Dicono siano dolci come il miele. Anziani, ricoverati silenti nei letti di geriatria, angeli caduti con la mente già lontana





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Ritratto di donna anziana, di Giuseppe Cipriano

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Dicono siano dolci come il miele. Teneri, affettuosi, nonni, anziani. L’età media d’attesa di vita veleggia ormai oltre 80 anni per le donne e 78 per gli uomini ma sono sempre meno rari gli ultracentenari. Rappresentando spesso un problema per i figlioli. Il vecchietto dove lo metto? Non più autosufficiente, con un fardello di troppi ente: incontinente, insofferente, spesso demente. La demenza senile è un serpente che lento affonda nel profondo della mente. Inizia così, con un pensiero sfuggente, un’elaborazione mnemonica inconcludente e, alla fine, per anni l’anziano genitore resta in vita in condizione vegetale, incapace di parlare, d’intendere, d’interfacciare il mondo esteriore. Nessun riconoscimento dei figli, “ma mamma, sono Concetta, sono tua figlia”, per tacere di quella persona che pretende di dormire nello stesso letto, nella stessa stanza, quella persona che s’è introdotta in casa e non se ne vuole andare. “Ma mamma, quello è il papà, tuo marito!”. Dicono siano dolci come il miele. Teneri, affettuosi, ma forse sono solo espressioni d’un torpore della mente. Ossessioni, depressioni, fantasmi vaganti ormai incapaci d’afferrare financo i ricordi accatastati disordinati negli angoli sbagliati della mente. Un’umiliazione per il figlio, per la figlia, un’inversione della tendenza: quelli che erano rocce, fari nella nebbia della vita, diventano amebe regredite all’età infantile ed ogni figlio ancora vestito dei panni mentali del bambino amorevolmente accudito, d’un tratto ecco dismette le braghe corte e il moccio al naso, diventa lui il porto d’approdo, il punto di riferimento. Inutile rivendicare "ma babbo, il gigante sei tu", il marmo s’è trasformato in fragile argilla che lentamente sgretola. Dicono siano dolci come il miele. Camminano lenti appoggiati ad un bastone, un’impresa superare adagio lo scalino, quello basso, del marciapiede, un’impresa non consumare il tempo di durata del via libera al semaforo, una fortuna poter contare sul sostegno dell’avambraccio d’una badante moldava giunta in Italia per sfuggire dalla miseria e condurre una misera vita nella casa d’un anziano italiano. E spesso sono malati, finiscono all’ospedale. Finiscono. Il reparto di geriatria dell’ospedale della mia città padana. Domina il silenzio, tutto par muoversi nell’ovatta silenziosa, come la nebbia che avvolge la mente dei pazienti anziani, spire tinte di grigio dalle quali emergono a tratti ricordi confusi, disordinati, del tempo passato. D’un tratto dalla stanza 9 arriva un gemito, un altro ancora, forse si tratta del tentativo d’articolare una frase, una parola, forse la protesta per il brodo della minestrina servito al letto, giunto freddo. Dalla stanza 7 una vecchia, con la falange rattrappita dall’artrosi, infierisce sul campanello. Felicina, nella stanza 11, incapace di muoversi respira dalla bocchetta dell’ossigeno, gira gli occhi, ancora curiosa. Dal letto a fianco Mafalda si è alzata, attende in piedi d’essere portata a fare un esame. Osserva, lo sguardo perso all’infinito, l’oltre il vetro della finestra, il piccolo giardino senza neanche una panchina. Un mondo di padiglioni. Di fronte il padiglione della chirurgia, a destra le radiologie, a sinistra l’ingresso del padiglione delle medicine. Nell’ultima stanza, la numero 13, Antonietta, un cannello nella narice, la bocca spalancata con la pelle delle labbra raggrinzita, qualcuno ha rubato la dentiera o forse l’ha persa l’infermiera. Entrata ormai da una settimana, non ha detto una parola, non dà segni di vita se non fosse per le palpebre aperte e talvolta il quasi impercettibile movimento degli occhi. Arriva l’infermiera a sistemare la flebo. Domani Antonietta sarà dimessa. 97 di queste estati, ritorna a casa. Una gentilezza, una cortesia, non è bene finire tra le mura della stanza dell’ospedale, l’ultimo respiro sarà tra le mura dove per buona parte della vita ha vissuto. Domani. Domani Antonietta torna a casa.

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Dentro la malattia, olio su tela di Alberto Sughi

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Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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