“I viaggi nel tempo: Storia di un lungo viaggio, tra letteratura e paradossi filosofici”, intervento di Carmelo Sciascia

Arzyncampo pubblica l’intervento di Carmelo Sciascia del 14 ottobre a Piacenza in Biblioteca Passerini-Landi

Inizio questa conversazione partendo da Sciascia, Leonardo si intende. Perché, oggi come ieri, Sciascia è ancora attuale. Lo spunto iniziale, un libro che mi è stato recapitato un po’ di tempo fa: “Per la giustizia in terra” di Andrea Verri, con prefazione della piacentina Ricciarda Ricorda, docente dell’Università Cà Foscari di Venezia. Il Verri, un sincero e giovane studioso dello scrittore racalmutese, sviscera alcuni suoi scritti, tra questi il racconto “Il lungo viaggio”. Leonardo Sciascia scrisse una serie di racconti, tra il 1959 ed il 1972, che pubblicò nel 1973 con l’editore Einaudi, con il titolo “Il Mare colore del vino”. Il mare ed il vino, due elementi naturali e primordiali che hanno tanto in comune. Nel piacere e nel dolore. Più nel dolore in questi ultimi tempi per il sangue delle migliaia di vittime che hanno visto nel Mediterraneo la loro fine: il mare, non come mezzo, strada per raggiungere una qualche parte, ma ultima meta dell’esistenza umana.

A proposito di questo libro, Sciascia scrive: «… mi pare di aver messo assieme una specie di sommario della mia attività fino ad ora e da cui vien fuori (e non posso nascondere che ne sono in un certo modo soddisfatto, dentro la mia più generale e continua insoddisfazione) che in questi anni ho continuato per la mia strada, senza guardare né a destra né a sinistra (e cioè guardando a destra e a sinistra), senza incertezze, senza dubbi, senza crisi (e cioè con molte incertezze, con molti dubbi, con profonde crisi); e che tra il primo e l’ultimo di questi racconti si stabilisce come una circolarità: una circolarità che non è quella del cane che si morde la coda».
Ecco in sintesi, elencati come programma politico tutti gli elementi di un viaggio: letterario (soddisfatto, dentro la mia più generale e continua insoddisfazione), politico (senza guardare né a destra né a sinistra e cioè guardando a destra e a sinistra) morale (senza tentennamenti e cioè con molte incertezze, con molti dubbi, con profonde crisi). Perché un viaggio può essere un percorso letterario, un percorso politico, una scelta morale: contenere solo alcuni di questi elementi come contenerli tutti. All’alternarsi del movimento dei passi che si fanno per iniziare un viaggio corrisponde un altro movimento, incostante, a volte in modo costante, il movimento (o meglio il momento) dell’intelligenza: la riflessione.
Questo libro “Il mare colore del vino”, contiene un racconto titolato “Il lungo viaggio”, che narra la storia di una sconfitta. Una sconfitta come quelle subite dagli umili di verghiana memoria ne “I Malavoglia”. I personaggi de “Il Lungo viaggio” e dei Malavoglia hanno diverse affinità, sono della stessa estrazione sociale, hanno la stessa diffidenza verso il mare, hanno semplicemente e più d’ogni altra affinità, la stessa povertà. Andiamo al dunque del viaggio che ci interessa.
La vicenda narra di un gruppo di persone che partono dalla costa siciliana compresa tra Licata e Gela per recarsi in America, negli Stati Uniti, allora, dai primi del Novecento agli anni Cinquanta, meta agognata di tanti emigranti italiani. Dopo dieci giorni di navigazione, queste persone, convinti di essere arrivati a “Nuovaiorche,” vengono sbarcati su un’altra costa isolana, sempre in Sicilia.
È un racconto amaro, sarcastico, è la narrazione di una cocente delusione: il fallimento di un’aspettativa.
