“L’odore di miseria da mandare giù è cosa seria”, le impressioni di Carmelo Sciascia in occasione di una visita al Museo Scalabriniano dell’Emigrazione di Piacenza

Oggi mi è tornata in memoria una vecchia canzone di Guccini, la canzone che aveva dedicato al Capoluogo: “Bologna è una vecchia signora…” è la struggente descrizione di una città emiliana, del capoluogo emiliano, di Bologna. Ma si sa le città emiliane si somigliano un po’ tutte. Sono tutte città di pianura con alle spalle le rassicuranti colline dell’Appennino. Piacenza con le altre città emiliane ha in comune  “benessere, ville, gioielli e salami esposte nelle vetrine”. Con la differenza che mentre le altre città emiliane sfacciatamente si espongono ed espongono, noi a Piacenza non ci esponiamo e teniamo nascosto tutto ciò che è possibile nascondere. Teniamo nascosti i tanti Palazzi con i loro giardini, nascondiamo il passato per pudicizia, sappiamo che “l’odor di miseria da mandare giù è cosa seria” e quindi memori del passato ci si vergogna quasi di come siamo e cosa abbiamo oggi. Ed è talmente serio mandare giù la miseria che l’abbiamo relegata in un museo, un museo che ci rinfaccia la povertà e la miseria delle nostre valli (e della città) a fine Ottocento. Ho in tanti anni camminato lentamente attraverso il cuore della città, conosciuto le piccole strade lastricate ed i palazzi che vi si affacciano. Ho conosciuto ville e visitato dimore, mi sono spesso soffermato ad ammirare le tante ricchezze che facevano capolino: quelle che ci è permesso vedere e ciò che, lasciato sepolto, ho potuto solamente immaginare potesse contenere. Ho visto finora tanto e non avevo visto nulla! Avevo visitato furtivamente come facciamo quasi tutti la casa madre degli scalabriniani, e furtivamente i suoi tesori. Infine oggi ho visitato approfonditamente, grazie alla gentile disponibilità di un padre scalabriniano e ad una giovane bibliotecaria polacca: la pinacoteca, la biblioteca ed Il museo multimediale dell’emigrazione: il MES. Ma no! Non è così, non limitatevi alle sigle. Il museo in realtà è la memoria storica dell’emigrazione piacentina, di tutti coloro che esclusi dalla Storia hanno fatto la storia. L’emigrazione che ognuno, a modo proprio, si porta addosso: rimane nella memoria come un marchio indelebile nella pelle. Sono partiti dalle colline e come disperati si sono avventurati in viaggi della speranza, nelle lontane Americhe. Senza conoscere la lingua, l’unico idioma era il dialetto del proprio paese: straniero tra stranieri, l’emigrato era solo. Guardando le immagini, ascoltando le parole si percepisce la solitudine dell’emigrato, il dolore della separazione, la paura di ciò che lo attende quando arriverà nelle lontane terre sconosciute. Anche se immobili al centro del cilindro delle proiezioni, ci si muove con i migranti, si ascoltano le voci così lontanamente vicine di chi lasciava il proprio passato, gli affetti più cari e i pochi effetti personali. La struttura è coinvolgente, lo scenario davanti ai nostri occhi ci catapulta sui vaporetti: ci mostra volti segnati, gesti e voci dei nostri bisnonni, dei nostri nonni e perché no dei nostri padri che partivano. Partì mio padre verso le buie miniere del Belgio, come partirono dall’Appennino per le piantagioni di cotone della “Merica” i contadini delle colline piacentine, partirono su bastimenti di terza classe, chi per viaggi senza ritorno, chi per viaggi che non giungeranno nemmeno a destinazione.  Partivano verso fredde città d’Europa su treni a vapore, su duri sedili di legno. La ricostruzione dell’ambiente delle cuccette del vaporetto è crudele, crudele come ciò che viene letto, perché scritto, in un rapporto di un ispettore governativo sulle condizioni igienico-sanitarie di quelle navi. Crudele perché non riusciamo più a comprendere come si potesse vivere ammassati, dove l’odore forte degli escrementi si mescolava ai pianti dei neonati o alle lacrime disperate delle madri. Il pensiero è rivolto alle carrette del mare che oggi infestano il Mediterraneo. Che arrivano, quando arrivano sulle spiagge di Lampedusa, che scompaiono tra i marosi del mare Nostrum. E questa è la terza tappa del viaggio che ci propone il museo scalabriniano. La tappa che unisce in un unico fil rouge l’emigrazione della gente d’Italia e l’emigrazione dal sud del mondo verso l’Italia. Il soggetto rimane l’Italia, terra di emigranti e di immigrati. Il soggetto rimane l’uomo, con la sua miseria, le sue paure, la sua voglia di riscatto e la ricerca di benessere che si trasforma spesso in una profonda delusione, in malessere.

