“Una storia socialista (1): incontro con Gaetano Mantovani, ragazzo dello Psiup

Era l’autunno del 1970, avevo 16 anni, studiavo all’Istituto Tecnico Romagnosi, in via Romagnosi, per l’appunto. Terza superiore. Durante l’estate, dopo il tempo brevissimo passato con Annamaria “capelli di stoppa”, come mi canzonava Mino, a quella festa in via Borghetto, Giuliana mi ha baciato giusto perché son sempre le donne a decidere e lei, in un colpo solo, ha lasciato Angelino e “mi ha preso” con sé. Sistemato il problema fanciulle che poi per noi ragazzi era il problema prioritario, ci si riuniva e ci si chiedeva “l’amore cos’è, l’amore come si fa” e ognuno faceva mostra della sua totale ignoranza. “Io ho fatto l’amore con la tale”, annunciava spavaldo il Fausto, poi scoprivamo che sì, sul divano di casa aveva pomiciato. Complimenti, buon per te caro amico (avrei voluto essere al tuo posto, con quella lei della quale non ricordo il nome ma ancora ricordo che era bella e prosperosa) ma far l’amore dovrebbe essere qualcosa di più. Eravamo un gruppo di sette amici che avevano stretto un patto di ferro: prima di tutto gli amici, il gruppo, poi il resto della vita. Ma no, abbiamo ribattuto io e Giuliana: prima l’amore. Così se non proprio espulso, sono finito ai margini del clan, guardato con sospetto. Avevo tradito, isolandomi con lei durante una festa, il valore primario e assoluto del gruppo per… una femmina e, questo, non si fa. Dicevano gli altri sei. Ma anche per loro sarebbe venuto il tempo della riflessione sulle priorità della vita, il tempo dei cambiamenti. Poi con l’autunno e la scuola subentrò un altro interesse ancora: le assemblee, i cortei, la protesta, studenti e operai uniti nella lotta, la nostra voce ai megafoni, l’affermazione dell’essere nelle vie della città sonnolenta, case, cemento, chiese, palazzinari, banche, affari. Noi. Per un mondo diverso, Nuovo, libero. Chi con la camicia a fiori, chi con i primi eskimo d’ordinanza, chi con il fazzoletto al collo. Rosso. Maurizio, ripreso dal professore, uscì dall’aula cantando “Bandiera rossa la trionferà, evviva il comunismo e la libertà“. Io, no, io comunista no. I comunisti russi avevano invaso Praga e soffocato la primavera socialista di Alexander Dubcek, il leader del socialismo dal volto umano. Come dimenticare, in quel 1968, Renzo Arbore ai microfoni radio di “Bandiera gialla” che parlava in diretta, la voce rotta dall’emozione, dell’invasione, dei carrarmati con la stella rossa che attraversavano i ponti di Praga per soffocare l’esperienza socialista. Come del resto avevano fatto in Russia negli anni venti prima Lenin poi Stalin e, per i menscevichi, i socialisti, partivano i treni diretti in Siberia, capolinea il Gulag, o, per i più fortunati, l’espatrio, la fuga all’estero. No, non si poteva dimenticare quel ragazzo che in piazza si dava fuoco e che dire dell’Ungheria, dei gulag, dell’oppressione della diversità. Il comunismo russo era diventato una degenerazione, un tradimento della classe operaia e dei lavoratori, del socialismo, del Manifesto di Marx. Una dittatura di pochi che si arrogavano il diritto di stabilire dall’alto i destini del popolo tutto. Inaccettabile. Depauperati i soviet, l’assemblearismo pluralista, la libera partecipazione da parte di tutti. Al pari del capitalismo all’americana, che nel dopoguerra invadeva la Grecia negando la libertà di scelta al popolo, due sistemi in fondo uguali, nemici della libertà sostanziale, della giustizia, della democrazia. Del resto, caro Maurizio, ovunque tu ora sia, la strofa originale di Bandiera rossa che cantavi diceva “evviva il socialismo e la libertà“, non “evviva il comunismo“. Servire il Popolo. Il Preside concesse le assemblee mensili d’istituto, studenti e insegnanti tutti riuniti al cinema President. Il mio primo microfono, per denunciare le discriminazioni d’una prof nei confronti d’una studentessa. Silenzio, applausi, fischi. La prof sul palco, punto per punto smonto’ le mie accuse. Così in quell’autunno mi ritrovai in via Borghetto, nella sede dei Collettivi del Movimento Studentesco. Ancora troppo giovane per capire la frammentazione in tanti gruppuscoli del Movimento in quanto tale. Ogni leader il suo gruppo. Servire il Popolo, PCI, Pcd’I-ml, il Movimento Studentesco con riferimento a Mario Capanna, le bandiere dello Psiup e non so quanti altri. Non capivo. Ma in quella sede un compagno, si chiamava Fiorillo, mi ha messo al ciclostile, ho imparato a stampare i volantini a centinaia, a migliaia che poi il giorno dopo, divisi tra i compagni, si distribuivano nelle scuole. Cercando di calmare mammà per le macchie d’inchiostro sulla