“Tutela della salute post pandemia: investimenti, urgenze e riforme”, l’intervento introduttivo al convegno modenese del 17 maggio di PierSergio Serventi, già Direttore Generale dell’AUSL piacentina, che ci conferma non sia col cemento e un nuovo ospedale che si risolvono i problemi della sanità piacentina (e non)

Un messaggio chiaro al Presidente della Regione (e non solo, basti pensare ai nostri candidati Sindaci che, da destra quanto da sinistra, ci raccontano la favola che solo col cemento si risolverebbero i problemi della salute dei piacentini): le risorse in sanità sono limitate, serve investire nel personale, nell’ammodernamento delle attrezzature sanitarie, nello sviluppo della medicina del territorio non certo in nuovi ospedali che rischiano poi di essere contenitori vuoti. PierSergio Serventi, lo ricordiamo, è stato Direttore Generale dell’Azienda Usl di Piacenza negli anni ’90, quando ha inaugurato l’attuale ‘ospedale nuovo’ di via Taverna. Nell’occasione riportiamo il suo intervento in un recente convegno modenese presente Stefano Bonaccini, Presidente della Regione Emilia-Romagna

Da quando, oltre un anno fa, come Moltiplica, abbiamo iniziato queste riflessioni, sono accadute diverse cose. Devo quindi subito dichiarare che almeno una delle questioni che fin da subito ci aveva preoccupato, è stata ripresa nei giorni scorsi dall’Assessore Donini per quello che è, cioè una vera e propria emergenza nazionale.  Mi riferisco alla emergenza medici e non solo medici e non solo nei pronti soccorsi e quindi al problema irrisolto della sofferenza delle Regioni in termini di spesa sanitaria corrente..

Ed è per questo che ora abbiamo apprezzato molto le prese di posizione dell’Assessore, anche nei confronti della politica nazionale.

A nostro parere, su questo terreno dell’adeguatezza del FSN, è oggi in gioco la credibilità stessa dello Stato. Ma su questo tema tornerò fra poco.

A proposito invece di Stato, fra le questioni poste dalla Pandemia c’è quella del rapporto Stato-Regioni.

Chi, anche a sinistra in giro per l’Italia, ha agitato o agita ipotesi e prospettive di centralizzazione sovraregionale del governo della sanità, conosce poco la storia e la sanità stessa.

La Sanità non è mai stata centralizzata. Il ministero specifico è stato istituito nel 1958, proprio per realizzare un coordinamento, dopo l’Asiatica del 1957 , degli  Ufficiali sanitari con competenze di Igiene e sanità pubblica, nominati dai prefetti (poi Medici Prov. Dip. Ministero) e dei Medici Condotti   dip. dei Comuni.

Allora avevamo centinaia di IPAB, tutte autonome, che gestivano gli ospedali e  poi centinaia di Enti Ospedalieri, sempre completamente autonomi e centinaia di mutue autonome.

Dal 1970 alla riforma del ‘78, la regionalizzazione del sistema è stata in realtà la prima operazione, non di decentramento, ma di costruzione del nuovo SSN su base regionale, secondo Costituzione.

Con l’aziendalizzazione del 1994, il ruolo di coordinamento e governo delle Regioni si è ulteriormente sviluppato.       

Per cui il ns. invito al Presidente Bonaccini è di proseguire nella tutela delle competenze regionali in materia di governo della sanità, nell’ambito della Conferenza Stato – Regioni, che garantisce il coordinamento centrale necessario e sufficiente a offrire le pari opportuità di livelli assistenziali, che ogni singola regione e nessun altro, ha la responsabilità di garantire.

Anzichè evocare accentramenti, sarebbe sufficiente che lo Stato facesse la sua parte: e la sua parte, in tempi non di emergenza, è legiferare su regole di accesso e LEA omogenei a livello nazionale, oltre che di dimensionare un FSN adeguato ai bisogni che anche la pandemia ci ha evidenziato e che invece resta, ben al netto della pandemia, drammaticamente insufficiente ed incoerente rispetto ai LEA vigenti.

