Con Simone Tansini, baritono, a lezione di musica per “Il Flauto Magico” di Wolfgang Amadeus Mozart in Galleria Biffi Arte lo scorso 15 aprile

Simone Tansini, baritono

Devo confessarlo. Per tutta la vita io e l’opera lirica siamo stati due estranei per reciproca libera e consapevole scelta. Assistendo, in gioventù, ad un paio di rappresentazioni, abbiamo reciprocamente preso atto di un’estraneità assoluta. Non tanto per la musica ma soprattutto per il fatto che dei testi cantati non capisco un’acca e di conseguenza non afferro il senso della musica e così esco dal teatro che sia ripromettendomi di non tornare mai più, salvo rarissimamente seguire o accompagnare Dalila considerando che per tutti i sacrifici suoi per assecondare le mie passioni, é cosa buona e giusta e malauguratamente inevitabile che, una volta ogni decennio, mi suicidi a mia volta. Come dire? Do ut des di coppia: ogni dieci sacrifici suoi, uno mio. Ah, per Amor cosa non si fa ma por favor senza esagerar.

Poi succede che conosco questo amico, editore, scrittore, maestro nella realizzazione di torte e altri dolcetti a dir poco divini ma soprattutto mio malgrado e inizialmente a mia insaputa, baritono solito a salire sui palchi ed esibirsi professionalmente e che, con entusiasmo, poco dopo poco l’iniziale superficiale conoscenza accenna appunto alle sue rappresentazioni. Lo conosco perché, almeno per un certo periodo, frequenta un’associazione, Fabbriche e Nuvole in via Roma al 163, per la quale da tre anni gestisco e conduco una rassegna letteraria settimanale con narratori e poeti piacentini e, tra questi, quell’amico che oltreché in quello che si definisce il bel canto lo scopro uso a scrivere rivedendo le trame di opere accompagnandole con illustrazioni di un noto autore di fumetti (tal Genzianella, autore di Dampyr che spesso acquisto fin dall’uscita del primo degli attuali 301 numeri). E confesso, sono caduto in trappola, anzi ho legato il mio destino a quell’amico acquistando prima un paio dei suoi libri (peraltro editi da lui stesso avendo aperto appunto una casa editrice specializzata) e poi addirittura presentandoli.

Così, inavvertitamente, mi sono avvicinato al mondo della lirica finalmente riuscendo a capire qualcosa: é bastato leggere le trame sia pur rivedute corrette rimodellate nelle pubblicazioni di Simone per un primo contatto. In seguito quello stesso amico, appunto Simone Tansini, ha iniziato un ciclo di lezioni presso la Galleria d’Arte Biffi in via Chiapponi e malauguratamente si é presentata la temuta occasione nella quale Dalila ha pensato di partecipare e, a quel punto, come potevo esimermi? Certo è stata durissima ma con mia grande sorpresa non mi sono trovato alla rappresentazione di un’opera ma alla sua spiegazione ben zuccherata con aneddoti, retroscena, storia e vita dell’autore in modo da poter capire il cuore dell’opera. Come sorbirsi un ottimo caffè doppio che ti evita il subentro del sonno incontenibile, della palpebra che inesorabile s’abbassa costringendo Dalila a “bollarmi” col gomito o col ginocchio. Uno stimolo di grande efficacia: sono tornato a casa e ho cominciato a studiare, ad approfondire, a scoprire i retroscena, l’anima dell’autore, del librettista, dell’opera. Si trattava in quel primo caso della Madama Butterfly e, partendo dal profondo della mia già rilevata ignoranza (che nel campo é profonda più profonda del fondo peggio di quel pozzo reso famoso da Fabrizio De Andrè) ne ho fatto un piccolo post dedicato sul mio blog personale (eccolo qui). E, da lì, la mia presenza é stata costante. Così nasce se non proprio una passione un primo interesse.

Ultima occasione lo scorso 15 aprile ancora alla Galleria Biffi Arte dove Simone nella sala sold out ha tenuto una lezione sul tema “Il Flauto Magico: tra fiaba e ragione con qualche simpatica scivolata su espressioni dialettali capaci di far sorridere il pubblico che non ha lesinato applausi a scena aperta (lo stesso Simone ha invitato al contenimento per evitare di non rispettare l’ora fissata per la chiusura del locale). Quel che però ha particolarmente attirato l’attenzione sono state le considerazioni sul significato in termini simbolici dell’opera.

Dunque, eccoci di fronte ad un’opera magica pervasa da riferimenti misteriosofici e massonici. Mozart, devoto e praticante per tutta la vita, manteneva però una certa libertà di pensiero critico per cui nel 1784, nel pieno del successo come pianista e compositore aderisce alla massoneria. L’opera fu il lascito agli uomini, il suo appello agli ideali dell’umanità protesa verso il bene e il bello, contro le forze del male e del buio. In buona sostanza un’opera rappresentativa dell’Illuminismo dei suoi principi e dei suoi valori (ragione, libertà e progresso). Interessantissime le figure dei personaggi protagonisti: la buona Regina della Notte apparentemente disperata per il rapimento della figlia Pamina ma che si rivelerà lei stessa mandante del rapimento; Tamino, principe azzurro, mitico eroe che libererà la principessa ma che rivela le sue debolezze di comunque semplice uomo per quanto appartenente alla casta nobile; Papageno, umile popolano che saprà rendersi protagonista pur senza esorbitare dal suo ruolo sociale (riconosce la bellezza di Pamina ma sa subito che non fa per lui, non tenta di averla, sa che fa parte di un altro mondo diverso dal suo, mentre Papagena per quanto gli si presenti come una brutta vecchia è la popolana che come tale fa parte del suo mondo e sarà lei la donna “alla sua portata” che lui vuole); Monostato, apparente criminale che si ritiene offeso dall’essere ingiustamente emarginato a causa della sua pelle scura quasi anticipando un problema all’ordine del giorno ancora nel nostro mondo d’oggi; Sarastro che si presenta come mago crudele al servizio della Regina della Notte e che si rivelerà sacerdote di giustizia e valori d’una società illuminata, guida verso la luce contrapposta al buio, sostenitore dei tre valori fondamentali: il rispetto della natura, la ragione, la saggezza; infine ulteriore protagonista il numero tre (numero sacro per la massoneria) che ricorre diverse volte nel corso dell’opera: il tema musicale ritorna tre volte, ed ancora tre le damigelle, tre i geni, e (nel cast originario) tre gli schiavi, tre i sacerdoti, tre i Templi (appunto Natura, Ragione e Saggezza) e tre le prove che Tamino deve superare per purificarsi. Bene e a questo punto non resta che aspettare settembre, quando l’amico editore, scrittore, docente, baritono professionista, divulgatore della conoscenza e dell’amore per l’opera e il bel canto, si ripresenterà alla Galleria Biffi Arte per illustrare altre opere.

IL FLAUTO MAGICO di Wolfgang Amadeus Mozart (Fonte: drammaturgia.fupress.net)

Un paesaggio montuoso, con un tempio sullo sfondo in un Egitto immaginario. Il principe Tamino, disarmato, è inseguito da un serpente; sfinito, cade svenuto («Zu Hilfe! zu Hilfe»). Dal tempio escono tre dame velate che uccidono il serpente e, dopo aver ammirato la bellezza del volto del giovane principe, si allontanano per informare della sua presenza la loro signora, la Regina della Notte.

Tamino fugge dal serpente gigantesco

Tamino, ripresi i sensi, crede di dovere la propria salvezza a Papageno, un uccellatore vagabondo vestito di piume (che cattura volatili per le tre dame in cambio di cibo e vino), sopraggiunto nel frattempo («DerVogelfänger bin ich ja»). Ma Papageno è subito smascherato e punito per la sua menzogna dalle tre dame, che gli chiudono la bocca con un lucchetto d’oro e mostrano al principe il ritratto di Pamina, figlia della Regina della Notte: il giovane se ne innamora all’istante («Dies Bildnis ist bezaubernd schön»). Con fragore di tuono appare la Regina della Notte, che spiega a Tamino come la figlia sia stata rapita da un malvagio di nome Sarastro e supplica il principe di liberarla, promettendogliela in sposa («O zittre nicht… Zum Leiden bin ich auserkoren»). Le dame donano al giovane, che si è offerto di salvare Pamina, un flauto d’oro incantato. A Papageno, liberato dal lucchetto, consegnano invece un carillon magico e gli ordinano di accompagnare Tamino nell’impresa.

