugio e ogni loro difensore legale o politico. Il papa fa terra bruciata intorno a questi cavalieri Templari e infatti ancora leggiamo e traduciamo: si farà il processo anche a coloro che proveranno a farsi “invasores, occupatores et detentores” cioè usurpatori, occupatori e possessori di beni, sia in modo legale che abusivo, delle proprietà dei Templari. Si “preconia” che in questo ricadono quindi tutti coloro che pensano di aver diritti sui beni mobili e immobili templari e dal notaio letta “ad alta voce” e “vulgarizando dictas litteras et processus” affinché tutti i presenti sentano e capiscano, nessuno escluso dei convenuti in cattedrale. Il notaio Egidio Croso è sia “pubblico” che anche notaio della “Curia Episcopalis” quindi firma l’atto e lo rende pubblico cioè legale, il tutto alla presenza del Vescovo di Piacenza, del Vicario episcopale e altri testimoni importanti. Sebbene già l’anno prima a Piacenza l’inquisitore avesse espropriato tutti i beni ai Templari, adesso inizia il momento più duro e cruciale, quello che dalla detenzione, li porterà al processo formale a Ravenna nel giugno 1311. Finiranno assolti, erano sette: fra Raimondo e Giacomo Fontana, i frati Mauro, Jacopo, Alberto e Guglielmo da Pigazzano e fra Pietro Caccia. E per la buona etica dell’arcivescovo Rainaldo da Concorezzo, uomo giusto e concreto, a nessun Templare durante la detenzione e l’interrogatorio serrato al processo, verrà strappato un capello. La tortura, sebbene prevista, fu da lui vietata, sapeva bene che “le tenaglie roventi” con i “tratti di corda” avrebbero fatto parlare e confessare qualsiasi cosa anche ad un muto. Papa Clemente V quando ne fu informato scrisse una lettera di fuoco all’Arcivescovo, lamentandosi duramente perché non aveva usato la tortura con i templari piacentini, ed esiste a Ravenna l’originale: ma questa è un’altra storia.

“Giacomo Puccini a caccia sul Po tra Corte Sant’Andrea e Calendasco: il celebre compositore passò nella bassa ovest del Grande Fiume un periodo di riposo”: Umberto Battini in ILPiacenza.it

Giacomo Puccini andava a caccia sul Po tra Corte Sant’Andrea e Calendasco. L’episodio storico è avvenuto sul Po nell’ansa dirimpetto a Corte Sant’Andrea con Boscone Cusani e si lega perfettamente in quest’anno al centenario della morte del maestro, avvenuta nel 1924. Il maestro Puccini era ospite alla fine dell’800 di Antonio Griffini di Corte Sant’Andrea, che nel luogo possedeva buone terre compreso l’Isolone della Corte, che ancora si vede dirimpetto al Masero di Calendasco. Il celebre compositore di opere quali “Tosca”, “La Bohéme” e “Turandot” passò nella bassa ovest del Grande Fiume un periodo di riposo. Puccini era un abile cacciatore, infatti nelle sue biografie si narra che vi andasse quasi tutti i giorni ed era anche noto che trovasse motivo di ispirazione per comporre immortali opere, proprio durante la notte dopo le battute di caccia. L’episodio che si conficca tra sponda emiliana e lombarda sul Po è narrato in un voluminoso dattiloscritto “Panorama di Boscone Cusani” del 1954 a cura di Amilcare Marchesi, geometra, al tempo abitante proprio al Boscone frazione di Calendasco. Il signor Botticella detto “Balbiò” era un uomo con poca cultura, ma un accanito lavoratore e conosciuto tra le due rive del fiume come il miglior cacciatore del Po, abilissimo nell’uso della sua battellina da caccia, che navigava a remi a pelo d’acqua veloce e silenziosa. L’ospite del possidente Griffini della “Corte” era stato quindi affidato al “Balbiò” per la battuta di caccia alle anatre sul fiume, dietro ad una ricompensa ed il battelliere ignorava chi mai fosse realmente il cacciatore toscano arrivato sul Po. La testimonianza era stata raccolta dal Marchesi in persona anni prima direttamente dal barcaiolo della sponda “della Corte”. Praticamente mentre erano in navigazione lenta, lungo la sponda di Po, avvistano un bel gruppo di anatre dai piumaggi colorati intenti lungo la riva a nuotare in poca acqua. Il “Balbiò” intima all’ospite di puntare il fucile e sparare, il bottino d’anatre sarebbe stato ingente, ma costui imbragando l’arma si mette a fischiettare un’aria melodica. Le anatre prendono il volo, il barcaiolo, uomo crudo e verace, lancia qualche rimbrotto “verace” in dialetto (trascritte nel testo e che non riprendiamo) e cerca una nuova posta di caccia sull’alveo. Finalmente avvista un altro buono stormo d’anatre e garganelli, al che con remate lente, si porta a distanza di tiro: chiede all’ospite di sparare, che tutto era perfetto, ma ancora una volta questi si mette a fischiettare e ben forte, il solito motivo musicale. Stavolta il barcaiolo impreca di brutto, s’accosta alla piarda di fianco a Corte Sant’Andrea ed a male parole scaccia il cacciatore a lui affidato, che come racconta il “Balbiò” stupefatto, se la rideva alla grande molto divertito. Da quel che appare nella memoria, leggiamo che mai il prode barcaiolo e cacciatore seppe che aveva avuto l’onore di portar “per Po a caccia” il grande maestro Giacomo Puccini, che gli fischiettava “in diretta” la “Bohème”. Rimane un bell’episodio di cronaca locale piacentina di fiume, quando le due sponde s’intersecavano giornalmente, dove la vita scorreva lenta, modesta e lavorativa, un episodio di oltre cento anni fa, che ancora negli anni ’50 veniva raccontato, per l’orgoglio d’aver avuto un ospite di tutto rispetto, di chiara fama mondiale.

