La scissione socialista, Antonio Gramsci tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, il riconoscimento del partito guida bolscevico, il delitto Matteotti, l’attentato a Mussolini, la cattura di Gramsci, la morte

 Antonio Gramsci nel 1921 fu tra i fondatori del Partito Comunista d’Italia, divenendone esponente di primo piano e segretario dal 1924 al 1927, ma nel 1926 venne rinchiuso dal regime fascista nel carcere di Turi. Nel 1934, in seguito al grave deterioramento delle sue condizioni di salute, ottenne la libertà condizionata e fu ricoverato in clinica, dove trascorse gli ultimi anni di vita.

Considerato uno dei più importanti pensatori del XX secolo e tra i massimi esponenti del marxismo occidentale, nei suoi scritti, tra i più originali della tradizione filosofica marxista, Gramsci analizzò la struttura culturale e politica della società. Elaborò in particolare il concetto di egemonia, secondo il quale le classi dominanti impongono i propri valori politici, intellettuali e morali a tutta la società, con l’obiettivo di saldare e gestire il potere intorno a un senso comune condiviso da tutte le classi sociali, comprese quelle subalterne.

Maturata la scelta socialista nel 1913 in seguito, rivolgendosi ai giovani, scrisse da solo il numero unico del giornale dei giovani socialisti La Città futura, uscito l’11 febbraio 1917. Qui mostra la sua intransigenza politica, la sua ironia, anche contro i socialisti riformisti, il fastidio verso ogni espressione retorica ma anche la sua formazione idealistica, i suoi debiti culturali nei confronti di Croce, superiori perfino a quelli dovuti a Marx: «in quel tempo» – scriverà – «il concetto di unità di teoria e pratica, di filosofia e politica, non era chiaro in me e io ero tendenzialmente crociano».

Nel marzo 1917 lo zar di Russia Nicola II è facilmente rovesciato da pochi giorni di manifestazioni popolari, per lo più spontanee, che chiedono pane: viene instaurato un moderato governo liberale e, insieme, si ricostituiscono i Soviet, forme di rappresentanza su base popolare già creati nella precedente Rivoluzione russa del 1905; le notizie giungono in Italia parziali e confuse: i quotidiani «borghesi» sostengono che si tratta dell’avviamento di un processo di democratizzazione in Russia, sull’esempio della grande Rivoluzione francese, mentre Gramsci è convinto che «la rivoluzione russa è […] un atto proletario ed essa naturalmente deve sfociare nel regime socialista […] ».

Con il ritorno in Russia di Lenin, che pone subito il problema della pace immediata e della consegna del potere ai Soviet, la lotta politica si radicalizza. Gramsci è convinto che Lenin abbia «suscitato energie che più non morranno. Egli e i suoi compagni bolscevichi sono persuasi che sia possibile in ogni momento realizzare il socialismo». Gramsci nega esplicitamente la necessità dell’esistenza di condizioni obiettive affinché una rivoluzione trionfi, quando scrive che i bolscevichi «sono nutriti di pensiero marxista. Sono rivoluzionari, non evoluzionisti. E il pensiero rivoluzionario nega il tempo come fattore di progresso. Nega che tutte le esperienze intermedie tra la concezione del socialismo e la sua realizzazione debbano avere nel tempo e nello spazio una riprova assoluta e integrale».