Occorre infatti prendere atto che, in generale e negli anni, il SSN italiano ha perso equità ed efficacia,  anche se ovviamente, a parità di risorse rese disponibili secondo i criteri di riparto condivisi in Conferenza Stato Regioni,  la perdita non è registrabile  in modo egualmente grave nelle diverse aree del paese.

E’ noto infatti che, su base nazionale, nel 2020 la spesa sanitaria out of the pocket ammonta ad oltre 30 miliardi.  Poichè la popolazione italiana è di circa 60 milioni e poiché sappiamo che gli over 65 consumano prestazioni sanitarie quattro volte più degli under 65 e poiché gli over 65 sono ormai il 24% della popolazione complessiva, possiamo dire che 14,4 milioni di over 65 pagano all’anno 24 miliardi di tasca propria – o tramite fondi e assicurazioni private – per prestazioni sanitarie, cioè 1666 euro a testa.

In realtà il dato è la media di Trilussa fra situazioni anche molto diverse sul territorio nazionale e  incide diversamente su redditi diversi; ma, soprattutto, un dato medio eventualmente più basso può rappresenare sia una situazione in cui la sanità pubblica offre più della media, sia una situazione in cui, a causa di redditi più bassi della media, la gente non potendo pagare, non si cura proprio.

Resta il fatto che, mediamente, un over 65 italiano paga all’anno, per curarsi, una cifra ben superiore alla  pensione media mensile. Al di là dei giochetti statistici, il dato è confermato dalla esperienza di ciascun anziano di questo paese.

Su Repubblica di ieri (16 maggio, ndr) il ministro Speranza ha evidenziato che il FSN nel 2022 è passato a 124 md dai 114 del 2019 e dai 121 del 2021. Resta il fatto che solo la nostra Regione ha dovuto per ora autofinanziare i maggiori costi da Covid; ma, su questo, immagino ci dirà il Presidente Bonaccini.

A noi corre l’obbligo di evidenziare che se il FSN fosse di 154 md, cioè i 124 md del FSN 2022 (circa il 7% del PIL), più i 30 di oupocket, la percentuale sul PIL salirebbe all’8,7%, che sarebbe comunque 1,2% in meno della percentuale sul Pil per la sola sanità pubblica della Germania, che è il 9,9% e anche lo 0,7% in meno della Francia. Le attuali previsioni governative parlano di una % sul PIL per la sanità che, approfittando della previsione di crescita in cifra assoluta del PIL stesso,  nei prossimi anni scenderebbe al di sotto del 7%.

Potremmo fare anche un’altra estrapolazione.  Se sommiamo al nostro attuale 7% (dato 2021), quanto di cui si è discusso recentemente per l’incremento del budget della difesa, arriveremmo circa al 9%, dato che si avvicinerebbe a quello tedesco, pur senza raggiungerlo. E’ evidente che scegliere di investire di più nel settore della difesa in Germania, rispetto alle politiche sociali,  ha un segno politico diverso che investire di più in Italia.  Personalmente – senza qui coinvolgere Moltiplica – condivido quanto dichiarato da Donini e dal Sindaco di Bologna: la nostra guerra oggi è per salvare il nostro SSN, pubblico e universalistico.

Ma dobbiamo constatare che è una guerra che per ora, dopo aver sepolto sia i morti di Bergamo, che i nostri oltre 16.000 morti, nessuno a Roma sembra aver voglia, né di dichiarare, né di combattere.

Riassumendo: l’urgenza, ancor prima degli investimenti in strutture, è destinare più risorse correnti alla sanità per affrontare le emergenze di oggi, recuparare efficacia ed equità del SSN e preparare il contenuto delle future strutture ex PNRR.

