Talvolta succede: la placida (e dormiente) Piacenza, spesso irriconoscente, colei ch’ignora l’estro dei suoi figli troppo ‘esuberanti’ (e come tali sfuggenti dal dominio del potere), ne ‘scopre’ qualcuno altrove diventato famoso, in genere ‘oltre confine’, aldilà del Grande Placido Fiume oppure, attraversando l’Appennino, nelle solatie terre del CentroSud.
Ecco dunque, a 24 anni dalla morte, la prima mostra piacentina dedicata all’opera dell’illustre e famoso Uberto Pallastrelli. Con correlati omaggi mediante intestazione di un giardino pubblico mentre il Sindaco scopre la lapide posta sulla casa dove ha vissuto negli anni cittadini.
‘L’ultimo dei ritrattisti’, celebrato nell’occasione da Vittorio Sgarbi (quello che di regola elargisce epiteti a chiunque dissenta dalle sue visioni), che lo definisce appunto “l’ultimo ritrattista di un mondo perduto”. Il N.H. (nobil homo, proprio come l’illustre concittadino avvocato Corrado Sforza Fogliani), Conte Uberto, infatti, rampollo di una antica famiglia piacentina in stretto contatto con l’aristocrazia di tutta Italia, rappresenta i volti proprio di quell’aristocrazia alla quale appartiene e dell’alta borghesia emergente in quegli anni cinquanta e sessanta, che pure naturalmente l’accoglie.
Gli Agnelli, i Cameli, i Malvicini Fontana, i Colonna, i Ruspoli, i Visconti di Modrone, i Buitoni, i Marzotto, solo per citarne alcuni. Un mondo che, almeno in termini di ‘potere reale‘, non esiste praticamente più, ormai lontano dalle genti comuni, dalla nostra quotidianità, dai nostri interessi, dalle nostre curiosità (anche se invero purtroppo dobbiamo riconoscere che ormai sugli stessi rotocalchi d’allora oggi c’è chi segue le vicende dei Fede, dei Corona, dei tronisti, delle Belèn, calando sempre più verso il basso in pozzi senza fondo).
Seguendo il percorso tra le tele esposte nella suggestiva cornice di Palazzo Galli, a pochi passi dalla centrale Piazza Cavalli, notiamo un’ombra di malinconia dipinta sui volti di un mondo arretrato, che già forse presagiva lo spegnersi dei riflettori e, come evidenzia Sgarbi, questa è la pittura della nostalgia per un passato che non ritorna, un potere, un ruolo ormai svanito, un modo d’essere ridotto a volgo, quasi plebeo, che come il popolo tutto, nasce, vive, soffre, se ne va.
Praticamente la celebrazione dell’ultimo ballo a corte. La musica è finita, l’orchestra chiude gli strumenti, se ne va, esce dai saloni illuminati, lentamente spengono le luci, resta il buio del palazzo nobiliare, si notano crepe e polvere e stucchi cadenti e la luce è nei viali, nelle strade esterne, anche quando avanza e si solleva la nebbia.
Restano e s’impongono, nella visione di Pallastrelli, i grandi panorami di Portofino. E gli animali, i galli in prima fila, osservati da Uberto dalla casa di campagna dell’entroterra ligure. Simboli di un altro mondo, un’altra vita, quella nostra, quella della ‘gente altra’.
Una mostra da non perdere, a Palazzo Galli, su iniziativa della Banca di Piacenza, visitabile fino al 31 gennaio. Con la speranza ovviamente di non ritrovare quello Sgarbi che sicuramente ci lancerebbe i suoi strali non mancando di definirici “capre”. Comunque e a prescindere. Fatti d’educazione e di civile convivenza. Ma quella certa Piacenza, quella che ancora vive di trini e merletti, di balli di corte, si sa, d’abitudine regge la coda ai potenti di turno, da buona servente. Ma, a parte questo, lo ripeto: la mostra vale la pena.