Lasciata Lecco di buon ora (poco dopo le 10) ci dirigiamo verso Monza, da dove potremo prendere la Superstrada che ci porterà nella nostra Piacenza. Ma d’improvviso un bivio, una indicazione segnaletica e allora, “Che cos’è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d’occhio e velocità d’esecuzione“. Insomma, un pensiero, un attimo, una deviazione e la vacanza si guadagna una giunta. “Andiamo a mangiare in quel ristorante dove c’eravamo fermati anni fa, a bordo lago, poco dopo Como“. Basta girare leggermente il volante ed ecco fatto. Civate, Pusiano, Erba, Albavilla, Albese, Tavernerio, Lipomo, Como, poco più di 30 km percorsi in mezz’ora circa, il tempo di ricordare un soggiorno di qualche anno fa, la funicolare che porta a Brunate, il lago, i giardini di Villa Olmo dove avevamo visitato una mostra d’arte e il viaggio prosegue verso nord.
Cernobbio, Rovenna, Moltrasio che già fanno altri bei 10 km: dove s’è cacciato quello splendido ristorante a riva lago? Curate Urio, Laglio, Torriggia, Brienno, “giuro il ristorante deve essere qui!” Ma del ristorante, nessuna traccia o perlomeno a noi si nega. “Come si chiama?” “Aveva un nome che ricordava i platani“, ricorda Dalila ma per noi asfalto che segue asfalto, case, ville, paesini, il lago con i suoi battelli, i suoi cigni, i bagnanti, le signore sdraiate a prendere il sole. Ristoranti a bordo lago manco l’ombra, neppure come miraggio.
Argegno, Colonno, Sala Comacina, Lenno, Bonzanigo, Tramezzo, Cadenabbio, Griante, Menaggio, Nobiallo, Rezzonico, Prato, Calozzo, Musso, Giardino del Merlo ed effettivamente ci sentiamo due merlotti: col colpo di genio della deviazione subito dopo Lecco, ci siamo scofanati 75 km ovvero circa 35 aggiuntivi dopo aver mancato completamente la meta fissata e agognata ma, in fondo, niente di male. Entriamo in galleria e, all’uscita, ecco Dongo!
Parcheggiamo, ammiriamo il porto, il panorama del lago, controlliamo l’ora sul cellulare (gli orologi ormai sono demodé, lontani i tempi di quando Gianni Agnelli faceva l’originale e lo portava sopra al polsino della camicia e tutti a mormorare ammirati: se lo facevo io, ero un cretino. Potenza del conto in banca). Sono le 13.30 passate ma nessun problema, ci giriamo spostando lo sguardo dall’acque del lago al paese ed ecco l’albergo ristorante sito in Dongo dal nome geniale, Albergo Dongo. La fantasia, l’immaginazione e l’inventiva al potere.
Placato quel languorino che, al profumo in libera uscita dalla cucina del ristorante, ricordava la necessità di sedere ad un tavolo per mettere a tacere il brontolar dello stomaco, inevitabile la visita al Museo della Fine della Guerra. Qui, all’altezza della piazza Rubini, il 27 aprile 1945 venne catturato dai partigiani il Duce in fuga da Milano verso la Valtellina; fu ucciso nella frazione di Giulino nell’ex comune di Mezzegra, il giorno seguente.
Mussolone Mascellone, gran capo del fascismo, era giunto a Como il 25 aprile, considerando che la città lariana rappresentava una meta che offriva diverse possibilità: anzitutto la limitata presenza partigiana era motivo di sicurezza. Qui era possibile trovare un rifugio sicuro e appartato e nascondersi sino a quando gli Alleati, al loro arrivo, avrebbero scoperto il nascondiglio: sarebbe quindi stato possibile consegnarsi loro con garanzie; questo era l’obiettivo principale. In alternativa, Como costituiva anche un punto di passaggio per raggiungere la Valtellina dove già da alcune settimane Alessandro Pavolini prospettava di costituire un estremo baluardo di resistenza, il Ridotto Alpino Repubblicano, e dove erano affluiti tremila uomini del generale Onori ed erano attesi ancora mille uomini del maggiore Vanna. Ancora, sembrava possibile costituire un estremo baluardo di difesa proprio nella città lariana, facendo convergere su di essa tutte le forze residue e resistere a oltranza per trattare poi in extremis con gli Alleati al loro arrivo. In effetti a Como si concentrarono numerose formazioni provenienti dalle zone circostanti. L’afflusso durò tutta la notte e parte della mattinata. Alcune fonti parlano di quarantamila fascisti, mentre Giorgio Bocca riduce il numero dei militi a soli 6.000-7.000 uomini che, peraltro in giornata, si dispersero dopo che il Duce decise di congedarli.
