“La speranza africana” di Federico Rampini, commento di Carmelo Sciascia

Nel 1916 Lenin scrisse un’opera dal titolo “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”.  In quest’opera si studiava il capitalismo nella sua forma più moderna: il capitale finanziario aveva bisogno di sempre maggior profitto, per realizzare questo profitto bisognava allargare i confini territoriali. Cioè, in altri termini, al semplice scambio di merci doveva affiancarsi anche l’esportazione di capitali. Lo scopo del capitalismo rimaneva sempre l’accumulo della ricchezza secondo la concezione marxista ma, giunto in piena maturità, il capitalismo aveva bisogno di sviluppare una nuova strategia di crescita. L’ulteriore crescita del capitale poteva venire realizzato sfruttando nuovi territori. Tutti noi, cioè della mia generazione, siamo cresciuti con la concezione che l’Europa e l’Occidente ricco ed evoluto ha continuato la sua crescita economica sottomettendo altri popoli e depredando le loro ricchezze.  Il colonialismo era questo: sottomissione di intere popolazioni per prelevare forzatamente a basso costo materie prime indispensabili allo sviluppo dell’industria dei paesi più ricchi.

Questa analisi, ci dice il nuovo libro di Federico Rampini “La speranza africana”, è incompleta, superata o addirittura sbagliata. Si sostiene infatti che le materie prime erano già presenti in Europa ad inizio Novecento, e riporta l’esempio del carbone come materia prima presente in paesi come Inghilterra, Germania e Belgio. Così dicasi per lo schiavismo che, secondo Rampini, non viene imposto dall’occidente, ma era presente già in Africa prima ancora che arrivassero gli europei.

L’Autore nel suo viaggio ci conduce in diversi paesi per convincerci, ce ne fosse di bisogno, che l’Africa è un grande continente, dove tantissime sono le etnie, diversissimi i sistemi politici e le organizzazioni sociali. Pagine superflue perché tutti conosciamo l’enorme estensione territoriale del continente nero. Ma nonostante ciò sia palese, Rampini si ostina a sottolineare le diversità esistenti da regione a regione con minuzia di particolari, si esaminano a grandi linee le vicende storiche ed i diversi sistemi politici dei vari paesi.    

Lo scrittore ci fa conoscere i nuovi movimenti culturali africani che dilagano nel mondo, da Parigi a New York, come espressione della vitalità delle nuove generazioni. Tutto questo dovrebbe farci cambiare opinione sull’Africa così come è cambiato nel tempo lo sguardo degli africani nei riguardi di sé stessi.

Il sottotitolo del libro indica l’Africa come la terra del futuro: concupita, incompresa, sorprendente. E l’autore porta molti esempi a sostegno di questa sua tesi, peccato! perché noi continuiamo a vedere il continente nero solo attraverso gli occhi delle grandi masse di migranti che sbarcano a Lampedusa. I volti della gente che fugge da persecuzioni tribali, fugge da persecuzioni politiche, dalla corruzione imperante, dalla mancanza di prospettive e soprattutto fugge dalla fame così come suggerisce loro l’innato istinto alla sopravvivenza.

Le teorie di Lenin hanno esercitato un’egemonia culturale nei campus universitari degli anni Sessanta, ma erano già del tutto infondate allora; eppure vengono rimasticate anche oggi”.

Per forza, viene da aggiungere, queste teorie tengono banco tutt’oggi perché, purtroppo e malgrado tutto, la situazione non è mutata di molto dagli inizi del Novecento. L’indipendenza conquistata di molti stati non è stata sufficiente ad imporre una svolta radicale dal punto di vista economico e politico. Non a caso le grandi potenze hanno le mani in pasta nelle maggiori attività economiche del Continente, i materiali che sono alla base delle moderne tecnologie sono nelle mani delle grandi società europee, americane ed asiatiche. I flussi di denaro giunti dai paesi ricchi (venti volte superiore agli aiuti che il piano Marshall diede all’Europa) “hanno creato solo dipendenza e corruzione, sono stati sequestrati da rapaci élite locali, che si sono specializzate nell’accaparramento delle donazioni in arrivo dall’Occidente”.

E ciliegina sulla torta, quando qualcosa “disturba” la programmazione del sistema capitalistico, l’evoluta e liberale civiltà europea, con il beneplacito americano, va a bombardare interi stati, eliminando fisicamente i loro rappresentanti legittimi per sovvertirne l’ordine politico. Che poi tutto ciò destabilizza l’intera area mediterranea e l’Italia in particolare poco importa. “Ancora di recente, siamo stati spettatori passivi e in parte vittime quando Parigi e Londra hanno intrapreso la dissennata guerra in Libia nel 2011, che ha creato danni enormi a tutta l’Africa”.

L’esodo migratorio non lo si interrompe con le bombe, anzi lo si acuisce. Dopo qualsiasi intervento militare le partenze sono aumentate notevolmente.

Oggi l’estrazione dei metalli indispensabili per le batterie delle auto elettriche e dei pannelli fotovoltaici avviene in Africa per essere poi portati in Cina dove vengono lavorati.  Allora possiamo dire che lo sfruttamento delle ricchezze africane continua, solo che alle vecchie oligarchie economiche occidentali si è aggiunta la presenza di nuovi soggetti. Nel libro Rampini accenna anche all’imprenditore Enrico Mattei per dire che “piaceva agli africani ed era inviso agli americani” mentre sulla sua morte se ne lava le mani non “essendo uno specialista in dietrologia”. Sostanzialmente poco, si dice molto poco anche della presenza coloniale italiana del secolo passato come della presenza odierna.

Tanto rumore per nulla, tante pagine per dire che la definizione di Lenin sull’imperialismo non va più bene mentre, nei fatti, se ne conferma la validità.

La scalata nelle classifiche di vendita di questo libro sarà stato merito probabilmente più che del contenuto, della copertina: l’immagine ancestrale di un’africa dorata in campo nero!

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.