“Ciao Piacenza 5 ext, ti mando in codice verde su una signora di 72 anni con febbre alta e dispnea, sospetto caso di coronavirus”. Era il 17 febbraio 2020. Cinque giorni dopo, mi manca il respiro…

La testimonianza di un volontario della Pubblica Assistenza Sant’Agata di Rivergaro (PC) della corsa in ambulanza a sirene urlanti per una signora di 72 anni con febbre alta e dispnea, sospetto caso di coronavirus. Era il 17 marzo 2020. Cinque giorni dopo…

E’ giorno. Sono le 9 del mattino. Indossi quella divisa che portavi con orgoglio sperando che sia un giorno diverso dagli scorsi. Invece no.Suona il telefono :”Ciao Piacenza 5 ext, ti mando in codice verde su una signora di 72 anni con febbre alta e dispnea, sospetto caso di coronavirus, usa pure i dispositivi sonori, così ti liberi prima che ho un altro servizio già per te“. Ti vesti. Ti vesti con quelle tute bianche di plastica che vedevi solo in CSI o a Quarto Grado, dove dentro si muore dal caldo. Dove fai fatica a compiere il più piccolo gesto. Ti vesti facendo attenzione a non avere parti di pelle scoperte e indossi quella mascherina che fa soffocare. Quella che quando fai anche solo 2 rampe di scale, non respiri e ti senti svenire. Ti metti la visiera…ti guardi…controlli che tutto sia a posto più volte. Ti specchi in ogni angolo possibile. Perché basta poco per “portalo a casa”. Arrivi a destinazione dove tutti ti guardano incuriositi dalla finestra. Le macchine rallentano per osservarti. Osservare dei perfetti sconosciuti vestiti di bianco. La curiosità di quello che stai facendo immobilizza i vicini. I vicini di casa. I vicini di quartiere. Chiunque si trovi li a passare in quel momento. Ti muovi a fatica. Respiri a fatica. Senti le voci a fatica. Entri in casa. 72 anni, ha la febbre e non riesce a respirare nemmeno con l’ossigeno. Ormai ne hai già visti tanti, hai gia visto quella difficoltà respiratoria. Occorre andare in ospedale e alla svelta. Il marito la veste e l’aiuta…con una cura e attenzione degne del più bel film d’amore. Come solo i mariti di una volta sanno fare. 50 anni di matrimonio e mai si erano separati. Ma questa volta…lui non può accompagnarla come le altre volte. Non può starle accanto. Tenerle la mano e incoraggiarla che “tutto andrà bene”. Glielo sussurra mentre le infila le ciabatte e sulla soglia di casa. Prima di consegnarla a me. Arriva la figlia. Chiede se può venire in ospedale, ma non si può, non si può entrare in ospedale. Dentro di te sai che quella potrebbe essere l’ultima volta che la signora vede sua figlia. Dentro di te sai che quella…potrebbe essere l’ultima volta che la figlia vede sua madre. Speri non sia così. Sali in ambulanza e la figlia in lacrime…chiede se può salutare la madre. Apri il portellone dell’ambulanza e permetti il saluto. Straziante. Sotto la visiera volevo solo piangere. Ma non si può. Si deve dare tutto il conforto possibile e tutta la sicurezza possibile. Arrivi in pronto soccorso dove incontri tutti i medici, infermieri e oss e tutti sono più stravolti di te perché nel frattempo arrivano altri pazienti, tutti con gli stessi sintomi. Ne arrivano a flotte. Non li riconosci. Nessuno ti riconosce. Siamo tutti vestiti uguali. Fuori…solo gli occhi. Stanchi. Rossi. Lucidi. Fai fatica a sentirli e tu a parlare. Loro fanno fatica a sentire te. La signora è preoccupata e si sente sola. Quello che si vede è straziante. Drammatico. E solo chi lo ha visto con i propri occhi può capire. I pazienti che entrano hanno sul volto dipinta la paura. La rassicuro. Sotto la visiera avrei solo voluto piangere. Lasci la signora nelle mani del pronto soccorso. Esci e ti disinfetti. Cerchi di farlo al meglio perché hai il terrore di prendere il virus anche tu e “portarlo” a chi vuoi bene, di portarlo a casa. O più semplicemente di ammalarti tu. Non hai ancora terminato la disinfezione che ti suona il telefono. Si tratta di un altro sospetto Covid19.Ti prepari. Di nuovo. Di nuovo le sirene. Le stesse che senti la notte. Anche mentre chiudi gli occhi ti sembra di sentirle ancora nella tua testa. “Uomo di 42 anni con febbre alta e difficoltà respiratoria”. Preghi non sia il padre di qualche tuo amico. Preghi non sia il tuo. Preghi non sia chiunque tu possa conoscere. Arrivi sul posto. Di nuovo ti muovi a fatica. Di nuovo fatichi a respirare. Fai 6 rampe di scale a piedi. Arrivi che ti manca così tanto il respiro che ti senti mancare. Riprendi il fiato e cerchi di parlare con il poco fiato che hai. Ti trovi di fronte ad un uomo di 42 anni, agente delle forze dell’ordine in servizio nel lodigiano durante le prime fasi di tutta questa situazione. Ha la febbre alta. Fatica molto a respirare. E’ necessario andare in ospedale. All’uscita della stanza, tutti i colleghi sull’attenti per il “loro saluto” Non dimenticherò mai lo sguardo dei suoi colleghi. Lo carichiamo. Arriviamo in ospedale. Sembra ci sia più gente di prima…anche se sono passati solo 40 minuti tra un intervento e l’altro. Sono le 20.Ormai è sera. Finisci il turno con il mal di testa per le ore passate a sentire la tua sirena ormai scoppiata, per il quantitativo di disinfettante che ti sei buttata addosso e che inali e per tutto ciò che indossi. Quando vai a letto speri sia solo un incubo. Pensi ai tuoi cari. Pensi a quando li rivedrai. Chi è in prima linea in questa battaglia…molti di noi…sono lontani dai propri affetti. Molte mogli come me, non abbracciano e non baciano il marito da più di un mese. Molte madri come me, non vedono il figlio da settimane. Molti dei miei ragazzi, non vedono i propri affetti da quando tutto questo è incominciato. Fidanzati, nonni, genitori, zii, parenti e amici. Il giorno dopo scopro che la signora di 72 anni é morta. Da sola. Senza aver da parte il marito che con tanto amore le ha dedicato tutta la sua vita. Senza avere vicino la figlia. Un’altra figlia è rimasta sola. Senza la sua mamma. Questo è un estratto della giornata dell’equipaggio della P.a. Sant’Agata di Rivergaro chiamato PC 5 Ext. Questo è un estratto della giornata dei nostri ragazzi. Questo è il dramma che vivono gli operatori sanitari sui servizi d’emergenza Sospetti Covid-19.Questo è quello che accade quotidianamente. Questo è quello che sta succedendo qui. Adesso. Se ognuno di voi stesse a casa darebbe un contributo enorme. ENORME. Prima state a casa e prima tutto questo finirà. STATE A CASA.

