Gli scioperi del 1920, la rivolta dei Bersaglieri per la libertà del popolo albanese, l’occupazione delle fabbriche, la negazione della prospettiva rivoluzionaria, la fine del Biennio Rosso

Il movimento rivendicativo che aveva caratterizzato il 1919 si intensificò ulteriormente nel 1920, quando vi furono in Italia più di 2.000 scioperi e più di 2.300.000 scioperanti; nello stesso anno, i lavoratori organizzati in sindacati ammontavano a più di 3.500.000, di cui 2.150.000 nella sola C.G.d.L.. In parallelo il padronato industriale e agrario si organizzò a livello nazionale: la Confederazione generale dell’industria, che era stata fondata il 5 maggio 1910, nel 1919 spostò la propria sede a Roma, e nel dicembre 1920 nacque la Confederazione generale dell’agricoltura.

Gli operai della Fiat di Torino scioperano ma sono isolati a livello nazionale

Nel marzo 1920 scoppiarono importanti scioperi, in particolare, presso la FIAT di Torino, il cosiddetto sciopero delle lancette, cosiddetto per l’episodio che diede origine alla vertenza. Gli operai di Torino della FIAT avevano chiesto alla direzione dello stabilimento, in concomitanza con l’entrata in vigore dell’ora legale, di posticipare di un’ora l’ingresso al lavoro. Dopo il diniego da parte della proprietà, la Commissione interna dell’officina Industrie Metallurgiche aveva proceduto, di sua iniziativa, a spostare di un’ora indietro l’orologio della fabbrica. In seguito a ciò, la direzione licenziò tre membri della Commissione interna; gli operai risposero con uno sciopero di solidarietà che, il 29 marzo 1920, coinvolse tutte le officine metallurgiche di Torino ed al quale gli industriali risposero a loro volta con una serrata, pretendendo, come condizione per riprendere il lavoro negli stabilimenti, che venissero sciolti i Consigli di fabbrica. Lo sciopero generale, indetto alla metà di aprile, coinvolse circa 120.000 lavoratori di Torino e provincia. Tuttavia, tanto la direzione nazionale della CGdL quanto quella del Partito socialista si rifiutarono di dare il loro appoggio al movimento torinese, né vollero estendere la vertenza al resto d’Italia mediante la proclamazione di uno sciopero generale. Inoltre in quei giorni il governo inviò a presidiare la città una truppa di circa 50.000 militari. Isolati a livello nazionale e sotto la minaccia delle armi, gli operai di Torino dovettero capitolare: la vertenza si chiuse con un concordato che prevedeva un forte ridimensionamento dei Consigli di fabbrica. Lo sciopero terminò così il 24 aprile senza che i lavoratori coinvolti avessero visto riconosciute le proprie richieste, fra cui il riconoscimento, da parte degli industriali, dei Consigli di fabbrica.

Lo sciopero contro l’aumento del prezzo del pane provoca le dimissioni del governo Nitti

Il 1º maggio, in occasione della festa dei lavoratori furono indetti cortei nelle principali città che in alcuni casi furono dispersi dalla polizia come a Torino e a Napoli. Un nuovo sciopero indetto contro l’aumento del prezzo del pane indebolì il secondo governo Nitti, che si dimise il 9 giugno 1920 per lasciare il posto all’ottantenne Giovanni Giolitti che formò il suo quinto esecutivo. Manifestazioni e cortei proseguirono ininterrotti per lungo tempo con vittime sia tra i militari che tra i manifestanti.

La rivolta dei Bersaglieri contro l’occupazione dell’Albania, per l’autodeterminazione e la libertà dei popoli

Uno degli eventi più significativi di tutto il biennio rosso fu la rivolta dei Bersaglieri che scoppiò ad Ancona nel giugno del 1920, preceduta da una di minore entità a Trieste l’11 giugno, in cui un gruppo di arditi di un reggimento d’assalto in attesa di imbarcarsi per l’Albania usò le armi contro gli ufficiali, causando due morti e diversi feriti.

