“Una pietra, uno sguardo, una storia”, la mostra sulle pietre d’inciampo a Milano di Gabriele Dadati e Emanuele Ferrari per ricordare tutte le vittime del nazifascismo, qualunque fosse il motivo della loro persecuzione – religione, “razza”, idee politiche o orientamento sessuale

Ultimi giorni della mostra di in Biblioteca di Gabriele Dadati e Emanuele Ferrari dedicata alla memoria e alla condanna – attraverso la collocazione di pietre d’inciampo – di tutte le vittime del nazifascismo a prescindere dai motivi della persecuzione: religione, razza, idee politiche o orientamento sessuale. Una filosofia di fondo che caratterizza la posa di pietre d’inciampo e che dovrebbe essere linee guida anche nella nostra città da parte dell’amministrazione comunale e delle tante associazioni impegnate nella condanna di quei crimini.

Stazione centrale di Milano: Tra il 1943 e il 1945, dal binario 21 della Stazione Centrale di Milano partirono ventitré treni diretti ad Auschwitz e ad altri campi di concentramento. Nei vagoni, originariamente destinati al trasporto postale, vennero stipate migliaia di persone perseguitate dagli occupanti nazifascisti: erano soprattutto ebrei, ma anche partigiani e dissidenti politici.

IL PROGETTO (testo di Emanuele Ferrari, autore delle immagini)

Una pietra d’inciampo è un piccolo blocco di pietra ricoperto di ottone, posto davanti all’edificio in cui visse, o lavorò, uno dei milioni di deportati nei campi nazisti che non fecero più ritorno a casa. Essa ne ricorda il nome, l’anno di nascita, il giorno dell’arresto, il luogo della deportazione e la data della morte.

La prima fu posata a Colonia, in Germania, nel 1995, su iniziativa dell’artista Gunter Demnig: una reazio- ne a negazionismo e oblio, per ricordare tutte le vittime del nazifascismo, qualunque fosse il motivo della loro persecuzione, religione, “razza”, idee politiche o orientamento sessuale. Da lì si è avviato un monumentale progetto europeo, che ha portato alla posa di oltre 80.000 pietre d’inciampo. Nel 2016 è nato il Comitato per le Pietre d’Inciampo-Milano. Per rafforzare una memoria comune delle persecuzioni nazi-fasciste, si è prefissato di mantenere un fondamentale equilibrio, nella scelta delle persone a cui dedicare altre pietre, tra le vittime della deportazione politica e di quella razziale, le due tipologie avvenute nella città lombarda. Dal 2017 a settembre 2021, al termine degli scatti eseguiti per questo progetto, ne erano state posate 121.

Con la volontà di contribuire al ricordo di tutti i deportati, ho deciso di fotografare dodici pietre d’inciampo, ritraendo inoltre i famigliari. Ai dittici così costituiti, ho accompagnato le storie delle vittime. In questo contesto, i ritratti vogliono rafforzare il significato e il valore della testimonianza costituita dalla pietra d’inciampo, provando, nel contempo, a restituire gli stati d’animo delle persone private dei propri cari.

L’immagine di sinistra del dittico è costituita da due scatti sovrapposti (la pietra più il fronte dell’edificio al quale essa è riferita) e nasce in camera. L’immagine di destra è costituita dal ritratto del famigliare, sempre scattato all’esterno del Binario 21: si tratta dell’area della Stazione Centrale di Milano, al di sotto dell’area passeggeri, solitamente adibita alla movimentazione della posta e che, fra la fine del 1943 e l’inizio del 1945, fu impiegata per la deportazione. Sullo sfondo, la ferrovia sovrastante, che per tanti ha costituito il punto di distacco dai propri cari e dalla città, e che qui vuole essere un richiamo concettuale a quello che il Binario 21 rappresenta.

Lo scatto che chiude l’esposizione raffigura l’accendino che accompagnò Luigi Vercesi negli ultimi mesi della sua vita, permettendo il riconoscimento del corpo.