Corte Sant’Andrea, Soprarivo Calendasco (Wikiloc)

Le piccole fattorie dei templari piacentini nel Medioevo: diverse erano nella zona di Cotrebbia. Ricerca storica a cura di Umberto Battini pubblicata in ILPiacenza.it

Una vecchia mappa della zona di Cotrebbia di Calendasco

Come nei film di don Camillo e Peppone, anche sulla pianura piacentina posta al di là del fiume Trebbia, in quel 24 agosto 1308, il sole picchiava “forte come un pugile”, ma all’inquisitore papale non importava nulla. Nella faccenda dei Templari di Piacenza del 1308 con la loro cattura e poi il processo a Ravenna, nell’elenco dei beni sequestrati leggiamo delle domo “Ordinis Templariorum” poste “ultra Treviam” che sono precisamente dodici fattorie “circa duodecim mansa”. Ci siamo allora presi la briga di andare a stanare sulle antiche mappe d’archivio più affidabili, questi possibili luoghi, che poi non erano altro che piccole fattorie (mansio) negli agricoli paraggi di Cotrebbia vecchia. L’inquisitore arriva “…in Episcopatu Placentie , in loco Cotrebie…” si tratta di “Frater Guilelmus Januensis fratrum Ordinis Predicatorum Inquisitor heretice pravitatis” e scrive nel verbale che lì vi erano sottoposte dodici fattorie con terre. Ci occuperemo solo di decifrare queste località, ben sapendo che le carte originali ci danno anche altri luoghi inquisiti e requisiti al di là del fiume Po e poi altri a Fiorenzuola d’Arda. Stando quindi alle mappe topografiche, “in loco Cotrebie” possiamo individuare nel circondario questi piccoli agglomerati agricoli, che davano una rendita economica ai templari piacentini che le facevano lavorare dai braccianti sottoposti. Tra queste mettiamo senza dubbio le località “il Tempio di sotto”, chiara appartenenza all’Ordine già deducibile nel nome assegnato, che si trova oltre la frazione Bonina mentre quasi al ridosso della via Emilia pavese c’è “il Tempio di sopra”; poi altra località dove ancora s’erge una casa torre è “il Pernice” d’antichissima fondazione. Le mappe antiche ci indicano nei paraggi le località “Cà dei Frati” quindi “Prato bruciato” e “la Pila”; una notevole traccia è nella località “Molino dei Frati”, nel “Reseghetto” e nella cascina “i Ronchi”. Le ultime tre fattorie che forse possiamo ritenere proprietà della mansione templare di Cotrebbia Vecchia sono quindi “il Paradiso”, la zona “Preda” e “Scovaloca” lungo l’area di Po poco a valle verso frazione Puglia di Calendasco. Una vasta area tra il Po, il fiume Trebbia e l’attuale via Emilia pavese e in chiaro confine con le terre feudali di Calendasco dei Confalonieri, militi del vescovo cittadino. L’inquisitore poi gestirà per un breve periodo le rendite derivate da queste terre, lasciando un dettagliato registro di ricavi, entrate economiche ed uscite per spese varie. Un importante momento storico per Piacenza, che per fortuna si risolse con la piena assoluzione dalle accuse d’eresia per questi cavalieri del Tempio piacentini. E a legger bene tra le righe di carte secolari e nei disegni precisi di mappe, qualcosa si riesce ancora a riportare alla luce.

