‘Savana padana’, romanzo di Matteo Righetto, edizioni TEA

Savana Padana, romanzo di Matteo Righetto, edizioni TEA

Una lettura che mi riporta alla mente un conoscente un tempo piuttosto intimo in famiglia, Mario. Operaio comune, claudicante, sposato con lei claudicante a sua volta, un figlio da crescere. Eravamo a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. Mario aveva una vecchia Cinquecento bianca con la quale ogni mattina andava alla fabbrica di lavorazione dei pomodori. In aperta campagna: all’epoca non si parlava di filtri per cui l’odore intenso che si produceva non solo entrava nella pelle degli operai ma era percepibile per un ampio raggio intorno e soprattutto passando nella provinciale. Mario, perennemente in canottiera ingiallita e ampi pantaloni trattenuti da immancabili bretelle, fumava come un turco arrancando nello spostare casse nonostante la gamba poliomielitica. Parlava poco, beveva in contraria proporzione vino bianco, sapeva trattare le carte da briscola come se fossero emanazione delle sue mani. In casa, nella periferia di un paesotto di provincia, non gli mancavano mai coppa piacentina o salame vinti in qualche torneo nelle osterie o nelle sagre di paese. Vinceva e qualche volta, nell’euforia della vittoria, si avventurava sulla balera della sagra di paese. Con effetti non ottimali, in virtù di quella gamba, ma molti applausi di sostegno e di simpatia dagli amici. Aveva un solo cruccio: crescere il figlio, trovare le risorse per farlo studiare, per dargli l’opportunità di una vita migliore. Così, ogni tanto, partiva in solitaria o con un amico andando verso qualche paese delle province vicine, ad almeno un centinaio di chilometri dal proprio paese, dove nessuno poteva riconoscerli. Piccole ma fruttuose rapine: in banca, negli uffici postali, in qualche farmacia. Allora in quell’area compresa tra bassa Lombardia, Piemonte ed Emilia, non c’erano le misure di sicurezza di oggi, misure imposte negli anni ottanta dall’intensificarsi delle rapine specie per l’autofinanziamento dei gruppi rivoluzionari. A Mario bastava entrare dalla porta col viso coperto dalla sciarpa, avvicinarsi al bancone privo di vetri separatori, estrarre la pistola, appropriarsi di un in fondo modesto (ma per il suo stile di vita più che adeguato) malloppo e darsi alla fuga con la fedele Cinquecento Fiat naturalmente attraverso le stradine di campagna. La storia finì, negli anni settanta, in Val Trebbia. Stessa tecnica. Entrata nell’ufficio postale in assenza di clienti, invito alle due impiegate a consegnare i soldi di cassa mostrando la pistola (in realtà una scacciacani del tutto innocua), corsa (zoppicando) verso l’auto parcheggiata di fronte all’ufficio e storia finita. Malauguratamente, in partenza, lo straccio posto a coprire la targa posteriore dell’auto scivolò via e un passante prese nota della targa. Così finì, in carcere, la storia delle rapine di Mario, romantico rapinatore, ma del malloppo nessuna traccia, disse di essersene liberato gettando il sacco durante la fuga. La pena non fu troppo lunga. Influì anche la buona condotta e, all’uscita, Mario ritrovò il proprio lavoro. Il padrone della fabbrica, in fondo, non aveva nulla da imputargli, in fabbrica aveva sempre lavorato e non aveva mai rubato nulla. Così, alla fine, quel figlio che lui e lei consideravano un dono di Dio, è arrivato alla laurea e oggi ha una famiglia e una tranquilla vita con il benessere della piccola borghesia. Storie di sottoproletariato padano, storie d’altri tempi. Oggi la padania è cambiata, è cambiata la gente, è cambiato il sottoproletariato, è cambiato chi vive ai margini delle regole sociali. Intanto non gira certo in Fiat Cinquecento, non usa scacciacani ma pistole vere, non fuma Nazionali Esportazione ma costose Marlboro, non ruba per il figlio ma per mantenere un livello alto di vita malavitosa: donne, gioielli, alcool, ville e lunghe ore passate in un bar di periferia a far nulla se non imporsi con prepotenza. Matteo Righetto appunto ci porta nella odierna padania del Nordest, a San Vito, paesotto di campagna, una chiesa, tre condomini, qualche villetta, due bar, cinesi, zingari e una scalcinata banda di delinquenti locali. Oltre ad un maresciallo dei Carabinieri che si identifica con un sceriffo del lontano Far West, per finire alla polvere e all’afa infernale d’una terra piatta umida e tignosa. Tutto inizia con l’annuale raduno degli zingari e gli zingari, si sa, rubano. Il guaio è che, in questo caso, rubano la statua di Maria Immacolata dalla villa del boss locale. Inizia così una storia mozzafiato, senza esclusione di colpi, da leggere tutta d’un fiato per arrivare alla fine riflettendo su quanto siano cambiati i tempi. Dal delicato romanticismo del Mario (che oggi riposa in pace) alla violenza dei giorni nostri immortalata sul grande schermo da film come Arancia Meccanica o Blade Runner.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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