Gli emigranti sono stati presi in giro, non solo perché non sono andati in America, ma perché, cosa ancora più grave, sono rimasti in Sicilia. Un’analisi attenta avrebbe messo in risalto il fattore tragico di questo viaggio. Gli aspiranti emigranti sarebbero stati comunque presi in giro ugualmente dai fatti, anche se fossero sbarcati in America, perché, nella realtà avrebbero continuato a condurre la stessa vita che conducevano nell’isola prima di partire, una vita fatta di stenti, privazioni e rinunce. Come in realtà è successo veramente a molti connazionali emigrati all’estero e come succede con molti emigrati oggi.
Questo è uno dei paradossi dell’emigrazione di tutti i tempi, allora per gli Italiani, come oggi per gli emigranti di altre regioni africane e mediorientali.
Si fugge dalla miseria politica ed umana per una meta messianica, una città ideale, una “civitas dei” che appunto perché divina, quindi immaginaria, è esclusa agli uomini e ci si imbatte in un’altra realtà, spesso misera come, se non ancora peggiore, di quella che si era lasciata alle spalle. Oggi l’attesa di tanti profughi s’infrange nella triste realtà dei campi di prima accoglienza, realtà sicuramente peggiore delle loro tribù di provenienza, anche perché questi campi sono destinati spesso a trasformarsi in dimore a lungo termine. Oppure, nel migliore dei casi, ospitati in strutture dove sono costretti all’inoperosità. E sappiamo che il cosiddetto “dolce far nulla” non è una condizione ottimale per nessuno, perché conduce all’apatia, alla sfiducia, alla mancanza di senso, di vuoto, all’inutilità dell’esistenza (negativo, questo amaro “dolce far nulla” tanto per gli emigranti quanto per le popolazioni autoctone).
La storia, non è per nulla maestra di vita. La storia non ci ha insegnato nulla e nulla continua ad insegnarci, perché quando si ripete, lo fa nella forma che le è più congeniale: negativamente come il luogo della violenza e del sopruso. A proposito della storia non posso non ricordare e consigliare di leggere (o rileggere) “La storia”, una significativa lirica scritta nel 1969 da Eugenio Montale.
La storia dell’emigrazione, come viaggio del bisogno o dal bisogno, può farsi risalire alla cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre.
Adamo ed Eva vengono allontanati da Dio in persona, quel Dio che non avendo nessun altro essere subordinato a disposizione se la prende con le sole creature che Egli stesso ha creato, le uniche ad avere sottomano. Un incipit che sarà avvalorato dal girovagare nel mondo degli Ebrei (che non dimentichiamo era il popolo eletto) per gran parte della loro storia.
Adamo ed Eva, creature forgiate ad immagine e somiglianza del Creatore, vengono fatte sloggiare dall’unico luogo che conoscevano e dove si trovavano a loro agio. Il popolo ebraico scelto da Dio, quindi il popolo eletto, il suo popolo, viene costretto alla diaspora. In altre parole possiamo affermare che l’emigrazione ha origine biblica, ma possiamo anche dire che, per i non credenti, inizia con la comparsa dell’uomo sulla terra. L’uomo compare sulla terra tra i 500.000 ed i 250.000 anni fa e sembra proprio in Africa, è del 1974 la scoperta di un austrolopiteco, cui hanno dato il nome Lucy. Quindi l’uomo compare in Africa e, ironia della sorte, sarcasticamente possiamo dire che dall’Africa continua ancora oggi ad emigrare, ad occupare altri continenti.
Tutta la storia dell’uomo sapiens è quindi storia di migrazioni. Ma non solo, i cosiddetti “fossili climatici” testimoniano come nel Mediterraneo sono giunti, più di diecimila anni fa i cosiddetti “ospiti caldi” che sono molluschi di acque tropicali e gli “ospiti freddi”, molluschi provenienti dai mari del Nord, a causa di opposte condizioni climatiche. Oggi il disastro ecologico, provoca condizioni climatiche avverse tali da causare lo spostamento di interi popoli. Ci dice giustamente il ricercatore Mario Tozzi: “La colpa (dell’emigrazione dei popoli della fascia circumsahariana) è soprattutto del clima che cambia. Ma il paradosso è che non ci fa paura il fenomeno imponente che lo origina, ma il suo prodotto, cioè il migrante, come se fosse colpa sua”.
