Gianni D’Amo, il mio Sessantotto a Piacenza, oggi come allora Resistenza ed opposizione


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A margine della mostra sul 68 piacentino immortalato nelle immagini di Prospero Cravedi, fotografo ufficiale del quotidiano cittadino "Libertà", chiusi i battenti dell’Urban Center da qualche giorno con un bilancio di oltre 10mila visitatori e la promessa speranza di realizzare un volume, dopo la testimonianza personale, quella di Carmelo Sciascia e il brevissimo flash di Cesare Zilocchi, un nuovo intervento utile per la riflessione: Gianni d’Amo, professore di filosofia, oggi consigliere in Consiglio Comunale per la lista di Città Comune, lista di alternativa ad un centro sinistra troppo attento allo sviluppo cementificato della città.

Oggi come allora resistenza ed opposizione
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Il mio Sessantotto allora. Credo sia onesto fornire preliminarmente almeno alcune coordinate su chi sia chi scrive. Nel 1968 avevo quindici anni e a fine-settembre partecipai alla contestazione (al cinema Iris di Piacenza) della proiezione del film "I berretti verdi" con John Wayne: parlava bene dei grandi soldati americani e male dei piccoli vietnamiti (parteggiare per Golìa contro Davide, roba da matti). Tutti si inneggiava a Giap e Ho chi minh, ma non capivo perché poi alcuni gridavano "Moro, Nenni servi Usa" e altri, invece, "Nenni, Longo servi Usa". Longo, Luigi, era allora il segretario del Pci, dopo Togliatti e prima di Berlinguer: fu questo il mio primo contatto con gli "extraparlamentari". C’era stato qualche parapiglia con la polizia, e io non sapevo come giustificare a casa la camicia strappata né come mascherarla (faceva ancora caldo e, per l’appunto, ero in maniche di camicia).
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Frequentai il liceo stando in un collegio diretto da un religioso: a scuola fuori (liceo statale), ma il resto della giornata e la notte in collegio. Era un luogo di osservazione privilegiato, perché vi convivevano centinaia di studenti delle medie superiori provenienti soprattutto dai luoghi più distanti della provincia. Tutte le sere, dopo la cena e prima dell’ultimo periodo di studio (20,30-22, poi tutti in camerata) si pregava in cappella e il prete ci invitava al quotidiano esame di coscienza. Qualche minuto di silenzio che non finiva mai… Una sera io lo feci a voce alta, l’esame di coscienza. "E’ andata male anche oggi", cominciai, "nel latte di stamattina come al solito c’era il bromuro (sedativo delle straripanti pulsioni sessuali da età e forzata convivenza ndr), nell’ora di svago non son riuscito a giocare né al pallone né a ping pong perché il ‘vice’ (un secondo prete più giovane, coi capelli rossi) lascia giocare solo i suoi cocchi…" Non so più dire come, ma in una manciata di secondi mi trovai a sentenziare che se era caduto il fascismo, poteva ben cambiare anche il regolamento del collegio. Anche altri parlarono: la preghiera collettiva divenne (ri-divenne?) un’assemblea.
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Il 13 dicembre 1969, il giorno dopo la strage di Piazza Fontana, alla prima ora avevo educazione fisica. Su una dura panca dello spogliatoio della palestra, in mutande, di fronte ai miei compagni di classe, mi sentivo sul banco degli imputati. Credevo davvero che "noi" avessimo messo una bomba in una banca affollata di gente. Noi chi? Noi: gli anarchici, i leninisti, i guevaristi… la mia identità era mutevole e confusa e il Comitato contro la strage di Stato sarebbe nato solo nella primavera successiva, nella fumosa sede di via Borghetto. Sentii per la prima volta, quella mattina, il freddo nelle ossa e la bocca dello stomaco che irrimediabilmente si chiude per tutto il giorno. Avrei imparato a riconoscerli prontamente – quei sintomi di una "malattia speciale", che era la politica – negli ultimi anni Settanta, soprattutto dopo l’assassinio di Moro e della sua scorta, quando arrivava pressochè quotidianamente lo stillicicio dei morti che andavano messi a nostro carico. E’ vero che io non avevo mai ucciso nessuno – molte botte date e prese, questo sì – e tuttavia se gli autori di quei delitti erano "compagni che sbagliano", non riuscivo a liberarmi della mia quota di senso di colpa. E stavo male, senza dirlo.
