“E chiamiamo chi può aiutarci…” intervento di Carmelo Sciascia: bisogna invocare un Santo per far cessare la follia della guerra

Ad Agrigento si invoca San Calogero, a Piacenza Sant’Antonino, per far cessare la follia della guerra

E chiamamu a cu n’aiuta, evviva San Calò

Di gente di colore che continua a sbarcare nelle coste siciliane ce ne sono stati tanti nel corso dei secoli e tanti continuano ad essercene. In fondo separa l’Europa dal continente africano solo una piccola striscia di mare. Se poi consideriamo la vicinanza delle piccole e sperdute isole di Lampedusa e Linosa la distanza è veramente poca. La diaspora africana trova oggi ad Agrigento un momento di vero e proprio riscatto. Non sono gli immigrati a chiedere aiuto agli autoctoni isolani ma i siciliani a chiedere ad un santo di colore di intercedere per potere vedere esaudite le loro richieste: “E chiamamu a cu n’aiuta, evviva San Calò”. Questo ritornello ritma in vernacolo l’attesa dell’uscita della vara del Santo. Una voce solitaria tra la folla nel sagrato del Santuario grida a squarciagola: “Invochiamo chi ci può aiutare” e pronto completa il coro dei fedeli all’unisono: “evviva San Calò”. San Calogero, un Santo di colore viene venerato qui ad Agrigento, il patrono è San Gerlando ma, a testimoniare la religiosità popolare, il più festeggiato è San Calogero. Lo stesso Santo si festeggia in tante altre città, per rimanere in ambito provinciale ricordiamo la barocca Naro e la titolata Sciacca. San Calogero, vecchio saggio stando all’etimologia greca, proveniente dalla Calcedonia morirà sul Monte Kronio nel 561. Ogni qualvolta si scrive di santi si sa dove si inizia ma non dove si va a parare, spesso la leggenda e la storia si inseguono e si alternano vicendevolmente in una gara senza né vinti né vincitori. Di sicuro era un anacoreta, l’appellativo infatti di buon (o bel) vecchio era attribuito a chi viveva in luoghi solitari ed in grotte. Un monaco sapiente (è rappresentato con un libro aperto in mano) che sicuramente conosceva le proprietà taumaturgiche delle erbe (e quindi invocato come guaritore, di uomini e di animali: l’agiografia prevede la presenza di un cervo).

Questo si è verificato stamattina a mezzogiorno ad Agrigento, città dove le manifestazioni religiose sono espressione di totale e mistica partecipazione, dove i propositi devozionali risultano essere inversamente proporzionali alla realtà fattuale. Non è un caso che per raggiungere la città della pirandelliana Girgenti si incontra la stele dedicata ad un giudice, un giudice ragazzino che per fare onestamente e caparbiamente il suo lavoro è stato ucciso, e perciò beatificato.

Solo un miracolo potrebbe smuovere un territorio immobile che troviamo tra gli ultimi posti nelle graduatorie nazionali dettate da parametri economici e sociali. “E chiamamu a cu n’aiuta, evviva San Calò”. Veramente, ora e sempre, solo l’intervento di un Santo potrebbe risollevare le sorti e dare speranza al sempre invocato cambiamento. Finalmente dopo gli anni di silenzio dettato dalla pandemia, la festa si è potuta svolgere nel frastuono che l’occasione prevede ed impone. Il rullo dei tamburi è continuo e progressivo. La gente attende l’uscita del Santo dalla chiesa sotto un sole che violenta persone e paesaggio. La banda ritma bene l’attesa, rievoca Pamplona, la festa di San Firmino. Cambiano i colori, qui domina il bianco ed il nero: tanti i bambini in abito bianco con cordone nero. La gente va scalza come segno di devozione: per grazia ricevuta o per 7ricevere una grazia.  Il grido che continua a scandire, nel sagrato del Santuario, l’attesa del Santo diventa un’invocazione collettiva, non riguarda una semplice manifestazione di fede. “E chiamamu a cu n’aiuta”: finalmente la statua del Santo nero, incappucciato e con il suo nero mantello, colpita dai luminosi raggi del sole si impone sulla folla estasiata che freneticamente applaude.  La vara, barcollante per i movimenti dei portatori, ondeggia, sembra volere andare dall’una all’altra parte, mentre in realtà inizia a salire la rampa di scale che la separa dalla via principale. Piccoli panini benedetti diventano trofei distribuiti alla folla e in segno di devozione vengono portati a casa come sante reliquie. Si lanciavano al Santo, una volta: il pane era il riconoscimento collettivo dell’opera caritatevole di San Calogero.

Si saliva perfino sulla vara per baciare il santo, una volta. Adesso ci si accontenta di guardarlo con commossa partecipazione. Agrigento, una città dove tutto si mischia e si confonde. Dove non si riesce mai a tirare per il verso giusto il filo della matassa. Agrigento è la città che ha ispirato Pirandello a parlare di follia, follia che a ben vedere non è solo quella letteraria: Il sole dà alla testa, ed oggi di sole ce n’è tanto, non solo in questa periferica regione europea ma ovunque nel mondo.

Oggi c’è da invocare l’intervento salvifico di San Calogero ad Agrigento, come di Sant’Antonino a Piacenza per far cessare una devastante follia, la follia della guerra. Considerato che qualsiasi argomento finora è risultato inutile, e si pensa addirittura di giungere alla pace armando i popoli, ricordiamoci a proposito della guerra in Ucraina una frase di Erasmo da Rotterdam: “Se metti su una bilancia da una parte i vantaggi e dall’altra gli svantaggi, ti accorgi che una pace iniqua è molto meglio di una guerra equa”.

Nonostante tutto e malgrado tutto, la festa continua: ci saranno i fuochi d’artificio, continueranno le processioni, si distribuirà ancora del pane.

Per tutta una settimana si è ricordata ad Agrigento la figura di un Santo di colore che non conosceva le frontiere tra Paesi ed i confini dei continenti, e per questo invochiamo, anche da non credenti, chi potrebbe aiutarci a portare la pace (non essendoci nessun politico cui rivolgersi, non rimane che rivolgersi ai Santi).

E chiamamu a cu n’aiuta, evviva San Calò

Fonte: IlPiacenza.it

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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