Anche ad Ancona la scintilla che provocò la rivolta fu l’ammutinamento dei bersaglieri di una caserma cittadina che non volevano partire per l’Albania, dove era in corso un’occupazione militare decisa dal governo Giolitti. Al contrario di altre manifestazioni del biennio, la Rivolta dei Bersaglieri fu una vera ribellione armata e coinvolse truppe di varie forze che solidarizzarono con i ribelli; dopo la resa dei bersaglieri della caserma, la rivolta continuò nelle piazze, sostenuta da una fetta della popolazione civile, unita dal motto “Via da Valona”, chiedendo la fine del Protettorato italiano dell’Albania, visto come un attacco alla libertà dei popoli.

Da Ancona la rivolta divampò in tutte le Marche, in Romagna (fino al suo cuore, Forlì), in Umbria (Terni e Narni), in Lombardia (Cremona e Milano) e a Roma. Quando il re, ordinò l’invio delle guardie regie per ristabilire l’ordine, fu indetto uno sciopero nazionale da parte del sindacato dei ferrovieri per impedire che i militi potessero arrivare ad Ancona.

Infine il moto fu sedato solo grazie all’intervento della marina militare, intervenuta per bombardare la città.

Il fatto però convinse il governo italiano a rinunciare all’occupazione: con il Trattato di Tirana (20 luglio 1920) e il successivo trattato di amicizia con gli albanesi (2 agosto 1920), l’Italia riconobbe l’indipendenza e la piena sovranità dello Stato albanese e le truppe italiane lasciarono il Paese. Inoltre il trattato sancì il ritiro italiano da Valona, con il mantenimento dell’isolotto di Saseno, a garanzia del controllo militare italiano sul canale di Otranto.

Di fronte alle richieste salariali della FIOM Confindustria risponde con la serrata

Il 18 giugno 1920 la FIOM presentò alla Federazione degli industriali meccanici e metallurgici un memorandum di richieste, che fu seguito da analoghi memoriali da parte degli altri sindacati operai. Tutti i memoriali concordavano nella richiesta di significativi incrementi salariali volti a compensare l’aumentato costo della vita. L’atteggiamento degli industriali di fronte a tali richieste fu di assoluta e totale chiusura; a detta degli imprenditori, il costo derivante dagli aumenti salariali sarebbe stato insostenibile per un settore produttivo che versava già in stato di crisi. A ciò i sindacalisti della F.I.O.M. risposero ricordando gli ingentissimi profitti accumulati durante la guerra dalle industrie meccaniche e metallurgiche grazie alle commesse belliche.

Il 13 agosto 1920 gli industriali ruppero le trattative.

La F.I.O.M. deliberò a questo punto di procedere all’ostruzionismo: evitando ogni forma di sabotaggio, gli operai avrebbero dovuto ridurre la produzione, rallentando l’attività, astenendosi dal cottimo e applicando minuziosamente le norme sulla sicurezza del lavoro. Qualora gli imprenditori avessero risposto con la serrata, gli operai avrebbero dovuto occupare gli stabilimenti.

Le direttive della F.I.O.M. vennero eseguite con zelo dagli operai e condussero ad un calo molto significativo della produzione. Il 30 agosto si ebbe la prima contromossa da parte padronale: le Officine Romeo & C. di Milano iniziarono la serrata, benché il Prefetto del capoluogo lombardo avesse espressamente chiesto all’ing. Nicola Romeo di non assumere tale iniziativa. Lo stesso giorno la sezione milanese della F.I.O.M. deliberò l’occupazione delle officine metallurgiche della città. Poche ore dopo anche gli opifici della Isotta Fraschini vennero occupati e i dirigenti sequestrati negli uffici. Tra loro anche i fondatori e proprietari Cesare Isotta e Vincenzo Fraschini. Il 31 agosto la Confindustria ordinò la serrata a livello nazionale. La stessa deliberazione era stata assunta, il giorno precedente, dagli industriali metallurgici inglesi.

