“Ginetto, nato a Campocagna, cascina poco lontana da Travo. Partigiano”, lo ricorda il figlio, Domenico Lanfranchi

Ginetto Lanfranchi

Ginetto era il mio papà. Nato a Campocagna, una cascina poco lontana da Travo (PC), nell’ottobre del ’17, è il sesto figlio della famiglia (ma uno dei precedenti è morto in tenera età, per cui di fatto lui rimane il quinto), quando nasce è ancora in corso la grande guerra, Domenico, suo padre è stato richiamato alle armi, ma essendo un padre di famiglia quarantenne non viene inviato al fronte e presta servizio a Piacenza.Il primo giorno di scuola Ginetto scopre di chiamarsi Mario: quando il maestro fa l’appello chiama “Lanfranchi Mario” e nessuno risponde, allora chiede: “Chi è Lanfranchi?” “Io” risponde lui prontamente “E di nome come ti chiami?” “Ginetto” “Ma qui c’è scritto Mario” ribatte il maestro. Si scopre poi che Ginetto in chiesa è stato battezzato Luigi Mario, ma all’anagrafe è stato registrato come Mario Luigi, probabilmente il vicino incaricato di andare al municipio per denunciare la nascita, si è fermato ad ogni casolare ad annunciare il lieto evento e sicuramente ad ogni sosta gli hanno offerto un bicchiere di vino, con cinque o sei soste lungo il cammino chi ricorda più l’ordine giusto dei nomi? Quando Ginetto è in terza elementare il regime fascista fonda l’Opera Nazionale Balilla e tutti i bambini dagli otto anni in su sono invitati ad iscriversi. Ginetto non viene iscritto, non perché la famiglia sia antifascista, ma semplicemente perché non si può permettere la spesa dell’iscrizione e della divisa. Ogni tanto le scuole vengono visitate dal federale, che è un funzionario del partito fascista. Il federale sale in cattedra scorre l’elenco degli alunni e lo confronta con quello degli iscritti ai balilla, quando trova qualcuno non iscritto gli chiede il perché. Ginetto è stato preparato bene dalla famiglia e sa che cosa deve rispondere: “I miei dicono che se vado bene a scuola e vengo promosso con dei bei voti, come premio mi iscrivono ai balilla”, “Bene! – dice il federale – un motivo in più per impegnarti nello studio e prendere dei bei voti”. Appena a casa Ginetto deve aiutare nei lavori di casa e dei campi, per cui non riesce mai a prendere voti abbastanza belli per meritare l’iscrizione ai balilla. Qualcuno però ingenuamente ripete quello che ha sentito dire in casa: “Perché mio padre dice che i fascisti sono tutti furfanti e che non ci vuole avere a che fare”. Il federale tace e prende nota. Poche sere dopo il padre in questione, che esibisce un bel paio di baffoni a manubrio, viene aggredito mentre torna a casa, gli buttano un sacco in testa così non può vedere gli aggressori, lo riempiono di botte e gli strappano i peli dei baffi ad uno ad uno. È abbastanza fortunato da tornare a casa vivo.Finita la scuola elementare Ginetto deve aiutare sempre di più nei lavori dei campi. Il podere è piccolo (solo tre ettari di coltivo e tre ettari di bosco) e la famiglia cresce: nel 1922 nasce Giambattista, nel 1924 Telmo e nel 1928 Maria Teresa. Per sfamare tutte queste bocche, durante l’inverno Domenico organizza una sua squadra di segantini con cui va nella bassa pavese a squadrare tronchi per farne travi e tavole, appena diventa abbastanza grande anche Ginetto va con il papà. Dirà poi che il lavoro del “rësgott” (così viene chiamato in dialetto il segantino) è il più brutto del mondo: si lavora all’aperto al freddo e alle intemperie, bisogna essere molto attenti e precisi, si fa molta fatica e c’è sempre il pericolo di farsi male. Nel 1938 Ginetto viene chiamato alle armi per il servizio di leva e viene inquadrato nella Guardia alla frontiera, un corpo che ha un cappello come quello degli alpini, ma senza la penna nera. Quando il suo servizio militare dovrebbe finire, l’Italia entra in guerra e viene trattenuto sotto le armi. Prima lo mandano sul fronte occidentale, in trincea sulle Alpi con l’equipaggiamento estivo si ammala di pleurite, per cui viene ricoverato all’ospedale militare. Poi presta servizio al ponte tra Fiume e Susak al confine con la Jugoslavia. Nell’aprile del ’41 Italia e Germania attaccano la Jugoslavia e con lo scoppio delle ostilità la situazione si fa pericolosa. Al di là del ponte gli ustascia di Ante Pavelic hanno costituito, sotto il protettorato tedesco e italiano lo stato libero di Croazia, contro di loro prendono le armi i partigiani che ovviamente