Gli emigranti sono coloro che, per un motivo o per un altro si spostano, viaggiano. L’elenco degli emigranti comprende anche gli esuli. Gli esuli sono coloro che vengono espulsi o fuggono semplicemente perché il loro sapere, il loro agire, la loro cultura, può mettere in discussione i presupposti dell’organizzazione del potere dello Stato in cui vivono. Del popolo degli esuli citiamo qualche esempio storicamente recente, qualcuno ancora in atto: gli Armeni sotto i Turchi, i Musulmani in Croazia, i Tutsi in Africa, i Curdi in Iraq, i Palestinesi in Medio Oriente. Popoli esuli, popoli ingiustamente perseguitati nelle loro stesse terre, popoli costretti a mettersi in viaggio, a lasciare i propri territori, come Adamo ed Eva o proprio a causa di Adamo ed Eva! Così come Adamo ed Eva rappresentano la diretta discendenza divina, Adamo ed Eva, cioè l’uomo delle prime civiltà, come forma di riconoscimento, faceva discendere tutto da Dio.
I primi tentativi di spiegare la natura e l’agire umano, comprese le migrazioni, hanno una concezione mitica, teologica: tutto si spiega con il ricorso alla divinità, meglio alle divinità al plurale. Infatti un’antica classificazione teologica divideva gli Dei in tre categoria: gli Dei delle città venerati nel culto pubblico; gli Dei dei poeti cioè le divinità dei miti; gli Dei della natura, quelli studiati dai filosofi.
I tre livelli rappresentavano: il primo, la politica, quindi i tre sistemi politici conosciuti: la tirannia, l’oligarchia e la democrazia; il secondo livello si occupava della poesia (letteratura e tragedia) in ultimo troviamo il livello della filosofia. I primi due sistemi contrapponevano visioni contrastanti e le loro argomentazioni non potevano giungere a valutazioni definitive. Solo la filosofia, dialetticamente e secondo logica, poteva giungere ad una visione unitaria sul bene e la verità (anche diverse). Cioè, Se è vero (e lo è) che la tragedia greca è un lungo elenco di personaggi distrutti dai propri scriteriati errori, se è vero (e lo è) che la politica è violenza e inganno; sarà allora vero che solo la filosofia cerca di far vivere l’uomo in armonia con la natura e con se stesso, questo almeno il tentativo. Se vi sia riuscita o meno, è questione insoluta a tutt’oggi, lascio perciò anche a voi la possibilità di ulteriori verifiche ed approfondimenti.
La filosofia non nasce in Grecia, come comunemente si crede, ma nelle coste mediterranee della Turchia e dell’Italia meridionale. Tant’è che appena giunta in Grecia, ad Atene, venne presa di mira e ridicolizzata, chi non ricorda “Le nuvole” di Aristofane? La politica comprende tutta la potenzialità persuasiva e se ne impadronisce (Pericle), non a caso il massimo sviluppo del pensiero filosofico antico è concentrato nell’Atene del IV secolo a. C.
Una parentesi: la politica nel tempo ha saputo strumentalizzare ogni forma di sapere fino ad un certo periodo molto recente, fino al terzo millennio, quando poi è stata fagocitata dalla finanza.
Le migrazioni dei tanti filosofi in tutte le epoche, hanno posto le basi per una moderna disamina del problema politico e sociale dello spostarsi, del viaggiare, dell’emigrazione.
Fatto sta che i filosofi, voci afone, oggi, come spesso è accaduto anche ieri, restano inascoltati, perché prevale in questo nostro mondo la corruzione della politica e la spettacolarità dell’apparire (la nuova forma del teatro, della tragedia). Restano inascoltati, perché non hanno voce in capitolo, per scelta o perché il loro sapere è oramai incomprensibile, incomunicabile. E quindi, messe da parte la politica e la religione, diventa difficile capire il senso del viaggio, delle migrazioni, le ragioni degli esuli, anche attraverso il pensiero come riflessione, così come si esprime in filosofia.
