Afran, Francis Nathan Abiamba, nasce a Bidjap, in Camerun nel 1987. Dopo aver frequentato l’Istituto di Formazione Artistica di Mbalmayo, si diploma in ceramica. Coltiva la pittura, sua grande passione, presso gli atelier dei più grandi pittori camerunesi e congolesi. Nel 2006 si apre all’arte contemporanea grazie a Salvatore Falci, professore di arti visive all’Accademia di Belle Arti di Carrara.
Fino al 7 novembre possiamo ‘incontrare’ la sua arte visitando da Biffi Arte a Piacenza, in via Chiapponi, la personale “Il nudo è morto. L’abito è il monaco” a cura di Susanna Gualazzini e Carlo Scagnelli. Una ricerca culturale per capire il mondo contemporaneo attraverso sculture in tessuto jeans, dipinti a tecnica mista e soprattutto una bizzarra cretura, uno ‘Scheletro di niente‘ assolutamente straordinario nella libertà interpretativa lasciata all’ammiratore.
L’uso della tela dei jeans mi ricorda due episodi: mia madre, di nascita contadina, che, poco dopo la metà degli anni sessanta, me ne rifiutava l’acquisto perché “roba da manovali”, come si capiva dalla tasca laterale (di regola sulla gamba sinistra del pantalone) utile per portare il metro di legno appunto in uso nei cantieri edili (erano gli anni del boom economico, i ragazzi abbandonavano le campagne, cercavano e trovavano lavoro nelle città delle fabbriche e delle continue costruzioni edili specie in quelle che allora erano periferie).
Erano anni di grandi cambiamenti culturali. Il secondo episodio legato ai jeans risale ai primi anni ’70, tempi di naja (ancora non esisteva il servizio civile, l’unica alternativa il carcere militare magari a Gaeta). Alpino in quel di Cuneo, non so come mi trovavo su una collina a guardare le reclute novelle in arrivo dalla stazione ferroviaria e al mio fianco casualmente ecco un generale, curioso, in visita accompagnato dal capitano comandante. Osservano che tutti hanno capelli lunghi e portano i jeans (senza più la tasca per il famoso metro). Il generale sorride e mormora: “si dichiarano ribelli, si dichiarano diversi ma tutti portano i jeans come fosse una divisa“. Insomma, in concreto uniformità e appiattimento, certo addio alla giacca e alla cravatta (oltreché, dopo pochi giorni, alle zazzere) ma questo non basta a garantire diversità, quindi un ‘essere’ tutto da reinventare, da ripensare. L’opera di Afran come necessità di guardarci allo specchio, di riflettere sul noi che pensavamo, che si voleva e che alla fine in realtà siamo.
Ultima opera che ancora impone la riflessione sul nostro essere e su quanto di noi resterà per i posteri, lo “Scheletro di niente”, alla prima vista creatura preistorica che in realtà si rivela semplice sovrapporsi di appendiabiti, reperto che racconterà di noi, del nostro essere attaccati all’apparenza che nasconde il vuoto dell’anima e dei contenuti. Per concludere una nota carica di amarezza: durante la visita, durata una trentina di minuti, attraverso le vetrine aperte su via Chiapponi, decine di piacentini sono passati. Una sola presenza oltre alla mia per visitare la mostra. Ma questa Piacenza, merita l’arte? Oppure Biffi Arte e Afran ci impongono uno specchio dove ci riconosciamo “Piacentini scheletri di niente”?