“Cinque mesi di prefettura in Sicilia” (Sellerio editore) sui moti antisabaudi di Racalmuto del 1862: di Carmelo Sciascia

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Cinque mesi di prefettura in Sicilia, di Enrico Falconcini

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Da tempo la situazione in Sicilia era assai tesa. Garibaldi insisteva col suo “O Roma o morte”, il re protestava contro l’intenzione del Generalissimo, il partito garibaldino cominciava a formare campi militari, si armava, reclutava seguaci entusiasti e violenti un po’ dovunque. Poi c’erano i renitenti alla leva che si erano dati alla latitanza. Poi c’erano i briganti sempre più numerosi. L’8 Agosto, al Molo di Girgenti (Porto Empedocle) erano sbarcati duemila uomini di truppa, il 10 nel capoluogo s’accampava un battaglione di bersaglieri. Il 13 agosto 1862 è il giorno dell’arrivo del nuovo prefetto, il toscano Enrico Falconcini, e contemporaneamente di un generale con truppa e artiglieria di campagna. In serata, la città viene completamente circondata dalle truppe regolari. Ma numerosi soldati disertano per unirsi ai volontari garibaldini. Insomma, possiamo essere certi che in quella sua prima nottata girgentana Falconcini non pigliò sonno. Le cose stavano a questo punto quando il 21 dello stesso mese Cuggia, prefetto di Palermo con autorità sugli altri prefetti dell’isola, proclamò lo stato d’assedio. Scoppiano rivolte, sparatorie, incendi di case. L’unica buona notizia Falconcini la riceve diciotto giorni appresso il suo insediamento: Garibaldi, ferito, è stato disfatto in Aspromonte. Ma la notizia non significa tranquillità, il partito garibaldino organizza una strepitosa manifestazione contro il governo, Racalmuto insorge, sbarcano altri cinquecento bersaglieri di rinforzo. Ma capita anche un fatto inaudito, unico nella storia d’Italia: ben quarantatre impiegati statali firmano le loro dimissioni come segno di solidarietà a Garibaldi. Di fronte a un fatto simile e cioè con la Burocrazia girgentana che si schierava a favore di un rivoluzionario, Falconcini come minimo avrebbe dovuto domandare asilo politico in Svizzera. Invece s’arrabatta, spedendo a dritta e a mancina circolari, proclami, ordini che o cadono nell’indifferenza generale o ricevono risposte di formale adesione. In più, è un uomo molto riservato, non ha amicizie locali, non si fa vedere nei due circoli importanti della città, a molti sta antipatico. Sempre più frequenti compaiono scritte sui muri: ”Abbasso Falconcini!”. Il quale intanto dimostra ogni giorno che è un uomo che non “sa vivere”. Si mette contro i preti per una questione di decime, allontana dalla prefettura e dagli uffici i faccendieri, desidera l’applicazione rigorosa di un’ordinanza del famigerato generale piemontese Eberhardt che proibisce la detenzione di armi pena la fucilazione sul posto. E gli capita tra capo e collo, il 26 ottobre, lo stivale di Garibaldi. Stivale insanguinato portato a Girgenti dall’avvocato Ricci-Gramitto, luogotenente del Generale ad Aspromonte, e venerato come una reliquia. Il partito garibaldino girgentano reclama l’autorizzazione di una grande manifestazione in onore del reduce Ricci-Gramitto e dello stivale. Dopo averci a lungo ragionato, il prefetto concede l’autorizzazione, “onde evitare ulteriore turbativa”, ma si attira l’inimicizia della borghesia conservatrice e della nobiltà. Ai primi di novembre, il prefetto decide di andare a dare un’occhiata al carcere che ospita 127 detenuti. Rimane allibito per la sporcizia e il degrado. Soprattutto lo colpisce il fatto che nel cortile razzolino delle galline la metà delle quali sono dei carcerati e l’altra metà appartengono al capo delle guardie di custodia. Falconcini lo fa destituire e chiama al suo posto un capoguardia settentrionale il quale, a sua volta, manda a spasso le altre guardie sicchè i custodi, come annota nel suo diario l’avvocato Picone, “sono tutti continentali”, fatta eccezione di un calabrese. Ai primi di dicembre, il prefetto riceve una lettera anonima che lo mette in guardia circa una possibile evasione di alcuni carcerati. Falconcini ordina un’ispezione che viene effettuata il 22 Dicembre. Il delegato centrale Francesco Gaudio, coadiuvato da una compagnia del 37° reggimento, da una decina di Carabinieri e da “tutte” le guardei di P.S. di Girgenti, mette sottosopra il carcere, fa battere spranghe di ferro contro pavimenti, soffitti, pareti allo scopo di sentire eventuali vuoti. Le pareti e il suolo delle celle e dei cameroni “si trovaron del tutto ignudi”. Le povere cose dei detenuti e i detenuti stessi vengono perquisiti. Non si trova nente di sospetto. Nessun preparativo di fuga, garantisce nel suo rapporto al prefetto il Delegato centrale. Nel corso della sera di Natale, i detenuti hanno il permesso di scambiarsi abbracci e auguri sotto gli occhi dei custodi “continentali”. La mattina del 25, giorno di Natale, uno strano silenzio regna nel carcere. Infatti non c’è più manco un detenuto: tutti i 127 sono evasi attraverso uno scavo effettuato proprio sotto a uno di quei cameroni pigliati a sprangate di ferro per sentire se suonava qualche tratto vuoto. Il custode di guardia di quella notte, guarda caso il calabrese, non ha visto né sentito niente. Falconcini, in sua difesa, azzarda l’ipotesi che si sia trattato di una raffinata vendetta del capoguardia e degli altri custodi licenziati per far posto ai “continentali”; crediamo che sia un’ipotesi plausibile. A nulla valgono le difese di Falconcini: da Torino, l’11 gennaio 1863 un telegramma del ministro gli comunica che “ in data d’oggi è stato dispensato dalla carica di prefetto di codesta provincia”. Non sarà mai più prefetto di nessun’altra provincia, la sua carriera terminerà qui. Il libro, “Cinque mesi di prefettura in Sicilia”, un’autodifesa corredata da un centinaio di documenti, ha un suo rilevante valore storico ma soprattutto ha valore come patetica e involontariamente umoristica testimonianza della vana lotta di uno sventurato contro un destino avverso o contro una jella di rara implacabilità.