Pamina

Sala nel palazzo di Sarastro. Pamina, che ha tentato di fuggire per sottrarsi alle insidie del moro Monostato, è stata nuovamente catturata. Sopraggiunge Papageno, che involontariamente mette in fuga Monostato, spaventato dal suo strano aspetto. Papageno rivela alla fanciulla di essere stato inviato dalla Regina della Notte, insieme a un giovane principe che l’ama. I due, pieni di speranza, esprimono la loro fede nella forza dell’amore («Bei Männern, welche Liebe fühlen»).
Luogo antistante l’ingresso ai templi della Ragione, della Natura e della Sapienza. Guidato da tre fanciulli,Tamino giunge dinanzi a tre templi: se l’accesso al tempio della Ragione e a quello della Natura gli viene impedito, si schiude la porta del tempio della Sapienza.

Sarastro

Un sacerdote spiega a Tamino che Sarastro non è un essere malvagio e che Pamina è stata allontanata dalla madre per profondi e imperscrutabili motivi. Rimasto solo,Tamino si domanda se la giovane sia ancora in vita. Un coro invisibile risponde di sì. Risollevato, il giovane comincia a suonare il flauto e subito sbucano dal bosco gli animali resi mansueti dal suono dello strumento. Da poco lontano Papageno risponde con il suo zufolo al richiamo del flauto. Il carillon magico di Papageno obbliga Monostato e alcuni servi, che stavano per catturarlo insieme alla fanciulla, a danzare e marciare come per magia. Sopraggiunge Sarastro con il suo seguito. La giovane implora perdono per la fuga, ma Sarastro si rifiuta di lasciar tornare Pamina dalla madre.Tamino viene trascinato da Monostato al cospetto di Sarastro. Il principe e Pamina si riconoscono al primo sguardo e si abbracciano. Sarastro ordina che Monostato venga punito per aver insidiato la fanciulla e fa condurre Tamino e Papageno al tempio degli iniziati.

La Regina della Notte

Bosco di palme. Sarastro chiede ai sacerdoti degli iniziati di accogliere Tamino nel tempio, dove verrà sottoposto alle prove che gli consentiranno di appartenere alla schiera degli eletti e di sposare Pamina: la richiesta viene accolta e tutti invocano Iside e Osiride affinché donino alla nuova coppia spirito di saggezza («O Isis und Osiris»).Tamino viene condotto nell’atrio del tempio per essere sottoposto alla prima prova: mantenere il silenzio qualunque cosa accada. Da parte sua, Papageno si mostra spaventato e recalcitrante. Si lascia convincere dalla promessa di ottenere finalmente una compagna. I tentativi delle tre dame, inviate dalla Regina della Notte per costringerli a parlare, sono respinti, e alla prima prova superata Monostato si avvicina furtivamente a Pamina addormentata: vorrebbe baciarla («Alles fühlt der Liebe Freuden»), ma è cacciato dalla Regina della Notte che, porgendo un pugnale alla figlia, le ordina di vendicarla uccidendo Sarastro («Der Hölle Rache»).

Monostato

Monostato, non visto, ha ascoltato tutto e minaccia di rivelare l’intrigo qualora Pamina non acconsenta alle sue brame. Ma giunge in tempo Sarastro, che dopo aver scacciato Monostato si rivolge a Pamina spiegandole che solo l’amore, non la vendetta, conduce alla felicità («In diesen heil’gen Hallen»).
Sala del tempio.Tamino e Papageno sono invitati dai sacerdoti a rimanere ancora in silenzio. Papageno inizia a conversare con una vecchia che scompare non appena egli le domanda quale sia il suo nome. Ricompaiono i tre fanciulli, che recano, insieme agli strumenti di Tamino e Papageno, una tavola imbandita. Mentre Papageno è felice di mangiare e bere, Tamino suona tristemente il suo flauto. Sopraggiunge Pamina, ma alla sua gioia di rivedere l’amato Tamino non può rispondere. Disperata, Pamina crede di non essere più amata e si augura la morte («Ach, ich fühl’s, es ist verschwunden!»).
Antro delle piramidi. Sarastro esorta i due innamorati a pazientare, giacché altre prove li attendono («Soll ich dich,Teurer,nicht mehr sehen»).Al suono del carillon, Papageno medita sulla sua solitudine e sul suo desiderio di incontrare finalmente una donna che sia fatta per lui («Ein Mädchen oder Weibchen»). Riappare la vecchia, che cela in realtà la bella Papagena. Quando Papageno cerca di abbracciarla, la giovane scompare.

Papageno

Un giardino. Pamina, credendosi abbandonata da Tamino, tenta di uccidersi, ma è salvata dai tre fanciulli, che la rassicurano sui sentimenti dell’amato.
Paesaggio montuoso.Tamino è scortato nel frattempo da due armigeri che lo conducono alle prove supreme del fuoco e dell’acqua, e poco dopo Pamina si unisce a loro. Al suono del flauto magico, le prove sono superate con successo. Ma Papageno è disperato perché Papagena è scomparsa. I tre fanciulli gli suggeriscono di suonare il carillon magico e così la fanciulla riappare. Nella scena conclusiva Monostato, la Regina della Notte e le tre dame meditano di uccidere Sarastro e di prendere così il sopravvento sugli iniziati, ma sono subito travolti e vinti. Tutta la scena è invasa dalla luce del sole. Sarastro e i sacerdoti celebrano la vittoria della luce sulle tenebre («Die Strahlen der Sonne»).

“Storie di luce tra nuvole e schegge”: i dipinti di Donatella Sommariva ammirati alla mostra in Biffi Arte

Donatella Sommariva, senza titolo

I quadri di Donatella Sommariva, recentemente osservati in mostra alla Galleria Biffi Arte mi hanno suggerito l’idea di una energia celata tra vapori luminosi, forse nuvole, forse difetto d’una vista disturbata, forse semplicemente visione onirica che parla di Caos primordiale, di aria, di vento, di luce, di misteriose realtà volanti che scendono fischiando feroci dal cielo.

Donatella Sommariva

Rappresentazione del lungo percorso dell’umanità, un sentiero colorato di rosso (forse il sangue versato dall’uomo secolo dopo secolo nel nome di bandiere dichiarate più giuste di altre?), sentiero che scende attraversando scoscese montagne illuminato da un cielo azzurro come simbolo di speranza.

Donatella Sommariva

Una speranza che muore in quel fungo bianco che s’alza al cielo mentre alla sua base non resta altro che il rosso del sangue nuovamente versato, della fine dell’umanità. E con la fine di tutto non resta altro che la luce, il giallo luminoso che segna il percorso verso un altro Altr/Ove, nuovo definitivo approdo dell’anima.

Donatella Sommariva

“Annibale, percorso introspettivo nella città invisibile”, la mostra a XNL fino al 2 marzo. Articolo di Antonella Lenti

Bartolomeo. Piacenza. Gennaio 2025 (by Chiara Fossati)

Cesura, TIFF e la Città Moderna, i collettivi in una mostra di foto, voci, filmati, suoni a XNL. Fino al 2 marzo

Si chiama Annibale Photobuster Piacenza 2025. E’ più di una mostra, più di un laboratorio d’immagini, voci, suoni luoghi e volti. È un percorso introspettivo che obbliga ciascuno di noi a vedere, a entrare in una città multiforme, celata in anfratti bui e nascosti che ci ostiniamo a non vedere. La città invisibile.

Il risultato finale che si mostra al visitatore è frutto di sensibilità diverse. Sono nate per la curiosità di vivisezionare il luogo in cui si vive, conoscerne gli aspetti più nascosti e poi, tanto magistralmente coordinato da offrirsi come l’esibizione di un’orchestra visiva in cui ogni componente trova il suo ritmo armonizzandosi con l’altro. Ne esce l’interpretazione corale di uno spazio urbano che continuiamo a immaginare spezzato, diviso in gironi (uppertown e downtown) l’uno staccato dall’altro. Non è così.

La mostra, aperta il 7 febbraio, resterà visitabile fino al 2 marzo.

Annibale – Che ci racconta?

