Diana Medri, nata nel 1989 a Krasnopole, 300 chilometri a nord di Chernobyl, adottata da una famiglia italiana dopo la morte dei genitori avvelenati dall’esposizione alle radiazioni, giovedi 13, dalle ore 21, in occasione della presentazione a Gragnano Trebbiense, in Biblioteca, de “Il soffio del vento – Da Chernobyl a Caorso trent’anni dopo” di Claudio Arzani, porterà testimonianza per condividere l’amore per “una terra che era bellissima” e il ricordo di “una primavera calda e profumata“.
26 aprile 1986, Diana era ancora nei sogni di mamma e papà quando nella centrale nucleare ‘V.I. Lenin’ di Chernobyl la tragedia inarrestabile segna il destino di almeno 8.400.000 abitanti: esplosioni devastano il reattore n. 4, provocando l’espulsione in aria di materiale radioattivo. Spira un forte vento. La nube radioattiva contamina vaste aree di territorio dell’ex Unione Sovietica, quindi devia verso l’Europa occidentale.
Fiamme altissime illuminano tutto il paese di Pripyat’. E’ allarme per tutti… i pompieri si preparano, vanno a fare il loro dovere, correndo a spegnere il fuoco. Senza la tuta adatta, senza nessuna protezione e soprattutto senza sapere a che cosa stavano andando incontro.
Arrivarono più di mille pullman per evacuare gli abitanti con i cani che correvano abbaiando richiamando i padroni che li salutavano. Pochi giorni dopo i “liquidatori” spareranno ad ogni animale. Pochi mesi dopo, i primi morti e la causa è sempre la stessa: tumori, leucemia.
La situazione era diventata inverosimile, racconta Diana. I bambini giocavano in mezzo al fango, senza pensare che qualcosa potesse danneggiare la loro vita, in fin dei conti sono solo dei bambini, e poi all’improvviso si ritrovano elicotteri sopra le teste, dai quali scendevano degli scienziati stranieri negli scafandri; muti, senza pronunciare una parola, senza dire la verità.
Le pozzanghere sono diventate all’improvviso gialle, gente che lavorava lì, nei dintorni balzava fuori dalle macchine vomitando, perché non si respirava, perché tutto il corpo era bruciato. Quella catastrofe provocata dall’uomo ha portato lacrime, paura, disperazione, morte.
Attualmente non c’è più nulla. Le città come Pripyat’, Grondo e molte altre sono vuote e desertiche. Solo la vegetazione ha deciso di farsi padrona e di occupare quella terra, per renderla – almeno un po’ – meno desolata.
Per molti anni siamo stati i “bambini chernobyliani”, ha dichiarato Diana al sito www.vita.it, bambini di cui avere paura, da cui stare lontani. C’erano anche quelli che ci mettevano al buio per vedere se ci illuminavamo; oggi questa frase fa sorridere, allora per noi era una pena dolorosa. Eravamo uno spettacolo da circo.
I paesi europei si sono mossi immediatamente e fin da subito sono nate le associazioni che ancora oggi ospitano i “bambini di Chernobyl”. Perchè la terra, a trent’anni di distanza, è ancora inquinata e per un bambino un mese di accoglienza in Italia significa recuperare due anni di tranquillità, fino a 18 anni, quando tutte le difese immunitarie sono ormai sviluppate.
Io, dice ancora Diana, ero uno di questi bambini, che però ha avuto una seconda chance; nella mia fine ho trovato il mio inizio e sono stata adottata da una famiglia italiana. Dalla MIA famiglia.