Sicilia bel suol d’amor [3]: son tutte belle le donne del mondo, quelle di Taormina ancora di più

Il sogno d’una vita di un uomo semplice, il mio babbo. Una vita di lavoro sui binari della ferrovia e, tanto per arrotondare, un lavoro in nero da contabile ragioniere, utile per far studiare il figlio suo. Così son diventato dottore (in legge) e oggi uno dei direttori di una grande azienda, quella sanitaria, della mia provincia.

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Debito di vita per cui, giunti i genitori alla soglia delle ottanta primavere non potevo far altro che realizzare quel loro sogno sacrificato ad una vita di lavoro, volare su nel cielo ed atterrare nella terra del sole, nell’isola che c’è, la Sicilia bel suol d’amore.

A Taormina, naturalmente”, ha sentenziato il babbo, perché Taormina è il posto più bello, più famoso, più romantico di tutta l’isola che c’è, verbo di verità di babbo Fabio.

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Ma babbo, sei proprio sicuro? A me, consultando la guida Touring non mi par poi quella gran attrazione rispetto che so a Palermo, alle Eolie, a Palmaria, alla costa dell’ovest”.

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Nulla da fare, anni e anni di depliant arrivati a casa e di pubblicità televisiva dettan legge, Taormina doveva essere e Taormina sia, a malapena mi son ricavato un giorno e una notte a Siracusa, il tempo dibarcandando ad ammirare le grotte viste dal mare e l’antica isola dell’Ortigia.

No, non andate a Taormina”, ci ammonisce la ragazza del residence siracusano mentre ci accingiamo a regolare il conto, “lassù è tutto finto, un paese dei balocchi, paghi tutto tre volte tanto e di Sicilia quella vera non è rimasto nulla”.

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Troppo tardi, ormai è tutto prenotato, il babbo ha deciso e il babbo si sa va rispettato. Onora il padre e la madre.

Ho imparato tutto da mia madre. Lavare i piatti da mammà, far vicende in casa da mammà, ricucire le calze da mammà. Ma giocare a carte da papà, reggere il vino da papà e fare a botte da papà.

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Mamma Maria e babbo Fabio, ovvero così è mammà, diverso papà e insieme fanno la cultura dello figliolo loro. Così per tutti.

Ero bambino quando nel piazzale davanti ad una grande chiesa di recente costruzione, anni sessanta, tra ricostruzione e boom economico, nel piazzale ancora sterrato, una banda di ragazzotti, forti dell’esser numerosi e più grandicelli,  mi canzonava e mi prendeva a pedate nel sedere. Vani i tentativi di eroicamente resistere, flagellante e distruggente il numero del nemico in banda organizzato, i “ragazzacci di via Dante“. Intervenne mamma Maria raccogliendo tra i bidoni un secchio arrugginito per menar sulle schiene dei ragazzotti ed insegnar loro di lasciar stare i bambini dell’altra parte della via e in specie lo figliol suo.

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In prima media mentre andavo a scuola lungo il viale che percorrevo, il facsal,  tre altri bulletti mi canzonavano e qualche volta anche loro mi pigliavano a calci nel sedere approfittando dell’essere tre contro uno più piccolo (loro eran adulti, frequentavano la seconda classe). Supplicavo, io di prima, pietade e compassione con voce resa infantile sperando di ottenere indulgenza.

Raccontai a babbo Fabio dell’ingiustizia per ottenere il suo intervento risolutore ma lui con mia grande delusione disse “figliol mio io non ci sono, io sono al lavoro, devi essere tu a definire la situazione, da ometto quale ormai sei”. Mi sentii abbandonato e in quel momento capii che chi con dignità s’arrangia da sé fa per tre.

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L’indomani mattina quando i coraggiosi bulletti si fecero sotto non risposi più con la voce cantilenante, dissi quel che pensavo di loro, della loro viltà e dei parenti loro tutti mammà compresa: finì in rissa violenta a pugni e cartellate in mezzo ad un prato di periferia dove oggi sorge un grande parcheggio asfaltato mentre allora, rotolando avvinghiati, si sollevavano nuvole di polvere. Naturalmente fui io a soccombere ma anche per loro non finì benissimo, con un paio di nasi doloranti,  cartellate date e ricevute, ginocchia sbucciate, occhi pesti, labbra rossastre.

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Nulla da fare, contro i prepotenti: non ci son babbi, non ci son vigili, non ci son tutori dell’ordine a difenderti. Devi esser tu a farti rispettare.  Quel giorno di botte ne ho prese ma da quel giorno io da un lato del viale e loro tre dall’altro lato. Con sguardi cagneschi ma rispetto del territorio e della libertà dell’uno e dell’altro. Occorre lottare per lo spazio proprio, la pace e la dignità per essere mantenute talvolta vanno difese dai prepotenti con le stesse armi loro: pugni sul naso e sui denti. Questa la lezione di babbo mio.

