“Borghese!”, racconto di Claudio Arzani


Luigi Russolo, "la rivolta"
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Borghese!”. Decine di mani lo avevano afferrato, sospinto, trattenuto, aveva letteralmente trapassato l’ammasso compatto della folla urlante radunata che, per lui, si era aperta quel tanto che bastava al corpo per passare. Naturalmente con l’inevitabile accompagno di calci, pugni, sputi, scherni, lazzi, colpi di testa e colpi in testa. Fino ad arrivare al centro della piazza. Uno di loro, uno di quelli, uno con una lunga barba incolta e sporca, uno con alle spalle una mantella militare sottratta in chissà quale scontro, stava seduto al tavolo piazzato vicino alla statua decapitata. Doppiamente decapitata. Decollato il cavaliere, decollato anche il cavallo! Chissà dove erano finite le rispettive teste. Bronzo. Prezioso, da rivendere a qualche fabbro, a qualche artigiano non troppo curioso circa la provenienza di quel buon materiale. “Borghese!”. Quell’urlo rintronava nel cervello, come una fitta dolorosa penetrava attraverso le trombe d’eustacchio e andava letteralmente a sbattere contro le pareti della scatola cranica. Dall’interno. Uno schiavo africano, un moro dai vistosi bicipiti e il turbante giallognolo, i piedi affondati ma saldamente piantati nella corteccia cerebrale, con una grossa mazza, una mazza da spaccapietra, a colpire con costanza, incessante, incalzante, a voler sfondare la fronte. Insieme alle urla incessanti della folla che ormai, per lui, sembravano una massa corporea, un’ovatta, ormai i suoi sensi erano oltre la percezione del dolore. “Borghese!”. Non sapeva da dove arrivasse tutto quel sangue, ma lo vedeva, davanti agli occhi, lo sentiva scivolare lungo la pelle del viso, sul naso, a scivolare sulla curva delle guance, ne sentiva il sapore sulle labbra, in bocca. Nel cuoio capelluto presentava una grave ferita lacero-contusa, qualcuno l’aveva colpito con una spranga o forse con una bastonata calata sulla testa. Con forza. Cattiveria, intenzione. Senza pietà alcuna. Nessuna misericordia. Non sapeva. Non capiva più. “Borghese!”. Cercò di mettere a fuoco la scena che si trovava davanti, cercò di concentrarsi per uscire dalla nebbia che gli offuscava la vista mentre qualcuno, dalle spalle, lo spingeva costringendolo in ginocchio sul porfido del selciato. L’uomo al tavolo, masticando un bastoncino, scriveva su una pergamena. Al suo fianco un giovane. Lo guardò e, dopo qualche istante, pensò di riconoscerlo: uno dei garzoni della panetteria, quello che aveva insidiato la consorte, la dama sua sposa, scesa alla bottega per meritarsi, in quei  tempi bui, una patente di benevolenza popolare. Giorni oscuri. Ma mal gliene era colto, al troppo intraprendente figlio del popolo: lei da buona moglie aveva rifiutato quelle avances, gliene aveva parlato e naturalmente lui lo aveva licenziato. Con un paio di sonore pedate nel posteriore che dal retrobottega lo avevano fatto ruzzolare nel viottolo. Una scena divertente. Con le comari al lavatoio a ridere sguaiatamente, a canzonare, ad irridere quel pulcino irriverente. “Borghese!” Ne sei sicuro, ragazzo? “Si, cittadino commissario, questo è un ricco borghese, un pericolo per la Rivoluzione”. Ma no, no, no, non è vero. Sì, non sono più il povero disperato di quando sono nato, ma ho lavorato, ho creato bottega, non per questo oggi sono borghese, io sto col popolo, cittadini! Non una di quelle parole, urlate dalla mente, uscì dalla sua bocca. Aperta. Con i denti rotti. Piena di sangue. Gli uscì un indefinibile brontolio. Il cittadino commissario, pulì il pennino tra i peli ispidi della barba, l’intinse nel calamaio, segnò una nuova x sulla pergamena. Nello stesso momento, come se il segnale fosse convenuto, il cittadino Jean Pierre afferrò per i capelli l’opulento borghese smascherato, calò la spada sul collo reclinato, alzò la testa recisa al cielo, simbolico trofeo della rivolta contro i potenti responsabili della miseria e della fame della gente del popolo, ed urlò, un grido liberatorio, "un borghese in meno!". La folla parve in visibilio, entusiasta. Molti capelli volarono verso il cielo, qualcuno sparò, chi nell’aria, chi mirando ai capelli, chi alle finestre ormai sventrate dei ricchi palazzi affacciati sulla piazza. Un borghese in meno! E una vedova libera in più, sorrise malizioso il ragazzo che finalmente aveva vendicato non tanto il licenziamento quanto l’umiliazione delle due sonore pedate e dell’essere ruzzolato lungo il sentiero in discesa. Con quelle oche di comari e di servette che avevano osato ridere di lui. Già, una vedova indifesa in più, ribadì avviandosi verso la casa padronale, la casa del borghese, quella tal casa con le persiane e le porte sprangate, dove ormai restava, nascosta nelle cantine, tremante, solo la ricca dama con le sue dame di compagnia, le sue servette. Con un cenno richiamò un gruppo di altri ragazzetti. Formavano una squadra. Che nessuna porta avrebbe fermato. “Borghese, borghese, t’impiccheremo agli altari delle chiese”, canticchiò il ragazzo allontanandosi dalla piazza. In verità non sapeva nemmeno cosa fosse, un borghese, ma i capi della rivolta dicevano che erano nemici del popolo, come i preti neri e i nobili. Anzi. Peggio. Di più, nemici di più. Comunque a lui poco importava. Sapeva dove procurarsi un piede di porco e, con quello, avrebbe scardinato quella porta, nessuno poteva far nulla per quella dama borghese. Tempi oscuri. Ma non per lui. La folla alle sue spalle intanto spingeva verso il centro della piazza un soldato del Re con la divisa già fatta a brandelli. Il cittadino commissario pulì di nuovo il pennino tra i peli della lunga incolta sporca barba nera.<br />

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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