“Il nome della paura”, racconto breve inedito di Giuseppe Merico da Bologna, blogger, scrittore

Ho visto la luce avanzare dal fondo della stanza, ho aspettato, ho fatto finta di contare, ho cercato di ingannare il tempo, ho cercato di ingannare la mia morte, la luce si è fatta più presente, ha invaso la stanza tutta e poi credo di essere morto, anzi lo so quasi per certo, poi sono morto. Fine.

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Questa breve storia che porta all’esito più infausto che un essere umano possa immaginare per la propria vita è iniziata una settimana fa, adesso non pensate a lunedì, non tutte le storie cominciano di lunedì, né tanto meno tutte le settimane. Diciamo che era un giorno qualsiasi della settimana scorsa. Era mattino presto e come mia abitudine, mi ero svegliato prima degli altri, ho lasciato mia moglie di sopra, l’ho lasciata sul letto, sul suo lato, quello di destra, quello più vicino alla porta, anche se dovrei essere io a dormire nelle vicinanze dell’ingresso alla camera da letto, penso sia più un posto da uomo, ma tra me e mia moglie non ho ancora capito chi è che riveste il ruolo di maschio dominante, a mia moglie manca solo il cazzo per il resto è lei il capitano della nave. Io mi limito a preparare colazioni e così facevo quella mattina. Misi su il caffè e aspettai che venisse fuori ascoltando un pezzo jazz che mandava la radio accesa, misi su il latte, il brano jazz era lungo, disposi le tovagliette di plastica sul tavolo, tre, una per me, una per mia moglie, una per Silvia, nostra figlia. Il caffè venne fuori del tutto, il latte cominciò a bollire e il brano jazz si dilungava oltremodo infastidendo la mia pazienza. Odio il jazz. Da sempre. Quando mi avvicinai alla radio per farla tacere, spegnerla o al limite cambiare programma ala ricerca di musica con meno puzza sotto il naso, ecco che lo vidi. Se ne stava dietro il frigorifero, lì dove teniamo l’asse da stiro. Fui colto da uno spavento antico, mi si strinsero le chiappe, i peli sulle braccia si drizzarono e credo mi spuntò pure qualche capello bianco, così, all’istante. Guardai bene, poi mia moglie mi chiamò dal piano di sopra:

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 – Filippo, scendo?

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– Ehm…sì- Dissi con mezza voce che si infilava su per le scale e l’altra mezza che mi moriva nella gola.

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– Filippo?-

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– Ehm…. Sì?-

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– Cosa c’è?- Fece mia moglie dalla camera da letto.

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– Latte, caffè, merendine e il pezzo di torta avanzato da ieri.- Le risposi.

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– No, cos’hai ?- Mi disse mia moglie mentre si affacciava dalla porta in cima alle scale.

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Guardai dietro al frigorifero. Non c’era più niente.

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Mia moglie mi guardò strano, anche io mi guardai strano, poi scese Silvia, nostra figlia e iniziammo la giornata.

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A sera, rientrati a casa, ebbi paura, ma lo feci lo stesso, guardai dietro al frigorifero, niente. Quella notte, io e mia moglie scopammo bene, la paura provata al mattino necessitava di essere esorcizzata dal corpo.

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Il giorno seguente, aprii la porta del bagno per fare acqua dopo la notte. Dopo aver finito tirai lo sciacquone, con gli occhi ancora mezzi chiusi feci scorrere l’acqua fredda, adoro l’acqua fredda in estate. Mi lavai la faccia, guardai nello specchio, il mio volto, la barba da fare, un brufolo sulla fronte sotto l’attaccatura dei capelli, poi lo vidi, dietro di me, lo vidi attraverso lo specchio. Mi congelai in un attimo, se mi avesse fatto qualcosa non sarei stato in grado di reagire, mi si strinse di nuovo il culo, i peli si rizzarono, la bocca mi si seccò, l’acqua scorreva, la mia faccia gocciolante. Paura. Venne mia figlia a interrompere il terrore.

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– Papà?- Mi chiamò oltre la porta chiusa del bagno.

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– Sì, Silvia.- Risposi, arrancando tra le parole.