L’occupazione delle fabbriche

Ovunque, la serrata fu puntualmente seguita dall’occupazione degli stabilimenti da parte degli operai. Fra l’1 e il 4 settembre 1920 quasi tutte le fabbriche metallurgiche in Italia furono occupate. Gli operai coinvolti furono più di 400.000 e salirono poi a circa 500.000 quando l’occupazione si estese ad alcuni stabilimenti non metallurgici.

L’occupazione delle fabbriche avvenne (e proseguì) quasi ovunque pacificamente, anche grazie alla decisione, presa dal governo Giolitti, di non tentare azioni di forza; le forze dell’ordine si limitarono a sorvegliare dall’esterno gli stabilimenti senza intervenire. Giolitti intendeva infatti evitare un conflitto armato, che sarebbe potuto sfociare in una guerra civile, e confidava nella possibilità di mantenere il confronto tra operai e imprenditori su di un piano puramente sindacale, in cui il governo avrebbe potuto fungere da mediatore. Su questo punto Giolitti si trovò d’accordo con la dirigenza nazionale della C.G.d.L., che era di orientamento riformista.

Nei primi giorni di occupazione, tuttavia, un fatto di sangue avvenne a Genova; il 2 settembre le guardie regie che presidiavano un cantiere navale spararono contro gli operai che cercavano di occuparlo; il calderaio trentacinquenne Domenico Martelli rimase ucciso e altri due operai furono gravemente feriti. Alcune guardie regie fra quelle che avevano aperto il fuoco furono arrestate, ma vennero scarcerate il giorno successivo.

Nelle fabbriche occupate la produzione continuò, anche se in misura ridotta a causa delle difficoltà di approvvigionamento e dell’assenza del personale tecnico e impiegatizio. Torino fu la città in cui l’organizzazione operaia (basata sul sistema dei Consigli di fabbrica) si rivelò più efficiente; furono creati presso la Camera del Lavoro vari organismi (comitati) per coordinare a livello cittadino la produzione, gli scambi, i rifornimenti, e funzionò anche un comitato militare. In almeno un caso (l’officina Fiat Centro) la produzione raggiunse ragguardevoli livelli, toccando il 70 per cento dell’output di prima della vertenza.

A Torino e a Milano, gli operai, tramite le locali Camere del lavoro, tentarono di assicurarsi i necessari mezzi di sostentamento mediante la vendita dei prodotti delle fabbriche occupate; ma i risultati furono trascurabili. Più efficaci a questo scopo furono l’aiuto da parte delle Cooperative (sotto forma di finanziamenti in denaro ed elargizione di generi alimentari) e la solidarietà degli altri lavoratori, che si manifestò mediante collette, allestimento di “cucine comuniste” per gli occupanti e altre iniziative di sostegno.

Durante l’occupazione corsero, sull’armamento operaio, notizie incontrollate che destarono preoccupazione anche in ambito governativo; tuttavia sembra che, generalmente, la forza e la capacità militare degli occupanti non siano andate oltre la mera difesa degli stabilimenti occupati, tranne forse che a Torino, dove gli operai erano, anche militarmente, meglio organizzati che altrove. All’interno delle officine della Società Piemontese Automobili si iniziarono anche a produrre bombe a mano.

Gli operai organizzarono comunque servizi armati di vigilanza, disposti a scendere allo scontro anche con l’esercito, che assunsero il nome di Guardie Rosse. A favore degli scioperanti intervennero spesso i sindacati dei ferrovieri che organizzarono picchetti armati presso i nodi ferroviari per impedire l’intervento delle guardie regie. Inoltre i sindacati dei ferrovieri collaborarono spesso con gli occupanti, assicurando loro rifornimenti di materie prime e di combustibili.

La conclusione della vertenza

Benché nato come vertenza sindacale, il movimento di occupazione delle fabbriche ebbe fin dall’inizio una tale estensione e una tale risonanza da fare sorgere l’esigenza di una sua soluzione politica. Mentre gli industriali ponevano lo sgombero degli stabilimenti come pregiudiziale per una ripresa delle trattative con gli operai, gli organismi dirigenti di questi ultimi decisero sul da farsi in una serie di tese e drammatiche riunioni che ebbero luogo a Milano fra il 9 e l’11 settembre 1920.