La croce, simbolo dei Templari

Il glossario medievale nei documenti dei mercanti piacentini quando l’artigiano era definito “artista qui componit artificium”. La ricerca storica di Umberto Battini, pubblicata da IlPiacenza.it

Vendere, comprare, lavorare. Tutto questo era ampiamente ben regolamentato e con precisione già nel nostro medioevo. Piacenza aveva una raccolta di regole per le singole attività lavorative, riunite ognuna in un “paratico” cioè associazione, raccolte negli ottimi “Statuti” dei mercanti. E anche in questi statuti possiamo sbizzarrirci nel mettere in evidenza delle parole che ci colpiscono, alcune “italianizzate” dal latino, che hanno ancora assonanze nel nostro dialetto, siamo nel 1321. Intanto l’artigiano che realizzava un prodotto, un articolo d’abbigliamento o altro era definito per “Statuto” un “artista qui componit artificium” ma era pure il capo bottega. L’abilità, la precisione, la fantasia erano alla base di un buon prodotto, e come non far il paragone di quando anche decenni fa, si mandava il garzone ad imparare un mestiere “a bottega”. E se nel medioevo piacentino essere un artigiano voleva dire padroneggiare un’arte, nel nostro tempo l’artigianato “spicciolo” è diventato un qualcosa da mettere sotto tutela. Nel “glossario” cioè la raccolta di vocaboli meno comuni, limitati ad un certo ambiente o a certi lavori, troviamo quindi la “bancha” che era il banco ed il posto di vendita sulla via pubblica. Il “biscotto” era il bozzolo della seta, ancora da lavorare, come il “bambaxium” (bambagia) era il cotone; leggiamo della “bugata” (bucato) fatto con cenere e acqua bollente, come le nostre nonne fino al dopoguerra. Leggiamo poi della “cavagna” il cesto o paniere, del “cophinus” un cesto o corbella per il pesce, il “drapus” il panno diviso in “lombardus” e “francischus” prodotti entrambi in Lombardia. Il “formaiarius” cioè formaggiaio che ovviamente rivendeva formaggi ma anche la carne lavorata, sotto sale e spezie, a lunga conservazione. A Piacenza troviamo citata “lana de Garbo” cioè che arrivava dall’Africa settentrionale, molto ricercata e di qualità, e quella detta “ultramontana” che era una lana grezza comprata in Francia ma lavorata a Piacenza. I mercanti trafficavano in “pecia” cioè pezze di tessuto e panno di vari tipi e provenienza: “mozascho” il panno di Monza, “pergomasca” il panno di Bergamo. Un bell’andarivieni sulle pietrose strade piacentine di carri carichi di lana e cotone grezzi o di pezze di stoffa da tingere o rifinire. L’arrotino era detto “moletta”, il molitta che decenni fa arrivava gridando e “tintinnando” metalliche forbici e coltelli mentre il barcaiolo professionista è il “navarolus”. Lo “stacionarios” era il bottegaio rivenditore e si dan regole agli “albergator” ma anche per gli “hosterius”. Non mancano regole ferree per i lavoranti detti “batitoribus lane”, per i “tintoribus” e pure per “batitorum bambaxii” (battitori di cotone). La corporazione o “paraticus” raggruppava quindi tutti coloro che erano dediti alla stessa attività artigianale o di commercio; a Piacenza troviamo ben definite ed elencate negli statuti del 1321 già quindici associazioni tutte sotto la direzione generale del Collegio dei Mercanti. Tra queste società la maggior parte si occupa di produrre tessuti, ma non manca il “Paraticus Campsorum” cioè dei cambiavalute, dei “fabrorum” fabbri, indispensabili, quindi pure i “tinctorum” tintori con i “tellarum scletarum” cioè fabbricanti di tele colorate. Tutto un mondo medievale di artigiani piacentini specializzati e come li diremmo oggi uomini “dalle mani d’oro” che sicuramente sarebbero insigniti della Croce di Cavaliere del lavoro.