Molti, per scelta, come il filosofo Secondo, celebre pensatore dell’antichità, spontaneamente non parlano più. – (Secondo dopo un errore giovanile, aveva fatto voto di silenzio e per tutta la vita non aveva detto più nulla, esprimendo le sue convinzioni solo con i gesti ed i comportamenti) -.
Altri perché ancor più sapienti, sono incomprensibili, incapaci di comunicare come il maestro Cassiodoro. Flavio Magno Aurelio Cassiodoro Senatore, ultimo degli antichi pensatori, visse nel VI secolo d.C. Cassiodoro ritiratosi nel convento di Vivario vicino Squillace, pur circondato di allievi che ne ammiravano il suo sapere, rimaneva un incompreso.
Incompreso perché Il senso della cultura che l’impero romano aveva espresso era diventato incomprensibile. Il sapere di Roma era andato perduto.
Tutto questo per dire che siamo frutto di una storia millenaria ma che oggi restiamo orfani del sapere, perché tutto ciò che ci è stato detto ed è stato scritto in passato, non riusciamo più a capirlo ed a leggerlo (Cassiodoro). E coloro i quali potrebbero ancora insegnarci qualcosa sono costretti, per volontà altrui o per scelta, a tacere (Secondo).
Abbiamo parlato di due filosofi e della loro concezione sulla comunicazione come viaggio e proseguimento di valori culturali. Sembra di primo acchito, che alla base delle riflessioni filosofiche sul viaggio ci sia la civiltà greca, Odisseo ne è infatti un prototipo. Ma un chiarimento al riguardo è d’obbligo: la prima vera cultura del viaggio come percorso stabile e sicuro ci viene dalla civiltà romana, spesso bistrattata perché così ci ha insegnato a considerarla la religione cristiana. I Romani per la prima volta nella storia hanno costruito le strade, strade che sono veri e propri “monumenti alla bellezza dell’andare”, così Ida Magli nel libro “Dopo l’Occidente”: “Quelle dei Romani erano, per la prima volta nella storia strade nel senso pieno del termine: non soltanto strumenti per il commercio e per la guerra, ma prima di tutto monumenti alla bellezza dell’andare”. Il desiderio di “cammina, cammina” per loro era istintivo; per i Romani le strade erano la conferma dell’esserci stato, che partendo da Roma, grazie alla consapevolezza della loro forza bellica e legislativa, raggiungevano ogni punto delle terre conquistate. Non a caso ancora oggi molti ponti costruiti dai romani sopportano un traffico impegnativo.
Ma non solo, il loro agire, il loro fare strade veniva documentato volta per volta, si storicizzava la strada incidendo nella pietra il nome e la data. Non a caso abbiamo nomi nella statale 45 che da Piacenza percorre la val Trebbia fino a Bobbio nomi coma La Verza (la terza), Settima e così via di seguito.
L’avvento del medioevo e della religione cristiana porta all’abbandono di queste strade, il viaggio diventa individuale e pericoloso, quasi un’espiazione del peccato originale, una rinascita della coscienza attraverso l’acquisizione di nuova conoscenza. Il viandante diventava pellegrino, la nuova conoscenza era una meta che ricambiava la fatica con l’indulgenza.
Il viaggio (compreso quello del sapere) ha delle forze avverse che come demoni cercano di impedirne il proseguimento, l’inganno ne “Il lungo viaggio” di Sciascia, il mare nel romanzo di Verga. Contro le speranze dell’uomo, la rabbia del mare o l’inganno, fanno ricadere l’umile in uno stato di dolorosa prostrazione. Ma accanto alle tante forze negative che ostacolano il percorso intrapreso vi è una speranza di riuscita che è alimentata dalla nostalgia.
I migranti lasciano tutto: casa, famiglia, terra per una prospettiva ignota. Nell’attesa di un futuro, spesso si rifugiano nel passato, nel loro passato. Alimentano le speranze nutrendosi di nostalgia.
Ma la nostalgia è un sentimento rivoluzionario o mero ritorno al passato, pura e semplice categoria della conservazione? È sicuramente una situazione di disagio e di inadeguatezza a farla nascere.