Il 9 settembre si riunì il Consiglio direttivo della C.G.d.L., ove venne in discussione l’ipotesi di un’iniziativa insurrezionale (cui comunque i vertici del sindacato, come si è detto, erano contrari); erano presenti due dirigenti del P.S.I. torinese, uno dei quali era Palmiro Togliatti che, a una precisa domanda, rispose che, in ogni caso, non sarebbero stati gli operai di Torino a cominciare da soli l’insurrezione. Gli ordinovisti temevano, in effetti, che una loro eventuale sortita sarebbe stata sconfessata, a livello nazionale, sia dal partito sia dal sindacato (come del resto era già accaduto in aprile in occasione dello sciopero delle lancette), cosicché il movimento torinese, rimasto ancora una volta isolato, sarebbe stato schiacciato militarmente.

Il 10 settembre, in una riunione congiunta fra la direzione della C.G.d.L. e quella del P.S.I., i massimi dirigenti del sindacato manifestarono l’intenzione di dimettersi qualora il partito volesse assumersi la responsabilità di avocare a sé la guida del movimento per condurlo a un esito rivoluzionario. Ma la segreteria del P.S.I., di fatto, lasciò cadere la proposta, demandandone la decisione al Consiglio nazionale della C.G.d.L. che si sarebbe riunito l’indomani.

Fu così che, l’11 settembre 1920, ebbe luogo la cruciale seduta in cui il Consiglio nazionale della C.G.d.L. fu chiamato a deliberare su due mozioni contrapposte: una prevedeva di demandare “alla Direzione del Partito l’incarico di dirigere il movimento indirizzandolo alle soluzioni massime del programma socialista, e cioè la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio“; l’altra mozione, proposta dalla stessa segreteria della C.G.d.L., prevedeva invece, quale obiettivo immediato della lotta, non la rivoluzione socialista bensì solamente “il riconoscimento da parte del padronato del principio del controllo sindacale delle aziende”. Prevalse a maggioranza quest’ultima mozione, che sanciva la rinuncia a fare dell’occupazione la prima fase di un più ampio moto rivoluzionario.

Anche dopo il voto, il P.S.I. avrebbe potuto (in base al patto d’alleanza stipulato con la C.G.d.L. nel 1918) assumersi d’autorità la guida del movimento, esautorando il sindacato. Ma il segretario del P.S.I. Egidio Gennari dichiarò che il suo partito non intendeva per il momento avvalersi di tale facoltà.

Intanto nelle fabbriche occupate la tensione rimaneva alta. La notte del 13 settembre un industriale torinese, in uno scontro a fuoco, uccise a fucilate i due operai Raffaele Vandich e Tommaso Gatti.

Quando fu chiaro che i massimi organi dirigenti del movimento operaio italiano avevano di fatto rinunciato ad ogni ipotesi rivoluzionaria, Giovanni Giolitti ebbe campo libero per spiegare la sua attività di mediazione fra la Confindustria e la C.G.d.L. (essendo ormai il P.S.I. fuori dal gioco). Si arrivò così, non senza resistenze da parte confindustriale, all’accordo di massima siglato a Roma il 19 settembre 1920, accordo che fu per gli operai, sul piano strettamente sindacale, un buon successo (perché stabiliva significativi aumenti salariali e miglioramenti normativi in materia di ferie, di licenziamenti ecc.), ma allo stesso tempo una netta sconfitta politica, perché prevedeva lo sgombero delle fabbriche occupate e impegnava soltanto il governo ad approntare un disegno di legge sul controllo operaio (disegno di legge che peraltro non fu mai approvato).

