“Medicina narrativa e polmonite interstiziale covid 19: una storia a lieto fine”: il poster ammesso al Congresso nazionale SIMFER

Gli autori del poster: Ercole Zanotti, Roberto Antenucci, Rodolfo Massimiliano Murgia, Patrizia Bibbò, Anna Cassio, Maria Paola Gruppi, [equipe medica UOSD Riabilitazione Respiratoria, equipe UOSD Medicina Riabilitativa, P.O. Castel San Giovanni], Claudio Arzani [Direzione amministrativa Rete Ospedaliera] Ausl Piacenza

Oggi inizia (in digitale) il Congresso Nazionale SIMFER, Società Italiana di Medicina Fisica e Riabilitativa. Tra i documenti ammessi, il poster che riproduco al quale ho contribuito nella mia veste di (ex) Direttore Direzione Amministrativo Rete Ospedaliera dell’Ausl di Piacenza (oltrechè giornalista pubblicista). Il testo risulta ridotto per necessità di spazio tipografico. Riproduco pertanto il testo integrale del racconto originale. Il mio contributo nasce dall’interesse e dalla condivisione del concetto di “Medicina Narrativa“, ovvero un approccio che va oltre la cura clinica, analizza i vissuti del paziente, la sua sofferenza, le sue speranze, la sua relazione col percorso di cura. Così acquistano importanza ascolto, condivisione ed empatia.

