“Passare il segno”, visita a pugno chiuso alla mostra a Milano ove si ritrova Contestazione e il vecchio Compagno Ciclostile

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C’era una volta un Re, / un po’ vanesio invero, / che avrebbe fatto parlar di sé / per quell’unione fuor di riga / baci appassionati, baci vietati, / violazione del  senso del pudore / giù in strada con signora Contestazione. / Sua Maestà il ’68 /..

Celebrato in pompa magna con gran rimpianto allo scoccar degli anta. Dal sessantotto al duemilaotto. Quarantanni, dal giorno in cui tutto cambiò.

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Che palle, mi dice Dalila, dopo il bicentenario di Garibaldi, ora cominci con il requiem a Lotta Continua”. A Milano, alla Biblioteca di via Senato, fino al 17 gennaio, un’interessante mostra evocativa di una stagione molto spesso esaltata oltre ogni limite tanto da chi non l’ha vissuta (ma furbescamente ne ha cavalcato e ne cavalca gli slogan vincenti e gli aspetti esteriori) ed altrettanto ricordata da chi, vivendola, ne è uscito magari sconfitto e parzialmente deluso ma carico di illusioni, di sogni, di ricordi. Comunque sia andata a finire, ha vinto chi ha saputo conservare i ricordi. Di una stagione vissuta. Di averci provato. Di aver comunque cambiato il mondo perché nulla comunque è più come prima. Magari poi, in qualche caso, per qualcuno non basta ancora ed eccoli allora ancora in prima fila a non mollare mai nonostante gli oni, Berlusconi e Veltroni, guardiani della conservazione (quella retriva e quella illuminata ma pur sempre conservazione dello status quo).

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Immagini, fotografie, pagine di giornali, copertine di libri che tutti abbiamo almeno adocchiato. “Manuale della guerriglia urbana”, “La concezione del partito in Lenin”, “La situazione politica e i nostri compiti”, colori soffusi da parte dell’ala ortodossa poiché lo sgargiante era borghese, caratteri essenziali, tradizionali, impostazioni classicheggianti perché la fantasia forse albergava nella lontana Francia ma, nell’italica panoramica dei gruppuscoli, di quelli ortodossi, di quelli osservanti della linea (quelli di regola celebrati dalle visioni limitate e interessate del ’68), i testi erano utili all’orientamento ideologico e nulla doveva discostarsi dalla sobrietà di un linguaggio visivo lineare, teoricamente comprensibile a tutti ma in realtà riservato a pochissimi iniziati. Servire un popolo che se ne stava altrove. Religiosità (che spesso faceva rima con integralismo e con verità senza errore), dogma del pensiero politico.

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Il testo come pretesto per affermare l’io contesto. Era invece l’ala libertaria del movimento, quella poco incline all’allineamento, quella poco celebrata e spesso ignorata per scarsa riconducibilità alle logiche del potere, ivi compreso il conservatorismo di sinistra, quello del mai amato PCI.  “L’estremismo malattia infantile del comunismo”, sentenzia Lenin nel volume pubblicato da Editori Riuniti, collana le idee, sottotitolo “strategia e tattica del partito comunista”, prefazione di Palmiro Togliatti. E quei bagnanti nudisti dei primi del novecento a prendere il sole sulle rive della Neva? Oltraggio al comune senso del pudore del buon comunista versione Stalin e i gulag per l’ala del Partito non allineata. C’è voluto tempo per gli italici intellettuali figli della borghesia innamorati dei gruppuscoli e dell’estremismo assolutista ed ortodosso per capire che i volumi di solo testo erano spesso inefficaci o troppo difficili per i figli del proletariato urbano che non avevano studiato filosofia ma al massimo ragioneria. Laddove sarebbe bastato guardare all’insegnamento di Majakovskij e agli altri artisti sovietici a ridosso della Rivoluzione d’Ottobre, gli ideatori delle Roste, i tatzebao illustrati in cui i disegni accompagnavano il breve testo. Presto coperti dai manifesti lineari, volutamente sobri per essere allineati al comunismo centralizzato ed oppressivo, nemico d’ogni fronzolo libertario. Omologazione, compagni! E senza esitazione le guardie rosse avvolte nel buio della notte a Barcellona nel 1937 sostituendosi alla marmaglia fascista iniziarono la caccia agli anarchici e ai libertari combattenti rei di rifiuto di allineamento. Così si é tentato di affossare il movimento ma la locomotiva era ormai in moto e sbuffava mentre i figli del proletariato salivano in vettura senza neppure acquistare il biglietto.