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Tempo addietro mi è capitato di leggere un intervento sulle celebrazioni del 150° dell’Unità d’Italia. L’intervento verte e si basa sulla riproposizione di un documento: la relazione al Ministro degli Interni del prefetto di Girgenti (ogi Porto Empedocle), Enrico Falconcini, datato 8 ottobre 1862. Il libro era stato ritrovato nella biblioteca della Camera dei Deputati da Leonardo Sciascia negli anni 80, più precisamente il periodo in cui ha fatto parte della Commissione parlamentare sul fenomeno della mafia dal dicembre 1982 al luglio 1983. Nel 2002 fu poi pubblicato da Sellerio  nella collana ‘La memoria illustrata’: nella prefazione Andrea Camillieri ironizzava sulla figura del Prefetto, uomo sbagliato al posto sbagliato nel momento sbagliato: in realtà un uomo, in fin dei conti,  semplicemente jellato.  Io, che quel rapporto avevo letto, sono andato a rivederlo, e vorrei aggiungere qualche nota in più, all’interpretazione del Vassallo Nino, autore dell’intervento citato, un articolo datato 5 settembre, fatto circolare in rete.

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I fatti: nella provincia di Agrigento, vi sono delle manifestazioni, più o meno violente, in seguito alla notizia dell’arresto e del ferimento di Garibaldi ad Aspromonte ad opera dell’esercito regolare, comandato dal colonnello Pallavicini, avvenuto il 29 agosto dello stesso anno. Più pacifica la manifestazione di Canicattì: una manifestazione con il busto di Garibaldi portato “a passeggio attraverso la città” che “tenne per tre buoni giorni in agitazione il paese”. Il ferimento di “carabinieri” (non si fa menzione del numero e delle gravità delle ferite, sembra semplicemente un mero pretesto) fece intervenire militarmente una compagnia di bersaglieri ed arrestare il padre ottuagenario del sindaco (l’episodio sembra ridicolo, ma non lo è, se si considera che è premessa per dimissionare l’intero consiglio e commissariare il comune).