Era il 22 marzo, ore 22.30, non respiravo. Mia moglie, spaventatissima, ha chiamato il 118, arriva ‘ululante’ un’ambulanza, ferma davanti al portone del condominio. Nel frattempo mi riprendo, l’infermiere dice d’essere stato mio allievo ai tempi del corso di laurea ma bardato com’è stile disastro nucleare a Chernobyl, non posso certo riconoscerlo. Mi provano lo stato della saturazione e il verdetto è uno solo: via immediatamente, destinazione il pronto soccorso. Salgo sull’ambulanza e forse perdo coscienza o forse la mia mente abbassa la saracinesca, rifiuta i ricordi. In seguito saranno i miei figli a raccontarmi. Malattie Infettive, Rianimazione a Piacenza, intubato, tracheostomizzato, Terapia Intensiva a Castel San Giovanni. Vivo in una realtà parallela fatta di sogni. Tra i tanti: sono una cellula immersa in un liquido amniotico, non voglio e non posso morire, ho dei progetti da portare a buon fine, delle cose da realizzare, il 1° maggio è previsto sia il mio ultimo giorno da dipendente, non voglio superare il confine che mi separa dall’Altrove. Così fino al 24 aprile. Mi risveglio, nel sogno esco dal liquido amniotico, mi ritrovo sommerso in un lago, ne esco. Reparto di Riabilitazione, Castel San Giovanni. Immobile a letto, con l’ossigeno, muscolatura azzerata, spondine alzate per non cadere, una piaga da decubito da far paura, lesione alla corda vocale e alla laringe, niente voce, piedi insensibili, barba tagliata mal tenuta. Il medico pneumologo sostiene che il quadro clinico non è malaccio, riflette se lasciarmi da subito senza ossigeno. Infermiere in giacca blu e bardatura postnucleare e operatori socio sanitari con mascherina, guanti, casco, grembiule (devono soffrire un caldo torrido) mi accudiscono, una di loro mi fa la barba, nel tempo mi lavano poi mi faranno la doccia quando, settimane dopo, riuscirò a raggiungere (assistito e aiutato) il bagno. Ci vuole forza, ho bisogno di assistenza per ogni necessità, inizialmente mi sento umiliato ma loro sono gentilissimi, attenti all’aspetto umano (un oss, Marco di Seminò, mi offre un buon caffè fatto con la moka, un’infermiera, Paola, nel giorno del pensionamento, il 2 maggio, mi offre un sorbetto al limone). Questo mi aiuta, mi strappa sorrisi, mi rassegno al tempo che passa e mi tranquillizzo. Mangio, cibi ‘molli’ e di gola una mousse che mi crea qualche disturbo intestinale. Dovrò lasciarla perdere. Del resto non posso lasciarmi andare, nessuna depressione, ripeto, ho progetti da realizzare, solo momentaneamente rinviati non certo per mia volontà. Vedo altri pazienti passare in corridoio, chi con deambulatore, chi camminando relativamente in scioltezza. In genere assistiti dai terapisti della riabilitazione. Arriva anche il mio turno a maggio avazato, finalmente col deambulatore mi fanno uscire nel corridoio. Inciampo. Tragedia. Nel pomeriggio altri tre pazienti inciampano, mi sento riabilitato. Nella stanza dopo la mia una donna non ce la fa, la portano in un locale dove, mi raccontano, non possono far altro che prepararla per l’ultimo viaggio, chiusa in un sacco nero. Tutta la corsia s’avvolge nel silenzio. Passa un sacerdote, anche la sua presenza è un valido supporto. A Piacenza, mi dicono, non passa neanche il prete. Sono terribili i sabati e le domeniche, i turni del personale sono ridotti, sono tante le ore senza nulla da fare, il tempo non passa mai. La dottoressa in accordo con la terapista mi fa conoscere le ‘molle di codevilla’, mi serviranno, una volta dimesso, per sostenere le mie gambe e per ovviare ai nervi spe ‘dormienti’ forse, dice la neurologa, per sempre. Voglio uscire, andare a casa, tornare dai miei, da mia moglie che, a maggio avanzato, scoprirò, senza una corretta consapevolezza della situazione, a sua volta ricoverata in quella notte, alle 5.00 del 23 marzo. La sento col cellulare, per fortuna. La prima volta, poco dopo Pasqua, in videochiamata con il cellulare messo a disposizione da un’infermiera, piange ed io non capisco perchè. Ripristinato il mio cellulare, quotidianamente, mi sostiene. E finalmente arriva ‘la liberazione’. 17 giugno, 88 giorni ‘dopo’. Un’ambulanza della Pubblica Assistenza mi porta a casa, di vista conosco i due volontari presenti, chiacchieriamo. L’assistenza dal punto di vista umano è fondamentale. Entro in casa sulla carrozzina, sono commosso e felice.  Peso 70 kg, come quando ero militare sotto naja ed avevo 20 anni, era il 1974. La notte del 22 marzo pesavo 94 kg.! Irriconoscibile. Oltretutto ‘scopro’ la mascherina e l’obbligo di portarla, mi raccontano di lockdown, di isolamento in casa. Quello è passato ma non è finita. L’essere a casa è importante, ho il supporto di mia moglie che mi assiste in tutto e per tutto, nel lavarmi, nel preparare manicaretti in base ad una dieta apposita, nel sostenermi (anche fisicamente per piccoli spostamenti dal letto). Per fortuna l’asl mi garantisce, oltre al materasso antidecubito, alla carrozzina, alle stampelle, al deambulatore, assistenza domiciliare infermieristica per le medicazioni oltre alla presenza di due fisioterapiste che, fino a fine agosto, mi supportano nel parziale recupero muscolare e della possibilità di movimento prima col deambulatore (a luglio avanzato la prima uscita all’esterno), poi con le stampelle. Da settembre eccomi in palestra sempre asl per esercizi ed elettrostimolazione 5 giorni su 5 e, a fine ottobre, cammino con solo un ‘semplice’ bastone, i piedi mostrano segni di recupero, di movimento, la piaga da decubito è ridotta ai minimi termini. Sono passati sette mesi. Di pratiche da sbrigare, la dichiarazione di invalidità (temporanea, per 18 mesi, poi si vedrà, come sarà sarà) da parte dell’apposita commissione, ‘la 104’, i rapporti con il patronato per INAIL e riconoscimento Infortunio sul lavoro, il permesso per circolare assistito in auto (naturalmente non sono in grado di guidare), l’esenzione dal pagamento del bollo auto e ancora i tanti controlli medici (senza riuscire ad entrare nei programmi di assistenza dell’ambulatorio post covid aperto a Castel San Giovanni). Si parla di danno biologico permanente. Buoni i risultati delle verifiche oculistiche, otorino, diabetologiche, radiologiche (Tac polmonare), cardiologiche, esami del sangue inclusi. Ottimo supporto dal medico di base molto disponibile (una professionista scelta dopo aver cambiato – all’indomani della dimissione ospedaliera – la precedente poco o per nulla incline alla dovuta assistenza domiciliare), rinvio al nuovo anno per visita pneumologica e spirometria. Ma verrà Natale e forse potrò camminare senza tutori, senza molle di Codevilla. Intanto, andando in libreria, la ragazza che ben ci conosce dice che io e mia moglie siamo un esempio di forza, un messaggio vivente, un invito a non sottovalutare il virus, ad essere prudenti, a non lasciarsi andare comunque. I miei figli, con mogli e nipotine mi sono stati vicini, al mio rientro in casa uno dei due ha ricordato la notte nella quale il suo cellulare ha squillato. Era una dottoressa dell’ospedale che, piangendo, comunicava che non ce la facevano, mi stavano perdendo, non avrei visto l’alba e l’intera famiglia rimase col fiato sospeso, attonita. Pochi giorni fa erano tutti a casa nostra a pranzo. L’altro figlio ha rilevato che “siamo stati fortunati, abbiamo avuto un’opportunità in più, altro tempo per vivere insieme“.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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