Mercanti medievali

“La tabula “peutingeriana” e l’area piacentina in epoca romana”, uno studio storico di Umberto Battini già pubblicato in ILPiacenza.it

Parte della Tabula (zona piacentina)

È una mappa storica d’importanza cruciale, antica e che nel suo originale viene datata almeno alla metà del IV secolo, mentre quella esposta in Austria è derivata da quella antica e riprodotta nel medioevo. Anzi, già gli studiosi accreditano la copia medievale ad un’altra di età carolingia, dall’epoca romana venne “tramandata” e ricopiata per via delle informazioni topografiche che riportava. Basta dire che l’Unesco l’ha messa nel “Registro della Memoria del mondo”, una carta geografica che contiene tutto “l’orbe” conosciuto in quei secoli, pensate che è una delle fonti più importanti al mondo per identificare toponimi antichi. E qualcosa di piacentino c’è. Ovviamente è riprodotta una porzione del nostro territorio con le strade e la distanza delle “mansio” (stazioni di sosta e cambio cavalli) per la direzione Parma, Milano, Pavia e ovviamente ben oltre. Il disegno del territorio piacentino costeggia quindi il “flumine Padus” anche se, per errore, è stato posto tutto sulla sponda sinistra, mentre siamo saldamente su quella destra. Un errore che non inficia il risultato dei toponimi. È suddivisa “in blocchi” cioè in varie mappe, e interessante è quella appunto relativa alla nostra zona, dove compaiono le località di “tappa” giornaliera lungo l’antica via romana cioè le “mansio”. Intanto si nota bene la città di “Placentia” con la strada che porta verso Lodi “Laude Pompeia” e quindi su fino a “Mediolanum”, proseguendo invece verso est si arriva a “Florentia” che è Fiorenzuola d’Arda. Dalla città verso ovest si punta su “Ad Padum” che significa “Al Po” che è identificato dagli studiosi come l’area vicina a Calendasco, luogo di passo del Grande Fiume sulla strada romana diretta a Pavia. Non per nulla restò luogo di traghetto per secoli, per diventare snodo cruciale della Via Francigena tra Lombardia ed Emilia. L’itinerario della “Tabula” prosegue e passa il fiume Lambro dove si approda a “Quadrata” segue poi la località “Lambrum” per poi arrivare alla città di Pavia “Ticeno”, nome che richiama appunto il fiume Ticino su cui sorge. Circa la distanza che è segnata fra “Placentia” e “Ad Padum” (area di Calendasco), gli studiosi indicano che vada letto in IV (4) miglia e non XX (20), come effettivamente appare ancora oggi, circa sei chilometri. Eravamo parte della Gallia Cispadana e basti ricordare che la Via Emilia venne iniziata nel 189 a.C. e terminata circa tre anni dopo, ebbene nella “Tabula” questa via romana che collegava Piacenza a Rimini, non è ancora segnalata, quindi il segmento che ci riguarda venne disegnato anni prima. La città di Piacenza venne edificata nel 218 a.C. su di un terrazzo alluvionale del Po, e controllava l’area ovest verso “Clastidium” cioè Casteggio e Stradella ed era in simbiosi con Cremona sull’itinerario romano della via Postumia. Dobbiamo l’aver rintracciato e conservato questo reperto al grande antichista tedesco Konrad Peutinger e da qui appunto il “nome” della preziosa mappa. A Vienna l’originale è conservato nella Biblioteca Nazionale Austriaca, ma una copia, grandissima, la possiamo vedere da vicino a Brescia nel Museo di Santa Giulia. Ad ogni modo la mappa è una solida testimonianza della posizione strategica, sotto vari punti di vista, di Piacenza e relativi luoghi principali, già cruciali oltre duemila anni fa.

