"Boia d'un popolo ladro", urlò il borghese benestante derubato (racconto di Claudio Arzani)


Ladro (Falso d’autore su opera di Fernando Botero)
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Un vezzo, una curiosità che lo aveva accompagnato per tutta la vita. Scoprire le origini più lontane della sua famiglia. Aveva dovuto attendere gli anni della pensione, quando la società degli attivi ti avvolge in dichiarazioni di invidia ma in concreto ti emargina, ti lascia solo, a malapena qualcuno ti ascolta per qualche minuto. Tu, proprio tu ormai sei un t.f., anzi un c.t.f., completamente tagliato fuori. Alzò le spalle, non era il caso di lasciarsi andare all’autocommiserazione. Non era il primo uscito. Come si dice nel mondo degli attivi? Uscito dal ciclo produttivo attivo. Certo non sarebbe stato l’ultimo e comunque ogni tanto dalla direzione della banca per la quale aveva lavorato ancora lo chiamavano per qualche consulenza economica. L’ultimo abbassamento generalizzato del tasso di interesse attivo a buona parte dei clienti? Un suo suggerimento. Peraltro ben remunerato, a consolidare una situazione economica di benessere tanto da non avvertire, se non marginalmente, gli effetti della crisi per cui le fabbriche stavano chiudendo l’una dopo l’altra lasciando a spasso senza prospettive centinaia di persone, specie giovani. I ceti deboli ormai ad un passo dalla soglia della disperazione. Lui, per fortuna, lui no. Certo, tendenzialmente solidale. A parole. Finchè nessuno minacciava la torre d’avorio che aveva saputo costruirsi. Piuttosto, viveva nel terrore delle calvizie. Per ora il disagio della stagione dei capelli grigi, arrivati già da qualche anno. In verità comunque era fortunato, tanti conoscenti della sua generazione nemmeno più se li ricordavano, i capelli. Anzi, ad essere precisi lui non solo li aveva ancora ma addirittura nemmeno erano tutti grigi! Non che si sentisse un giovanotto. Qualche problema, di qualche cedimento nel fisico doveva darne atto e comunque ne dava notizia certa il suo medico curante. Ma lo spirito, lo spirito no, quello restava per molti versi di poco distante dall’età ragazzina. Oh, certo, era assolutamente consapevole del tempo passato e dei segni lasciati dagli anni: no, per la strada non perdeva la testa al passaggio di quelle ragazzine con gonne praticamente inesistenti. Anzi, le guardava con una certa qual forma di commiserazione: ocheggiavano ancheggiando divinamente, c’era poi da stupirsi se qualche ragazzetto immigrato, strappato dalla sua terra, dalla sua gente, dalla sua cultura, dalle sue donne, approfittasse dell’insperata occasione offerta in una stazione deserta della metropolitana a tarda ora? Lui no, lui non perdeva la testa per quelle che potevano legittimamente essere definite sue nipoti. Certo meritavano occhiate ammirate ma, per quanto ai suoi sogni proibiti, ad animarli erano “ragazze” della giusta età, le "ragazze" del suo lontano tempo delle mele, quelle invecchiate con lui, le "ragazze" a grandi linee dieci anni avanti o, meglio, dieci anni indietro, quelle della sua generazione. Che a dire il vero non erano poi così facili da abbordare. Spesso con matrimoni sbagliati alle spalle, amori andati delusi, un approccio alla vita triste, melanconico per le troppe delusioni lasciate alle spalle, sofferte sulla pelle del cuore. Per tacere dei loro problemi fisici, magari qualche accenno di depressione, una stanchezza di fondo che sembrava colorare d’autunno le loro giornate. Alberi, ancora stupendi, imponenti, i rami robusti slanciati ad abbracciare il cielo. Ma le foglie. Le chiome gialle e tante foglie abbandonate al vento, ricordo lontano la primavera, trasportate altrove, a colorar d’autunno le distese dei campi. Dunque, cosa gli restava, come occupare le lunghe ore del giorno e qualche volta della notte? Molti passeggiavano, altri si ritrovavano lunghe l’argine del Grande Placido Fiume, altri rinverdivano i trascorsi in cooperativa impegnandosi in partite a carte senza posta e senza fine. Meglio invece tacere, gli venne da sorridere, del Presidente del Consiglio impegnato, tra un problema e l’altro del BelPaese, a ricevere compiacenti veline, escort ben compensate magari con principeschi braccialetti per passare la notte nel palazzo del Presidentissimo. Certo. Poteva definirsi un tranquillo borghese benestante ma lui non poteva permettersi quei braccialetti. Per tacere del fatto che comunque non aveva mai ‘goduto’ le conquiste basate sul portafogli. Lui dunque, in assenza di meglio e in attesa di occasioni migliori, si era dedicato alle ricerche per conoscere le trame della storia della sua famiglia. Attraverso gli uffici dell’anagrafe dei Comuni lentamente era risalito fino alla fine dell’Ottocento, alla nascita dei nonni, ma fin lì tutto facile. Poi