Abbacinati e travolti dai contorni della vita di tutti i giorni su cui ci si deve adagiare, pena l’esclusione, non vogliamo vedere la società che si è trasformata intorno a noi.

Può essere una ricchezza. Può essere una contaminazione positiva. Può essere l’evoluzione per stare meglio insieme. Basta conoscerlo. Se solo fossimo disposti a osservare, a capire e a immaginare quest’altra Piacenza che resta ai margini. Perennemente e quindi a priori esclusa. Non vediamo, non la pensiamo la città nascosta. Talvolta non la sopportiamo. Quasi sempre perché ne abbiamo paura.

Ciò che non si conosce si teme. Non c’è modo più semplice e più intelligente di guardare in faccia la realtà che ci circonda per regalarci dei passi avanti nella vita quotidiana di tutti.

Non lo facciamo. Convinti e paghi di quello che ci appare. Ci è sufficiente essere certi che ciò che vediamo in superficie non cambierà il nostro quieto vivere, i ritmi che abbiamo imparato e che siamo pronti a tramandare.

Il percorso intimistico, introspettivo su cui si sviluppa la mostra ci spara negli occhi quello che non si vede e non vogliamo vedere. Ci toglie dal calore dell’agiatezza egoistica in cui ci rannicchiamo.

Lo fanno i lavori in immagini, video, parole che sono racconti e musica i tre collettivi che a Piacenza lavorano per svelare quest’altra Piacenza: Cesura, La Città Minaccia e Tiff nello spazio espositivo di XNL Piacenza, Centro d’arte contemporanea, cinema, teatro e musica che hanno incontrato il favorevole sostegno della Fondazione di Piacenza e Vigevano che sulla città, sulla struttura urbana che cambia ha già mostrato un interesse particolare dedicando varie mostre all’argomento.

Le due che hanno visto protagonisti i lavori di Prospero Cravedi sono un esempio. Quella in corso a XNL si presenta come una riflessione metropolitana che si addentra – anche crudemente – nelle contraddizioni del nostro tempo. Nella contemporaneità che è la realtà di oggi e che cammina veloce cambiando se stessa in corso d’opera.

Dieci gli artisti che ci offrono una delle tante facce dello spazio urbano che abitiamo. Questi i loro nomi. Per  “Cesura” Arianna Arcara, Giorgio Dirindin, Chiara Fossati, Marco Zanella; per: “Tiff” Dallavalle-Guerrieri, Elisabetta Granata, Patrizio Maiavacca, Marco Rigamonti; per “La Città Minaccia”: Andrés E. Maloberti e Nicola Roda. Tutti, coordinati dal fotografo Alex Majoli, hanno lavorato fino all’ultimo minuto per rendere possibile l’apertura della mostra. Primo impatto il buio totale.

Primo impatto il buio totale. Si afferrano con gli occhi grandi tele che calano dall’alto, nulla ha contorni poi, improvvisamente, le tele si accendono, ti catturano, ti fanno girare in tondo quando scorgi i ritratti di ragazze giovanissime dalle espressioni smarrite in cerca di un sé ancora non definito; spaccati di vita lungo il Po e i resti che la presenza umana lascia sulle sue sponde; c’è anche l’acqua. Sì perché Piacenza è città d’acqua fin dai romani, tanti rivi e canali e lo è ancora anche se molti sono interrati.

Ci sono le immagini di umanità che respira la nostra stessa aria e che ci scivola attorno non vista, non considerata come fosse fantasma. Eppure la mostra comunica apertura e la disponibilità a raccontarsi e mostrare gli spazi di vita come la propria casa di famiglie marocchine, sudamericane. Ci sono le studenti cinesi del Conservatorio, un mondo parallelo di cui quasi non ci si accorge.

Ci ritroviamo di fronte alle istantanee della città dall’alto riprese a volo di drone e ancora  le zone del lavoro povero: le logistiche di Castel San Giovanni e Piacenza, ma anche i racconti della vita vissuta ascoltata attraverso i vetri della casa di riposo che si trova sul Facsal. Spaccati di una città contemporanea. Un misto di bellezza e di contraddizione, disagi, preoccupazioni, ma anche vitalità di un corpo che si muove e muta strada facendo.

Tutto questo circonda il visitatore che vi è immerso (anche per  effetto dell’intelligente esposizione circolare) e ne resta ammaliato. Resta quasi stregato dal viaggio nella città che non conosci.

All’uscita, insieme alla luce, senti che questo viaggio nella città nascosta cambierà d’ora in poi, la visuale con cui osservi le cose, le persone, la vita che ti scorre accanto.

Sì, quello spazio buio, quello spazio caleidoscopico di verità sconosciute che si è acceso con le immagini, che si è animato con le voci e la musica, quei volti da cui trasudano le storie sconosciute su cui si fissano tracce di speranza e angoscia insieme è stato un percorso di crescita.

Annibale – La presentazione

Alla presentazione della mostra prima dell’inaugurazione di venerdì 7 febbraio Mario Magnelli, vicepresidente della Fondazione di Piacenza e Vigevano ha espresso apprezzamento per la volontà e l’impegno dei tre collettivi nell’elaborare, per la prima volta, un percorso condiviso. La direttrice di XNL Arte Paola Nicolin nell’introduzione ha ricordato che il progetto  si inserisce in un percorso che XNL ha iniziato tempo fa per dar voce agli sguardi sulla città e il suo territorio. Il valore d Rete Culturai è stato il concetto sottolineato anche dall’assessore comunale Cristian Fiazza

Anche gli autori, in quella stessa occasione, hanno sottolineato lo specifico di una città di confine intesa fin da Annibale come città di passo. Dove si arriva si lascia qualcosa e poi si riparte.

Quella caratteristica ha determinato le stratificazioni urbane e non solo. Anche la contaminazione sociale che dà la fisionomia del posto in cui viviamo e di cui ci possiamo sentire maggiormente parte. Alex Majoli – che si è autodefinito editor della mostra – ha messo in rilievo il metodo utilizzato per mettere in scena la città.

Il segreto è stato creare un collante tra loro alfabeti espressivi diversi facendone un prodotto unitario in un viaggio di 20-25 minuti. Un viaggio – ha  sottolineato – da cui si traggono tanti spunti per analizzare il presente.

Del resto la cultura serve per creare la politica e non viceversa. Il percorso proposto a XNL è una proposta, sostenuta da Rete Cultura, che arriva dal basso dai collettivi e che la Fondazione ha accolto.

Per due settimane a gennaio, la città è diventata il punto focale di un dialogo artistico tra tre collettivi: Cesura, TIFF e La Città Minaccia. Insieme, si sono immersi nella città per esplorarla, interpretarla e reimmaginarla, intrecciando le loro prospettive uniche in una narrazione visiva condivisa, attraverso una pluralità di sguardi e voci.

Antonella Lenti

Annibale – I PROGETTI ESPOSTI NELLA MOSTRA

(materiale fornito da XNL)

  • Piacenza e Castel San Giovanni: i poli logistici

Il progetto fotografico di Arianna Arcara indaga le dinamiche dei poli logistici di Piacenza e Castel San Giovanni, epicentri di movimenti e scambi che hanno trasformato la geografia del territorio. Queste distese di cemento, crocevia di merci e lavoro, rappresentano non solo l’efficienza logistica ma anche un simbolo tangibile delle tensioni che attraversano il nostro tempo: il precariato, l’immigrazione e le fragilità del sistema economico.

Arcara esplora le contraddizioni di questi luoghi, alternando uno sguardo sulle grandi infrastrutture che orchestrano i flussi commerciali e sulle persone che operano in questi spazi, spesso invisibili ma centrali per il loro funzionamento. Il risultato è una riflessione su un paesaggio che è insieme concreto e simbolico, statico e in costante evoluzione.

  • Piacenza terra di passaggio come ieri

Piacenza ha da sempre svolto il ruolo di “terra di passaggio”. Crocevia per mercanti, eserciti e pellegrini nel corso dei secoli, la città si è arricchita di un’identità multiculturale e di un mosaico di influenze diverse. Ancora oggi, la sua natura di luogo di confine e transito le conferisce un carattere cosmopolita e centro di scambi.

Con Photobuster Piacenza Giorgio Dirindin esplora le vite di coloro che attraversano la città come moderni viandanti, dalla stazione all’hub logistico, raccontando i loro luoghi e le loro persone.