Umberto Battini, ricercatore storico

“Nomi, cognomi e luoghi del medioevo piacentino: non poche persone prendevano per cognome il loro luogo di nascita e di residenza”, contributo di Umberto Battini pubblicato in ILPiacenza.it

Scartabellando i volumi del “Registrum Magnum” del Comune di Piacenza facciamo un’incursione rapida tra nomi di persona, cognomi e luoghi in uso circa 800 anni fa. Ci si fa poco caso, anche perché sono frammischiati a testi notarili in rigoroso latino, ed allora proviamo a farne una scelta. Uno tra i nomi di persona, ben diffuso nel medioevo Piacentino, è “Iohannes”, Giovanni, che a decine ricorre citato nelle carte secolari e probabilmente si deve alle “predicazioni” che inneggiavano a San Giovanni il Battista. Invece tra quelli di donna “Agnesia, Agnesina” ha buona diffusione, anche in questo caso probabile sia dovuto alla devozione per Sant’Agnese martire, patrona dei barcaioli e che a Piacenza vantava un “proprio” quartiere, lo stesso d’oggi. Ma tanti piacentini si chiamavano anche “Albericus” e il classico “Francischus”, e già 800 anni fa, un nome maschile “moderno” diffusissimo era “Albertus” con il classico “Antonius” e “Gerardus”. Probabilmente sono nomi riferiti uno al Santo abate guaritore dal famigerato “fuoco” e del quale nella località “S. Antonio extra muros” era la chiesa con convento ed ospedale e l’altro al piacentino San Gerardo divenuto vescovo e patrono di Potenza. Tra le donne spiccano “Sibilia, Mabilia, Isabella, Egidia, Imelda” tutti nomi che hanno un che di veramente medievale, che sanno di “romanzo di gesta cavalleresche” ben famosi in quel tempo. Tra i nomi propri molto estrosi, abbiamo letto di uomini chiamati “Acerbus, Loxius, Manzus, Niger, Spicigus, Ruffa, Ugitio”; nei cognomi invece la fantasia dell’uomo medievale si sbizzarrisce senza limiti e sfiora il comico. Così nel territorio di Piacenza troviamo nelle carte di notaio i cognomi “Bucadasina” (Bocca d’asina), un certo “Burrinus”, un “Cacaterra”, un “Bocabadada” (Bocca badata, aperta), un certo “Gnaccus”, un “Gratarola” con “Scovaluccus”, quindi “Codeporcus” (testa di porco) e “Cacaincampo” con “Buccapicinam”. Tra i luoghi citati nel “Registrum Magnum”, cioè borghi e frazioni d’antica fondazione, ad esempio leggiamo di persone “de Tuna”, “de Peccoraria”, “de Bubiano”, “Cavursium” (Caorso), “Rivalgario”, “Torano”, “Vicomarino” e “Preducca” con molti altri, dalle terre del Po e quindi alla collina e su fino alla montagna. Non poche persone “prendevano” per cognome il loro luogo di nascita e di residenza, si trova citata tra la documentazione praticamente buona parte di tutta la nostra provincia. Uomini e donne piacentini, che ancora ci parlano di medioevo, per mezzo di queste vecchie carte ingiallite, del loro curioso approccio senza fronzoli verso nomi e cognomi, che venivano appiccicati dalla nascita. E dietro ad ogni nome curioso ai nostri occhi, si nasconde una persona particolare, unica, che ha calpestato lo stesso suolo piacentino sul quale anche noi oggi camminiamo.