 Forse è questa la vera riforma  che ancora non trova né convinzioni profonde, né comportamenti coerenti, purtroppo da parte di troppi a livello nazionale: rendersi davvero conto, al di là delle occasionali propagande e non solo nel pieno di una pandemia, della priorità che la sanità deve trovare nel bilancio corrente dello Stato.

Anche perché noi le Case della Salute, da far funzionare secondo i nuovi modelli del DM 71, le abbiamo in gran parte già; non è che dobbiamo aspettare il 2026. Mancano solo gli operatori necessari, che però non solo non ci sono le risorse per pagarli, ma proprio non ci sono da assumere. E le urgenze non riguardano solo i Pronti Soccorsi, ma riguardano anche le falle nella rete dei medici di base, nell’assistenza domiciliare infermieristica, nella psichiatria, nella specialistica ambulatoriale con i suoi tempi di attesa e le sue code, negli ambulatori di Igiene Pubblica e nelle equipe tecniche e mediche della  medicina del lavoro, il cui depotenziamento è andato drammaticamente di pari passo con le morti sul lavoro.

Mi permetto di sottoporre al Presidente Bonaccini un esempio che riguarda il microcosmo dove abito. Qualche anno fa – quindi anni, non mesi – chiamato da ASL e Comune, lei si è premurosamente inerpicato fino  a Monchio delle Corti  (per chi non lo sapesse, sta sul crinale appenninico parmense) – 70 km da Parma e 50 da Langhirano, per inaugurare un piccolo centro di cure intermedie, in locali contigui con la locale RSA. Stanze, letti, attrezzature…tutto pronto per un mini OSCO. Le faccio presente che, dopo 4 anni, quel Centro che, mi è stato detto, lei ha pure in buona fede citato ad esempio in una inaugurazione successiva, sempre in prov. di Parma e che doveva essere seguito da una Casa della Salute, per cui risultano da anni stanziati dalla Regione e dall’ASL ben 500.000 euro,  non è mai partito (i letti sono utilizzati dalla RSA) e la Casa della Salute non è mai neppure stata iniziata, non certo per colpa sua, ma semplicemente perché – almeno questa sembra essere la motivazione – comunque non si trovano gli infermieri necessari; e i medici di base, quando se ne trova uno, questo si ferma pochi mesi e poi se ne va. Ecco allora perché il problema va affrontato oggi a partire dalle Università in modo strutturale, affrontando il blocco del numero chiuso. Se questo blocco fosse motivato da carenze infrastrutturali delle facoltà mediche, rispetto a iniziative di incremento quantitativo di studenti di medicina,  allora forse sarebbe stato o sarebbe il caso di prevedere una linea di finanziamento specifica da PNRR, con relativa riforma dei corsi di laurea e delle scuole di specializzazione, forse addirittura prima che finanziare nuove strutture sanitarie. Almeno in termini di priorità logica. Altrimenti i prossimi anni saranno di crescenti difficoltà. Ma in realtà questa questione sta tutta dentro quella che amiamo chiamare la necessità di una grande e organica riforma del lavoro nel socio sanitario: formazione, reclutamento, carriere, stato giuridico, trattamenti economici differenziati. E in questa riforma ci deve stare una nuova configurazione del rapporto fra SSN e medici di famiglia, di cui ci risultano esserci, pronti e condivisi a livello di Conferenza delle Regioni, i contenuti, ma che ancora non si vede. Abbiamo apprezzato il recente accordo – sempre illustrato giorni fa dall’Assessore Donini – fra Regione e Sindacati per utilizzare ogni possibile strumento, volto a formare e assumere più medici per la medicina d’urgenza. Auspichiamo che sia il primo passo per la riforma organica che serve.

Ci sono altri tre temi che richiedono un coraggioso intervento riformatore e di cui ancora non si discute.

