“Io capitano”: il cinema italiano è vivo e vegeto. Commento di Carmelo Sciascia

Il cinema italiano è vivo e vegeto. Continua a dare prova della sua vitalità offrendo ottimi prodotti e riempiendo le sale. Sono film che mettono in scena uno spaccato della nostra società, spesso analizzando rapporti familiari ed interpersonali altre volte affrontando temi sociali di grande rilevanza politica. Un tema che oggi coinvolge tutti, dal capo del governo all’uomo della strada, è il drammatico fenomeno dell’immigrazione. Il regista Matteo Garrone lancia con il suo ultimo film: “Io capitano” un sasso nello stagno. E dà un enorme contributo alla comprensione del fenomeno. Ci sono, in questo nostro mondo, eventi drammatici che per il loro continuo perdurare diventano cronaca. Nel senso che non ci facciamo più caso, avviene un’assuefazione che sterilizza la gravità dell’evento. Questo sta avvenendo con la guerra in Ucraina, dove le operazioni militari ed i morti che queste azioni causano non fanno più notizia, non destano alcuna preoccupazione. Questo avviene con il fenomeno dell’immigrazione. I continui sbarchi, sembrano eventi normali, come fossero normali fatti di cronaca. Sì, danno qualche preoccupazione ma tutto si risolve con sterili dibattiti televisivi ed inconcludenti prese di posizione politiche. Ebbene, spesso dimentichiamo la storia e le storie che ci sono dietro ogni immigrato. Questo film ci fa partecipi del fenomeno migratorio partendo da un punto di vista particolare, di chi queste avventure le ha vissute e le vive in prima persona, sulla propria pelle.

Tutti sappiamo delle atrocità che subiscono durante le lunghe traversate del deserto, le estorsioni, i raggiri, l’abbandono. Tutti sappiamo delle torture che subiscono quando cadono nelle mani di bande armate, ma una cosa è saperlo per averlo letto o sentito dire, un’altra è vedere, vedere la crudeltà abbattersi sulle carni di innocenti, donne e ragazzi che hanno la sola colpa di volere andare in un luogo diverso da dove sono nati. Qualsiasi sia la motivazione del loro viaggio: allontanarsi dallo spettro della fame, cercare di migliorare le loro condizioni di vita o cercare di realizzare le loro aspirazioni, poco importa. Nel film i due ragazzi protagonisti vogliono raggiungere l’Europa per realizzare le loro aspirazioni musicali. Incontreranno donne sole e abbandonate che moriranno durante il cammino, prigioni dove si esercita la tortura, dove si esce se venduti come schiavi. Questa è la realtà, inutile che ci nascondiamo dietro un dito. Oramai grazie a giornalisti coraggiosi, a testimonianze dirette di sopravvissuti, sappiamo tutto. Sappiamo dalla storia che siamo noi “occidentali” che abbiamo sfruttato e che continuiamo a sfruttare le ricchezze delle terre africane. Noi che continuiamo a fomentare guerre tribali. Noi che forniamo le armi. Noi che dichiaratamente o per interposti personaggi rovesciamo governi che intendono disubbidire all’ordine costituito dello sfruttamento del loro territorio.  Noi che forniamo i mezzi economici e militari per costruire prigioni dove lasciare i migranti segregati il maggior tempo possibile. Arrivano donne, quasi tutte incinte, violentate di volta in volta quando attraversano una frontiera. Noi che li abbiamo considerati diversi, fin dai tempi della schiavitù, e che manteniamo il pregiudizio della loro diversità: considerarli diversi alleggerisce il peso delle nostre sonnolenti coscienze. Ma sono uomini e donne che soffrono come noi, che hanno lo stesso sangue nelle vene, fratelli e sorelle di questo stesso pianeta. Il film ha il merito di farci capire tutto ciò. Ma non solo, perché sottolinea episodi di profonda umanità, la solidarietà dei diseredati, dei legami familiari.

Seydou (Seydou Sarr) e Moussa (Moustapha Fall) sono due cugini che partono da Dakar per raggiungere l’Europa. Conosceranno tutte le sventure insite in un viaggio di questo genere. Attraversato il Sahara giungono in Libia, conosceranno gli orrori di un campo di detenzione, dove la tortura è la prassi quotidiana, per avventurarsi in mare, su una carretta dove come responsabile della navigazione troveremo il sedicenne Seydou, che ignora qualsiasi norma sulla navigazione, viene imposto dai trafficanti perché qualcuno deve reggere il timone. Dopo essere riuscito da eroe a portare tutti in salvo fino alle coste italiane, non sappiamo cosa succederà dopo, ma possiamo immaginare. Possibilmente l’autoproclamato capitano sarà arrestato come scafista, perché no: non aveva fatto questa fine il minorenne Fofana Amara che partito dalla Libia era riuscito a portare in salvo centinaia di persone?

Io capitano è un film neorealista, che non rinuncia a tinte magiche. La morte di una donna nel deserto colpisce tanto il protagonista minorenne che la immagina trasformata in una nuvola leggera, che continua, tenuta per mano, il viaggio. O quando afflitto dal dolore per le torture subite e per essere partito contro il volere della madre, immagina uno stregone con le ali di paglia accompagnarlo al cospetto della madre. La qualità essenziale del film è la capacità di farci immedesimare nella storia. Come il teatro greco. E come per i greci farci capire che dietro ogni straniero (xenos) può esserci una divinità: sicuramente in ogni straniero c’è un nostro simile, un uomo che ha bisogno di essere aiutato e non da relegare in un centro di accoglienza temporanea, un eufemismo che nasconde il termine detenzione, per diciotto mesi. Un hotspot, forse un nuovo hotspot è quello che ci vuole!

Fonte: ilpiacenza.it

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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