  • Avere 20 anni oggi

Com’è avere 20 anni oggi, tra social, solitudine, guerre e paura? Questo è ciò che ha spinto Chiara Fossati a creare il progetto Comete.

Da sempre affascinata dai giovani, in quel momento di vita pieno di possibilità e contraddizioni, ha deciso di ascoltarli e dar loro voce. Si rivolge alle ragazze, stelle che brillano o si infrangono contro la vita. Le incontra, intervista e fotografa ovunque: centri commerciali, scuole, piazze, catturando sogni e paure, per raccontare i mille modi di vivere i 20 anni.

A Piacenza durante Photobuster ha cercato di incontrare più giovani possibili per raccontare come vivono la provincia italiana, tra noia, incertezza e paura del futuro.

  • Ricerca e cronaca quotidiana

Nell’ambito di Photobuster Piacenza, il lavoro di Marco Zanella nasce dall’incontro tra la sua ricerca personale e la cronaca quotidiana, in una sinergia che lo vede collaborare con il quotidiano Libertà.

Zanella si muove con sguardo curioso tra mondi che si intrecciano, uniti dalla cerniera di popoli che la città rivela essere e punto di connessione tra realtà sociali e culturali differenti nel tentativo di penetrarne i meandri e alla ricerca di una struttura sociale che non è mai monolitica, ma sempre fluida, complessa e talvolta sorprendente.

Zanella scopre così in Piacenza un avamposto sociale, punto di osservazione privilegiato delle trasformazioni culturali contemporanee, pronto a rivelare la propria essenza quando meno ce lo si aspetta.

  • Un film sul contesto urbano

La coppia di autori Andrés E. Maloberti e Nicola Roda del collettivo La Città Minaccia ha lavorato alla realizzazione di un film che racconta il contesto urbano da una prospettiva inedita, nel tentativo di ribaltare i canoni narrativi classici solitamente associati alle piccole realtà di provincia del nord Italia.

Piacenza è stata spesso rappresentata come una terra di mezzo, una via di passo che tende inevitabilmente altrove, un altrove che proprio in quanto altro, sembra sempre essere automaticamente più interessante.

Questo film è stato un viaggio alla scoperta delle realtà di Piacenza più sconosciute, di quegli spazi urbani che sembrano più inaccessibili, con lo scopo di indagare la struttura di tutte le barriere visibili e invisibili che lacerano il tessuto sociale e politico nella società contemporanea, rendendolo un insieme di compartimenti stagni non comunicanti e spesso in conflitto.

  • Architetture sconosciute del Novencento

L’architettura locale di pregio del Novecento, con particolare riferimento a quella inserita nel Censimento Nazionale Dei Beni Culturali della Regione Emilia-Romagna, non è conosciuta ai più, sebbene valorizzata a livello accademico. Si vuole fornire, attraverso le foto di Dallavalle-Guerrieri, la giusta informazione anche attraverso audio peculiari o informativi.

  • Visti dall’alto

L’excursus fotografico aereo sul territorio urbano Piacentino di Elisabetta Granata ricerca riferimenti topologici caratteristici.

Questa documentazione dall’alto trova la sua formalizzazione nelle connessioni geometriche e astratte di tali luoghi.

  • Gli antichi rivi

Il tema è il “diversivo” est ed ovest di Piacenza riferito agli antichi rivi di contenimento idrico. Mappatura molto particolare di corsi d’acqua (quelli ancora non interrati) conosciuti e caratteristici le cui origini risalgono alla fondazione della città in epoca romana.

La restituzione fotografica di Patrizio Maiavacca è anche quella del vissuto attorno a questi canali, i sentieri, gli orti, le costruzioni. Lavoro di ricognizione territoriale, tra storia ed antropologia contemporanea.

  • Le rive del Po e l’antropizzazione

Le rive del Po come luogo dove l’antropizzazione gioca un ruolo chiave di restituzione semantica della relazione uomo-fiume. Le foto di Marco Rigamonti sono la testimonianza dei segni lasciati da questa antropizzazione sia in senso positivo che negativo; quindi, le industrie, gli edifici, le baracche, gli objet trouvé, o semplicemente le tracce del passaggio umano.

Annibale – NOTIZIE SUI COLLETTIVI

(materiale fornito da XNL)

È un collettivo di fotografi che produce progetti nel campo della fotografia documentaria e di ricerca visiva in ambito artistico, fondato nel 2008. Lo spirito di bottega, che permette al maestro di tramandare le proprie esperienze e conoscenze all’allievo, favorisce un clima di confronto, critica e costruzione attraverso l’esperienza diretta del lavoro e la vita in comune.

Scelgono come sede Pianello Val Tidone, un piccolo borgo tra i colli piacentini, dove il contatto diretto con la natura e la distanza dalla movimentata vita cittadina favoriscono l’immersione profonda nella propria ricerca artistica. L’intento di Cesura è quello di creare una forza indipendente e autonoma nel panorama della fotografia nazionale ed internazionale.(Arianna Arcara, Giorgio Dirindin, Chiara Fossati, Marco Zanella).

Cesura Publish nasce nel 2010 ha iniziato a vendere le prime pubblicazioni per garantire l’autonomia espressiva degli autori del collettivo e promuovere le attività dei fotografi membri. Dieci anni dopo, mantiene i suoi valori d’origine pubblicando una selezione di fotolibri di qualità, come risultato del variegato insieme di progetti portati avanti dai fotografi di CESURA.

Cesura Lab è un laboratorio di stampa fine art dove si realizzano progetti espositivi e di sperimentazione di nuovi processi creativi che consente agli autori di gestire internamente tutto il processo di stampa dalla post-produzione all’allestimento.

È un collettivo extra-urbano indipendente fondato in Val Trebbia, Emilia-Romagna, Italia, nel 2022. Il collettivo raccoglie, promuove e produce progetti artistici che indagano il tema del complesso rapporto tra uomo e natura, mettendo in luce gli emergenti paradossi prodotti dall’economia globalizzata e dal mercato di consumo. (Andrés E. Maloberti e Nicola Roda)

Il collettivo nasce dall’idea di un gruppo di amici con una lunga esperienza nel mondo della fotografia, sia in ambito amatoriale che professionale. Alcuni soci provengono da precedenti esperienze in altri gruppi fotografici.

Finalità del gruppo è favorire la divulgazione della conoscenza, della storia e dell’evoluzione delle arti fotografiche e visive, organizzare corsi, workshop e mostre. Presso la propria sede è inoltre a disposizione degli associati un archivio consultabile, ricco di riviste, testi e libri dedicati.

Al collettivo fa riferimento anche la galleria Spazio BFT, uno spazio dinamico che durante l’anno ospita incontri e mostre, offrendo ulteriori occasioni di confronto e crescita culturale.

(Dallavalle-Guerrieri, Elisabetta Granata, Patrizio Maiavacca, Marco Rigamonti)

(by Marco Rigamonti)

“Gli orizzonti e la memoria”, mostra di Prazz (Stefano Prazzoli) alla Biffi Arte fino al 25 gennaio

Destati Ricordi D’Estati, di Prazz

Una mostra di opere dove spazio reale e luogo immaginario si fondono in un tutt’uno originale capace di stimolare la curiosità prima e la fantasia immaginaria poi dell’osservatore. Inevitabile affidarsi alla propria memoria di immagini vissute dando senso e contesto a quanto appena sfiorato più che spazialmente definito e raffigurato nei dipinti. Come sottrarsi dunque alla nostalgia del ricordo di quando, bambino, guardavo per la prima volta l’azzurro senza fine del mare provando l’estasi della mAraviglia infantile. O ancora il sentirsi trasportato sulla strada (sterrata) che mi portava verso quella fattoria che mamma e papà mi raccontavano essere la mia prima casa cittadina tra i campi “oltre le mura” e che oggi non esiste più, sostituita da un casamento moderno e da un incrocio semaforico supertrafficato dove ha inizio la via commerciale della ‘nuova’ città del boom economico.