O meglio, di uno si discute da tempo, ma non si conclude. Integrazione-fusione AOU – AUSL. Progetti, iniziative, decisioni, imponente lavorio di gruppi di lavoro interaziendali, voti unanimi nelle conf., mandati precisi ai DD.GG. … Da qualche tempo si è smesso di parlarne.

Intendiamoci: non si nega che sia una questione delicata e controversa. La storia lo dimostra. Prima del ‘78 gli ospedali erano tutti autonomi. Nella grande riforma del ‘78, con ferrea convinzione, tutti gli ospedali furono integrati – anche i grandi ospedali universitari – nelle USL di riferimento, senza alcuna autonomia gestionale, nonostante le vivaci resistenze di allora di molti ambienti unversitari. Poi, con la stessa determinazione, nel 1994 questi ultimi li abbiamo resi autonomi. Anzi, nel 1995 qui da noi abbiamo aziendalizzato anche il S. Maria Nuova di RE, che non aveva i requisiti di legge, con allora una forzatura tutta politica da parte delle istituzioni reggiane, tanto sembrava che avere l’Ospedale autonomo fosse una questione di status per la stessa città. Ora abbiamo avviato la loro reintegrazione nelle AUSL. Anzi il S. Maria Nuova è il primo e più reintegrato di tutti. Potrebbe sembrare anche un po’ schizofrenico.

In realtà dipende dagli obiettivi: nel 1978 occorreva ricondurre a sistema centinaia di mutue e centinaia di Enti Ospedalieri autonomi; nel 1994, occorreva recuperare efficienza e controllo; allora fu giusto prevedere una gestione separata e più controllabile, almeno dei  grandi ospedali universitari che avevano dinamiche e fabbisogni peculiari. Oggi vogliamo potenziare la assistenza territoriale? Allora dobbiamo sapere che, senza un governo unico di ospedali, anche universitari, e territorio, l’obiettivo resta monco. Si può anche ripensarci, ma ciò che non ci si può permettere è di rimanere nell’incertezza, anche perché le gestioni commissariali, motivate dalla necessità di concludere questo processo, non possono durare senza certezze dei tempi. Pena diventare gestioni straordinarie inspiegabili e insopportabili. Se ci sono resistenze di natura corporativa, comunque siano ammantate, vanno superate. Francamente è difficile accettare che una semplicissima norma statale che consente le fusioni, vigente fin dal 2016 per le regioni a statuto speciale, non sia stata ancora replicata, non come obbligo, ma come facoltà, per le regioni a statuto ordinario. E in ogni caso la nostra Regione, dovrebbe approvare propri strumenti per anticiparne la sostanza.

Ma di questo, cioè di rapporti fra assistenza territoriale e medicina ospedaliera, sia dal punto di vista medico che infermieristico, immagino che parlerà in modo più specifico chi mi seguirà.

Ciò di cui invece si discute a fasi alterne, anche a livello parlamentare e governativo – senza procedere a legiferare – è la riforma organica dell’assistenza sociale.  Occorrerebbe a nostro parere superare frammentazione istituzionale e finanziaria fra diversi Enti, al fine di evitare la dispersione di competenze ed interventi; occorre un’accelerazione degli iter legislativi di norme sulla non autosufficienza che sappiamo già pronte; occorre una coraggiosa omogeneizzazione, giuridica ed economica, degli operatori sociali con quelli sanitari coinvolti nei processi di integrazione, operazione così tanto e da così tanto tempo auspicata, ma mai realizzata.  Quando nelle CdC lavoreranno fianco a fianco operatori sociali di pari qualifica professionale e di uguali competenze, ma con trattamenti giuridici ed economici diversi, qualunque integrazione verrà messa in crisi ogni giorno. Ma già vediamo le conseguenze di queste disparità fra inf. prof delle ASP e delle AUSL.

Sulle iniziative di riforma del sociale e della effettiva integrazione col sanitario, Moltiplica si riserva di eventualmente organizzare una specifica iniziativa di approfondimento e riflessione.

