“Speriamo sia una colomba quella che in cielo bianca vola”, racconto dai giorni della Resistenza di Claudio Arzani

“Speriamo sia una colomba quella che in cielo bianca vola” è stato pubblicato in “Vietato attraversare i binari Servirsi del sottopassaggio”, Vicolo del Pavone editore, 2009

Polvere. Niente altro che polvere. Strati grigi di polvere ovunque. Sui pochi mobili, sui pavimenti, sui davanzali, sulle scale, sulle lampade a petrolio. Oltre al silenzio. Rotto solo dal fruscio leggero delle foglie mosse dalla brezza nel boschetto confinante con la casa.

Una antica casa colonica. Abbandonata da tempo, da anni, almeno a giudicare dalle ragnatele tra i mobili di legno e, naturalmente, dalla polvere.

Virgilio, con grande attenzione, entrò guardingo spianando il mitragliatore a destra, a sinistra, verso la balaustra del piano superiore. La stanchezza di troppe ore in fuga cominciava ad emergere e quella casa seminascosta tra le foreste sui monti della Val Boreca, poteva essere un ottimo punto di appoggio per fermarsi, riflettere, decidere sul futuro immediato.

Nessun rumore. Stato di abbandono confermato. Rifugio.

La schiena appoggiata alla parete di quella che poteva essere la stanza da pranzo, la cucina di una vecchia casa contadina.

Le palpebre chiuse, lentamente Virgilio sentì il corpo scivolare, si ritrovò seduto, addormentato, con la brezza del vento leggero che dalla finestra s’infiltrava, sembrava accarezzargli il viso, quasi a placare stanchezza e sofferenza.

Dieci settembre 1943. Era in viaggio da 48 ore. Non appena la radio aveva annunciato la fine della guerra. Dell’alleanza con quello che era stato il nemico giurato da sempre. Rompete le righe. Il Re in fuga verso il Sud e l’esercito abbandonato a sé stesso.

Nessun dubbio. Aveva lasciato la caserma, raggiunto la stazione, preso il primo treno diretto al nord, per anticipare le mosse degli ex alleati che certo non avrebbero perdonato quel cambio di bandiera. Del resto inevitabile. Era stato un grave errore, allearsi con il nemico di sempre contro il quale si era combattuta la lunga epopea per l’affermazione dell’identità del paese: il tradimento dello spirito del Risorgimento! Un grave errore sulla coscienza del dittatore, finalmente spodestato.

Un viaggio col cuore in gola, ad osservare con apprensione i militari incrociati nelle diverse stazioni di sosta del convoglio. Quando sarebbe scattata la caccia ai militari italiani?

In una stazione minore, Arena Po, quasi al confine piemontese, pensò bene di non rischiare oltre. Sceso dal treno guardato con una certa curiosità dal capostazione, con decisione s’era incamminato verso le lontane montagne. Una marcia senza sosta. Fino alla casa contadina che ora lo accoglieva e gli consentiva un sonno ristoratore.

Dopo molte ore la luce del giorno e il canto degli usignoli lo riportò alla realtà e finalmente si dedicò all’esplorazione della casa. Polvere, ragnatele ma anche tanti oggetti, in ordine, come di una casa vissuta anche se da tempo (e si parlava, era evidente, di anni) non più usata. Un’abitazione povera, di grande razionalità, senza sprechi.

Al piano superiore trovò lo scheletro di un letto e, su un tavolino posto di lato, una statuina di cera che raffigurava una damina settecentesca abbracciata ad un soldatino d’avorio. Con delicatezza prese in mano la coppia. Un sottile filo tricolore legava i polsi delle due statuine. Virgilio sorrise.

Fu niente altro che suggestione o veramente venne afferrato nel vortice del tempo e dello spazio per essere reso partecipe della storia della damina e del suo amato soldatino?

*

La casa era viva, l’aria piena dei rumori della giornata di lavoro in campagna. Nella cucina tre donne preparavano i pani da lievitare. Dal cortile i richiami dei bergamini al ritorno dai pascoli dei vicini altopiani, mentre un cane abbaiava richiamando gli animali all’ordine, ai percorsi per ciascuno designati. La dura battaglia con la terra avara della montagna, in perenne lotta a contendere spazio alla foresta e ai sassi, il prezzo da pagare per essere padroni della propria esistenza. La terra (avara e spesso arida della montagna) ai contadini, ai lavoratori. La terra buona, quella della pianura, ai signori, ai padroni!