“Nel periodo longobardo il sale arrivava via Po”, ricerca storica di Umberto Battini in IlPiacenza.it: “Quando dal porto piacentino ripartivano allora dovevano pagare una moneta quando si levava l’ancora dal palo dove era attraccata la nave”

Una mappa del Po del XVI° secolo

L’importanza del sale: da sempre e per sempre ma ancor di più nei secoli passati, dove Piacenza non poteva non essere al centro di questo commercio, che si praticava soprattutto per mezzo della via fluviale maggiore, cioè il Po. Ci siamo concentrati a studiare un periodo particolare, quello longobardo, che a differenza di quel che molti forse pensano, non fu un tempo barbaro e truce. Ne abbiamo viste di peggio, circa 300 anni dopo, con l’invasione degli Ungari, che nei documenti sono chiamati “pagani” e che misero a ferro e fuoco città e territorio, e questi sì, in modo barbaro. Il trasporto fluviale dei prodotti era già al tempo longobardo veramente cruciale, le derrate prevedevano lo stoccaggio e la distribuzione ed il sale era uno di quei beni importantissimi: era essenziale per la conservazione dei cibi quali pesce e carne. Tant’è che il re Liutprando fa un “Capitolare” nel 715 (per alcuni l’atto è del 730) ma poco cambia e l’originale si conserva addirittura nella vicina Cremona. Un “Capitolare” è un atto giuridico scritto, fatto dal re assieme ai suoi “pezzi grossi”  e suddiviso in articoli dove si danno le norme per un fatto particolare, e quello con i comacchiese riguardava proprio il sale ed i dazi lungo i porti sul Po da Comacchio a Pavia. Nel documento si elencano i porti di attracco ed ovviamente si cita quello piacentino posto ad ovest, qui i mercanti potevano fermarsi e pagare il dazio di “ripatico” in sale, quello portato dall’Adriatico. Sul fiume in zona piacentina, i mercanti facevano la “palifactura” (attracco) al “portus qui dicitur Lambro et Placentia”, un punto di fiume strategico tra Po e foce Lambro che era navigabile. È proprio nel tempo longobardo che anche dalle nostre parti si sviluppa e meglio, una rete di trasporti che dagli approdi del Po si districava poi sulle antiche strade romane che passavano nel piacentino. Basta pensare alle quattro strade romane: via Mediolanum, via Emilia, via Postumia e la  Placentia-Ticinum (Piacenza-Pavia) che passava a Calendasco, puntando sull’altra sponda di fiume, cioè Corte Sant’Andrea. Così nella “Constitutio Liuthprandi regis Longobardorum de censu portorum vel portuum” del 10 maggio 715 fatta nella capitale Pavia, abbiamo letto dal testo latino che i “militi” comacchiesi, per fermarsi nel nostro porto, eran tassati di “sale modios XII” cioè 12 moggia aride più o meno un 10 chilogrammi. Quando dal porto piacentino ripartivano allora dovevano pagare “tremisse palo solvendum” cioè una moneta (la tremisse) quando si levava l’ancora (solvendum) dal palo in Po dove era attraccata la nave. Il porto citato dal documento longobardo “qui dicitur Lambro et Placentia” è bene o male ancor oggi “visibile” nel senso che le meandrazioni del Grande Fiume, nei secoli, non hanno spostato di molto le vecchie ed antiche ubicazioni però le due anse ovest non erano così accentuate. Liutprando, Re dei Longobardi e d’Italia, rafforzò il ruolo della capitale Pavia con grande intelligenza, mette nero su bianco le leggi che regolamentano il modo di organizzare e gestire questi traffici mercantili via fiume, insomma è un buon “Capitolare” questo del 715. Regola il modo dei controlli alle merci degli ufficiali, ed il modo di riscossione dei dazi cioè “i riparii”, e son comprese le regole di scarico delle navi, pesatura e vendita. Nel prezioso documento, i porti li vediamo lungo il corso del Po come caselli doganali fortificati per difendere i commerci e imporre il pagamento dei dazi per le varie tipologie di merci. L’accordo economico commerciale con Comacchio portò benessere anche qui a Piacenza, infatti i comacchiesi ritornavano nel polesine con le loro imbarcazioni cariche dei prodotti comprati qui in loco. Un bel tempo quello della dominazione longobarda nel piacentino e che, come ben sappiamo avendone già trattato, ci ha lasciato anche il più antico documento longobardo d’Italia: la “Charta de accepto mundio” del 12 maggio del 721.