L’efferato omicidio di Mario Sonzini e di Costantino Scimula da parte delle Guardie rosse

I giorni a ridosso dell’accordo fra industriali e sindacato furono caratterizzati da un acuirsi della tensione a Torino, dove, il 19 settembre, un operaio rimase ucciso in uno scontro fra Guardie rosse e forze dell’ordine; il 22, in altri scontri a fuoco, morirono un brigadiere dei carabinieri, una guardia regia e un passante; il 23 settembre venne alla luce un grave fatto di sangue: furono rinvenuti i cadaveri di un giovane nazionalista e di una guardia carceraria. Più precisamente, si scoprì che l’impiegato oleggese Mario Sonzini, sindacalista e membro della commissione interna alle Officine Metallurgiche, era stato sequestrato dalle Guardie rosse e, dopo una sorta di processo sommario, era stato ucciso a pistolettate, sorte condivisa a poche ore di distanza anche dalla guardia carceraria Costantino Scimula. Dalle seguenti indagini si venne a scoprire che i due uccisi non erano stati gli unici sequestrati dalle Guardie rosse in quei giorni a Torino. La dinamica di questo delitto, che presentava caratteri di particolare efferatezza, fu poi chiarita dal processo penale che ebbe luogo nel 1922 e che si concluse con la condanna di undici imputati a pene che andarono da un anno a trenta anni di reclusione. Le indagini e il processo furono seguiti con grande enfasi dalla stampa, e il tragico caso di Sonzini e Scimula divenne, in quegli anni, uno dei cavalli di battaglia della propaganda anticomunista.

Fra il 25 e il 30 settembre gli occupanti sgomberarono pacificamente le fabbriche, riconsegnandole agli industriali. Il 27 settembre, quando l’occupazione si poteva già considerare conclusa, l’edizione torinese dell’Avanti! pubblicò un editoriale in cui, oltre ad ammettere la sconfitta degli operai, si accusavano i dirigenti riformisti di essere responsabili della medesima. Dopo la ratifica dell’accordo da parte delle rispettive organizzazioni, i dirigenti della F.I.O.M. e della Confindustria firmarono il concordato definitivo a Milano il 1º ottobre 1920.

Gli esiti politici

Le occupazioni, intese come l’inizio di un processo rivoluzionario, non riuscirono a produrre cambiamenti sensibili, soprattutto a causa della mancanza di strategia della classe dirigente socialista e dell’incapacità di diffusione del movimento nel resto della società. Giolitti assunse un atteggiamento neutrale, nonostante le pressioni degli industriali per sgomberare le fabbriche con l’esercito, presumendo che gli operai, non essendo in grado di gestire le fabbriche, avrebbero prima o poi accettato di trattare.

Giovanni Giolitti sintetizzò così la sua linea politica nei confronti dell’occupazione delle fabbriche: “Ho voluto che gli operai facessero da sé la loro esperienza, perché comprendessero che è un puro sogno voler far funzionare le officine senza l’apporto di capitali, senza tecnici e senza crediti bancari. Faranno la prova, vedranno che è un sogno, e ciò li guarirà da pericolose illusioni”.

Del tutto opposta la valutazione offerta, alcuni anni dopo i fatti, da un altro protagonista della vicenda, Antonio Gramsci, il quale affermò che, nei giorni dell’occupazione, la classe operaia aveva dimostrato la sua capacità di autogovernarsi, aveva saputo mantenere e superare i livelli produttivi del capitalismo, e aveva dato prova di iniziativa e di creatività a tutti i livelli; la sconfitta era stata determinata, secondo l’opinione di Gramsci, non da una presunta “incapacità” degli operai, bensì da quella dei loro dirigenti politici e sindacali. Una valutazione che di fatto annuncia la scissione e la nascita del Partito Comunista.

La vicenda dell’occupazione delle fabbriche ingenerò rabbia e frustrazione negli industriali, i quali, per quasi un mese, si erano visti spossessati dei propri stabilimenti, e che avevano dovuto alla fine accettare le richieste sindacali operaie, e alimentò i loro propositi di rivalsa, anche nei confronti del governo e dello stesso Stato liberale che (secondo loro) non li aveva sufficientemente tutelati; la classe operaia, invece, subì un contraccolpo psicologico di delusione e di scoraggiamento, in quanto aveva dovuto restituire agli industriali il possesso delle fabbriche senza ottenere alcun reale avanzamento politico. La conclusione della vicenda portò inoltre ad una crisi il Partito socialista, che si divise tra coloro che ritenevano opportuno continuare la lotta e i dirigenti che avevano accettato l’accordo.

