“Topi”, romanzo di Gordon Reece, Giunti editore
Sono quelli che subiscono, chinano la testa, abbassano gli occhi e, chi più chi meno, lo siamo un pò tutti. Topo è quella donna algerina che abbassa il capo quando il marito le diceva “tu non esisti, la donna è stata creata da Dio per essere serva dell’uomo … tu non capisci niente. Devi mettere il burqa, vesti con abiti pesanti anche in estate, quando non ci sono non uscire di casa e tieni le tapparelle abbassate, non usare l’acqua calda, chiedi perdono per tutto, qualsiasi cosa io faccia, sia che ti picchi o ti maltratti non chiamare la polizia o i tuoi familiari, cercherò una nuova moglie e tu sarai la nostra serva” (parole pubblicate da Libertà quotidiano di Piacenza edizione del 16 gennaio 2015). Ma topi lo siamo tutti quando abbassiamo il capo di fronte ad un’ingiustizia, ad una prevaricazione. Alla quale, per mille motivi, con mille giustificazioni, rispondiamo col silenzio. Per paura oppure anche solo per opportunità, per presunta convenienza, per quieto vivere. Quieto vivere. Da topo, appunto. La moglie del Direttore Generale di una nota Azienda pubblica, stanca e annoiata del vivere nell’elegante appartamento in centro senza nulla da fare, riceve un incarico dal Sindaco (della stessa corrente politica del Direttore Generale) per una consulenza di dubbia necessità tanto per tenerla occupata? Un vero spreco del denaro pubblico ma a cosa servirebbe protestare? Nella migliore delle ipotesi l’incarico a quella signora decadrebbe ma poi quali conseguenze, quali ritorsioni subiremmo nel nostro lavoro? Così il topo che è in noi semplicemente tace. Ricordo quando ero ragazzino. Ero sovrappeso e andando a scuola incrociavo spesso tre coetanei che si divertivano a dileggiarmi. Parole, insulti e qualche calcio nel sedere. Erano tre ed ero solo. Che potevo fare? Il topo. Poi un giorno mi hanno gettato a terra in un prato coperto dalla neve. Mi prendevano a calci, mi canzonavano ed io zitto. Del resto, se mi lamentavo o addirittura reagivo chissà quante altre me ne davano. Non ricordo il punto ma è arrivato il punto nel quale anche un topo dice basta. Chiesi aiuto al mio Santo protettore, Papà. Ma lui disse che non poteva essere sempre presente, che dovevo essere io a farmi rispettare, a non cedere alla paura. L’indomani eccoli ancora lungo il percorso che portava a scuola. Come di consueto hanno preso a canzonarmi. A minacciarmi ed è partito il primo calcio nel sedere, il primo calcio alle spalle. Mi sono girato, avventato contro di loro. Naturalmente il più delle botte sono state mie ma anche per loro la dose è stata una buona dose. Perchè quando un topo si ribella, quando dice basta non sai esattamente cosa diventa. Una belva feroce. Che sa di essere alla fine sconfitto ma, pure, sa di non essere il solo, sa che anche loro, i prevaricatori non potranno vantarsi di uscire indenni dallo scontro. Topi è un pò tutto questo. La moglie algerina dei fatti di cronaca ripresi da Libertà del 16 gennaio 2015 che subisce abusi, imposizioni, le botte. Fino a quegli schiaffi con la perforazione di un timpano, l’inevitabile ricorso al Pronto Soccorso e finalmente il coraggio della denuncia. Questo è il romanzo di Gordon Reece, la storia di una ragazzina obesa, Shelley, taglieggiata da tre amiche (o presunte tali) e di una madre che, abbandonata dal marito dopo aver sacrificato una brillante carriera legale per la famiglia, si trova a dover accettare un lavoro al limite dello sfruttamento nel nome della sopravvivenza necessaria. Un romanzo da far rabbia di fronte al livello di prevaricazione di fronte al quale il topo abbassa la testa. Ma il limite, quello oltre il quale non si può andare, arriva, arriva la reazione. Che magari si fa scomposta, eccessiva e chissà, per il topo al danno potrebbe anche aggiungersi la beffa. Ecco, da leggere d’un fiato, con un grande coinvolgimento. Inevitabilmente dalla parte del topo, anche quando eccede perchè tutti noi siamo stati spesso ogni giorno topi e non sempre abbiamo reagito, spesso abbiamo subito. Ma nessuno può essere topo fino in fondo. Tutti dobbiamo presto o tardi reagire. Dire basta. Nel libro seguiamo le due donne abbandonare la città, rifugiarsi nell’isolamento di una casa persa nella campagna pur di allontanarsi dall’appartamento che fu il rifugio familiare, abbandonare la scuola di fronte alle persecuzioni, accettare le prevaricazioni di un lavoro sottovalutato. Ma arriva il punto di non ritorno. Il giorno del compleanno di Shelley. Quel personal computer che lei non avrebbe mai chiesto alla mamma per non incidere sul misero bilancio. Il personal computer che invece la mamma, intuendone la necessità, le ha comprato. Ed è proprio nella notte che precede la festa che quel ladro completamente ubriaco munito di un coltellaccio da macellaio entra in casa forzando una finestra, costringe le due donne a scendere dai letti, a sedersi su due sedie e gli lega mani e caviglie con una corda. Beve, arraffa oggetti, addirittura la boccia di shampoo confezione famiglia e infine chiede cosa contiene quel pacco incartato, appoggia il coltellaccio sul tavolo, prende il pacco. Ma i nodi non erano così precisi, topo Shelley scopre denti da tigre, reagisce. Per il personal, per la paura, per la vita sua e della mamma, per la casa rifugio violata. Sveste gli abiti del topo che è sempre stata, afferra il coltellaccio mentre il ladro, barcollando, ubriaco, sta uscendo dalla porta d’ingresso con la borsa rossa da ginnastica rigonfia sui lati per tutti gli oggetti che ci aveva cacciato dentro. Piena. Ed è questo l’inizio del romanzo. Il topo si fa tigre. Alza il coltellaccio e colpisce. Una, due, tre volte. Alle spalle. Con accanimento cosicchè non è più legittima difesa. Ma ormai il dado è tratto. Colpisce e colpisce e colpisce ancora e ancora e ancora. Il ladro cerca di scappare, ritorna in cucina, corre intorno al tavolo, cerca di fuggire ma Shelley lo insegue e colpisce, colpisce, colpisce, affonda la lama. Ovunque, sangue. Restano da leggere 206 delle 316 pagine del romanzo. Buona lettura.