A Piacenza (provincia) sono già più di 1350 le persone che non torneranno a casa

Post covid: 230 giorni dalla mia deospedalizzazione, 317 dall’arrivo dell’ambulanza ululante come un lupo desolato, 325 dalla crisi (febbre alta, poi polmonite). 2 febbraio 2021, martedì.

Questo post della Pubblica Assistenza risale al 17 marzo 2020. Quel giorno a sera improvvisamente sento la fronte calda. Avevo un poco di febbre, 37, 5. Nulla di preoccupante. Cinque giorni dopo, quando la signora 72enne soccorsa quel 17 marzo (come si racconta nel post) già non ce l’ha fatta lasciando attoniti e in lacrime figlia e marito, mi manca il respiro, perdo lucidità, Dalila chiama il 118, intanto sembra che mi riprenda, ma arriva l’ambulanza. Un infermiere dice che è stato mio allievo ma bardato com’è mi è impossibile riconoscerlo. Sono le 22.30, entro in Pronto Soccorso, inizia il calvario. Malattie Infettive, Rianimazione, Terapia Intensiva, Riabilitazione pneumologia e fisica. Sono fortunato. Il 17 giugno 2020, 88 giorni dopo, comunque torno a casa, sono vivo. Inizia la riabilitazione: l’assistenza prosegue, medici, infermiere, terapiste della riabilitazione cercano di recuperare il salvabile. Siamo al 2 febbraio, 325 giorni dopo dalla crisi. Ancora non è finita. Il 23 febbraio 2021, quasi un anno dopo, si prospetta la “presa in carico” da parte dell’ambulatorio ospedaliero post-covid per un’ennesima verifica: in day-hospital ulteriori visite e prestazioni strumentali di pneumologia, cardiologia, fisiatria, forse neurologia, medicina, otorino, oculistica oltre alle immancabili analisi chimico-cliniche, l’eventuale TAC, l’elettrocardiogramma e poi chissà, di tutto un pò. Forse, mi dicono, a marzo, esattamente un anno dopo, forse la prima iniezione del vaccino. Ma ripeto. Sono fortunato. Innanzitutto sono vivo, sopravvissuto, sicuramente si può dire miracolato. Con un grazie di cuore ai tanti operatori sanitari che mi hanno preso in cura, assistito, sostenuto, aiutato superando anche il timore per la loro stessa salute (li ricordo, bardati come i “liquidatori” chiamati ad intervenire nella centrale nucleare di Chernobyl dopo l’esplosione e la fuga di radioattività mortale). Per questo dico meglio affrontare qualche sacrificio anche economico, qualche limitazione della libertà di movimento piuttosto che dover vivere il rischio del contagio con tutto quanto ne consegue e, per quanto mi riguarda, ne conseguirà (fino a fine anno l’apposita Commissione Medica mi ha riconosciuto un’invalidità al 100%, giudizio “rivedibile” nel senso che magari la percentuale riconosciuta sarà inferiore ma sicuramente lontana dal ritorno alla normalità fisica precedente).

Distanziati (purtroppo) ma comunque vivi e in ogni caso… parlano gli occhi

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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