Oggi mi è tornata in mente una vecchia canzone di Guccini o forse no, mi è tornata alla mente la sola frase che ricorda come “l’odor di miseria da mandare giù è cosa seria”. Io non l’ho mandata giù, non l’ho digerita, o come si dice oggi non ho elaborato il lutto dell’emigrato. Di mio padre che è emigrato in Belgio, dove sono nato. Lo vivo ogni volta che qualcuno o qualcosa me lo ricorda, ogni qual volta mi si presenta l’occasione. Me ne ricordo, perché da ragazzo vedevo i treni “speciali” partire per la Germania, per il Belgio. Per “Lamerica” con le navi dal porto di Palermo, per “Nuovaiorche” o per il Canada. Un museo come questo dell’emigrazione dei padri scalabriniani non è una esposizione fredda, una serie di oggetti da ammirare, è un museo che ci fa ripercorrere una storia, la storia di un cammino doloroso e di speranza che hanno compiuto, le generazioni che ci hanno preceduto, e che continuano a percorrere in tanti, che continuiamo a percorrere tutti. Si fugge dalla propria terra per una meta messianica, una città ideale, che appunto perché ideale, quindi immaginaria, è esclusa agli uomini e ci si imbatte in un’altra realtà, spesso misera come, se non ancora peggiore, di quella che si era lasciata alle spalle. Oggi l’attesa di tanti profughi s’infrange nella triste realtà dei campi di prima accoglienza, realtà sicuramente peggiore delle loro tribù di provenienza, anche perché questi campi sono destinati spesso a trasformarsi in dimore a lungo termine. Oppure, nel migliore dei casi, ospitati in strutture dove sono costretti all’inoperosità. La testimonianza di alcune dichiarazioni a fine visita museale è di speranza, di inserimento nel nuovo tessuto sociale, di immigrati che ce l’hanno fatta!  E questo ci fa ben sperare ma la storia, ahinoi, non è maestra di vita. La storia non ci ha insegnato nulla e nulla continua ad insegnarci, perché quando si ripete, lo fa nella forma che le è più congeniale: negativamente come il luogo della violenza e del sopruso (un esempio, l’ossimoro: inviare armi per far cessare i conflitti, alimentare la guerra per procurare la pace). I migranti lasciano tutto: casa, famiglia, terra per una prospettiva ignota. Nell’attesa di un futuro, spesso si rifugiano nel passato, nel loro passato. Alimentano le speranze nutrendosi di nostalgia. Mi auguro che le scolaresche tutte possano partecipare di questa esperienza, visitare il MES per riflettere e capire il passato del proprio paese ed il presente degli altri, dei diversi, degli immigrati.

Vedendo il museo di via Torta, nella splendida casa madre dei padri scalabriniani, mi è venuto da piangere, ed ho pianto, un pianto liberatorio come liberatorio è il primo vagito di un neonato. Un neonato che con il primo vagito inizia, da emigrato, il percorso della propria vita.

Fonte: Carmelo Sciascia in ilpiacenza.it 19 ottobre 2022 09:17

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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