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Del 1970 ricordo il primo sciopero generale sulle pensioni. Erano giù, per la prima volta, anche le saracinesche dell’Upim, l’unico grande magazzino allora presente in città (oggi ci sono ipermercati venti-trenta volte più grandi). Gli operai in tuta, che avevano fatto il picchetto, discutevano animatamente con le commesse, nel mio ricordo particolarmente giovani e belle. In via XX Settembre, vicolo medievale coi negozi di lusso, pedonale già allora, scorrazzavano le jeep della polizia. Il compagno Massimo si distese a terra e una jeep dovette rumorosamente inchiodare in frenata, quando le parte anteriore gli stava già sopra. Massimo da trentanove anni lavora in banca, proprio come nella canzone. Ha due figli e l’anno prossimo andrà in pensione. Andava a lavorare con il maglione rosso, senza giacca e cravatta. Assunto in città, il giorno dopo la contestazione ad Almirante (campagna elettorale per le regionali del ‘70, le prime), venne trasferito nell’agenzia più lontana della provincia.
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Per tutti gli anni Settanta ho fatto il militante della sinistra exatraparlamentare a tempo pieno, ma gratis, sbarcando il lunario con lavoretti vari: del resto avevo bassissimi consumi e c’era sempre modo di mettersi in qualche casa in tre o quattro (anche se a volte era in dubbio se si trattasse di un’abitazione, di una sede politica, di una "stanza", cioè un luogo di incontri sessuali). Ho ricevuto e praticato totale disinteresse e momenti di reale generosità.
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Studente universitario di filosofia tra Pavia e Milano, non ho mai sentito una lezione (veramente una sì, di Diritto del lavoro a Parma, prof. Cessari, ma per motivi sentimentali). Se andavo all’Università era per pratiche burocratiche e a dare esami, oppure per le solite cose: volantini giornali assemblee firme sottoscrizioni… Quando nel 1977 mi mancavano tre esami, come altri allora, piantai tutto. Mi sembrava che laurearsi non avesse senso (l’avrei fatto otto anni dopo, avendo ricevuto una laconica lettera in cui mi si comunicava che se non avessi ripreso il corso di studi i miei diciotto esami sarebbero stati annullati).
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Il mio Sessantotto oggi. Faccio l’insegnante (storia e filosofia) e se dovessi mettere in mano ai miei studenti qualcosa sul Sessantotto opterei per il numero 33 di "Quaderni piacentini" (febbraio ‘68). Si apre con "Contro l’università. Cronaca dell’occupazione dell’università di Torino", di Guido Viale. Vi si può leggere: "Il prof. Guzzo, decano della Facoltà di Lettere, si è rifiutato di assegnare una volta un trenta ad uno studente perché lavorava: la filosofia è superiore a certe cose…". Segue la fenomenologia dell’esame. "Un poliziotto denominato per l’occasione docente… in 5-10 minuti liquida l’imputato con una serie di domande. Per gli studenti che frequentano, l’esame è una prova di abilità: bisogna conoscere la psicologia e i pallini del docente e compiere una serie di gesti che gli fanno credere che chi gli sta davanti è una persona intelligente e sicura (es. riversarsi contro la spalliera della seggiola mentre si parla, grattarsi il mento, sorridere a certe allusioni. (…) Una domanda molto chiara è suscettibile di diverse risposte, ma la psicologia selettiva del