I bolscevichi avevano intanto preso il potere in Russia il 7 novembre 1917, ma per settimane in Europa giunsero solo notizie deformate, confuse e censurate, finché il 24 novembre l’edizione nazionale dell’Avanti! uscì con un editoriale dal titolo La rivoluzione contro il Capitale, firmato da Gramsci, collaboratore da Torino che, di fatto, esprimeva una forte critica nei confronti dei dirigenti socialisti europei e italiani in particolare. Lui, come altri giovani socialisti torinesi (Togliatti, Terracini) avvertiva l’esigenza di novità nell’attività politica non rappresentate dalla Direzione Nazionale del Partito. Diventò collaboratore della rivista Ordine Nuovo portandola su posizioni nettamente operaistiche, ponendo all’ordine del giorno la necessità d’introdurre nelle fabbriche italiane nuove forme di potere operaio, i consigli di fabbrica, sull’esempio dei Soviet russi. Nel progetto degli ordinovisti, i Consigli dovevano occuparsi non tanto dei consueti problemi sindacali, ma porsi problemi politici, fino al problema della stessa organizzazione, della gestione operaia della fabbrica, sostituendosi al capitalista: nel settembre 1919, alla FIAT furono eletti i primi Consigli con la partecipazione di tutti gli operai. Naturalmente l’opposizione della Confindustria e di industriali torinesi come Olivetti, De Benedetti e Agnelli fu totale portando a scontri, licenziamenti, scioperi e serrate e alla fine gli operai ne uscirono senza nulla in mano. Responsabili, per Gramsci e gli ordinovisti, i sindacalisti della Camera del Lavoro e gli stessi socialisti riformisti che, col loro atteggiamento, portavano il Partito “ad assistere da spettatore allo svolgersi degli eventi, non ha mai un’opinione sua da esprimere […] non lancia parole d’ordine che possano essere raccolte dalle masse, dare un indirizzo generale, unificare e concentrare l’azione rivoluzionaria […] il Partito socialista è rimasto, anche dopo il Congresso di Bologna, un mero partito parlamentare, che si mantiene immobile entro i limiti angusti della democrazia borghese […]”. Dunque, dito puntato contro la mancanza di omogeneità nel Partito dove continuavano ad essere presenti riformisti ed opportunisti contrari agli indirizzi della III Internazionale che limitavano l’azione della maggioranza rivoluzionaria trasformando il Partito in un mero organismo burocratico. Sostiene che “l’esistenza di un Partito comunista coeso e fortemente disciplinato […] è la condizione fondamentale e indispensabile per tentare qualsiasi esperimento di Soviet […] il Partito deve lanciare un manifesto nel quale la conquista rivoluzionaria del potere politico sia posta in modo esplicito […]“. Tuttavia al Congresso del P.S.I. convocato a Bologna nel 1919 i massimalisti ebbero la maggioranza ma la risoluzione dell’Internazionale comunista che chiedeva ai partiti socialisti l’allontanamento dei riformisti, venne disattesa dal Partito Socialista Italiano.

L’occupazione delle fabbriche

In Italia, le rivendicazioni salariali, rese necessarie dall’elevato indice d’inflazione, non trovavano accoglienza presso gli industriali. Il 30 agosto 1920, a Milano, a seguito della serrata dell’Alfa Romeo, 300 fabbriche furono occupate dagli operai: la FIOM appoggiò l’iniziativa, ordinando l’occupazione di tutte le fabbriche metalmeccaniche d’Italia, con la speranza che una tale, estrema iniziativa provocasse l’intervento del governo a favore di una soluzione delle trattative. All’inizio di settembre tutte le maggiori fabbriche d’Italia erano occupate da mezzo milione di operai, parte dei quali armati, sia pure in modo rudimentale; alla FIAT di Torino, tuttavia, ci fu una novità: dell’ufficio di Giovanni Agnelli prese possesso l’operaio comunista Giovanni Parodi e i Consigli di fabbrica decisero di continuare la produzione, per dimostrare che una grande fabbrica poteva funzionare anche in assenza del proprietario (una tesi fortemente sostenuta da Gramsci). Tuttavia la maggioranza massimalista del Partito (all’interno della quale gli ordinovisti rappresentavano una frazione) non aveva intenzione di prolungare l’agitazione dichiarando l’occupazione di tutte le fabbriche del Paese. Venne scelta la linea di un accordo salariale raggiunto con la mediazione di Giolitti, liberale, capo del governo. A questo punto Gramsci scrive che “la costituzione del Partito comunista crea le condizioni per intensificare e approfondire l’opera nostra: liberati dal peso morto degli scettici, dei chiacchieroni, degli irresponsabili, liberati dall’assillo di dover continuamente, nel seno del Partito, lottare contro i riformisti e gli opportunisti, di dover sventare le loro insidie, di dover analizzare e criticare i loro atteggiamenti equivoci e la loro fraseologia pseudo-rivoluzionaria, noi potremo dedicarci interamente al lavoro positivo, all’espansione del nostro programma di rinnovamento, di organizzazione, di risveglio delle coscienze e delle volontà“. A conseguenza, nell’ottobre 1920 si riunì a Milano il gruppo favorevole alla costituzione di un partito comunista e Amadeo Bordiga, Luigi Repossi, Bruno Fortichiari, Gramsci, Nicola Bombacci, Francesco Misiano e Umberto Terracini costituirono il Comitato provvisorio della frazione comunista del Partito Socialista.