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Arrivando così alle edizioni Il Formichiere che titoleranno “Abbasso il grigio” nell’opuscolo su “comunicazione e linguaggio di base nella pittura murale a Milano” o allo scheletro che si imbelletta per illustrare l’inchiesta sui prodotti di bellezza realizzati senza badare agli effetti cancerogeni delle sostanze utilizzate. Fantasia finalmente nel movimento, rompono le palle le balalaike, finalmente sono dichiarati noiosi Breznev e Andropov, cantano note colorate i Turner, Tina & Ike mentre i fedeli alla linea della giunta rossa emiliana vietano la Woodstock italiana a Santa Monica, Misano adriatico, anno 1974 e gli idranti “sfollano” i ragazzi dell’altra dimensione. Si scrive l’avventura di “Porci con le ali”, il 68 evolve, arriva il 77, scendono dalla locomotiva con i volti anneriti dal carbone ed occupano la piazza i figli del proletariato nel frattempo laureati, nella via di lato ballano le streghe e gli indiani metropolitani mentre Roberto Maroni, arrabbiato di Democrazia Proletaria, evolve e si fa rivoluzionario con la camicia verde della Lega di Umberto Bossi. Finalmente son rotti gli schemi, diventano quotidiane le linguacce e le pernacchie di Mike Jagger. Caos ordinario contro Kaos libertario, scemo blasonato e seemo incazzato, dopo Marx venne Aprilx.

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In realtà furono molte, le facce del movimento, difficile, illusorio e in qualche caso provocatorio cercare di ricondurre il tutto ad una logica unica, magari quella delle Brigate Rosse. Tutto fu contestato e tutto fu innovato e non necessariamente con le molotov o con i rimandi a Lenin. “Il Re è nudo”, si prese a gridare financo nelle canoniche chitarre alla mano ed ogni forma di potere legato alla tradizione e ai privilegi ondeggiò, prese a vacillare.

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Manifesti, fotografie, immagini che hanno fatto e fanno storia. Nelle fabbriche occupate, nelle piazze a muso duro contro la polizia, sui binari a bloccare le ferrovie, nei caseggiati popolari contro gli sfratti, sui tetti delle carceri, contro i cancelli degli ospedali d’una psichiatria ferma alla fine del secolo e alla camicia di contenzione. “Via, via la nuova polizia  contro i sindacalisti del servizio d’ordine della CGIL e un PCI estraneo alla maturazione nella direzione dei diritti civili individuali perché nelle sezioni non entravano i pederasti, “ci piace di più Andreotti a testa in giù” laddove invece, alla fine, appeso a testa in giù finirà proprio il Movimento, sepolto dalle Brigate Rosse in via Fani insieme al cadavere di Aldo Moro, lasciando via libera a Massimo d’Alema di ritornare a sostenere proprio Giulio Andreotti.

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In realtà tutto il decennio che va dal ’68 al ’77 non fu solo stagione di rivolta e desiderio di rivoluzione, non fu solo la stagione politica vissuta dai gruppi della sinistra estrema ed è forse questo il limite della mostra milanese. Fu un fatto culturale che andò ben oltre alle illusorie e fuorvianti conoscenze del comunismo maoista. Fatto filosofico, sociale, culturale di cambiamento di un mondo fino a quel momento ingessato nelle strutture istituzionali tendenzialmente oppressive dell’individualità. Il gruppo non come elemento di imposizione ma come sede magari occasionale di aggregazione, di realizzazione e di espressione dell’individuo e dei suoi bisogni. Democrazia diretta, assemblearismo partecipato e diffuso, autogestione.

