Alla deriva, nel vortice indaco
di balze argentee, su strie verdastre,
si era incurvato come un ippocampo
stanco del suo vano inseguire
meduse, bandierine e polpi rosa,
di cavalcare le onde lievi
del controvento infido di bolina,
nella corrente gelida e scura
di un mulinello sottomarino.
Si allontanava il cielo basso,
le sue parole perdevano l’eco,
il suo respiro stretto nella rete,
come la bocca di un’orca ferita,
furente del suo sapore di morte
nel suo fiato di schiuma rosso sangue,
ansimava per un orlo d’approdo,
forse vicino, o soltanto sognato,
fino a strozzare un sorso troppo lungo
di libertà, di insanabile sete,
nel tonfo estremo del cupo fondale.
Disteso sullo scafo, supino e inerte,
fissava ancora il velo di una nuvola
sfumata nel giallo-ocra della luna,
nel cessato allarme mesto del molo,
le motovedette ormai rientrate,
con il suo corpo gonfio, ricomposto
su una lettiga della guardia costiera:
un galleggiante di soccorso ai piedi
e una stella marina nella gola.