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Di ben altra consistenza i fatti di Racalmuto menzionati in vari rapporti ufficiali nei cento documenti che supportano e fanno parte integrante del libro “Cinque mesi di Prefettura in Sicilia per Enrico Falconcini”, già deputato al Parlamento Italiano, edito a Firenze nel 1863, che sostengono “la prova provata” del corretto agire del prefetto. I documenti riportati sono stati scelti dallo Stesso e non vengono né allegati né menzionati documenti di altra fonte, ma solo quelli che sono stati compilati di proprio pugno da Falconcini o che convalidano comunque le sue scelte.

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Il 6 settembre il paese cadde in preda ad un terribile disordine”. Così inizia il rapporto del nostro Prefetto al Ministro degli Interni Urbano Rattazzi che, oltre a Ministro era anche il Presidente del Consiglio dei Ministri già dal 3 Marzo 1862 e che resterà in carica fino all’8 dicembre dello stesso anno.    Nei moti racalmutesi venivano nell’ordine: saccheggiata la caserma dei carabinieri, bruciati gli archivi del comune, aggredito e saccheggiato il corpo di guardia della milizia nazionale, saccheggiato il casino di compagnia, aperte le carceri ai detenuti, aggredita la vettura corriera, bruciati i dispacci. Come si può desumere da questa descrizione è un quadro di vera e propria rivolta popolare, una rivolta che ha l’appoggio di tutta la popolazione e non può essere attuata solo da una ”orda invaditrice”, (latitanti, malviventi e renitenti alla leva che di comune accordo, quasi militarmente attaccavano il paese e lo mettevano a ferro e fuoco) come vuol fare intendere il Falconcini.

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Come mai, così all’improvviso a Racalmuto, un piccolo paese, succedeva in quel preciso momento quel ‘48? La notizia dell’arresto dell’Eroe in Calabria avvenuta la settimana prima, sicuramente ne aveva acceso la miccia, ma l’accensione della miccia presuppone che ci sia stato, sia la miccia che il materiale esplosivo, ci dovevano essere dei motivi profondi, sentiti e diffusi, sicuramente molto di più della semplice notizia che giungeva dal Continente.

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Garibaldi aveva rappresentato le aspirazioni di riscatto sociale e politico delle diseredate masse popolari siciliane, ma i fatti di Bronte,  la  cessione del Regno delle due Sicilie con l’Obbedisco di Teano a Vittorio Emanuele II, e la successiva colonizzazione sabauda ne avevano smorzato sicuramente l’impatto emotivo della prima ora.

 

Secondo il Falconcini a Racalmuto  “si dette sfogo a quelle covate ire di famiglie alle quali sogliono le passioni politiche servire di comodo manto”. Vi era a Racalmuto in quel periodo una famiglia che questi moti poteva fomentare, la famiglia Matrona che era di tendenza progressista, era per l’unità d’Italia, aveva una simpatia garibaldina. E quindi può darsi che questa famiglia soffiasse sul fuoco della rivolta, come manifestazione di sostegno a tutta quella concezione politica che si accreditava, non sempre a ragione, al Generale.

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Ma vi era un’altra famiglia che all’opposto era conservatrice, rimasta di simpatie borboniche: i Farrauto.  Queste notizie le avevamo apprese già nel 1969, anno di pubblicazione del libro di Eugenio Napoleone Messana  (personaggio che ho spesso citato nei miei interventi) “Racalmuto nella storia della Sicilia”, che di questi fatti narra. Quindi Racalmuto come Verona: i Matrona ed i Farrauto come Capuleti e Montecchi. O, come la Firenze dei Donati e dei Bondelmonti, cui espressamente fa riferimento il Nostro. La famiglia e la politica sono sempre stati elementi intrinseci della vita pubblica siciliana: l’eletto è tale se ha un grande gruppo familiare alle spalle e, la famiglia è importante se ha delle espressioni che si palesano in cariche pubbliche.