La conoscenza dei fatti accaduti ha un’importanza fondamentale, e il percorso visivo che propongo conduce lo spettatore a questo passaggio conclusivo. I fatti che hanno portato alla deportazione e allo sterminio, per quanto incredibili, fortunatamente sono riconosciuti dai più come verità storica. Ma c’è ancora chi, come allora, odia, e nega l’accaduto. I passi indietro sono sempre possibili.

La pietra d’inciampo dedicata alla memoria di Luigi Vercesi, arrestato come renitente alla leva, deportato nel campo di Fossoli (Mo), viene fucilato insieme ad altri 66 internati politicinel vicino campo di tiro di Cibeno. A fianco Alice e Silvia Vercesi, nipoti

EPPURE (l’intervento di Gabriele Dadati)

In cosa si inciampa, davvero, quando si inciampa in una pietra d’inciampo?

La risposta sembrerebbe ovvia: nell’interruzione di un’esistenza svanita tra le spire della deportazione, dell’umiliazione, dell’uccisione. Ed è senz’altro così. Ogni pietra reca infatti un nome, una data di nascita, una data d’arresto e una di morte, insieme ai luoghi dove le tappe più tragiche si sono consumate, e si trova li dove chi non c’è più trascorreva la propria esistenza o perché ci viveva, o perché ci lavorava. Guardandola da una prospettiva generale, si potrebbe poi dire che la pietra fa inciampare in uno dei più spietati, criminali, macabri progetti di sopraffazione che la storia dell’uomo ricordi. Anche in questo caso: è senz’altro così.

Eppure, ci dice Emanuele Ferrari con gli scatti del progetto “Una pietra, uno sguardo, una storia“, la pietra d’inciampo non è solo il punto fermo che chiude il discorso, la fine del racconto di una vita strappata. Perché dopo ogni punto ne comincia uno nuovo, di discorso. In questo caso, quello dei discendenti: a volte testimoni, magari bambini, di quella vita che non c’è più, a volte solo eredi del medesimo sangue. Per cui ogni pietra d’inciampo racconta allo stesso tempo il passato e il futuro. Un futuro fatto di volti, di mani, di storie, di persone che con la memoria di quella deportazione sono costrette a fare i conti per ragioni biografiche. La loro stessa vita, in qualche modo, si costruisce su quel vuoto.

Così su questi pannelli troveremo in successione le pietre, in bianco e nero, e i discendenti. Questi sono a colori e posano tutti sullo stesso scorcio – piazza Edmond Jacob Safra, a Milano: da qui partivano i con- vogli dei deportati – secondo il metodo seriale messo a punto da August Sander e dai coniugi Bernd e Hilla Becher. Sono tutti ripresi con un piano americano. Nel bianco e nero senza volto stanno lo svanimento e il dolore. Nelle immagini a colori stanno la dignità e la consapevolezza.

 Il Generale Barbò con tutto il personale militare della Scuola di Applicazione di Cavalleria di Pinerolo, viene caricato su un treno per l’internamento in Germania. Riesce a fuggire dal treno e si unisce alla Resistenza. Arrestato il 31 luglio 1944 viene deportato prima a Bolzano e successivamente a Flossenbürg dove muore il 14 dicembre 1944. Nella seconda foto la nipote Silvia Rivetti.

UN’OSSERVAZIONE FINALE STIMOLATA DALLA MOSTRA

A PIACENZA L’AMMINISTRAZIONE COMUNALE HA PROMOSSO LA POSA DI UNA SOLA PIETRA D’INCIAMPO.

SAREBBE DOVEROSO RICORDARE TUTTI I PIACENTINI DEPORTATI E ASSASSINATI DALLA BARBARIA NAZI-FASCISTA QUALUNQUE SIA STATO IL MOTIVO DELLA LORO PERSECUZIONE: RELIGIONE, RAZZA,IDEE POLITICHE O ORIENTAMENTO SESSUALE

Lo scatto che chiude l’esposizione raffigura l’accendino che accompagnò Luigi Vercesi negli ultimi mesi della sua vita, permettendo il riconoscimento del corpo.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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