In seguito, la pubblicistica del fascismo dipinse l’occupazione delle fabbriche come emblematica di un’epoca di profondo disordine, caratterizzata da gravi e massicce violenze operaie e dal pericolo incombente di una rivoluzione bolscevica, pericolo che, in Italia, sarebbe stato sventato – secondo questa interpretazione – solo dall’avvento al potere di Mussolini. Dopo la caduta del fascismo, più di uno storico ha invece negato che l’occupazione delle fabbriche potesse avere realmente la possibilità di costituire l’occasione di una rivoluzione proletaria vittoriosa.

Le elezioni amministrative del novembre 1920 e la fine del Biennio Rosso

Il Partito socialista italiano ottenne ancora un successo nelle elezioni generali amministrative che si tennero nell’ottobre e novembre del 1920, raggiungendo la maggioranza in 26 dei 69 consigli provinciali e in 2 022 comuni su 8 346; in particolare, la maggior parte delle amministrazioni comunali dell’Emilia e della Toscana furono conquistate dai socialisti. In questi centri i sindaci e gli amministratori socialisti poterono esercitare una serie di importanti funzioni, fra cui l’assistenza sociale, la riscossione e l’impiego dei tributi locali e la gestione dei beni di proprietà del comune.

Tuttavia i risultati elettorali del P.S.I. furono meno brillanti di quelli conseguiti nelle elezioni politiche del novembre 1919. Nelle elezioni amministrative del 1920 si verificò inoltre la tendenza dei partiti borghesi a coalizzarsi in funzione antisocialista, nei cosiddetti “blocchi nazionali” o “blocchi patriottici” che spesso comprendevano anche i fascisti. Ciò fu indice del crescente orientamento di certi settori della borghesia verso soluzioni apertamente anti-socialiste e autoritarie.

L’avversione della piccola borghesia verso i moti operai era stata alimentata, fra l’altro, dall’atteggiamento di ostilità del partito socialista nei confronti degli ufficiali delle forze armate; questi reduci furono spesso insultati per strada, in quanto ritenuti responsabili dello scoppio della guerra. Ad esempio Piero Operti, che nell’ottobre 1920 a Torino era insieme ad altri reduci degenti nel locale ospedale, riferisce di aver subito un’aggressione da parte di militanti socialisti; secondo il suo resoconto, le medaglie gli furono strappate e, gettate al suolo, gli furono calpestate. Benché gli episodi di questo tipo fossero in realtà meno gravi e meno frequenti di quanto affermasse la pubblicistica antisocialista dell’epoca, essi contribuirono potentemente ad alienare al P.S.I. le simpatie di vasti strati della piccola e media borghesia, da cui provenivano la gran parte degli ex ufficiali e sottufficiali.

Di fatto, verso la fine del 1920, dopo la conclusione della vicenda dell’occupazione delle fabbriche e dopo le elezioni amministrative, il movimento fascista, che fino ad allora aveva avuto un ruolo piuttosto marginale, iniziò la sua tumultuosa ascesa politica che fu caratterizzata dal ricorso massiccio e sistematico alle azioni squadristiche.

Un tentativo di quantificare i costi, in termini di vite umane, delle agitazioni del Biennio rosso fu compiuto da Gaetano Salvemini: questo storico, basandosi sulle cronache giornalistiche dell’epoca, calcolò in 65 le vittime complessive delle violenze operaie nel biennio, mentre nello stesso periodo 109 militanti di parte operaia morirono per mano delle forze dell’ordine durante scontri di piazza, e altri 22 furono uccisi da altre persone.

La repressione dei moti popolari fu particolarmente cruenta nelle campagne. Sicuramente l’episodio più efferato fu l’eccidio di Canneto Sabino in provincia di Rieti in cui restarono uccisi undici braccianti, tra cui due donne.

Si annunciava nel frattempo la convocazione del XVII Congresso del PSI, a Livorno, gennaio 1921.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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