la ricerca s’era complicata. Intanto le anagrafi o erano andate distrutte o nemmeno erano mai esistite. La ricerca era proseguita negli ospedali, quindi nelle parrocchie, sfogliando vecchi registri ancora conservati in canoniche ormai semiabbandonate. Emilia, Liguria, basso Piemonte, il viaggio a ritroso lo aveva portato in Francia. Dove aveva visto i natali quell’antenato che, cresciuto, si era arruolato con il generalissimo Bonaparte ed al suo seguito aveva oltrepassato la barriera alpina per scendere verso la pianura padana. Un soldato, uno dei tanti della marmaglia napoleonica, soldato probabilmente per garantirsi il cibo, per riemergere dal fango nel quale era stata trascinata la sua famiglia. Il padre? Ammazzato brutalmente in place de la Concorde, decapitato senza pietà con l’accusa d’essere un ricco borghese e, come tale, un nemico del popolo. La madre? Violentata nelle cantine della casa padronale da chissà quale sconosciuto, lasciata per morta, poi costretta ad offrirsi per poche monete ai viandanti. Per poter sbarcare il lunario e crescere quell’unico figlio rimasto. “Borghese!”, quella l’accusa che non aveva lasciato scampo. Immaginò la piazza colma di una urlante folla rivoltosa, assetata del sangue di chi fino a pochi giorni prima aveva governato riducendo alla fame la stragrande maggioranza del popolo. Sorrise. Forse era un destino di famiglia. Tacciato d’essere niente altro che apparenza. Atteggiamenti d’apertura e disponibilità, attenzione agli altri e ai loro bisogni. Ma, nella sostanza, oltre la patina superficiale, un piccolo borghese immobile nella conservazione del benessere suo personale. Essere borghese. Pensò a quella “ragazza” per la quale poteva anche perdere la testa. “Non sarò la tua geisha”, aveva invece dichiarato solennemente lei, “non sarò la concubina di un Signorotto piccolo borghese che non sa fare scelte di chiarezza, di coerenza”. Borghese, conservatore, legato al mantenimento dello status quo. Salvaguardia dell’apparenza, dell’esteriorità, del buon costume. Pubbliche virtù e vizi privati debitamente occultati. L’accusa, e la sentenza inappellabile. Sorrise. Del destino che lo legava al suo antenato. "Borghese!". Ma, quantomeno, fosse anche così lui non era nemico di nessun popolo, a lui non sarebbe capitato di vedersi saltare la testa. Da buon borghese poteva permettersi di vivere una vita lineare, tranquilla, caratterizzata da una buona dose di garanzie, di sicurezza, di benessere. 

Borghese!”. Così Giorgio catalogò quell’uomo ben vestito, evidentemente assorto nei suoi pensieri, con un velo di sorriso sul viso, che scendeva le scale verso la stazione della metropolitana. Un benestante borghese, ben fornito come si intuiva dal rigonfiamento della tasca posteriore destra dei pantaloni. Una vittima sacrificale predestinata. Un imbecille. Un “gentile”. Bastò un’occhiata ai sei ragazzotti della banda, disseminati lungo tutta la banchina confusi con i pendolari in attesa: la preda era individuata ed era una preda facile facile. Nessuna divisa in vista, il segnale di via libera. All’arrivo del treno, mentre alcuni passeggeri scendevano, tutti insieme circondarono l’uomo, creando quel tanto di ressa più che sufficiente ad Armando per far sparire il portafoglio, salire in vettura e, prima della ripartenza, mentre l’uomo ignaro s’accomodava in una poltroncina libera, ridiscendere allontanandosi a passo lento verso l’uscita. Duecentoventicinque euro! Oltre bancomat e carta di credito. Immediatamente utilizzate, con un prelievo di altri duecentocinquanta euro e acquisti per seicento, fino ad esaurimento carta. Quella sera, mentre in una casa troppo illuminata, insulto ai tempi di crisi, qualcuno inveiva contro quel boia d’un ladro,  si ritrovarono tutti da Peppino, in cooperativa a mangiar coppa e salame il tutto innaffiato da buon Ortrugo. Non senza essere passati a prelevare Luigi e Ferruccio, i due della banda che da qualche tempo erano operai temporaneamente assunti nella fabbrica di componentistica industriale per necessità straordinarie di produzione, un’ordine rilevante per parecchi milioni di euro dalla lontana Cina che forse preannunciava il superamento della crisi economica. Tutto da verificare, e intanto? “Noi che disoccupati siamo, tiriamo a campare!”, decretò Sergio invitando tutti ad alzare i calici, un brindisi alla faccia dei benestanti borghesi che della crisi leggono sui giornali, alla faccia del governo dalla parte degli industriali, “delle banche impegnate nel farci fuori i risparmi, lucrare sui prestiti, soffocarci di spese e di interessi sui mutui”. Prosit, tutti risposero in allegria, affrontando le portate di buon salume che Peppino portava in tavola.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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