Per i Brasiliani la saudade, termine lusitano, sta ad indicare solitudine e malinconia insieme.
Per molti emigrati la nostalgia acquista un significato mistico: desiderio di rivivere il passato, di possederlo. È comunque prendere coscienza del passato per usare l’esperienza vissuta come una leva per andare avanti.
Il viaggio, come avventura, novità, esplorazione, ha connaturato in sé questo elemento, l’elemento costitutivo della nostalgia!
Sembra contraddittorio, ma non lo è. Infatti se si dà uno sguardo ad ogni teoria rivoluzionaria ci si accorge come ogni teoria di rottura, di cambiamento, contiene un elemento di nostalgia, una qualche teoria di ritorno al passato. Pasolini nella sua radicale critica alla società consumistica ci ricorda le lucciole della terra friulana, le lucciole che costellavano le campagne nella sua infanzia. Rousseau col suo mito del buon selvaggio, volendo cambiare il modo di relazionarsi della sua epoca, teorizza un ritorno al comportamento genuino come solo un’infanzia scevra da sovrastrutture sociali sa esprimere.
Allora, la nostalgia può renderci tristi e sofferenti, ma solo per un momento, perché a ben riflettere può proiettarci in avanti alla ricerca di mondi nuovi, tipico delle teorie rivoluzionarie.
Erri de Luca, conferma questa visione: “Quando ti viene nostalgia non è mancanza. È presenza di persone, luoghi, emozioni che tornano a trovarti”. È il tuo passato, i tuoi avi, i tuoi familiari, la tua storia personale e sociale che si pongono accanto a te, dietro di te, per sostenerti e spingere il tuo cammino.
I Siciliani nel racconto “Il lungo viaggio” idealizzano l’America (Lamerica), l’emigrazione, il viaggio come risoluzione dei problemi che assillavano il contadino che tutto s’era venduto per pagarsi il viaggio. La tendenza ad esaltare realtà lontane era ed è una costante del viaggio, allora come ora. Il sogno, il miraggio dell’Eldorado. Per Marco Polo, per i Conquistadores, per l’Islam o per i Crociati. Sì l’Eldorado può essere anche la terra promessa o il paradiso, la ricchezza terrena o la felicità eterna dell’aldilà. “Il marinaio siciliano altro non è che il contadino costretto al mare per necessità”. Al mare per necessità si offrono i profughi africani oggi. Attraverso il deserto prima ed il mare dopo, scoprono il viaggio.
Siamo di solito portati ad immaginarci il viaggio come necessità, come percorso indispensabile per la sopravvivenza, in ultima analisi come libertà dal bisogno. Ma è esistito, esiste e credo continuerà ad esistere, un altro viaggio, un viaggio che anziché dal bisogno, parte dal benessere, in qualche modo un viaggio a ritroso, alla ricerca di arcani e reconditi significati da dare all’esistenza stessa.
Un paradosso può aiutarci a capire questo particolare percorso che da un certo benessere condiviso ci porta a rincorrere miraggi: il paradosso del tetto. Solitamente una casa si inizia a costruire dalle fondamenta, poi i muri ed infine i tetti. I tetti lo sanno tutti, non bisogna essere esperti, sono la parte più difficile da realizzare: ne hanno saputo qualcosa il Michelangelo (la cupola di San Pietro) come il Brunelleschi (la cupola di Santa Maria del Fiore di Firenze). Il paradosso contraddice l’esperienza comune, è quell’ esame teorico ed attento che dimostra la sua validità critica contro ogni logica apparente, esempio antico il paradosso di Zenone (Achille e la tartaruga, Achille non potrà raggiungere mai la tartaruga, se consideriamo lo spazio divisibile all’infinito) esempio moderno il paradosso di Einstein (la diversa crescita cronologica dei gemelli, uno che viaggia nello spazio alla velocità della luce, l’altro che se ne sta sulla terra).
Il paradosso del tetto ci dice che la costruzione di una casa può iniziare dal tetto e poi a scendere all’ingiù fino alle fondamenta.