La fondazione del Partito comunista

La scissione si realizzò il 21 gennaio 1921, nel Teatro San Marco di Livorno, con la nascita del «Partito Comunista d’Italia, sezione italiana dell’Internazionale». Dal 1º gennaio 1921 Gramsci diresse l’Ordine nuovo, divenuto ora uno dei quotidiani comunisti insieme con Il Lavoratore di Trieste e Il Comunista di Roma, quest’ultimo diretto da Togliatti. Non venne eletto deputato alle elezioni del 15 maggio: non è un gran oratore e non gode di particolare popolarità.

Il 12 febbraio 1924 uscì a Milano il primo numero del nuovo quotidiano comunista l’Unità . Il titolo del giornale, da lui scelto, venne giustificato dalla necessità dell’«unità di tutta la classe operaia intorno al partito, unità degli operai e dei contadini, unità del Nord e del Mezzogiorno, unità di tutto il popolo italiano nella lotta contro il fascismo».

Il 10 giugno di quello stesso 1924 un gruppo di fascisti rapì e uccise il deputato socialista Giacomo Matteotti segretario del Partito Socialista Unitario, il Partito dei riformisti espulsi dal P.S.I:; sembrò allora che il fascismo stesse per crollare per l’indignazione morale che in quei giorni percorse il Paese, ma non fu così. Gramsci dicharò che “il delitto Matteotti dette la prova provata che il Partito fascista non riuscirà mai a diventare un normale partito di governo, che Mussolini non possiede dello statista e del dittatore altro che alcune pittoresche pose esteriori; egli non è un elemento della vita nazionale, è un fenomeno di folklore paesano, destinato a passare alla storia nell’ordine delle diverse maschere provinciali italiane, più che nell’ordine dei Cromwell, dei Bolívar, dei Garibaldi“. Un’analisi sostanzialmente giusta ma fuori tempo e fuori realtà.

Il Congresso di Lione

Dal 20 al 26 gennaio 1926 si svolse clandestinamente a Lione il III Congresso del Partito che approvò le Tesi elaborate da Gramsci e Togliatti, votando lo stesso Gramsci segretario nazionale.

Con un capitalismo debole e l’agricoltura base dell’economia nazionale, in Italia si assiste al compromesso fra industriali del Nord e proprietari fondiari del Sud, ai danni degli interessi generali della maggioranza della popolazione. Il proletariato, in quanto forza sociale omogenea e organizzata rispetto alla piccola borghesia urbana e rurale, che ha interessi differenziati, viene visto, nelle Tesi, “come l’unico elemento che per la sua natura ha una funzione unificatrice e coordinatrice di tutta la società.” Secondo Gramsci il fascismo non è, come invece ritiene Bordiga, l’espressione di tutta la classe dominante, ma è il frutto politico della piccola borghesia urbana e della reazione degli agrari che ha consegnato il potere alla grande borghesia, e la sua tendenza imperialistica è l’espressione della necessità, da parte delle classi industriali e agrarie, “di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana” che tuttavia permette, per la sua natura oppressiva e reazionaria, una soluzione rivoluzionaria delle contraddizioni sociali e politiche; le due forze sociali idonee a dar luogo a questa soluzione sono il proletariato del Nord e i contadini del Mezzogiorno. A questo scopo, sostiene, il Partito andrà bolscevizzato, ossia organizzato per cellule di fabbrica caratterizzate da una “disciplina di ferro” negando al suo interno la possibilità dell’esistenza delle frazioni. Di rilievo la posizione rispetto alla socialdemocrazia che “sebbene abbia ancora la sua base sociale, per gran parte, nel proletariato per quanto riguarda la sua ideologia e la sua funzione politica cui adempie, deve essere considerata non come un’ala destra del movimento operaio, ma come un’ala sinistra della borghesia e come tale deve essere smascherata“. Nelle stesse Tesi si evidenzia che spetta “al partito russo una funzione predominante e direttiva nella costruzione di una Internazionale comunista… La organizzazione di un partito bolscevico deve essere, in ogni momento della vita del partito, una organizzazione centralizzata, diretta dal Comitato centrale non solo a parole, ma nei fatti. Una disciplina proletaria di ferro deve regnare nelle sue file… La centralizzazione e la compattezza del partito esigono che non esistano nel suo seno gruppi organizzati i quali assumano carattere di frazione. Un partito bolscevico si differenzia per questo profondamente dai partiti socialdemocratici.