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– Papà, hai fatto?-

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Mi diressi verso la porta senza guardarmi alle spalle, girai la chiave, vidi mia figlia, la abbracciai, lei mi disse:

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– Papà, che fai? Sono grande!-

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Continuai ad abbracciarla.

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La giornata è trascorsa serena, in macchina, accompagnando Silvia alla scuola elementare, io e mia moglie parlammo del nostro futuro viaggio a Lisbona, saremmo partiti tutti e tre non appena Silvia avesse terminato la quarta. Mancava una manciata di giorni e avremmo preso l’aereo dall’aeroporto Marconi. Quel giorno, escludendo l’episodio del bagno, non accadde null’altro.

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Ero inquieto, mi aggiravo per casa con il timore di rivederlo, guardavo sospettoso negli angoli, mentre leggevo il giornale seduto sul divano sollevavo gli occhi e li facevo girare per la stanza, mia moglie se ne accorse e mi chiese:-Cos’hai?- Mi disse proprio così: “Cos’hai?”. Già, cos’avevo? Non le risposi, non risposi a me stesso. Accadde giorni dopo, ero in macchina, sempre di mattina. Aspettavo Silvia e mia moglie. Partiamo assieme, lascio mia moglie in ospedale dove lavora e Silvia a scuola. I platani verdi ondeggiavano nella verde brezza mattutina. Lo vidi sotto un albero, lo guardai, lui ricambiò lo sguardo in qualche modo. Le mie mani cominciarono a sudare mentre stringevo il volante, il motore spento. La paura è reattiva, la paura è utile, se non provassimo paura non saremmo in grado di reagire al pericolo, così dicono, ma talvolta la paura ti blocca, ti irrigidisce così che non puoi fare nulla se non guardare la fonte della paura e il tuo comportamento simile ad una statua di sale. Ti sgretoli. Continuai a guardarlo, non riuscivo a distogliere lo sguardo, se ne stava sotto il platano. Il mio cuore prese ad andare a mille, lo sentivo, sarebbe schizzato via dalla cassa toracica, la mia aorta sarebbe esplosa, sarebbe accaduto qualcosa di simile, se non fosse scomparso. Scomparve.

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Ed ecco che venne alla mente un ricordo lontanissimo lasciato fuggire come un cavallo imbizzarrito dalla stalla del passato. Di fatto, i frequenti accessi di paura provati in quei giorni mi riportarono a una paura più antica provata il giorno in cui due miei amici mi legarono ad un palo in una villa che noi chiamavamo “dei fantasmi”. Tutto nacque come un gioco e di gioco si trattava se non fosse stato che mi lasciarono lì legato fino a quando non venne notte. Forse si erano scordati di me, forse i loro genitori li avevano chiamati per la cena, forse eravamo solo bambini. La villa dei fantasmi non era abitata, non più. Ci aveva vissuto un vecchio nobile, lo chiamavano “il conte”. Lo trovarono morto impiccato nella cantina, ai suoi piedi un grosso libro nero che raccoglieva i racconti di Edgar Allan Poe. Fu tutto un mistero gotico, la sua morte, i libri sparsi per terra, la grossa somma di denaro che venne ritrovata tra le pagine di quel libro nero. Il conte non aveva eredi, i soldi vennero stanziati per alcuni progetti comunali, la villa venne messa in affitto, ma nessuno decise di andarci a vivere, così il comune decise di venderla, ma rimase inabitata per anni fino a quando non venne abbattuta come le cose brutte e al suo posto ora sorge il parco comunale. Quella notte però, la villa esisteva ancora e il palo al quale ero legato anche. Il buio arrivò col canto della civetta che si diceva portasse scalogna a chi lo avesse ascoltato, le rane nel fiume, che scorreva non lontano dalla villa, presero a gracidare e a chiamarsi con la loro voce umida. La mia paura montò e divenne più grande di me, più forte di me. Mi decisi ad urlare, chiamai i miei genitori. Non so per quanto tempo me ne stetti lì da solo legato al palo ad urlare. Fatto sta che il mattino dopo ero nel mio letto con la febbre alta e saltai anche la scuola.

