Roma, ahi que dolor: nel traffico caotico, sirena squillante, si faceva largo un’ambulanza. Portava un malato o fumanti pizze?

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Christian Lutz: protokol
Scatti fotografici dietro le quinte tra potere e diplomazia

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Una favoletta che, a tutte le latitudini, piace ai potenti, a chi si trova ad occupare una poltrona e non ha nessuna intenzione di mollarla: non fate gli yesman. Siate autonomi, dite la vostra, solo così potrete contribuire al miglioramento, alla crescita che si rivelerà utile per tutti. Nel concreto, in verità in otto casi su dieci il superiore di turno vi guarderà con sospetto, sentirà messa in discussione la sua leadership e cercherà di ghigliottinarvi alla prima occasione o, ove di buon cuore, di emarginarvi in una posizione dalla quale non possiate nuocere. La memoria riporta al 1994, grandi cambiamenti in atto nell’Azienda, leadership in discussione. Da un lato un direttore, Mario Camoni, forte dell’età, dell’esperienza, dell’autorevolezza, dei legami con i vertici della Curia e del partito centrista di governo. Dall’altro il giovane rampante, Marco Teggia, esponente di Comunione e Liberazione, un sistema di potere in fase di costituzione con i giusti agganci con la vicina Lombardia. Importante stampella professionale del primo, mio malgrado: il Teggia riteneva tassello rilevante nel suo disegno di successione pretendere il mio allontanamento. Come ottenerlo? Semplice. Minacciando più o meno direttamente, tramite i suoi “colonnelli”, amici e colleghi che erano ritenuti miei alleati: piccole azioni di disturbo, ventilati cambi d’ufficio e di funzione, negazioni di straordinari e di altri diritti contrattuali. Dopo un paio di mesi di pressioni psicologiche e di larvate minacce da parte del “sistema di alleanze” vicino alla cordata che faceva capo al Teggia, arrivò la convocazione presso la sede centrale da parte del MegaDirettore, il numero due dell’Azienda, tal Mario Forlani, che mi ufficializzava il mio essere indesiderato. Motivazione? Valutazione negativa del mio operato? Nulla di tutto questo, semplicemente, a suo dire, mi trovavo nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Avessi esercitato il sacrosanto diritto alla difesa della mia posizione? Probabilmente sarebbe calata la mannaia sulla quotidianità delle persone che mi erano più vicine, i colleghi e soprattutto le colleghe che lavoravano con me e per me. Per quanto poi mi riguardava direttamente Forlani sventolò lo spettro della possibile dichiarazione dell’esubero: ero di troppo e, a quel punto, cancellato il mio posto di lavoro dalla pianta organica aziendale, avrei dovuto accettare il primo posto disponibile in chissà quale altra città della Regione. Giustizia, ingiustizia. Un dettaglio: eran tutti cattolici democristiani. Preti neri. Nell’anima. Al bivio tra lo scontro duro e il rivedersi a Filippi, scelsi di sedermi sulla sponda del fiume ad attendere il passaggio del cadavere del nemico (non sapevo allora che non si trattava solo d’un espressione di colore e che veramente avrei letto sul quotidiano prima del funerale dell’uno e un paio d’anni dopo dell’altro). In quel momento non mi rimase che salvare il salvabile, contrattare una sconfitta onorevole. Cambiai sede di lavoro ottenendo il diritto all’indennità di trasferta e, come ciliegina sulla torta, la partecipazione finanziata ad un aggiornamento professionale a Roma. Ogni minaccia a colleghi e colleghe venne a cadere mentre lo speaker della stazione annunciava la partenza dell’InterCity destinazione la Città eterna, era dicembre, tempo di un ritorno dopo tre anni di assenza.

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Paolo Miserini: i Sacconi Rossi
La processione in Roma del 2 novembre in memoria degli annegati del Tevere

