1° marzo 1896: 16mila soldati italiani vengono assediati e sconfitti da 70mila guerrieri etiopi ad Adua

Negli anni ’80 del XIX secolo l’Italia intraprese la sua avanzata coloniale spinta da un misto di ambizione e da complesso di inferiorità nei confronti delle altre potenze europee, nascondendosi dietro la solita giustificazione della missione civilizzatrice. Le mire espansionistiche del Paese furono indirizzate verso il Corno d’Africa, e più precisamente verso l’Impero d’Etiopia, nonostante la regione fosse una delle poche del continente ad avere una struttura statale forte e fosse dotata di un esercito organizzato. Quando l’Italia iniziò a conquistare territori costieri, si rese necessario definire i rapporti tra i due Paesi. Il 2 maggio 1889 fu stipulato fra il Regno d’Italia e l’Impero d’Etiopia un trattato internazionale passato alla storia come il Trattato di Uccialli, che di fatto riconosceva le acquisizioni territoriali italiane.

Il trattato, redatto in lingua italiana e amarica, presentava però un articolo controverso (l’articolo n. 17) che nella versione italiana sembrava porre un vincolo importante all’impero etiope: se avesse voluto stabilire rapporti con potenze terze, sarebbe prima dovuto ricorrere al governo di Roma, in sostanza un vero e proprio protettorato. Nella versione amarica invece il ricorso all’intermediazione era vista come una semplice probabilità. La successiva notifica del trattato da parte di Francesco Crispi, l’allora presidente del Consiglio, alle potenze firmatarie dell’atto di Berlino e il fatto che l’Etiopia allacciò relazioni diplomatiche con l’Impero russo e con la Francia in maniera autonoma e senza darne preavviso all’Italia, avviò la catena di eventi che portarono alla disfatta italiana.

La guerra di Abissinia

In risposta alle azioni dell’impero etiope, nel gennaio del 1896 le truppe italiane del generale Oreste Baratieri invasero la regione di Tigrè con l’obiettivo di ampliare i confini della colonia. In effetti, verso la fine dello stesso anno le truppe del Regno d’Italia avevano occupato gran parte della zona, ma si trovavano ormai allo stremo delle forze. Baratieri decise di tornare in patria per chiedere rinforzi. Fu allora che l’imperatore Menelik approfittò dell’occasione per rompere il Trattato di Uccialli e dichiarare guerra all’Italia.

Gli scontri armati iniziarono nel dicembre dello stesso anno, traducendosi in una prima e immediata sconfitta per le truppe di Toselli, che disponeva solo di 2.500 uomini sui quali si abbatte la furia etiope nella battaglia dell’Amba Alagi. I superstiti e i rinforzi, che non erano riusciti a giungere in tempo, si divisero tra Edagà Amus, dove si stava radunando il grosso delle truppe, e il forte di Macallè, dove rimasero circa un migliaio di uomini. Quando gli etiopi raggiunsero il forte, lo cinsero d’assedio e ne tagliarono i rifornimenti d’acqua. Poco dopo venne indetta una tregua, in cui agli italiani fu concesso di lasciare il Macallè mentre Menelik chiedeva la pace a re Umberto I. Quest’ultimo respinse la mano tesa, provocando, di fatto, la sconfitta che di li a poco avrebbe annientato le mire espansionistiche del regno.

La disfatta di Adua

Gli italiani arrivano ad Adua in condizioni già abbastanza critiche, dopo le sconfitte dell’altipiano dell’Amba Alagi e del forte di Macallé e soprattutto per le deficienze logistiche, divenute tali da rendere necessaria una decisione: avanzare o ritirarsi. Nella notte tra il 29 febbraio e il 1° marzo 1896, su indicazione del Capo del Governo Crispi, l’esercito guidato dal generale Oreste Baratieri decise di attaccare. Circa 18mila soldati tra italiani e ascari si divisero in quattro brigate sconnesse l’una dall’altra, che avanzarono su percorsi paralleli verso il nemico in modo da ottenere un fronte unico di attacco. Purtroppo però la manovra non riuscì a causa di una lettura errata della carta topografica della zona di operazioni e il corpo di spedizione italiano venne investito dalla massa degli abissini e annientato. La disfatta fu epocale: seppur con fucili più sofisticati di quelli in possesso dell’esercito abissino, gli italiani caddero uno dopo l’altro vinti dal numero maggiore delle truppe locali (circa 70mila soldati). La notizia della sconfitta raggiunse l’Italia la mattina del giorno seguente, provocando grandi manifestazioni popolari contro il governo e le dimissioni di Francesco Crispi, a cui l’opinione pubblica attribuiva la responsabilità di una politica coloniale troppo ambiziosa e costosa per le reali possibilità del Paese.

I numerosi problemi economici e sociali che in quegli anni affliggevano la nazione si concretizzarono poi nella protesta popolare del 7 maggio del 1898, dove Milano fu teatro di scontri a causa del prezzo esorbitante del pane. Il malcontento generale e il progressivo sviluppo delle tendenze anarchiche e insurrezionaliste avrebbero condotto, il 29 luglio 1900, all’attentato a re Umberto I. Il successivo confronto politico tentò di individuare i colpevoli della debacle: i governi di Francia e Russia furono sospettati di aver aiutato l’esercito africano, altrimenti impreparato a fronteggiare un attacco del più organizzato esercito italiano. Ma il capro espiatorio divenne Baratieri, che, rientrato in Italia, venne imputato da una corte marziale. Accusato di aver preparato un piano d’attacco “ingiustificabile” e di aver abbandonato le sue truppe sul terreno, fu assolto da queste accuse con una discussa sentenza, ma la sua carriera militare di fatto ebbe fine.

Adua di fatto aveva posto fine – momentaneamente – alle mire espansionistiche italiane e divenne un simbolo della lotta al colonialismo poiché dimostrava che gli eserciti europei in Africa non erano invincibili. Per questo rimane uno dei ricordi coloniali più scomodi per il nostro Paese. Sia perché rappresentò la prova di una politica sbagliata, sul piano economico e culturale, sia perché per molti anni fu “l’offesa da riscattare, la macchia da cancellare”. Il fascismo cavalcò l’onda di questo risentimento, giustificando la successiva guerra d’Etiopia con il dovere morale di vendicare i morti di Adua.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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