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Questa l’interpretazione romantica del nostro Prefetto. Il quale si smentisce poco dopo, affermando: “Le campagne di quel comune erano piene di renitenti alla leva”. Ed allora? Fu causa di detta rivolta, la rivalità delle famiglie Matrona e Farrauto, l’attacco della “orda invaditrice” o dai renitenti alla leva? Il motivo vero è che questi fatti vennero a coagularsi a seguito di un episodio, la repressione d’Aspromonte, ma che erano frutto di un malcontento generale, diffuso nelle città e nelle campagne, di leggi calate dall’alto che danneggiavano tutti, in primis quelle sul servizio della leva obbligatoria, da una repressione ferrea: lo stato d’assedio perenne.

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Queste ed altre mille le cause che unificarono i rivoltosi racalmutesi, cause che unirono i nostalgici borbonici (espressione della famiglia Farrauto) ed i rivoluzionari mazziniani e garibaldini (espressione della famiglia Matrona), i renitenti alla leva con il sottoproletariato delle campagne: i braccianti.

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Leggendo un altro testo “Colpo d’occhio”del 1862, avente come sottotitolo “su le condizioni del reame delle due sicilie” , si vede come diverse in tutto il meridione furono le rivolte come quella di Racalmuto, e di queste rivolte risulta essere una meticolosa cronaca. Conseguenza di dette rivolte, spontanee e popolari, fu il cambio di governo, nel senso che a pagarne le conseguenze fu il Rattizzi, che dovette dimettersi l’8 dicembre, dopo appena 9 mesi e 5 giorni, per essere sostituito dal Farini, un uomo che dava già evidenti segni di squilibrio mentale. Strano il destino, a volte: Luigi Carlo Farini morirà tre anni dopo a Quarto, terminando in povertà la propria vita dov’era iniziata, qualche anno prima, l’avventura dei Mille. Ministro dell’interno troviamo allora il Peruzzi, Ubaldino Peruzzi de’ Medici, in carica fino al 24 marzo 1863, per tre mesi e 16 giorni, così quanto durò il governo Farini. Ed anche se a firma di S. Spaventa, è il Peruzzi Ministro che dimissiona l’11 gennaio 1863 il Cav. Enrico Falconcini prefetto di Girgenti. In risposta all’onorevole cav. Prof. Boggio, deputato al Parlamento a Torino, è sempre l’Ubaldino Peruzzi a sottolineare che il sig. Falconcini è stato “dispensato, non destituito dalla carica di prefetto di Girgenti”. Una delle ultime affermazioni del prefetto nelle conclusioni recita: “Un ministro completamente adatto agli odierni bisogni del regno, forse non lo avemmo fin qui; ma spero , che verrà…” mai profezia è stata più mendace!

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Nel dicembre 1863, a seguito dei fatti accennati e di quello che venne definito il brigantaggio nel meridione, la Camera nominò una commissione d’inchiesta, per capire le cause politiche e sociali, esaminare eventuali errori del governo e se fosse stata giustificata e corretta la repressione dell’esercito, visti gli innumerevoli massacri commessi dall’esercito regolare. La relazione evidenziò le ragioni economiche quali la diffusa povertà, non si parlò mai di responsabilità del governo, le colpe erano degli agenti e dei nostalgici borbonici (quale la famiglia Farrauto, ma ad essere arrestati erano stati i Matrona, garibaldini), di parte del clero e soprattutto dei “briganti”. L’unità d’Italia si concludeva così con la promulgazione della Legge Pica. Un sanguinoso Stato d’assedio che durò anni. Suona ironica la frase conclusiva del libretto citato: “Sappiano gli Agrigentini usare pienamente dei propj diritti, e l’opinione pubblica di tutt’Italia forzerà il governo a dare soddisfazione ai bisogni della bella e ricca loro provincia”. Agrigento è ancora oggi, dati de “il sole 24 ore”, l’ultima provincia del Regno, pardon della Repubblica. 

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Garibaldi ferito in Aspromonte di I.P. Martine

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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