All’ombra del portico, nascosti tra le balle di fieno, la giovane Erminia affondava il viso nel foulard rosso del suo bel Cirillo e lasciava che calde lacrime lo inumidissero. “Ma non è certo colpa mia”, diceva lui mesto, avvolto nei tessuti un po’ arruffati della sua divisa garibaldina, la camicia rossa proprio da Erminia cucita con amore nelle notti dell’inverno appena passato. Ed ora, con l’arrivo della primavera, con la stagione che volgeva al bello, il generale aveva richiamato le sue truppe volontarie per una nuova campagna. Poteva forse Cirillo sottrarsi al richiamo della Patria, quella con la p maiuscola rappresentata da quel comandante che parlava con il linguaggio della gente comune? L’Italia agli italiani e le terre ai contadini. Le terre delle pianure, quelle fertili, per dirla bene! Fine dell’Italia dei padroni e dei gran signori, nell’avvento della Repubblica poteva starci anche un decoroso futuro per ogni uomo con la voglia di lavorare. Poteva lui, Cirillo, sottrarsi alla chiamata per costruire il futuro suo e di Erminia? Neanche a parlarne. Ma sarebbe durata poco, il tempo di vincere, di sistemare le cose, di rimandare a casa il nemico “e col generale, si sa, non si sta certo a perdere tempo, si combatte e si vince, giusto per ritornare al lavoro nei campi per il raccolto”.

Erminia aveva sorriso, mettendo il foulard umido al collo del suo piccolo contadino combattente volontario per un futuro migliore. “Ti aspetterò con ansia e, nell’attesa, confezionerò una bandiera tricolore per festeggiare il tuo ritorno e le vittorie che porterai”.

Anche Cirillo sorrise, infilando la mano nella sacca, estraendone una statuina d’avorio che raffigurava un soldatino d’una nazione indefinita. Un prezioso bottino, un trofeo raccolto sul campo di battaglia, sottratto ad un nemico caduto.

Il ricordo di una precedente campagna militare del reggimento asburgico in una colonia africana. Dove il soldato nemico vigilava sulla costruzione di un ospedale. Garantendosi la riconoscenza degli indigeni. Una riconoscenza resa tangibile da quel regalo prezioso. Poi il reggimento venne richiamato in patria, in Baviera  e, da lì, inviato in servizio d’ordine nelle terre lombarde dove avvenne lo scontro con la banda garibaldina. Così il prezioso soldatino d’avorio passò di mano. Dall’indigeno che lo aveva intagliato al soldato asburgico in missione umanitaria. Dal soldato asburgico divenuto nemico occupante di terre d’altri, a Cirillo.

Ed ora dal fiero garibaldino alla bella Erminia come pegno per il ritorno.

 *

Di nuovo Virgilio ebbe l’impressione di viaggiare nel tempo e nello spazio. Si ritrovò nella cucina della casa contadina.

*

Faceva freddo. Nel camino bruciava un piccolo tronco insufficiente ad affrontare i rigori invernali. Dalla finestra vedeva la neve, neve ovunque, tanta neve. Il comandante inverno era sceso dai monti alle pianure fermando il biondo generale dalla camicia rossa. I contadini volontari non erano tornati per il raccolto.

Erminia stava seduta, abbandonata sulla sedia, un braccio appoggiato alla tavola, l’altro a reggere la lettera. Incapace di reazioni. Incapace di piangere. La lettera che annunciava la conquista di un lontano paesino tra colline per lei sconosciute. Una battaglia eroica. Che come sempre le truppe volontarie del generale avevano vinto. Non senza eroi che non sarebbero tornati alle loro case. Eroi dei quali sarebbe rimasto imperituro  il ricordo. Le lacrime. Le preghiere. Fino all’arrivo, inesorabile, dell’oblio definitivo, lo svanire del ricordo. Eroi sepolti lontano dalle loro case, dai loro cari.

Tra questi, Cirillo.

In silenzio la madre appoggiò una mano sulla spalla di Erminia per trasmetterle un conforto atteso ma senza reale speranza di lenire un dolore indicibile, infinito.

Il vecchio padre, interrotti i lavori nella stalla, restava in piedi, in silenzio, ammutolito, di fianco al camino.

 *

Di nuovo, nel vortice del tempo.

*

Virgilio si ritrovò tra la gente nella piazza di un paese tra i banchi del mercato. Vestiti, stoffe, galline legate con la corda a gabbie di legno, carri con attrezzi per il lavoro, vitelli, il gran vocio delle contrattazioni e delle semplici informazioni di chi poi non aveva i soldi necessari all’acquisto di cose che ci si limitava a sognare. Riconobbe il padre di Erminia, con i baffi neri, indubbiamente molto più giovane, mentre contrattava per l’acquisto di una piccola statuina di cera bianca che raffigurava una damina in abiti da gran signora del settecento. No, niente soldi, in cambio offriva una forma di formaggio. Un sacrificio enorme. Ma per la sua piccola Erminia ne valeva davvero la pena. La bambina aveva già le sue bambole di stracci ma quella statuina sarebbe stata un dono preziosissimo. Il degno simbolo del suo orgoglio di padre.

*

 Non aveva più lacrime.

Per giorni Erminia, attonita, era rimasta a fissare l’orizzonte lontano. Piangendo lacrime cariche di ricordi. Di sogni di un futuro che non sarebbe mai stato. Si avvicinò al letto. Al comodino dove nel cassetto teneva il soldatino d’avorio. Stringendolo con delicatezza nel pugno scese in cucina, dove teneva ancora la statuina di cera. Prese la bandiera tricolore che aveva intessuto attendendo il ritorno del suo bel garibaldino. La sfilacciò ricavandone un filo badando che fossero rappresentati il verde, il bianco, il rosso. Con quel filo unì i polsi della statuina e del soldatino d’avorio, li posò sulla badia, come fossero avvolti nella musica di un giro di ballo verso l’eternità.

