Roma città d'amor: dopo la pioggia improvvisa dalla balconata del Pincio due arcobaleni ad indicare antichi ed odierni tesori

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Roma, 11-13 ottobre, Vittoriale, un occhio alla città

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In quei due anni, tra il 1989 e il 1990, passando una settimana al mese per otto mesi nella Capitale, dal lunedi al sabato, 48 giorni in totale, per motivi di formazione professionale,  in tutto spesato, ho scoperto che Roma determina assuefazione, dipendenza, innamoramento. Capace di procurare visioni più degli acidi allucinogeni, meglio del L.S.D. per tacer della cannabis! Roma? L’ago d’una siringa che t’inietta in vena un’atmosfera di tenui colori, un senso d’appagamento, la consapevolezza che, questo, è il centro del mondo civile, l’Impero. Che cammina di fianco al suo opposto, il degrado. Via Margutta, con gli artisti che espongono en plein air le loro opere e il fossato di Piramide dove una vecchia, grassa gattara porta ai suoi liberi amori a quattro zampe i resti della cena d’una mensa popolare. Se non ci badi, mentre cammini per il centro di monumento in monumento, lentamente nel cielo azzurro sopravanzano nuvolette bianche e d’un tratto, quando meno te l’aspetti, incontri Giove pluvio che ben pensa di farti visita. Nessun problema, spuntano come funghi i venditori d’ombrelli che, semplicemente, cambiano mercanzia, da sciarpe e foulard passano ad offrirti i “se non piove, pioverà”. Un quarto d’ora, magari venti minuti, poi, passata la tempesta, ritorna il sole e la pioggia chi la ricorda più, riprende il giro di monumento in monumento. Roma è l’ago d’una siringa in vena. In via Manin, sotto sera, zona stazione Termini, via secondaria, poco illuminata, di passaggio tra le due arterie piene di luci che sembrano il paese dei balocchi, quella dell’hotel Diana quattro stelle (via Principe Amedeo) e quella della trattoria individuata per la serata, via Amendola. Quattro ragazzi in macchina in sosta lungo il marciapiede, confusi tra le tante anonime auto di piccola cilindrata. L’ho visto nell’ombra, quel ragazzo alla guida, mentre l’ago della siringa gli entrava in vena. Nessuno badava al mio passaggio, i tre compagni semplicemente hanno aspettato il turno, la siringa passò di mano in mano. Mi sono allontanato affrettando il passo, un senso di angoscia.

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Roma, 11-13 ottobre, via Clivio Argentario
"Berlusconi uno Stato omertoso è uno Stato complice"

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Ma quanto erano piccoli, questi romani! La riflessione spontanea nel fondo sotterraneo delle catacombe. Un’atmosfera incombente di tragedia, dei cristiani in preghiera nascosti sotto il terreno, un’umidità infernale da far invidia all’odierna discesa nei meandri della subway, la metropolitana. Preghiere all’alto dei cieli. Mentre i compagni catturati dai soldati dell’imperatore finivano in pasto ai leoni. Bisogna chiudere gli occhi, entrando nel Colosseo, immaginare le urla, questi romani col dito alzato per dichiarare salva la vita del gladiatore combattente giù nell’arena. Il tempo ha devastato il piano pavimentale dell’arena dove si svolgevano i combattimenti, oggi sono visibili direttamente i camminamenti all’epoca sotterranei dove stavano le gabbie per i prigionieri e gli schiavi destinati al divertimento dei patrizi e dei senatori. Oltre ai leoni, alle belve che, ucci ucci all’odor dei cristianucci leccavano i baffi preparandosi all’ora dell’abbondante desio. Si parla dei campi di sterminio nazisti ma non furono meno barbari questi romani. Uscendo dal caos e dallo smog del traffico incessante del Lungotevere dei Pierleoni, a pochi passi s’arriva all’area dove era ospitato il Circo Massimo, la pista per la corsa delle bighe, dove spesso perdere significava morire. Mors tua vita mea, il gladiatore pur di vincere la corsa non esitava ad urtare la ruota dell’avversario, oppure a colpire di gladio staccando per un secondo la mano dalle redini. Molti secoli dopo resta solamente la traccia della pista e un grande prato verde. L’ho attraversato mentre una leggera brezza pareva portare con sé le voci lontane secoli di quel pubblico barbaro e beota, panem et circus. Un romano, tranquillamente, lanciava una pallina da tennis al suo amico e compagno cane lupo che pareva divertirsi. Probabilmente non era molto più d’un cucciolo di cane. Nemmeno nei tempi antichi i romani avrebbero mai pensato di far del male agli amici cani (certo: erano cani, mica cristiani!)