combattono anche contro chi li sostiene. Nei ricordi di Ginetto tutti quelli che si presentano al posto di confine si proclamano grandi amici degli italiani, ma non bisogna mai fidarsi, spesso il posto di frontiera viene fatto segno a colpi d’arma da fuoco. Non so se per un fatto del genere o per altro viene ferito. Curato all’ospedale militare viene mandato a casa in convalescenza. Si trova ancora in licenza di convalescenza quando viene raggiunto dalla notizia dell’armistizio. Non sa che cosa deve fare, più volte ripete nel corso della sua vita: “Non sapevamo niente, eravamo ignoranti come manzetti”, del resto che cosa deve sapere un contadino che ha cominciato a frequentare la scuola un anno dopo la marcia su Roma e che per vent’anni ha subito la propaganda martellante del regime? Siccome le licenze alla scadenza devono essere vidimate dai carabinieri, Ginetto inforca la sola bicicletta con il bollo (già perché il fascismo fa pagare il bollo anche per le biciclette, ma siccome i soldi sono pochi, la famiglia paga per una sola) e va a Rivergaro dal maresciallo dei carabinieri per chiedergli che cosa deve fare. Il maresciallo che si sta preparando a raggiungere le prime formazioni della resistenza, gli dice: “Io non ti ho visto e, se accetti un consiglio, fai meglio a non farti vedere in giro”. Nel giro di un paio di settimane, Mussolini viene liberato dai tedeschi e sotto la loro protezione dà vita alla repubblica sociale italiana. Vengono diramati proclami che obbligano tutti i giovani in età di leva ad arruolarsi con i fascisti, pena la fucilazione e rappresaglie sulla famiglia per chi non si presenta. Ginetto decide di non presentarsi e stare nascosto, se lo vanno a cercare, la famiglia dirà che è militare al confine con la Jugoslavia e che loro non ne sanno più nulla. La situazione però si fa sempre più difficile e stare soltanto nascosti diventa praticamente impossibile, bisogna schierarsi da una parte o dall’altra. Nell’agosto del ’44 Ginetto entra nel raggruppamento “Giustizia e Libertà”, comandato da Fausto Cossu, un ufficiale dei carabinieri. Della lotta partigiana racconta solo pochi episodi: tre giorni trascorsi con altri due nascosto in una buca del terreno con l’ingresso chiuso da un masso e i mongoli della divisione Turkestan accampati sopra la testa, il viaggio con una camionetta guidata da Otto Barattieri per andare a recuperare nel parmense un pezzo d’artiglieria paracadutato dagli alleati; Otto Barattieri è una figura mitica fra i partigiani del piacentino perché, catturato dai repubblichini, stava per essere fucilato nel cimitero di Travo, ma poco prima dell’esecuzione il comandante Fausto tramite una bambina fa avere un biglietto al comandante del plotone d’esecuzione: “Se fucilate Barattieri, noi fuciliamo il federale fascista che abbiamo appena catturato”, dopo pochi giorni, con la mediazione del parroco, avviene lo scambio di prigionieri. Un altro episodio è l’intervento, subito dopo la liberazione, per salvare dalla folla inferocita un cugino che si era arruolato con i fascisti: “Lo portiamo in prigione e sarà processato da un tribunale partigiano”, però quando la situazione si fa più tranquilla lo lasciano andare. Il ricordo più bello però è la sfilata per le strade di Piacenza liberata ai primi di maggio, Ginetto come tanti altri partigiani consegna la sua arma, che finisce in un grande mucchio in Piazza Cavalli. Per tutti gli anni successivi la festa della liberazione è per lui la festa più grande, perché non è soltanto la liberazione dell’Italia, ma anche il ritorno ad una vita normale, ripete spesso: “Il duce e il re mi hanno rubato gli anni più belli della vita”, la liberazione significa anche il tentativo di recuperare, almeno in parte, quegli anni rubati. Spesso ripete, riferendola alla liberazione, l’ultima strofa di un’ode manzoniana, imparata a memoria a scuola: O giornate del nostro riscatto dolente per sempre colui che da lunge dal labbro d’altrui come un uomo straniero le udràche ai suoi figli narrandole un giorno dovrà dir sospirando “Io non c’era” che la santa vittrice bandiera salutata quel dì non avrà.E lui che “la santa vittrice bandiera” quel giorno l’ha salutata, ripetendo quelle parole si commuove , dice in dialetto “me gh’era” e gli spunta una lacrima. Ciao Ginetto

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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