La strada di casa, tecnica mista su tavola, di Prazz

Conclusa la mostra “Nel Vento” di Marco Vignati alla galleria Biffi Arte di via Chiapponi

Scenario onirico, acrilico su tela, Marco Vignati

L’andare ondivago e misterioso del vento rappresentato nelle opere di Marco Vignati che aprono al libero sfogo dell’immaginazione dell’osservatore. Colpito dalle scelte cromatiche e dalle forme rappresentate confesso, ho chiuso gli occhi e mi sono sentito trasportare in un sogno o forse in un’allucinazione dove comunque la carezza di quel vento con le sue mille diversità sentivo sfiorarmi il viso. Esattamente come quando, lassù sulla rocca di Brugnello, ho chiuso gli occhi per sentirmi avvolto nel vento che mi portava i mille diversi canti dei boschi della valle. Esperienze impareggiabili, gloria della fantasia e della pace interiore cui è un piacere sapersi lasciare andare.

Disvelamento, acrilico su tela, Marco Vignati

I rifiuti come opere d’arte, a Palazzo Gotico la mostra “Scart”

Partiamo da un presupposto di fatto: l’arte è bellezza ma il bello è sempre e comunque un fatto soggettivo. Dunque se un opera qualunque viene definita arte se ti piace, se ti suscita un’emozione, effettivamente sei di fronte ad un’opera d’arte. Se non provi nulla e velocemente passi oltre, quella semplicemente non è arte. Non lo è per te ma nulla esclude lo sia per me. Una riflessione che mi è sorta spontanea nel primo pomeriggio di un freddo giorno di gennaio poi costato un feroce raffreddore a Dalila. Eravamo da poco arrivati in piazza, di fronte al Gotico e ammiravamo il balenottero realizzato con materiali di scarto. Un vero Capodoglio realizzato con circa 4.000 cartoni di poliaccoppiato (il cosiddetto tetrapak), dai quali sono state tagliate circa 5.500 piccole ondine a simulare la pelle dell’animale. Con una piccola aggiunta: sul lato sinistro, poco sopra l’occhio si nota un pezzetto di giornale con la scritta “nello”, frammento della scritta Tavernello. Che nulla toglie alla mAraviglia provata di fronte all’opera che invita a proseguire per la visita alla mostra SCART al piano superiore del nostro Gotico. Bene, come non ricordare le note polemiche di quanti hanno polemizzato con un’installazione di dubbio gusto che nulla c’azzeccherebbe con la nostra città? Che dire: il gusto della polemica per la polemica da parte di chi comunque sia qualunque cosa si faccia non va mai bene. Quindi: balenottero e in generale tutta la mostra non sono arte ma solo rifiuti? Certo per quegli incontentabili, per quei “leoni da tastiera”, critici da poltrona, non saremmo di fronte ad una forma d’arte. Legittimo. Per loro e dunque se ne stiano tranquilli seduti sulle loro poltrone pontificando di fronte al computer. Noi no, noi ci siamo emozionati, ne abbiamo commentato con due passanti a loro volta meravigliati di fronte all’opera e alla fine ci siamo chiesti se, una volta aperta la bocca, ne vedremmo uscire babbo Geppetto. Ecco, questa dunque è arte, una realizzazione capace di coinvolgere, di rendere ancor più interessante, splendente, interessante un pomeriggio nella nostra suggestiva piazza delli cavalli et ora anche de messer lo capidoglio.

Dunque non è rimasto altro che entrare e salire al piano superiore per iniziare un viaggio nel mondo della Waste Art ovvero opere e installazioni interamente realizzate con materiali di scarto dove subito scappa un malizioso sorrisetto ironico. La prima opera infatti è un quadro che immortala il viso della nostra beneamata sindaca e quel sorrisetto sfugge inevitabile: che sia realizzato con frammenti di corteccia degli alberi tagliati di piazza Cittadella? Ma fuor di celia, il quadro rappresenta l’occasione per ringraziarla insieme all’assessore alla cultura Christian Fiazza per averci offerto l’opportunità di conoscere le realizzazioni del Gruppo Hera e Trs Ecology.

Purtroppo, avvicinandosi la chiusura della mostra, alcuni manichini hanno già abbandonato palazzo Gotico. Restano comunque diversi pezzi e ognuno racconta una storia che unisce recupero, inventiva e sensibilità artistica.

La mostra, dunque, rappresenta un’occasione straordinaria di educazione ambientale e sensibilizzazione per le nuove generazioni e per tutti, offrendo un’esperienza immersiva che stimola la riflessione su temi come il riciclo, la sostenibilità e l’economia circolare.

Al centro del salone, cuore della mostra, è alloggiata l’installazione di Davide Dall’Osso In un mondo perfetto: decine di tutù realizzati con i pannelli divisori in policarbonato, dismessi dopo essere stati usati nel periodo Covid nelle mense del Gruppo Hera. Nella visione dell’artista ogni singolo tutù corrisponde a un personaggio femminile della letteratura, della drammaturgia o della musica, che ha subito violenza da parte di un uomo. La potenza immaginifica del tutù, con il suo portato di leggerezza e determinazione, porta quindi una visione postuma della violenza stessa, dove le donne che l’hanno subita possano raccontare di una possibilità di cambiamento, per fermare quel male che ha segnato la storia di ognuna di loro e, purtroppo, di molte donne di oggi.

Dunque, in conclusione di visita, non resta che un suggerimento: prendetevi un attimo di libertà e venite a visitarla. Non costa nulla!

Promemoria: la mostra è visitabile fino al 31 gennaio da lunedì a venerdì dalle ore 16 alle ore 19.30,  mercoledì dalle ore 10 alle ore 13, sabato e domenica dalle ore 10 alle ore 13 e dalle 16 alle 19.30

Immagine di libera interpretazione personale

“Breve sosta a Salvaterra”, un quadro di Francesco Dall’Armi con la ‘vecchia’ automotrice ALn 880 Breda

Benché progettate per servizi di un certo prestigio su una rete ferroviaria, quella del dopoguerra, in cui gran parte delle linee principali non erano elettrificate, le automotrici ALn 880 Breda conclusero la loro carriera su linee secondarie della Bassa Padana, suddivise tra i depositi di Bologna e Verona. Sulla Verona-Rovigo, negli anni ’70 spodestarono il vapore e portarono un’immagine di rinnovamento, anche se le precarie condizioni del binario, in molti tratti, limitavano la velocità a 50 km/h, costringendo queste automotrici, nate per correre, a viaggiare in terza marcia.

In questa immagine estiva, la piccola fermata di campagna, il passaggio a livello con il cancello e la casellante che, nei pochi attimi della sosta, scambia due parole con il macchinista, ci riportano con nostalgia ad un mondo ferroviario ormai scomparso.

Ultimo giorno di apertura della mostra “BOT l’AFFRICANO” oggi dalle 14,30 alle 19,00 al salone degli Amici dell’Arte

BOT l’Affricano, la mostra allestita in via San Siro al 13 presso gli Amici dell’Arte, presenta le opere del periodo “coloniale” di BOT, alcune delle quali inedite. Si tratta di dipinti, collage e sculture in legno e bronzo; fotografie realizzate a partire dalle messinscene di villaggi africani allestiti insieme al fotografo piacentino Gianni Croce; inoltre incisioni di grafica e una ricca pubblicistica letteraria che comprende “libri d’artista”, raccolte di poesia, cartoline celebrative e riviste.

La mostra è accompagnata da una pubblicazione a cura di Eugenio Gazzola “BOT, Intervista con l’Affrica” che ne racconta il contenuto, opera tuttavia indisponibile in loco, occorre ricercarla nelle principali librerie cittadine (che per il mese natalizio dichiarano aperture straordinarie domenica compresa) oppure direttamente presso l’editore Scritture.

Parliamo dunque di Osvaldo Barbieri detto BOT (Barbieri Oswaldo il Terribile), nato a Piacenza nel 1895 scomparso nel 1958, che è stato pittore futurista della seconda ondata legato soprattutto all’ambiente milanese.
L’adesione al movimento futurista ( dopo l’apprezzamento ricevuto da Marinetti nel 1929 che poi lo sostiene in alcune mostre milanesi e nella produzione editoriale) e la simpatia (più o meno forzata dai tempi e dagli eventi) per il fascismo lo portano alla ribalta nel Ventennio con personali alle Biennali di Venezia del 1930 e del 1932, alle Quadriennali romane e alle mostre futuriste di Milano e di Roma.