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Roma, 11-13 ottobre, colpo d’occhio e gioco a rimpiattino del sole

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Di fianco al Teatro dell’Opera in via Torino stava l’enoteca Goffredo Chirra, in vetrina una bottiglia di Barolo a 500mila lire, annata straordinaria. In uno di quei sabati romani, all’ora di tornare a Termini dove m’aspettava il treno, telefonando a casa Dalila m’annunciava il funerale all’indomani, domenica, di Remo Bonomini, marito di Olga, sorella di papà. Stroncato durante una cena con gli amici e i vecchi compagni del Partito. Zia Olga non versò lacrime, in pubblico. Atteggiamento contenuto, controllo dell’esteriorità e dell’apparenza, poi, rimasta in famiglia, le lacrime liberatorie. Ero il primo nipote, ho avuto accesso alla cantina dello zio, potevo appropriarmi dei suoi più intimi segreti. Come la bottiglia di fine cognac, sigillata ermeticamente. Eppure, come avrei scoperto, vuota. Da anni, dicevano i medici,  non poteva bere, zio Remo, già ragioniere capo del Comune in pensione, eletto assessore, estimatore del compagno Enrico Berlinguer. Non poteva bere, eppure la bottiglia di cognac francese, ermeticamente sigillata, era vuota. Evaporata? Forse. Come la bottiglia di grappa slava e quella dipinta di rosa pare da Salvator Dalì. Chissà come faceva. Alla fine ho portato a casa una bottiglia speciale di Barolo, integra e soprattutto piena. Quando l’ho aperta, però, non aveva retto al tempo. Oppure si trattava d’una annata inadeguata. Non ho mai chiesto pareri all’enoteca romana di via Torino, non ho osato proporre paragoni con la bottiglia della vetrina, quella da mezzo milione. Non ho mancato invece di acquistare il manifesto con la carta dei vini doc italiani, da allora incorniciata e appesa in cucina, a Piacenza. Quanto al vino qualche volta mi sono accomodato al tavolino sul marciapiede del bar di fianco all’enoteca, osservando la gente di passaggio, quelli in procinto d’entrare a teatro e gli altri clienti del bar. Ricordo una sera, al tavolo di fianco stava seduta una ragazza mora, molto appariscente, di quel tipo che da sempre mi fa girar la testa, ho lanciato un approccio, è andato bene, le dissi che ero emiliano. Una volta anche lei era passata da Modena, s’iniziò una lunga conversazione accompagnata da molti bicchieri di bianco Ortrugo. Non ricordo il nome, diciamo si chiamasse Marlena, nome più che adatto alla sua originalità. Spostata qualche tavolo più in là un’altra ragazza sola, d’età attorno alla trentina, tentava un solitario a carte, ogni tanto parlava col cameriere, ogni tanto guardava al nostro chiacchierare. Un’ora dopo Marlena, con la voce impastata per i bicchieri di troppo, lamentando mal di stomaco e soprattutto mal tollerando il ronzio dei go-kart lanciati in corsa lungo le pareti interne della sua scatola cranica, ha gettato la spugna, chiedendo scusa prese la via di casa non senza lasciare il dono di un bacio e la promessa di un nuovo incontro la sera successiva (purtroppo poi sfumato, Marlena non si ripresentò). Stavo per andarmene a mia volta, quando ho notato quell’altra ragazza appoggiare le carte da gioco sul tavolo, alzarsi, venire al mio tavolo ed apostrofarmi: “sai, quella è una puttana ma voi uomini sapete solo guardare quanto è svestita, che ti credi? Anche le mie gambe sono belle come le sue e forse di più!” e detto questo alzò la gonna, mostrando due gambe di tutto rispetto mentre saliva oltre i livelli di guardia la mia temperatura già abbondantemente messa a dura prova da Marlena. Ne approfittò un ragazzino d’apparente età minorile ed inflessione slava per rifilarmi in cambio delle consuete mille lire una rosa uscita fresca alla mattina ma ormai sofferente. Oh, roventi notte romane! AnnaMaria (così, mi rivelò dopo il cugino cameriere, si chiamava) mi guardò per lunghi istanti d’eternità senza nascondere il disprezzo, quindi girò sui tacchi e, ancheggiando platealmente, se n’andò girando l’angolo, perdendosi tra i turisti in cerca di avventure a luci rosse in via del Viminale. Non mi rimaneva che sorseggiare il mezzo bicchiere di Ortrugo rimasto ma in quel momento dall’ingresso del teatro uscì la cantante protagonista del concerto lirico, assetata e accaldata. Mi alzai, l’attesi, le offrii la rosa. “Mervejeuse!”, dissi. Di certo m’immaginò uno dei tanti spettatori che avevano ammirato il suo canto, “merci”, sussurrò di rimando regalandomi un soffio di bacio sulla guancia sinistra prima di proseguire verso la toilette. Oh, le notti magiche, le notti romane. Era l’ora d’andare a dormire, abbandonandosi ai sogni d’un intensa notte erotica, notte agognata, notte romana. La cantante lirica, nel frattempo, uscendo dalla toilette trovava ad attenderla l’impresario, alcuni musicisti e gli altri cantanti del cast. Il cameriere, cugino di AnnaMaria, stava unendo i tavoli per farli accomodare, senza negarsi la soddisfazione d’un ironico sguardo verso la mia parte. Si facessero i fatti loro, questi romani!

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Roma, 11-13 ottobre, piazza Venezia, donde vuol pontificare Berlussolini

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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