Così, una migrazione che rappresenta un viaggio alla ricerca dalla libertà dal bisogno materiale, viaggio indispensabile per la sopravvivenza fisica, come per i migranti, può diventare per chi, le libertà dai bisogni li ha avuti dalla nascita, un viaggio a ritroso nel tempo o nell’altrove, un andare alla ricerca che solo un qualcos’altro può darci. Un viaggio liberatorio che come meta ha spesso la ricerca di un presunto paradiso perduto. Sono i viaggi di tutti coloro che abbandonano la sicurezza e la certezza di una casa costruita dalle fondamenta, di coloro i quali non hanno programmi politici preconfezionati, coloro che intendono sottrarsi al controllo della famiglia e della società. In questi viaggi sono presenti tutti gli ingredienti delle parentali contraddizioni freudiane: Edipo ritorna prepotentemente ad imporre il rapporto con la madre e la simbolica uccisione del padre. I valori sono ben rappresentati dai miti classici: Apollo e Dioniso. Dalla loro lotta che rappresenta l’alternanza continua del pericolo e del controllo, della follia e dell’intelligenza, del desiderio e della pienezza. Le mete allora diventano le Indie, le popolazioni tribali, mete spirituali in alture isolate o spiagge deserte dove abbandonarsi ad interminabili feste alla luce lunare.
Il viaggio allora diventa ricerca spasmodica di avventura, ricerca di illusioni, più semplicemente e spesso si riduce ad un autoinganno.
Kerouac sosteneva che importante è il muoversi, andare sulle strade in qualsiasi direzione, non importa la meta, diceva: da qualche parte, lungo il percorso, è nascosta una perla.
Ma non l’aveva già detto qualcun altro che importante era il viaggio e non la meta? Ma sì, il poeta Kavafis!
Il poeta greco con Itaca aveva sottolineato l’importanza del viaggio fine a se stesso, non la meta ti appagherà, ma il viaggio sarà la meta: Ulisse giunto ad Itaca, ripartirà. Ma di Ulisse non si era già conosciuta la fama di viaggiatore fin dai remoti tempi omerici?
Ma ancora prima di Omero, l’uomo si era spostato, come abbiamo già detto l’uomo viaggia fin dai tempi di Adamo ed Eva e se stanziale aspetta altri che si muovano per lui.
Un individuo o una società, per raggiunto benessere, possono trovarsi nell’incapacità di affrontare qualsiasi spostamento. L’essere stanziale ci pone in un’altra condizione, una condizione passiva, di attesa.
Un popolo stanziale ha allora bisogno che arrivi qualcuno, aspetta i barbari! Cioè altra gente, che si muove, gente diversa che sappia rigenerare una cultura debole, decadente.
I barbari come risposta ad un Parlamento che non riesce più a legiferare (nel senso del buon governo), i barbari come linguaggio nuovo, semplice, da contrapporre alla vuota retorica degli oratori di Stato, questo ci dice il poeta, ma ahinoi la poesia di Kavafis “Aspettando i barbari” ci dice qualcosa di più minaccioso, quasi il preludio del fallimento dell’umanità, una sventura storica.
Se qualcuno ci venisse a dire che di barbari alle frontiere non ce ne sono più, a qualcuno potrebbe sorgere la domanda: “Cosa sarà di noi?” E la risposta: “Era la soluzione, quella gente”.
La globalizzazione contiene un virus micidiale: il rischio che proprio i barbari possano scomparire. Il rischio consiste nel fatto che il mondo si uniformi, così come l’uomo occidentale ha fatto con se stesso. Il pensiero dell’uomo contemporaneo è lo stesso per ogni singolo individuo, è un non pensiero. Come i non luoghi.