Ultima, non per importanza, è la necessità da noi vista, di una coraggiosa riforma della governance del sistema a livello sub regionale, come diretta ed ineliminabile condizione, affinché l’obiettivo della assistenza di prossimità possa effettivamente realizzarsi. Sappiamo bene che l’aziendalizzazione del sistema e la riconduzione alla sola Regione dei poteri e delle responsabilità, ha salvato la sanità pubblica italiana nella grande crisi finanziaria dei primi anni ‘90 e ha contribuito a salvare l’Italia dal default finanziario.

La riduzione dei centri di spesa (da noi da 41 a 16 e poi a 17), l’esclusività del ruolo tecnico nella gestione delle nuove aziende e il riferimento politico di questo ruolo nella sola regione, l’introduzione nel sistema di tecniche di controllo delle performance mutuate dalla cultura aziendale in senso stretto, tutte queste iniziative insieme, hanno consentito di recuperare efficienza nell’utilizzo delle risorse. Nel tempo però l’efficienza e la razionalizzazione della rete dell’offerta sono scivolate nel razionamento (pensiamo agli standard di posti letto ormai in molti casi insostenibili o alla soppressione di alcune funzioni nei piccoli ospedali su cui ora ci si ripensa).

Le operazioni di razionalizzazione della rete dell’offerta dalle nostre parti sono state accompagnate dallo sforzo di riconvertire anziché chiudere e di motivare le scelte con ragioni tecnico sanitarie; anche di accompagnare le scelte con progetti di recupero dell’appropriatezza e quant’altro di apprezzabile è stato fatto per salvaguardare l’efficacia del sistema. Con questi sforzi, da noi in gran parte siamo riusciti a salvaguardare i servizi, ma anche da noi, alla lunga, abbiamo pagato i prezzi prima descritti in temini di efficacia ed equità. Prima che nei numeri dell’outpocket che citavo prima, questa perdita di equità sta nell’esperienza quotidiana  dei nostri concittadini meno abbienti.

Riteniamo che sia venuto il tempo, dopo 30 anni, oltre che di investire e di adeguare il FSN, di accompagnare gli incrementi di risorse con l’adeguamento  del sistema di governo della sanità sub regionale, agli obiettivi di oggi.

La faccio breve: se si vuol davvero potenziare un’assistenza territoriale fondata sulla conoscenza puntuale dei bisogni delle persone e sulla capacità di selezionare le diverse priorità da territorio a territorio, da comunità a comunità,  si tratta di costruire un nuovo modello di azienda (ammesso che sia utile continuare a chiamarla azienda, termine ormai forse più fuorviante che evocativo di efficienza e non so quanto apprezzato dai cittadini quando pensano ad un ospedale), non più basato solo sul ruolo soverchiante del DG controllato di fatto solo a consuntivo e solo da una Regione, per forza di cose, a volte lontana da una quotidianità che deve invece essere sempre trasparente e soggetta a controllo sociale quotidiano, come ogni pubblica amministrazione deve essere, anche quando si chiama “azienda”.

Dobbiamo rimodulare una struttura organizzativa in grado di fornire servizi e prestazioni,  la cui alta amministrazione (bilanci, piani, priorità, budget territoriali o di presidi, operazioni patrimoniali) sia affidata alla condivisione di poteri decisionali – non solo consultivi – e responsabilità (sottolineo “di responsabilità”, per non ripetere gli errori dell’assetto istituzionale ex 833/78) fra Regione ed Enti Locali, con ampie autonomie budgettarie su base distrettuale. Insistiamo sulle autonomie distrettuali, perché queste autonomie oggi sono sempre più spesso (e paradossalmente, dato il contenuto del DM 71, ove si parla di distretti ogni tre per due), compromesse da accentramenti di poteri su dipartimenti verticali aziendali operati dai DD.GG, con direzioni tecniche che stanno in città ed esautoramento delle direzioni distrettuali. Si tratta di processi organizzativi interni alle AUSL, che hanno conseguenze vissute negativamente da operatori e cittadini delle aree periferiche. Sono iniziative spiegate come esclusivamente tecniche, raramente contrastate dai sindaci, talvolta poco comprese e più spesso accettate per rassegnazione. Vanno invece riaffermate autonomie, ove si possa effettivamente innestare il ruolo decisionale dei sindaci stessi e la partecipazione dei professionisti e dell’associazionismo, soprattutto in quella che si afferma dovrà essere la vita delle nuove strutture di prossimità (CdC e OSCO).