Dopo ore di febbrili trattative e riunioni per valutare il da farsi, giudicata Como indifendibile, nella notte del 26 aprile il Duce con una colonna di ministri e gerarchi fascisti, lasciò la città arrivando a Menaggio per poi proseguire fino a Cardano, piccola frazione di Grandola ed Uniti, dove peraltro lo raggiunse Claretta Petacci. Nel frattempo Milano veniva liberata e giungeva notizia di molti arresti in corso. Il Duce decise quindi di tornare a Menaggio dove il gruppo dei fascisti incrociò un convoglio militare tedesco composto da trentotto autocarri e da circa 200 soldati, decidendo di aggregarsi.
Il convoglio, lungo un chilometro, ripartì nella notte del 27 aprile ma alle sette, appena fuori dall’abitato di Musso, fu fermato a un posto di blocco delle Brigate Garibaldi; dopo una breve sparatoria, e in seguito a lunghe trattative, i tedeschi ottennero il permesso di proseguire a condizione che si effettuasse un’ispezione, e che fossero consegnati tutti gli italiani presenti nel convoglio, nel sospetto che vi fosse il Duce con qualche gerarca in fuga. Mussolini indossò un cappotto e un elmetto da sottufficiale della Wehrmacht, si finse ubriaco e salì sul camion numero 34 occultandosi in fondo al pianale, vicino alla cabina di guida, ricoperto da una coperta militare. A nessun altro italiano fu concesso di tentare di seguire nascostamente Mussolini nel convoglio.
Verso le ore 16 del 27 aprile, durante l’ispezione della colonna tedesca in piazza a Dongo, Mussolini fu riconosciuto dal partigiano Giuseppe Negri sotto una panca del camion n. 34. Fu prontamente disarmato del mitra e di una pistola, arrestato e preso in consegna dal vicecommissario di brigata Urbano Lazzaro “Bill”. A questo punto occorre ricordare che già il 25 aprile il CLNAI, riunitosi a Milano, aveva approvato un Decreto per l’amministrazione della giustizia ove, all’art. 5 si prevedeva che: “i membri del governo fascista e i gerarchi fascisti colpevoli di aver contribuito alla soppressione delle garanzie costituzionali, d’aver distrutto le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesso e tradito le sorti del paese e di averlo condotto all’attuale catastrofe, sono puniti con la pena di morte e, nei casi meno gravi con l’ergastolo”.
Di converso, la clausola numero 29 dell’armistizio lungo siglato a Malta da Eisenhower e dal maresciallo d’Italia Pietro Badoglio il 29 settembre 1943, prevedeva espressamente che: “Benito Mussolini, i suoi principali associati fascisti e tutte le persone sospette di aver commesso delitti di guerra o reati analoghi, i cui nomi si trovino sugli elenchi che verranno comunicati dalle Nazioni Unite e che ora o in avvenire si trovino in territorio controllato dal Comando militare alleato o dal Governo italiano, saranno immediatamente arrestati e consegnati alle Forze delle Nazioni Unite“.
Tuttavia, non appena a conoscenza dell’arresto dell’ex capo del governo, il Comitato insurrezionale di Milano formato da Pertini, Valiani, Sereni e Longo, riunitosi alle ore 23:00 del giorno 27, decise di agire senza indugio e di inviare una missione a Como onde procedere all’esecuzione di Mussolini.
28 aprile 1945, ore 16.10, mentre gli americani stavano arrivando in zona proprio per farsi consegnare il Duce, i tre rappresentanti del CLNAI eseguono la sentenza. Il colonnello Valerio recita la formula di rito “Per ordine del Comando Generale del Corpo Volontari della Libertà sono incaricato di rendere giustizia al popolo italiano” ed è poi sempre suo il compito di sparare una raffica di mitra francese MAS 38, calibro 7,65 lungo che pone fine alla vita del Duce e ad una guerra sbagliata e comunque estranea agli italiani che aveva ridotto il Paese alla rovina e il popolo alla fame.
Non è facile, a questo punto, riprendere il filo del viaggio vacanziero anche considerando i tempi che stiamo vivendo, governati da una politica che sembra aver dimenticato i valori di quella Liberazione e della successiva Costituzione, base della Repubblica. Oltretutto con una sorpresa: anche qui, come già successo alla Villa Manzoni di Lecco, praticamente niente bookshop. Le ragazze della biglietteria ci spiegano che, con la pandemia, è scaduto il contratto con la società che aveva il servizio in appalto e forse con il prossimo anno, se ancora il movimento turistico ‘tiene’, potremo trovare di nuovo guide storiche e guide turistiche dedicate al Lario e ai suoi paesi testimoni delle lotte partigiane. Ovviamente, Meloni e Salvini e Berluscone permettendo.
Con questo la vacanza sul Lario scrive la parola fine ma ancora bisogna tornare a Lecco. Altri 56 km ma attenzione: passando attraverso 21 tratti di strada in gallerie lunghe spesso oltre i 2 km ed anche questa è un’esperienza che intanto preclude ogni speranza di ammirare i favolosi panorami della zona e poi… e poi … beh, e poi anche questo sembra un simbolo del ritorno alla vita quotidiana di sempre. A Dongo la guerra è finita e a Dongo finisce la vacanza. Si ritorna a casa.