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Mia moglie salì in macchina, mi disse che avevo il volto pallido, anzi no, disse “faccia”, proprio così, disse:

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– Hai la faccia pallida.-

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Mi guardai nello specchietto retrovisore. Era vero. Anche Silvia salì in macchina, partimmo. Guidai lentamente pensando alla mia paura, al nome che volevo darle, all’aspetto che aveva. Le macchine ci sorpassavano, guidavo in modo esageratamente cauto. La mia paura non aveva un nome, non aveva aspetto.

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Quel giorno e quello successivo non accadde nulla, ma la paura era rimasta, ero sospettoso, aspettavo che sbucasse fuori da qualche ombra, da dietro la tenda, da dentro l’armadio, da sotto il letto, dal vano delle scale, dal bidone dell’immondizia, da sotto la mia scrivania in ufficio, da dentro l’ascensore, dal fondo del parco, dall’uscita di sicurezza del supermercato, dalla notte, dai sogni. Non accadde nulla.

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La scuola di mia figlia finì. Quando la andai a prendere, l’ultimo giorno aveva un sorriso che mi diede la forza di continuare, in qualche modo mi svegliò dal torpore irreale nel quale la paura mi aveva condotto, come la morte sul suo destriero, in quei giorni. Anche per mia moglie arrivarono le tanto sospirate ferie. Salutò i suoi colleghi in ospedale e appena mi vide mi baciò con calore, con vigore. Non le dissi mai quello che mi stava accadendo, non ne feci mai parola e forse fu uno sbaglio perché almeno adesso lei potrebbe in qualche modo capire la causa della mia morte. Quel giorno mangiammo fuori, in una trattoria in collina. Mi ero rasserenato, saremmo tornati a casa, avremmo fatto le valigie e il giorno dopo saremmo partiti per il Portogallo. A sera, tornammo a casa. Di solito sono io che apro la porta di casa, che accendo la luce. Così feci quella volta. Girai la chiave nella toppa, aprii la porta, accesi la luce, mia moglie e Silvia erano rimaste un poco indietro, le sentivo sul vialetto, parlavano di costumi da bagno. La luce avanzò dal fondo della stanza, tra la porta della cucina e le scale che portano al piano di sopra. Non era la luce della lampadina che avevo acceso, no, era una luce innaturale, fredda, bianca. Al centro della luce c’era la sua sagoma, non so se mi stesse guardando o parlando, non sentii nulla, nemmeno dolore e nemmeno mi accorsi di tutto il resto, di quando mia moglie e Silvia mi trovarono riverso sul pavimento in una posa sguaiata o di quando venne l’ambulanza con le sirene spiegate nella notte o di quando il medico mi diagnosticò un infarto. In vita, ho cercato di dare il nome a molte cose, l’ho fatto, lo facciamo tutti sin da piccoli. Vediamo la mamma e impariamo a chiamarla “mamma”, poi “papà”, poi “casa” e ancora “pappa”. Diamo un nome a tutto fin quando non muoriamo, fintanto non incontriamo qualcosa come la paura alla quale non riusciamo a dare né aspetto né nome.

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Giuseppe Merico da Bologna presentato da esso medesimo

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Vesto in nero, ascolto musica discordante,

scrivo storie che cercano punti di rottura,

il mio esordio con “Dita amputate con fedi nuziali” è stato

ben accolto da Sergio Rotino, dalla rivista Inchiostro,

da Luigi Bernardi.

Collaboro con la
rivista Argo (www.argonline.it), scrivo per altre riviste alternative,

il presente racconto è stato scritto per Eleanor Rigby,

pamphlet di Milano.

A breve la mia seconda raccolta di racconti

dal titolo “Aspettando gli squali.

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Colgo l’occasione per ringraziare Giuseppe per aver raccolto l’invito a pubblicare un racconto in Arzyncampo. Naturalmente con i più sinceri auguri per un futuro bianco e nero, ovvero di carta ed inchiostro.

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Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

4 Risposte a ““Il nome della paura”, racconto breve inedito di Giuseppe Merico da Bologna, blogger, scrittore”

  1. A dire il vero, caro Giuseppe, sarei io a dover ringraziare te. Comunque evitiamo di litigare, ringraziamoci a vicenda e sia finita qui.

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