Tutti sappiamo che le moderne architetture hanno uniformato il paesaggio. Ce lo ha spiegato molto bene l’antropologo Marc Augè, descrivendoci tutti quei luoghi che indifferenti a qualsiasi territorio dove sorgono, sono identici in qualsiasi parte del mondo, al nord come al sud, ad est come ad ovest: gli aeroporti, le autostrade, i centri commerciali. Negano queste costruzioni qualsiasi carattere peculiare, qualsiasi dialogo con il paesaggio, qualsiasi soggettività. Sono oggettivamente utili e funzionali, rispondono solo a canoni di economicità e praticità. Così l’uomo di quest’epoca digitale. Era stato Herbert Marcuse a parlarne per primo, in tempi non sospetti, con il suo “L’uomo ad una dimensione”. Oggi sono diventate comuni le teorie in tal senso.
Se dovessero scomparire i barbari, potrebbero scomparire i migranti e con loro qualsiasi idea di rigenerazione umana, di nuove civiltà. Faremmo la fine di quelle famiglie che pur di non disperdere il loro capitale continuano a sposarsi con consanguinei, con risultati nefasti, come è avvenuto per tante case reali, ma anche per molti piccoli villaggi.
Il viaggio è stato storicamente concepito come spostamento fra due punti, oggi considerata la velocità con cui viaggiano le notizie e con cui si possono effettuare gli spostamenti, si potrebbe considerare non veritiera questa definizione. Ci muoviamo praticamente all’unisono con lo stesso movimento rotatorio del globo terrestre. Riempiamo spazi, occupiamo il tempo. Il viaggio diventa un non viaggio. Come non esiste più un pensiero personale, ma prevale un pensiero unico, così non esiste il viaggio personale, ma un viaggio universale, di tutti gli uomini, un viaggio all’unisono dell’umanità. Quindi un non viaggio! L’uomo che è sempre alla ricerca della verità, rimane spesso imbrigliato in una ragnatela di menzogne artefatte che non gli permettono di realizzarsi compiutamente, se non nella menzogna stessa …. Così con il viaggio. L’uomo è sempre in cammino, ma rimane imbrigliato in un dedalo di strade, in un labirinto talmente intricato da non essere capace di uscirne più, il suo viaggio diventa effimero, è il percorso che non ha una via d’uscita. E se una via d’uscita deve proprio averla, allora è il ritorno al punto di partenza, un cammino circolare. Tornerei alla storiella de “Il Lungo viaggio”, un viaggio durato dieci giorni che ha riportato gli aspiranti migranti nella stessa isola da cui volevano partire. È un racconto amaro, sarcastico, è la narrazione di una amara delusione: il fallimento di un’aspettativa. Gli emigranti sono stati presi in giro perché non sono andati in America, ma sono rimasti in Sicilia. Lì sono stati truffati dal signor Melfa, qui adesso i migranti vengono ingannati dalla storia. Non ci sono strade che conducano ad una meta certa e sicura. Solo nelle religioni ci sono strade e vie predefinite, “Mostrami, Signore, la tua via, perché nella tua verità io cammini” (Salmo 85) o, ancora, il capitolo Giovanni 14: “Io sono la via, la verità e la vita”.
Questo è il viaggio che ha una meta ben precisa, è il viaggio dei credenti. Sono rivelazioni che fanno parte della religione, quindi del mito, siamo in un campo minato, nel terreno teologico della metafisica.
A noi esseri umani, qui ed ora, ci interessa il mondo finito, il mondo fisico, dove siamo stati abituati e siamo costretti a vivere ed a muoverci. Il viaggio che forse ci affascina di più oggi è il viaggio che ognuno si costruisce da sé giorno per giorno, come la vita. Da stanziale o da emigrante. Quel mondo che ci dice che non ci sono strade segnate ma che il cammino si fa camminando. “No hay caminos, hay que caminar”, non ci sono cammini, solo il camminare. Ce lo ricorda il poeta Antonio Machado: “Viandante, le tue orme sono -il cammino e niente più; -viandante, non esiste il cammino,- Il cammino si crea camminando”.
La vita si affronta vivendola, il viaggio camminando, unica condizione: essere nato per affrontare la vita, per camminare basta aprire la porta. Come con il primo vagito iniziamo il nostro percorso di vita così aprendo la porta iniziamo, ognuno il proprio viaggio. Così semplicemente: Niente di più, niente di meno.
Carmelo Sciascia

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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