camicia, sui pantaloni, sull’elegante paltò. Diceva, scuotendo la testa, che mi riducevo peggio di suo fratello, lo zio Giovanni, che faceva il manovale nei cantieri edili e, tra polveri, vernici, cemento, ogni sera tornava a casa conciato come uno spaventapasseri per la gioia di nonna che ormai aveva rinunciato a riceverlo con le mani nei capelli e in silenzio preparava la tinozza in rame riempiendola d’acqua fredda presa dal pozzo per il bagno prima e per lavare i panni sporchi poi (allora, in campagna, erano sconosciute vasche di ceramica a muro, doccia, lavatrice, addirittura lo stesso bagno così come lo si aveva in città – magari in comune, nei cortili o sulle balconate “di ringhiera” – ). Venne il giorno di un grande sciopero, non ricordo gli obiettivi ma l’adesione dei due istituti, la ragioneria con gli studenti geometri, parti’ pressoché totale. Sfilate in corteo fino alla piazza, le prime bandiere (rosse) al vento, cartelli scritti col pennarello, affermazione delle rivendicazioni sotto le finestre (chiuse) del municipio, non una parola sul quotidiano locale di tendenza liberale (PLI), dalla parte dei poteri al governo della sonnolenta città, sempre chiese, caserme, banche, affari. Così un giorno, due giorni, tre giorni, sempre al fianco di Giuliana, i picchetti (blandi) per sconsigliare le defezioni, a muso duro contro la presidenza. Che reagì, dichiarando disponibilità al confronto a patto di concludere lo sciopero e rientrare. Pena, in caso contrario, sospensioni e repressione. Decidemmo di non crederci, bisognava proseguire e venne l’alba del quarto giorno. La stragrande maggioranza, impaurita, entrò nelle aule, Giuliana compresa. Ancora erano da venire i picchetti ai portoni, quelli duri, quelli per impedire il crumiraggio. Rimanemmo una sparuta pattuglia di irriducibili. Impauriti ma decisi delle nostre ragioni, dei nostri diritti. Eravamo rimasti forse poco meno di un centinaio sui credo 900 studenti in totale. In quella fredda mattina con la nebbia che avanzava dal vicino Po, assemblea nel prato di fronte a Palazzo Farnese. Al megafono i ragazzi dello Psiup, alcuni studenti dell’istituto, altri venuti a portare solidarietà, uno su tutti gli altri, Gaetano Mantovani. “Non preoccupatevi, sospensioni? Sono minacce che cadono nel vuoto, ora trattiamo, poi staremo a vedere“. Gaetano, una decina d’anni almeno più dei miei, lo Psiup e, sia pure ancora inconsapevole, per me inizia la mia storia socialista. Di sinistra, senza se e senza ma. Venne formata una delegazione che entrò nell’istituto. Credo che quel ragazzo, Gaetano, venuto dall’esterno, ne abbia fatto parte e, dopo qualche ora, di nuovo riuniti (sempre più infreddoliti) per l’annuncio dei risultati. Ovviamente nessuna sanzione e tutte le rivendicazioni concesse. All’uscita Giuliana mi corse incontro in lacrime, aveva ceduto, per paura, come poteva spiegare a casa una sospensione? Guardandomi con gli occhi tristi e impauriti mi chiese “sei deluso?”. Le ho sorriso, l’ho abbracciata, l’ho baciata, l’ho accompagnata in piazzale Cittadella, alla fermata della corriera che la riportava a casa, in provincia. Poi, con gli amici, al bar a giocare chi a flipper, chi a calciobalilla, chi “non ho soldi, parliamo”. Dal giorno dopo, al rientro in classe, alcuni professori iniziarono ad interrogarmi e così avrebbero fatto nelle settimane e negli anni a seguire. “Fai sciopero? Bene, libero di farlo ma, prima, devi dimostrare di rispettare i tuoi impegni come studente“. Quindi? Interrogazioni il giorno prima e il giorno dopo. Un grande insegnamento. Un inciso finale: dallo sciopero successivo i picchetti si fecero duri, allineati all’ingresso, non passava (mancava lo spazio fisico) neanche una mosca. Fino a quando il padre di un ragazzino di prima si avvicinò e senza se e senza ma mi assesto’ un bel pugno nello stomaco. Due tizi in giacca e cravatta sempre presenti in posizione defilata arrivarono di corsa, allontanando l’energumeno mentre il ragazzino, solitario, entrava a scuola ed io pensavo al viale dove tutte le sere passeggiava la giovane ed appariscente moglie del genitore palestrato. Da quel giorno comunque i picchetti tornarono morbidi, anche per consiglio dei ragazzi di quinta, quelli dello Psiup: si fermava lo studente che voleva entrare, gli si chiedeva perché, si cercava di convincerlo delle ragioni dello sciopero, poi se insisteva lo si lasciava passare. Erano pochi, per lo più delle prime classi, ma c’erano, spesso semplicemente avevano paura di una repressione che non esisteva.

(1 – continua)

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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