Fu poi “Affricano” grazie a due periodi vissuti in Libia, nel 1934 e nel 1940, dando conto di un’Africa vista più dal punto di vista della caricatura e dell’ironia senza negare l’evidente sentimento di simpatia e in fondo d’amore: in pratica BOT viene colto da quel Mal d’Africa del quale saranno vittime tanti artisti. Insomma un rapporto che poco ha a che vedere col punto di vista colonialista che invece ritroviamo in altri più celebrati artisti dell’epoca che invece esaltano e rappresentano la forza militare del regime lanciato nella conquista delle terre selvagge. In effetti questo caratterizza il metodo del suo essere artista che come tale viene definito strano, alla fine relegato ai margini del sistema dell’arte. Durante la guerra torna ai paesaggi: eterei, con case diroccate, nature morte. Muore infine dimenticato e in povertà.

A suo tempo, più o meno una cinquantina d’anni fa, ho conosciuto un collezionista che potrei definire tale suo malgrado o quasi “a sua insaputa“, di professione falegname, il cui padre negli anni del ventennio e del primo dopoguerra gestiva una trattoria. Negli anni settanta Il figlio mi ‘vantava‘ appunto di avere in cantina molte opere dell’artista che, ridotto in povertà, negli anni del dopoguerra cenava spesso nella trattoria del padre pagando il conto settimanalmente o mensilmente con opere dipinte su tela, su cartone o comunque come capitava.

“Quell’elefante … di panettone”, ieri sera a Palazzo Farnese in occasione del 210° anniversario verdiano con testi del copione di Simone Tansini, baritono

L’illustrazione dedicata all’Otello realizzata da Giovanni Freghieri

Gradevole e coinvolgente iniziativa ieri a palazzo Farnese dedicata al Maestro Giuseppe Verdi con particolare riferimento all’episodio che lo vedeva protagonista a Natale, quando nella sua abitazione a Villanova arrivava il regalo dell’amico Giovanni Ricordi (grande collezionista e amante della musica lirica): dal “Nabucco” in poi infatti, l’artista di Busseto, dal carattere burbero, mantenne rapporti soltanto con i Ricordi. Ieri quindi, nella suggestiva location di Palazzo Farnese, gli oltre 160 convenuti (posti esauriti e una decina di spettatori in piedi) hanno apprezzato l’insieme di arte, musica e gioia del palato. Dunque esecuzioni di arie d’opera con la partecipazione finale del Coro delle Voci Bianche di Piacenza.

Il baritono Simone Tansini

A condurre la serata il baritono Simone Tansini che ha proposto la lettura di alcuni frammenti dall’epistolario verdiano e la ricerca di alcuni aneddoti tratti dalle riviste musicali e dalla stampa dell’epoca. Insomma, come si diceva, il panettone grande protagonista della serata, tanto nel rimando al ricordo lontano dei Natali di fine ‘800 quanto alla degustazione offerta appunto con i panettoni del Panificio Lavelli di Borgonovo Val Tidone graditissimo agli intervenuti che, dopo aver riconosciuto agli artisti un lungo caloroso applauso a scena aperta, non hanno mancato di gustare quanto offerto al buffet. Una nota triste la mostra fotografica allestita a corollario con le foto degli interni dell’Hotel San Marco dove il Maestro era solito alloggiare nei suoi passaggi a Piacenza: ammirando le immagini del ‘Circolo Fotografico Idea Immagine’ non si è potuto evitare un sentimento di tristezza vedendo il degrado che certo non fa onore al ricordo di Verdi e men che meno alla nostra stessa città. Del resto nessuno stupore: nelle stesse condizioni la Villa di S.Agata, l’ospedale di Villanova che tale non è più (nonostante la chiara disposizione testamentaria del Maestro) e infine gli stessi monumenti presenti a Busseto. Ultima annotazione in verità estranea alla serata piacentina: la Ditta Giovanni Cova e C. di Milano in occasione delle festività e per celebrare il 210° anniversario verdiano (già celebrato alla prima della Scala il 7 dicembre con il Don Carlo, una delle più famose opere di Verdi) propone il ‘Natale Giuseppe Verdi’ ovvero una versione odierna del dolce milanese inviato al musicista dall’antica pasticceria Cova su disposizione di Ricordi: non ho avuto l’opportunità di assaggiare quel panettone tradizionale ma, giuro, penso che la versione borgonovese non abbia nulla di meno.

Il tenore Lee Eunchan con Laura Stella, soprano
Il manifesto dell’iniziativa con il Verdi di Freghieri

“Prospero, lo sguardo sulla sua Piacenza”, l’articolo di Antonella Lenti per il Corriere Padano in occasione della mostra dedicata al fotografo piacentino Prospero Cravedi alla Fondazione di Piacenza e Vigevano in via Sant’Eufemia in corso fino a marzo 2025

Bastasse una macchina fotografica – anche la più tecnologica, anche la più fornita di supporti – a fare un fotografo! Saremmo tutti fotografi. Ma lo sguardo non è uguale per tutti. È stato lo sguardo degli occhi di Prospero, il suo cuore, la sua sensibilità e curiosità nell’osservare a fondo ciò che lo circondava – prima come persona e poi attraverso l’obiettivo – ad aver fatto la differenza. Era diventato un lavoro fin dal lontano 1955 ma spesso (quasi sempre) quel lavoro sconfinava nella passione e in un grande impegno che lo trasformava da fotografo in un testimone attivo di tutte le stagioni che ha attraversato.

Di questo ci rendiamo conto con chiarezza oggi che le sue immagini, custodite dalla famiglia in uno stipo capiente che contiene oltre un milione di negativi, sono uscite fuori allo scoperto e sono diventate mostre.

La prima, quella esposta in Santa Chiara nel 2022, un’antologica che ha presentato una piccola porzione del lavoro di Prospero e l’altra, quella che da qualche giorno e fino a marzo è visitabile nella sede della Fondazione di Piacenza e Vigevano in via Sant’Eufemia, una rassegna che propone 150 immagini tra gli anni Sessanta e gli anni Ottanta. “Piacenza la città che cambia. Luoghi e volti della realtà urbana” è il titolo. Dobbiamo un grazie particolare – dice Gianni Cravedi – alla Fondazione di Piacenza e Vigevano per aver sostenuto queste due iniziative.

Due mostre che parlano di noi. In un qualsiasi anno di quasi 60 che Prospero Cravedi ha dedicato al suo lavoro, alla sua passione, la fotografia, o meglio il racconto attraverso la foto.

Le sue immagini, se fossero affiancate le une alle altre potrebbero comporre un lungometraggio che parla di Piacenza e dei piacentini. Tante inquadrature che mostrano i cambiamenti urbani, sociali e politici. Chi eravamo e chi siamo diventati.

Sono tutte sequenze frutto dello suo sguardo sensibile. Prospero è  il fotografo che ha registrato i mutamenti della sua amata – e spesso strigliata – Piacenza con la visione, non solo tecnica, ma profonda fino all’anima di un fotogiornalista che ha vissuto con curiosità e amore tutti i tempi che ha attraversato dal 1935, anno della sua nascita, fino al momento della sua scomparsa nel 2015.

È la moglie Angela Terzoni che, ogni giorno dal 2019 ad oggi, è all’opera per passare allo scanner tutti i negativi: una quantità immensa.

Sembra di vederli quei pacchettini che conservava gelosamente con titolo e data, raccolti nelle buste “artigianali” costruite da Prospero con la carta di scarto del giornale, Libertà, per la quale ha lavorato come fotografo passando in rassegna fatti di cronaca, di politica, di cultura, di spettacoli. Buste rimaste intatte per anni, avvolte dal buio delle scatole in cui erano conservate e poi, d’un tratto, diventate memoria per tutti. Quelle buste artigianali custodivano una memoria storica infinita che oggi ci viene svelata. Tante volte – dice Angela – quando iniziamo a prendere visione delle foto ci chiediamo con i miei figli, ma il papà farebbe così? Certamente avrebbe da ridire su qualcosa…. Sì, scrollerebbe la testa in un gesto di disapprovazione…  

Ma loro sanno che, alla fine, sarebbe contento. Sì – aggiunge il figlio Gianni – sarebbe contento della risposta che Piacenza ha mostrato con la prima mostra in Santa Chiara. I diecimila visitatori sono anche il segno dell’affetto che la città ha mostrato per lui per il suo lavoro. Lui amava molto questa città e i piacentini.