docente ne contempla una e una sola; inoltre le domande non sono per nulla chiare". Lascio immaginare in che difficoltà si venissero a trovare gli studenti non frequentanti. L’analisi di Viale si approfondisce. "La radice dell’autoritarismo, come tutte le forme di potere autoritario, non risiede soltanto in una serie di strutture istituzionali ed economiche, ma risiede soprattutto e in primo luogo nel consenso da parte di coloro che il potere lo subiscono (…). Lo strumento di controllo maggiore nelle mani dei professori, quello che dà valore a tutti gli altri ed è la vera base politica del loro potere accademico, è la collaborazione degli studenti".
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Nello stesso numero della rivista, Elvio Fachinelli allarga il quadro. "Il cartello di protesta che sovrasta tutti gli altri porta scritto: lotta alla repressione. Ora è chiaro che questa è diversa a Napoli e a Berlino, e Torino non è Madrid e neppure Berkeley. Ma dal momento che è un giovane, o un adolescente, che porta quel cartello, il discorso sulla repressione rimanda immediatamente all’autorità paterna". In realtà, considera Fachinelli, l’obiettivo "psicoanalitico" del movimento non è la funzione paterna in declino ("figure che si mostrano di ferro mentre sono di cartone"), ma quella sorta di madre-società avvolgente e pervasiva che ci offre cibo ma solo in cambio della dipendenza totale. "Ciò che sta dietro, per questi giovani (sottolineo questi) è una immagine o un fantasma di società che, mentre promette una sempre più completa liberazione dal bisogno, nello stesso tempo minaccia una perdita dell’identità personale. Cioè abbina una offerta di sicurezza immediata a una prospettiva inaccettabile: la perdita di sé come progetto e desiderio". Ho letto cose analoghe in Bauman trent’anni dopo. Lo dico perché penso che il Sessantotto sia stato anche, per qualche anno, un momento di sintesi alta della riflessione teorica dell’umanità su se stessa. Credo che ci siano pochi libri più illuminanti, per orientarsi nel presente, della Società dello spettacolo, che Guy Debord ha scritto oltre quarant’anni fa.
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Cosa mi manca. Penso oggi che il Sessantotto sia stato, sia pur a tratti, rozzamente, non sempre in modo consapevole, un tentativo pratico di ridisegnare una nuova carta dei diritti e dei doveri, prima che gli venissero imposti da un lato il leninismo nelle varie versioni operaista, maoista o stalinista (il mito della Rivoluzione), dall’altro l’industria del sesso, delle droghe, delle culture alternative (la realtà, che è sotto i nostri occhi, della produzione/consumo su larga scala di ogni tipo di mito). Il Sessantotto è stato da una parte modernizzazione e dall’altra liberalizzazione reale di relazioni umane. Senza il flusso continuo di immagini che documentavano, per esempio, le atrocità della guerra del Vietnam, non sarebbe stato possibile il suo essere un primo momento di globalizzazione (perché anche questo è stato). Il risultato, oggi, è quella che a me pare un’ipertrofìa delle comunicazioni di massa che produce più disinformazione che informazione: certamente una diffusa difficoltà nelle relazioni dirette, non mediate.
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Di quella stagione mi manca, da tanto tempo, ciò che si deve pur chiamare fraternità, che non è un diritto, ma una pratica, che dà un sapore diverso anche all’uguaglianza. E unico antidoto, mi pare, alla capacità del capitale di assorbire ogni cosa, di "stravolgere le nostre parole d’ordine", per dirla con Brecht, "fino a renderle irriconoscibili".
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Una manifestazione a Piacenza nel 1968: la foto fa parte della mostra di Prospero Cravedi all’Urban Center ed è stata pubblicata dal quotidiano locale Libertà il 39 maggio 2009


Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

10 Risposte a “Gianni D’Amo, il mio Sessantotto a Piacenza, oggi come allora Resistenza ed opposizione”

  1. Non penso che i libri di un prete da Lei presentato c'entrino col sessantotto. Piacenza non ha mai fatto testo se non con i Quaderni piacentini perchè l'unico che poteva avere le credenziali non ha mai aderito al PCd'I(m-l) cioè l'avvocato massone Doro Lanza.
    firmato Osvaldo Pesce

  2. Non penso che sia plausibile scrivere in anonimato, siete subdoli e capziosi come gesuiti e la versione storica di D'Amo è da favola per bambini deficienti come siete a Piacenza: il 68 è stato proprio l'involuzione di cià che doveva essere e quindi che rimanga nell'oblio altrimenti la storia andrebbe all'indietro.

  3. Mi piacerebbe leggere la sua tesi, professore.Perchè forse si dimostrerebbe la validità di ciò che diceva di Lei il partigiano Angelo Cassinera:"Due calci nei coglioni a incontrarlo per strada non glieli leva nessuno".
    Io e Rossano e Lei voleva sfruttare il partito come una famiglia; io mi sposavo e Lei, cacciato da Mauro Sbuttoni, voleva venire ad abitare con Luigi e CRistina così magari si chiava anche quella brutta troia gesuita rovina famiglia e rovina partito solo per opportunismo di una puttana che si voleva spacciare filo-marxista, ebrea col naso da ebrea ed ora referente sanitaria stile dott.Menghele.Il partito a Piacenza come il '68 ve lo siete sognato vista la situazione da induzione al reato tenuta dalla compagine clerico-fascista, giudiziaria e poliziesca di una città che deve fare la fine di una carthago delenda esse.
    dr.LUigi Freschi

  4. Prof.Gianni D'Amo Lei fa letteralmente schifo! Non una parola sul PCd'I che ti pagava saporitamente-300.000 al mese- cosa che poi tu lasciasti per distruggerlo nel 1983, tanto Piacenza non ha mai fatto testo come confermano i fondatori come Osvaldo Pesce di cui basterebbe il cognome per sapere da parte proviene la testimonianza storica non la Sua del tutto personale da psicologia non da chi ha vissuto il '68 che del resto se c'è stato a Piacenza non per merito Suo ma per demerito Suo e di quell'altro bandito Buttafava, un altro poveretto.
    Il marxismo non sta di casa a Piacenza e neppure a casa Sua viste le conferenze su un libro di un prete…
    Ed il sottoscritto, gli errori di aver sposato addirittura in chiesa una vera e propria troia fascista di famiglia fascista, li ha commessi sull'ignoranza e la mancanza di informazione antifascista: la famiglia Prati ha ospitato il boia Tassi camicia nera anche nel Parlamento della Repubblica mentre il padre era in Ispagna: avrei dovuto lasciare strozzare la suocera nel 1982 quando a Vallera un autista di corriera scese letteralmente dalla corriera e si avventò per strozzarla, perchè sicuramente si ricordava la puttana fascista e falsa che è.Ma io nel silenzio di conniventi con la reazione più nera piacentina, non sapevo nulla e come Lei ho risolto con 'l'amore': l'amore una sega!!!
    dr.Luigi Freschi

  5. Gianni D'Amo non stai facendo la campagna elettorale, stai solo menando il can per l'aia.La situazione è del tutto diversa e non abbiamo bisogno di professori, abbiamo bisogno di persone serie e non pagliacci da circo di cui l'Italia è già piena.
    I problemi sono proprio tutti legati alla 'terza via' seguita in Emilia-Romagna, vedi il libro del 2007 di Brunetta sui termini economici delle COOP che controllano tutto e non pagano nè i lavoratori nè le tasse.
    Mi spiace che Ferruccio Braibanti sia stato al tuo fianco nella presentazione del libro di un prete, illustre sconosciuto.
    L'amore di cui parli è la versione laica dell'oppio dei popoli; non ti accorgi che è una farsa come la tragedia della I° GUerra Mondiale quando i medici  dovettere rimettere in sesto la popolazione falcidiata dalla guerra?
    La situazione non è affatto come il '68 ma come la Caporetto e continuerà per decenni con l'ecatombe di milioni di proletari e col debito pubblico.
    Ma non hai fatto la tesi su mARX? Forse intendevi i Fratelli Marx?
    Luigi Freschi

  6. Ma non vedete che Piacenza è una caserma con la ronda che spia anche la Biblioteca?

  7. Questo blog è così bello, ero felice di leggerlo. Infatti ho letto due volte perché mi è piaciuto molto e voglio fare un blog come questo, con il design ei colori che ho amato. Non credo di voler copiare le vostre idee, io voglio solo prenderlo come un campione, perché questo blog è impressionante. MOLTO BUONA.

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