Un’ultima carezza.

Quindi uscì nel cortile, seguendo i sentieri scavati nella neve, fino al ponte che attraversava il fiume. Lanciò uno sguardo al cielo oltre l’orizzonte. Lasciandosi scivolare nell’acqua e lentamente passare nella dimensione dove Cirillo di certo l’aspettava.

*

Un bagliore di luce arrivò agli occhi di Virgilio, seduto a terra nella cucina della casa contadina, con in mano la statuina e il soldatino ancora uniti in una danza d’amore senza fine. Un riflesso. Un riflesso del batacchio della porta. Il batacchio di bronzo. La porta d’ingresso era aperta e un raggio del sole di mezza mattina rimbalzava sul batacchio, gli colpiva gli occhi, lo riportò alla realtà. Fine del viaggio nel tempo e nello spazio.

Appena il tempo di intuire più che vedere la canna del fucile del soldato nemico che, entrando nella casa contadina, stava percependo la presenza del bandito seduto sul pavimento. Stava allungando il dito sul grilletto, alzando la canna nella direzione del bandito.

Hans. Lo stesso nome del bisnonno. Ucciso in terra di lombardia in un agguato teso da una banda di irregolari, di volontari, di garibaldini. Straccioni. Inaffidabili. Come tutti gli italiani. Traditori. Banditi.

Virgilio disperatamente rotolò a sinistra raccogliendo il mitragliatore e lanciando lontano la statuina di cera e il soldatino d’avorio. Il nemico sparò il primo colpo e per fortuna non aveva un mitragliatore. La pallottola scheggiò il pavimento, rimbalzò sulla parete mancando d’un soffio la gamba dell’italiano.

 Tenendo il mitragliatore nella mano destra Virgilio, sdraiato a terra, riuscì a sparare una raffica verso la porta, proprio mentre Hans si tuffava a terra in avanti e contemporaneamente, come aveva imparato ai corsi di addestramento, ricaricava il colpo in canna del fucile.

 Intanto il soldatino d’avorio, cadendo a terra, si ruppe in quattro pezzi, lasciando il braccio e un pezzo del tronco ancora legati al polso della damina di cera.

La sventagliata di piombo sparata da Virgilio mancò Hans ma una pallottola, rimbalzando contro il batacchio in bronzo della porta, ritornò nella stanza, colpendo la statuina di cera, decapitandola.

Il soldato tedesco, cadendo a terra, nonostante il dolore lancinante alle ginocchia e ai gomiti, tirò disperatamente il grilletto del fucile per anticipare il nemico. A quella distanza era impossibile sbagliare bersaglio. Partì il colpo ed inesorabile la pallottola entrò nel fianco di Virgilio andando a devastare organi vitali ponendo fine alle speranze del futuro.

La stessa pallottola, uscendo dal tronco di Virgilio, incappò nella bomba a mano che il soldato italiano teneva nel taschino della giacca. L’esplosione devastò la cucina della casa contadina. Le schegge furono fatali per Hans al quale non rimase nemmeno il tempo per ricordare le verdi pianure della sua Baviera.

Morì senza ah né bah.

Morì punto e basta.

Morì così in terra straniera.

Come il bisnonno.

*

Le mura, costruite troppi anni prima utilizzando il fango del fiume essiccato al sole, tremarono, l’equilibrio statico della vecchia casa contadina fu messo a dura prova.

Crollò il pavimento del piano di sopra.

Con un boato, mentre ancora si sollevava polvere, cedette il tetto.

La parete posteriore crollò a sua volta.

 Così Hans e Virgilio, insieme ai pezzi della statuina di cera e al soldatino d’avorio,  ebbero comune decorosa sepoltura. Invano cinghiali selvatici avrebbero cercato, con le zampe ed il muso cornuto, di scavare tra le macerie per procurarsi quel cibo del quale sentivano il profumo.

*

Lentamente la foresta ha ripreso possesso degli spazi rubati dall’uomo e le rovine della vecchia casa contadina sono ormai indistinguibili. Resta la natura, quella spontanea, con i suoi cicli di vita. Restano macerie e mura diroccate coperte dai muschi e dalle piante rampicanti. Tra le pareti ancora in piedi, la porta d’ingresso, ormai di legno marcio, il batacchio di bronzo che ad ogni alba si protende verso il sole.

In base alla posizione, talvolta riflessi portano raggi di luce tra gli anfratti ancora aperti nelle macerie. Disturbano il riposo del volatile che tra le macerie ha stabilito il nido e che, talvolta, infastidito, si alza in cielo. Senza dimenticare di portar con sé un ramoscello d’ulivo, forse nella speranza che quel benedetto sole, con i suoi raggi e i suoi riflessi, decida di restarsene in pace a casa sua.

Pace, olio su tela di Arturo Tosi

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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