Rendere pubblico il patrimonio fotografico frutto di una vita di lavoro è sì una rivisitazione del fotografo ma anche un ritratto umano che dà risalto alla sua bravura e alla sensibilità che gli faceva puntare l’obiettivo proprio in quel momento, proprio per immortalare quella particolare espressione della persona che aveva davanti.

“Questo elemento – spiega Gianni – emerge in molte delle sue foto. Persino in quelle giornalistiche di cronaca spicciola. Nell’archivio ci sono tante foto significative anche tra quelle commissionate dal giornale. Ce ne siamo resi conto – prosegue – quando abbiamo deciso di digitalizzare tutti i negativi. Solo così avremmo trovato le foto di grande qualità. Nella quantità ci sono scatti di qualità fotografica molto elevata. Tra queste tante hanno anche un valore artistico anche se lui non era quel tipo di fotografo ma quando cogli l’attimo giusto e hai l’inquadratura che va bene…”

Gianni parla del padre chiamandolo per nome. Da sempre. Un modo per averlo sempre vicino e per rimarcare la stessa professione che con il fratello Ettore hanno appreso da lui. Lo hanno sempre seguito fin da giovanissmi.

“Non ha mai forzato la decisione – precisa Gianni – ma era nelle cose, seguendolo sul lavoro avevamo appreso tantissimo. Questo lavoro ci apparteneva. Lui ci aveva coinvolto nella sua attività pensando che per noi potesse essere stimolante perché si vivevano da vicino avvenimenti e fatti importanti e aveva l’occasione di conoscere tante persone. Quindi abbiamo preso questa strada in modo naturale. È stata una formazione costruita fin da piccoli, giorno per giorno.

Prospero Cravedi durante una partita del Piacenza. Si giocava ancora nel vecchio campo di via Campo sportivo Vecchio

Oggi nell’esaminare tutte le sue foto – un milione solo i negativi scattati con la pellicola e ancora non sono state conteggiate le immagini digitali, ma certo sono tantissime – ci rendiamo conto che da ragazzi gli abbiamo dato una grossa mano nel suo lavoro. E da Prospero abbiamo imparato tutto. Di lui ci mancano tante cose, ma oggi quello che pesa di più a me è la mancanza delle discussioni politiche, con lui erano quotidiane e intense”.

Prospero Cravedi viveva a Borgotrebbia (Tobruk, un’altra sua passione) in una famiglia di quattro fratelli e una sorella, un’altra sorella era morta di malattia a 20 anni nel 1944, aveva anche un fratello gemello che però è sopravvissuto solo pochi mesi.

Quando Prospero ha incrociato la fotografia aveva circa vent’anni. Lavorava come elettrotecnico da Cattadori in via Borghetto. Accanto c’era un negozio di fotografo. Lui è sempre stato molto attratto dalla tecnologia – spiega Gianni – e probabilmente si era saldata un’amicizia tanto che ebbe in dono una macchina fotografica.

Da lì ha iniziato a studiare come autodidatta. Fotografava i suoi amici di Borgotrebbia, le gite che facevano in Liguria, le manifestazioni sindacali in piazza Cavalli, nel 54 lo sgombero della Camera del lavoro di via Borghetto. Collaborava con alcuni fotografi presso i cui studi andava a sviluppare i negativi. Poi è arrivato l’incontro col giornale. Il primo servizio firmato Cravedi è del 1962  che di fatto, si può dire, ha sancito l’avvio della sua professione. Quella foto fu scattata in occasione di un grande incidente ferroviario a Voghera in cui si erano avuti tanti morti. Probabilmente non era la prima sua foto che veniva pubblicata su Libertà, ma era la prima firmata.

Con quel servizio fotografico la svolta.

Da qui un rapporto importante con Libertà quasi esclusivo, per tanti anni a Libertà  è stato l’unico fotografo. Aveva conosciuto il direttore Ernesto Prati e aveva stretto un rapporto di amicizia con il giornalista Gianni Manstretta e quindi quella di fotografo è diventata la sua professione. Seguiva tantissimi avvenimenti – racconta Gianni – : il calcio, le miss, le manifestazioni politiche. Per tre volte è andato negli Stati Uniti con i Viaggi dell’Amicizia per rinsaldare i legami con gli emigrati piacentini. Con il Ceis è andato anche nei paesi dell’Est, credo in Ucraina al seguito di don Bosini che aveva progetti sviluppati all’estero.

Tutto potrebbe davvero essere iniziato da quella macchina fotografica regalata a Prospero giovane, un dono che fatto scattare la scintilla. Quella stessa macchina fotografica fu protagonista di un episodio increscioso. “Un giorno decidemmo di andare a Grazzano Visconti in bicicletta – racconta Angela – io stavo seduta sulla canna e avevo in mano quella preziosa macchina fotografica che, non so come, finì sui raggi della bici. Bene, da allora mi fu proibito per sempre di toccare una sua macchina fotografica”.

Angela rievoca i primi tempi in cui si frequentavano. Parla di un giovane “che aveva bisogno di fare sempre qualcosa”. “Era un animatore instancabile di sport – soprattutto ciclismo e calcio – che promuoveva alla cooperativa di Borgotrebbia dove allora lavoravo. Ricordo che aveva raccolto le adesioni per una gita al Penice che ebbe molto successo”.

Lavoro e vita erano un tutt’uno. Da piccoli lo seguivamo Ettore ed io e praticamente il giornale di via Benedettine – ricorda Gianni – era per noi quasi una casa. Anche quando aveva lo studio in via Sant’Antonino, io andavo lì al pomeriggio per fare i compiti e ci trovavamo immersi in un mondo davvero stimolante. Allo studio da Prospero passavano tante persone, sportivi, politici, intellettuali, giornalisti, amici come Gianni Tagliaferri che per me è stato  quasi uno zio. Con Prospero abbiamo vissuto un’infanzia molto stimolante e se le vive un bambino queste esperienze sono un valore che resta.

Prospero non era un padre come tutti. “Quando tornava a casa era sempre dopo cena, non tornava alle 7 come tanti papà. Ricordo quei momenti con grande affetto. Veniva nella stanza e insieme leggevamo, guardavamo libri di arte, di foto. Dal punto di vista culturale Prospero  non ha avuto una formazione accademica, ma ha usato tutta la sua curiosità e la sua capacità di entrare dentro le cose”.

“Era curioso di conoscere, di partecipare, di raccontare la città e le persone che incontrava. Prospero è stato sempre questo. Leggeva, si informava e quando andava a fare i servizi voleva capire, sapere  che cosa c’era da fotografare. Voleva entrare dentro le cose – spiega Gianni -. Si arrabbiava molto se non gli spiegavano per filo e per segno cosa poteva servire al giornale. Comunque lui si informava a modo suo ed esercitava la sua fantasia e la sua curiosità.

Per noi è stato naturale esercitare questo mestiere che è di grandi sacrifici. Noi, oggi, non abbiamo la stessa tenacia. Quello che ha fatto Prospero è stato più duro perché alla Rai (Ettore e Gianni realizzano servizi per la Rai) può capitare di lavorare anche la sera, ma per Prospero si trattava di lavorare tutte le sere e  il sabato, la domenica. Lui ha avuto questa costanza, questa tenacia. E la mamma gli ha sempre dato un grande appoggio”. Mamma Angela oggi protagonista di questo lavoro di recupero del lavoro di Prospero: “Un ulteriore gesto di affetto che la mamma ha nei confronti di Prospero…”

Il prospero solidale a un certo punto della sua vita ha incontrato l’Africa: Africa Mission, l’Uganda, don Vittorione.

“Questo è un grosso capitolo della sua storia – spiega Gianni – e insieme ad Africa Mission stiamo preparando un libro. Su questo c’è un bagaglio fotografico enorme che merita di essere valorizzato. Non so quando sarà pronto, ma ci stiamo lavorando. Prospero è andato 14 volte in Africa. Tutta la famiglia è stata coinvolta in quello che per lui era prima di tutto una passione, una missione e poi un lavoro. Tutti siamo stati coinvolti in Africa Mission,  Ettore, mio fratello, è andato tre volte, la mamma 7 anch’io sono andato con Prospero quando avevo 18 anni alla fine degli anni Ottanta e ci sono tornato ancora ma trent’anni dopo. Ecco sì, facendo un racconto di quello che abbiamo visto attraverso le sue foto, Prospero ci ha lasciato una enorme eredità umana”.