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Il limite (ideologico e forse “codino”) del curatore in odore di simpatie per una visione del decennio ’68-‘77 propria e sicuramente utile a Berlusconi e a Veltroni, comunque, non toglie il fatto meritorio del ricordo e del richiamo e ritrovarsi tra le immagini, le copertine dei libri, i volantini, le pagine dei quotidiani, dei manifesti e dei fogli realizzati è uno stimolo sia per chi non conosce ed anche per chi ha vissuto quegli anni che hanno rappresentato il sogno e la conquista di maggiore giustizia, uguaglianza, libertà. Comunque sia finita o finirà (di questo giudicheranno i figli dei figli).

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Ma la mostra di via Senato è soprattutto l’occasione per ritrovare un vecchio compagno quasi dimenticato. Quello che sin dai primi giorni è stato indispensabile strumento per fare la “Forma della contestazione”. Il buon vecchio caro compagno, il ciclostile. Col quale si sono prodotti centinaia migliaia di messaggi oltre le verità edulcorate della stampa ufficiale e soprattutto commerciale, che permettevano di raggiungere direttamente la gente, di denunciare i fascisti che sparavano a Sesse Romano, di proporre inviti, di richiedere solidarietà, di denunciare le malefatte di chi gestiva il potere e i silenzi dell’informazione ufficiale.

 

Inevitabile l’abbraccio, il riprovare il gusto del palmo chiuso sulla manovella da girare badando che l’inchiostro fosse della giusta dose per ridurre al minimo le macchie sui jeans e sulla camicia oltre naturalmente alle sbavature sul volantino. Ricordi. Dei fogli stampati e poi rimessi nel contenitore per passare alla facciata di retro. Sbagliando il senso e, in assenza di fondi per altre risme di carta e comunque di tempo, distribuendo comunque il tutto di fronte ai cancelli delle scuole o nella piazza dei passanti indaffarati ed impegnati nello shopping: era il giorno dello sciopero per la difesa del lavoro, della denuncia dei pericoli del nucleare e dei fumi delle fabbriche che aprivano buchi nei collant delle ragazze e delle signore in fila al supermercato, la richiesta di attenzione alla salute piuttosto che agli interessi dell’utile mentre la terra veniva ammorbata dalla diossina e non esistevano strutture pubbliche di controllo. Politica dei contenuti e invero poco importava della forma, testo, immagine, disegno, illustrazione.

 

L’occasione. Per ricordare i volantini contro i signori del mercato della droga, le decine di giornali autoprodotti per puntare il dito contro la pena di morte e le bibite coi coloranti assassini, le notti passate ad attaccare manifesti sui muri della città. L’occasione, per rivolgere un saluto ancora a pugno chiuso ai compagni di quei giorni in buona parte persi di vista, Silvano Rossi, Paolo Brega, Cinzia Gorni, Mauro Rabaiotti, Giacomo Bagnasco, Lorenzo e Massimo d’Amato, Claudio Peviani, Antonio Mosti, Emilio Tirelli, Marina Famà, Ermanno Bongiorni, Augusto Bottioni, Annie Forlini, Paolo Orsi. Decine, migliaia di volantini. Salutando con un ideale abbraccio Paolo Molinaroli, compagno fraterno feroce ed impietoso verso le inutili fughe estremiste in avanti che un infame tumore s’è portato via. Salutando il sorriso, il maglione che a malapena tratteneva un seno dirompente da pin up hollywoodiana, i jeans così stretti, così aderenti alle curve pericolose della compagna Rita Abati, che delusa dalla realtà, molti anni dopo ha scelto di andarsene, lasciando un vuoto incolmabile, per le sere e qualche notte passate in sede a ciclostilare, per quel vestito blu scuro con i fiori del colore delle nostre primavere, per quanto è stato e per un sogno comune che, distratti dal vivere d’impegno, non abbiamo saputo coltivare quando ne era il tempo e, dopo, fu troppo tardi ed ora non sarà mai più. Erano gli anni, gli anni che volevamo solo cambiare il mondo.

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Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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