Anni dopo ero alle superiori, correvano i giorni del Signore del ’69 e del ’70 ed anche nella mia dorata provincia arrivarono i venti della innovazione, il sogno di cambiare il mondo. Operai e studenti uniti nella lotta, lotta dura e senza paura. Per eliminare le interrogazioni coi bussolotti, le bacchettate sulle mani, per orari dei trasporti coordinati con le ore scolastiche per gli studenti in arrivo dalla provincia.

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Distribuivo volantini, partecipavo alle assemblee e nel giorno di sciopero stavo nei picchetti per motivare le ragioni dell’astensione dalle lezioni. Un bel dì, uno dei tanti, arrivò un ragazzino accompagnato dal genitore: “ma perché vuoi entrare, è in gioco il nostro diritto allo studio”, cercai di spiegare.

Nulla da fare, il genitore senza parole mi appioppò un pugno nello stomaco e il picchetto (che era democratico e non violento), anche per mio invito, lasciò passare. Intervennero i poliziotti in borghese, naturalmente per prendere il mio nome, come del resto era successo tante altre volte prima e ancora sarebbe successo tante altre volte ancora. E quel genitore mani lunghe? I poliziotti cadevano dalle nuvole, peggio delle tre scimmie, non avevano sentito nè visto nulla. Anzi, era meglio che io “non facessi il furbo”.

Venne poi il giorno che il Questore della tranquilla cittadina chiamò a sé babbo Fabio, capotreno ferroviere, dipendente dello Stato, fedele per giuramento alla Repubblica e al suo governo, per parlargli di quel figlio disgraziato e delle ormai troppe segnalazioni pervenute. Affinché lo richiamasse, lo ammonisse, gli sbollisse i bollenti ardori. “Forse che in casa entrasse l’Unità?”.

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No, precisò papà, al massimo ogni tanto qualche giornale d’ispirazione socialista, come allora era l’Espresso, che era come dire peggio perché i socialisti stavano al governo ma erano inaffidabili, pensava il Questore ma niente da fare. Inamovibile babbo Fabio a difesa dello figliolo suo, eppoi del resto “gli ho insegnato a lottare per quello in cui crede purché lo faccia con coerenza e sempre nel rispetto dei diritti altrui oltreché con onestà e tanto spirito di responsabilità”.

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Al rientro a casa babbo Fabio, pur col cuor tremante (come mi rivelò tanto tempo dopo, nel giorno della mia laurea), non disse nulla né nulla disse altri anni dopo ancora quando, rapito l’onorevole Aldo Moro da parte delle Brigate Rosse, trovandosi casualmente alla guida della mia rossa Fiat 127 dai fanali gialli venne fermato a Pianello e per ore ed ore interrogato per spiegare il motivo per cui era alla guida di un’auto da tempo segnalata, osservata, sospettata (ed erano le stesse ore del mio fermo all’Università di Parma).

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Aveva paura, babbo Fabio, ma confidava di poter avere fiducia nel figlio suo cui aveva insegnato a credere in democrazia e libertà. Così oggi il figliol suo, ormai direttore, ma ancora con la pretesa di coerenza e dignità, con la pretesa di essere direttore senza favorire amici e conoscenti, affiliati di partito, raccomandati o mogli dei funzionari obbedienti, ancora isolato seguace di etica e coerenza, oggi quel figliolo porta babbo Fabio e mamma Maria nella terra del sole.

A Taormina, naturalmente perché così volle babbo Fabio con buona pace dell’albergatrice siracusana rivelante la decadenza del paese dei poeti ormai balocco del turismo di massa. Cotesto è lo grave peccato dello babbo meo! Nulla da fare, nulla da dire, il solco s’apre tra babbo e figliol suo lo quale figliolo da sempre si sa lo va a predicar che d’ascoltar lo gentil sesso si ha.

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Eppoi, in conclusione, riassumendo, caro babbo lo dovresti sapere, son tutte belle le ragazze del mondo e quelle di Sicilia ancora di più, vanno prese come dono profondo e seguite per tutto il mondo.  

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Ma niente da fare, lo babbo non ascolta, Siracusa addio, a Taormina si deve andare. Ma forse chissà ne val la pena, son tutte belle le donne di Siracusa ma magari quelle di Taormina ancora di più.

 

Tutte le foto sono scattate a Taormina,

addì 5 ottobre 2007 onorando la scelta del padre,

babbo Fabio mano nella mano con mamma Maria

 

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

3 Risposte a “Sicilia bel suol d’amor [3]: son tutte belle le donne del mondo, quelle di Taormina ancora di più”

  1. Che emozione vedere l’isola che c’è!! 😉 Grazie caro Conte! Mi raccomando tornaci presto sull’isola, c’è ancora tanto da vedere e “conoscere personalmente” 😉

    Buon Natale Claudio a te e famiglia, a babbo Fabio e mamma Maria…un bacione

  2. ma ti pare che mi dimentichi di te? spesso vengo ancora a leggerti!

    Buon natale caro arzy.. di cuore!

    A.

  3. oh! mia figlia è appena arrivata a Siracusa… in macchina partiti alle 3 di mattino da Milano…

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