E Angela quante ore passate allo scanner? C’è un periodo che più di un altro ha lasciato il segno nel rivedere quelle immagini?

“Sinceramente non ho mai contato le ore passate allo scanner, è certo però che su quello schermo ho visto passare su  tutta la mia vita. A volte, sono sincera, certe immagini mi innervosivano… Sì, le sue ragazze del lunedì (le miss) con lui scherzavamo su queste cose… Le foto che mi colpiscono di più ancora sono quelle degli incidenti, dei tanti annegati in Trebbia e nel Po. Ricordo che gli chiedevo sempre come facesse ad arrivare per primo, prima ancora dei soccorsi.

Lui aveva una rete di amici che lo informavano e lo aiutavano. Anche quando decideva di partire non lasciava scoperto il suo lavoro. Tante volte quando sentivo la voce di don Vittorio che lo chiamava al telefono ebbene, sì, sono sincera: mi arrabbiavo perché io avevo i figli piccoli e lui? Partiva. Ma che dire, era fatto così. E forse allora non si capiva fino in fondo tutte le cose belle che faceva e non avevamo neppure la percezione della loro importanza. Prospero era un personaggio tutto particolare”.

Era Prospero e chi lo ha conosciuto ha vivo il ricordo di una persona felice della sua vita e della sua famiglia.

Antonella Lenti

“Mar d’essere”, visita alla mostra di Tina Cosmai in Galleria d’arte Biffi di via Chiapponi

Lùdica Opera 10, di Tina Cosmai

Allestita nella Sala Biffi della Galleria di via Chiapponi fino allo scorso 2 novembre, Mar d’essere ha proposto tre recenti serie fotografiche di Tina Cosmai (Lùdica, Nostalgia del Corpo e Attraversare il Tempo).

Lùdica, Opera 5, di Tina Cosmai

L’artista, si legge sul sito della Galleria, descrive così il suo processo creativo: “Lo definirei una nuova Weltanschauung, una rinnovata visione del mondo e dell’esistenza umana. Partendo dall’osservazione del paesaggio nelle sue mutazioni quotidiane, ho cominciato a riflettere sulla percezione spirituale e individuale della luce. Fin da subito ho sentito un forte legame tra ciò che osservavo e il mio essere profondo. Esattamente come per la poesia. Una riflessione sull’esistenza attraverso la realtà che ci circonda, in cui l’uomo può scegliere se essere libero o soccombere all’ipermodernità, ove la solitudine diventa l’unica condizione esistenziale”.

Attraversare il Tempo, opera 9 di Tina Cosmai

Una descrizione che sinceramente … mette paura. Paroloni grossi, pesanti, da mal di vivere. Esattamente il contrario di quanto provato invece di fronte alla visione delle opere esposte capaci di portare in una dimensione onirica in bilico tra vissuto e desiderio di estraniarsi da un mondo che lascia ben poco spazio alla serenità e alla voglia di fantasia. Che notizie s’aspetta quell’uomo dalle terre oltre il mare? Forse preoccupato per quello che sarà l’esito delle elezioni americane? Oppure, indossando un eskimo d’antica memoria, sogna un ritorno degli ideali d’un epoca ormai perduta che comunque è valsa la pena aver vissuto?

Nostalgia del corpo, Opera 2, di Tina Cosmai

Come non sentire una carezza al cuore, un soffio di vento nei capelli di fronte all’immagine di quella madre con i suoi due bambini sulla spiaggia di una Riccione di tempi dimenticati, su una spiaggia libera senza troppo costosi ombrelloni e colorate sdraia di tela a strisce con quei cavalli a dondolo librarsi nel cielo blu, sogni di anni dove soldi non c’erano ma bastava chiudere gli occhi per un attimo e si aprivano le strade dirette verso le stelle. E quelle due cabine, non rappresentano forse l’incontro con la prima ragazzina dai capelli neri e gli occhi castani che a te sembravano azzurri come l’acqua del mare che scivolava sulla battigia? Per concludere con quel gatto, rosso collare, che invano attendo quella barca colma di pesce fresco ed è inutile spiegargli che per oggi non torna, anzi addirittura non è partita. Lui (o lei, non fa differenza) aspetta. Lo sa, basta che non affondi e allora presto o tardi quella barca arriverà.

Opera di Tina Cosmai

“Ocean’s breath – Il respiro dell’oceano”, visita alla mostra di Alessandra Chiappini alla Galleria Biffi Arte di Piacenza

Ring of Kerry, polittico a tecnica mista di Alessandra Chiappini

Una pittura che frantuma il dato esterno per diventare pura emozione e raffigurare la struttura profonda di un paesaggio magico e infinito, intenso e potente come quello delle isole Skellig sulla costa atlantica dell’Irlanda del sud, patrimonio dell’Unesco dal prezioso habitat naturale.

Così presenta il sito della Galleria Biffi Arte la mostra di Alessandra Chiappini allestita fino al 2 novembre scorso nel Nevaio ma, per quanto mi riguarda, visitata quasi per caso forse per recuperare una qual certa insoddisfazione maturata di fronte ad altre opere d’altra mostra dalle quali m’aspettavo altro e il caso, si sa, spesso è foriero di stupore e soddisfazione, anche e soprattutto di fronte all’arte. In questo caso, poi, mi sono ritrovato di fronte ad una originale rappresentazione della natura e la giornata si è illuminata di fronte ai colori nella particolare visione dell’artista piacentina.

La notte cade scintillando, tecnica mista su telone di camion di Alessandra Chiappini

Laddove tutto vale per generare nel visitatore stupore ed emozione e così, laddove già il titolo di un’opera suscita sensazione di leggerezza d’animo trasportandoti in una notte per quanto apparentemente senza stelle che comunque elargisce serenità, l’utilizzo per la realizzazione della stessa opera del telone di un camion genera uno stupore divertito che si trasforma in sorriso.

Concludendo infine la visita assillato dal dubbio che pervade mente ed anima: ma quale mai può essere in questo momento il pensiero del vento che sta accarezzando le onde del mare dirette verso quella spiaggia visitata in un ormai lontano novembre di anni fa dove il suono d’una sirena spezzava la nebbia ormai fitta ed avvertiva dell’arrivo d’un bastimento?

Il pensiero del vento, tecnica mista su telone di camion, di Alessandra Chiappini

“Ad Spiritum Sanctus”, mostra di opere dell’artista Mihailo Karanović da Biffi Arte fino al 19 ottobre

Mihailo Karanović

Curiosa la mostra allestita in via Chiapponi 39 anzi per la precisione curiosa l’arte reinterpretata dall’artista serbo (milanese d’adozione) Mihailo Karanović. Arte reinterpretata, nel senso che l’artista parte da una fotografia che riproduce l’opera dei grandi pittori del passato, soprattutto del periodo barocco e rinascimentale. Creata un’immagine al computer Mihailo dipinge ad olio combinando immagine e colori lasciando nell’opera, leggo sulla guida introduttiva, le sue emozioni più sincere ed elaborando una nuova estetica. Ora, però, l’inevitabile domanda del visitatore: quale la mia personale emozione? Praticamente la stessa parola con la quale inizia questo ‘pezzo’: curiosa, questa mostra. Capace di strappare un sorriso di simpatia ma, sinceramente, nulla di più. L’emozione dell’anima di fronte alla bellezza delle opere è tutta legata alla visione degli originali delle opere e queste, in definitiva, sono copie rivisitate con l’aggiunta di una combinazione di colori attraverso la quale si esprime forse la duplicità dello spirito del soggetto rappresentato. Ciascuno di noi, in fondo, è un io e un opposto, un diverso, un altro, gentiluomo e ladro, santo e assassino, Jekill e Hyde che Karanović riesce a scomporre in diversi colori. Colori che incuriosiscono, che rappresentano bellezza, gioia degli occhi ma, sinceramente, realizzando un’opera più adatta all’esposizione in un bar di tendenza piuttosto che in un museo tradizionale.

Mihailo Karanović