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Aria di Trastevere, lungotevere Ripa, poteva essere un ritorno di fiamma, un soggiorno tra le braccia d’una amante mai dimenticata, mai cancellata dal cuore. Ma il tempo a disposizione era troppo ridotto, i luoghi nei quali tornare troppo numerosi, il piacere della tavola nelle trattorie non certo adatto a diete equilibrate povere di grassi, i mesi di tensione, le pressioni psicologiche subite, tutto l’insieme si scatenò inaspettatamente nella notte, in albergo. Autodiagnosi da Inferno dantesco: flebite anale. Meglio ancora: tromboflebite! Impossibile darne conto e al solo ricordo il cuore pare gelarsi, un sottile velo di sudor freddo orla la fronte. Era stata una giornata di gran corsa. Conclusa l’aula nel tardo pomeriggio, attraversato Ponte Palatino, una camminata a passo svelto fino a largo di piazza Argentina, le vetrine di Corso Vittorio Emanuele, un passaggio in San Pietro per acquisti d’oggetti religiosi richiesti da casa per concludere con un salto in piazza Navona ad ammirare i quadri dipinti dagli artisti di strada. No, non così va vissuta Roma, non a quella velocità parossistica tipica del milanese e del commenda della Brianza. Inutile presentarsi alle 7.30 della sera in trattoria per consumare un pasto in una sala deserta. Inutile bussare alle otto della mattina allo sportello d’un ufficio pubblico o strimpellare il campanello dello studio d’un legale. La punta più alta del traffico mattutino è dopo le nove, ci si sveglia tardi e si va tardi al lavoro e magari si finisce tardi la giornata, cena alle 22 fin oltre la mezzanotte. Forse un fatto di clima, forse un essere speciale, ineguagliabile, l’animus romano, S.P.Q.R. ovvero Sono Pazzi Questi Romani. O Son Polente? Son lenti, flemmatici, voglia di lavoro saltami addosso ma lentamente che piano piano me scanso. Fermate il mondo, me gira la testa, scendo n’attimo a riposar. Quella sala in trattoria, zona Montecitorio, deserta alle 19.30 non presentava tavoli disponibili dopo le 21. Antipasti al banco self-service, gnocchi alla romana, scottadito con patate, dessert, caffè e ammazzacaffè. Non è gradevole scoprire e raggiungere quel punto che il fisico non regge e il sangue gioca scherzi di discutibile simpatia. Non è facile passare il tempo in una lunga notte con Roma ammantata in un velo di dolore.

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Sara Munari: Oceano Indiano
Baccano, polvere, movimento continui nell’altra India che non ti aspetti

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L’alba, sorgere del sole come momento di liberazione dal buio delle tenebre, dal terrore del vampiro e dal dolore concentrato là dove non batte il sole. A passi lenti, badando all’appoggio equilibrato della pianta del piede, prima il destro, poi il sinistro, lancinanti dolori d’una punta di lancia infilata là dove più tenera risulta la pelle, destinazione il pronto soccorso dell’ospedale che, a quell’epoca, era sull’isola Tiberina, nel bel mezzo del Tevere, barca di cemento pronta a staccare gli ormeggi per navigare tra le case di faccia al fiume. Ricordo d’er buchetto, locale ad una stanza in via Principe Amedeo, un unico tavolo e la testa d’un cinghiale a far da insegna: piatto unico pane, porchetta e vin bianco dei castelli, roba genuina ricca di quel pepe che, come stava scritto col gesso sulla lavagnetta, brucia er buco der culo. Appunto. Un medico dall’aria simpatica infilò alla mano con inqualificabili intenzioni un guanto di gomma, gli osservai che non erano gradite ma comunque erano impossibili introduzioni di qualunque genere fossero. Mi mise a tacere invitandomi ad abbassare i pantaloni e a non far lo spiritoso che, data la circostanza, non era il caso. Ero d’accordo, c’era poco da ridere e men che meno da scherzare ma fu l’ennesima dimostrazione che ciascuno di noi è il miglior medico di se stesso. Trasalì, il cerusico, guardando l’enormità, ed iniziò a togliere il guanto di lattice. Non sarei arrivato integro in val Padana, a suo dire. Ma non potevo restare in Roma, città d’amor, per conoscerne fino in fondo i sobborghi profondi del dolore. Con delle garze uso pannolone, il medico generoso cercò di darmi una mano per assorbire l’eventuale esplosione in corso di viaggio. Ricordi e racconto spiacevole ma il dolore non è mai gradevole. Fu un viaggio lunghissimo, interminabile, ma alfine approdai in riva al Grande Placido Fiume del nord, mi aspettava Dalila con l’auto, per portarmi in ospedale. Tre giorni dopo tutto era rientrato negli alvei della normalità e il primario Pistacchi sentenziò che non era necessaria operazione alcuna. Steso nel letto sempre a pancia in giù, massimo con dovuta attenzione, di lato, tirai un lungo sospiro di sollievo.  Tempo di ritorno a casa. Con rigida prescrizione cautelativa: per alcune settimane brodini, insalate, carotine poco olio, bistecchine carne bianca poco sale. Come stare in ospedale.

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FotoLeggendo, "Tra passione e professione", mostre in Roma fino al 31 ottobre
Mario Spada: Gomorra on set

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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