Gli OSCO: si collocano a metà via tra l’assistenza domiciliare e ospedaliera in cui l’assistenza è erogata a cittadini che non hanno necessità di ricovero in un reparto specialistico ma richiedono una tipologia di assistenza sanitaria che non potrebbero ricevere a casa

E’ una riforma da legge statale, ma che interpella politicamente innanzitutto le Regioni  e che deve  innestarsi anche  sulla disponibilità/volontà dei sindaci di esercitare questo nuovo ruolo; cosa assolutamente non scontata, probabilmente fino ad ora neppure immaginata come possibile, ma che, ad es. a Parma, ho notato essere diventata – se pur in termini ancora vaghi –  un tema da campagna elettorale comunale, sia a destra che, più timidamente, a sinistra.

Proponiamo a questo proposito il tema della eccessiva timidezza a sinistra, quasi si trattasse di non disturbare il manovratore. Forse esiste un problema di eccesso di conformismo da superare a sinistra, nell’esercitare il ruolo naturale dei partiti e delle istituzioni locali, di rappresentare innanzitutto i bisogni dei cittadini, in una sana dialettica con i livelli di governo superiori. E comunque affinché i sindaci possano impadronirsi di un ruolo più incisivo in sanità, devono anche essere posti in grado di attrezzarsi tecnicamente, analogamente all’esercizio delle loro storiche altre funzioni, come i lavori pubblici o l’urbanistica e quant’altro. Non sappiamo quanto sia condivisa o condivisibile questa ipotesi; sappiamo che, anche se fosse condivisa, non sarà facile realizzarla, perché ci rendiamo ben conto che ci sono anche delicati equilibrii istituzionali, in termini di poteri e responsabilità, da tradurre in norme. Ma sono difficoltà che abbiamo superato altre volte e quindi sappiamo che possiamo farlo ancora.

Tuttavia e proprio per la consapevolezza della difficoltà, concludo con un ricordo e una convinzione:

Le spinte riformatrici dei grandi movimenti del decennio 1968/78, hanno dato agli italiani una sanità pubblica e universalistica complessivamente apprezzata a livello mondiale. Quando si è manifestato il problema della sostenibilità dei costi di allora, in una gravissima contingenza di crisi della finanza statale,  nel 1992/94  la buona politica ha saputo fare un passo indietro dalla quotidiana gestione delle UUSSLL per salvare il sistema.  Ora si tratta di fare due passi avanti, forti dell’esperienza che ci consente di non ripetere errori del passato, ma convinti che senza riforme coerenti  con gli obiettivi, il SSN sarà ancora una volta a rischio, anche se per motivi diversi dal passato.

Di questa buona politica la nostra regione è stata sempre anticipatrice, realizzatrice ed esportatrice nel resto del Paese.

 Il nostro è un appello al sistema regionale, in tutte le sue componenti,  istituzionali, sociali, professionali e soprattutto ci rivolgiamo a quella sinistra politica che ha per ragion d’essere di rappresentare i bisogni primari dei meno protetti: occorre ancora una volta mobilitarsi per far si che le risorse del PNRR siano davero investite in salute collettiva e non soltanto spese.

Inaugurazione a Santarcangelo di Romagna del nuovo Ospedale di Comunità: 12 posti letto per un’assistenza intermedia tra ospedale e territorio

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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