L’arresto e il processo

Nel frattempo in Unione Sovietica è in corso la lotta fra la maggioranza di Stalin e Bucharin e la minoranza di sinistra del Partito comunista, guidata da Trotskij, Zinov’ev e Kamenev, che critica la politica della NEP, la quale favorisce i contadini ricchi a svantaggio degli operai, e la rinuncia alla rivoluzione socialista mondiale attraverso la costruzione del ‘socialismo in un solo paese’ che porterebbe all’involuzione del movimento rivoluzionario. Il dissidio si era fatto sempre più aspro con la costituzione in frazione della minoranza e si era esteso anche all’interno del Partito comunista tedesco, provocando una scissione. Gramsci rileva che “i compagni Zinov’ev, Trockij, Kamenev hanno contribuito potentemente a educarci per la rivoluzione […] sono stati tra i nostri maestri. A loro specialmente ci rivolgiamo come ai maggiori responsabili dell’attuale situazione perché vogliamo essere sicuri che la maggioranza del comitato centrale del partito comunista dell’URSS non intenda stravincere nella lotta e sia disposta a evitare le misure eccessive. L’unità del nostro partito fratello di Russia è necessaria per lo sviluppo e il trionfo delle forze rivoluzionarie mondiali; a questa necessità ogni comunista e internazionalista deve essere disposto a fare maggiori sacrifizi. I danni di un errore compiuto dal partito unito sono facilmente superabili; i danni di una scissione o di una prolungata condizione di scissione latente possono essere irreparabili e mortali. Ma il tempo incalza, ben altri avvenimenti caratterizzano l’Italia: il 31 ottobre 1926, Mussolini subì a Bologna un attentato senza conseguenze personali che però costituì il pretesto per l’eliminazione degli ultimi, minimi residui di democrazia: il 5 novembre il governo sciolse i partiti politici di opposizione e soppresse la libertà di stampa. L’8 novembre, in violazione dell’immunità parlamentare, Gramsci venne arrestato nella sua casa e rinchiuso nel carcere di Regina Coeli. Dopo un periodo di confino a Ustica, il 7 febbraio 1927 fu detenuto nel carcere milanese di San Vittore. L’istruttoria andò per le lunghe, perché vi erano difficoltà a montare su di lui accuse credibili: fu anche fatto avvicinare da due agenti provocatori – prima un tale Dante Romani e poi un certo Corrado Melani – ma senza successo. Il processo a ventidue imputati comunisti, fra i quali Umberto Terracini, Mauro Scoccimarro e Giovanni Roveda, iniziò finalmente a Roma il 28 maggio 1928; Mussolini aveva istituito il 1º febbraio 1927 il Tribunale Speciale Fascista. Presidente è un generale, Alessandro Saporiti, giurati sono cinque consoli della milizia fascista, relatore l’avvocato Giacomo Buccafurri e accusatore l’avvocato Michele Isgrò, tutti in uniforme; intorno all’aula, un doppio cordone di militi in elmetto nero, il pugnale sul fianco ed i moschetti con la baionetta in canna. Gramsci è accusato di attività cospirativa, istigazione alla guerra civile, apologia di reato e incitamento all’odio di classe. Il pubblico ministero Isgrò concluse la sua requisitoria con una frase rimasta famosa: “Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per venti anni“; e infatti Gramsci, il 4 giugno, venne condannato a venti anni, quattro mesi e cinque giorni di reclusione; il 19 luglio raggiunse il carcere di Turi, in provincia di Bari.

Il carcere e la morte

L’8 febbraio 1929, nel carcere di Turi, il detenuto 7.047 ottenne finalmente l’occorrente per scrivere e iniziò la stesura dei suoi Quaderni del carcere. Il primo quaderno si apre proprio con una bozza di 16 argomenti, alcuni dei quali saranno abbandonati, altri inseriti e altri ancora svolti solo in parte. Intanto, il VI Congresso dell’Internazionale comunista, tenutosi a Mosca dal luglio al settembre 1928, aveva stabilito l’impossibilità di accordi con la socialdemocrazia, che veniva anzi assimilata allo stesso fascismo. Era la tesi del dittatore Stalin il quale, liquidata l’opposizione di Trockij, eliminava anche l’influenza di Bucharin. Da parte sua Il Partito comunista d’Italia si adeguò alle scelte dell’Internazionale, espellendo Angelo Tasca in settembre e in successione, ma con l’accusa di trotskismo, prima, il 30 marzo del 1930, Bordiga, poi, il 9 giugno, fu la volta di Alfonso Leonetti, Pietro Tresso e Paolo Ravazzoli. Gramsci, da parte sua, parlava di una via intermedia per la conquista del potere con una prima fase di alleanza tra la classe operaia, i contadini del Meridione, la piccola borghesia (compresi i socialisti riformisti). Per questo proponeva una Costituente che innanzitutto superasse la Monarchia: “La lotta per la conquista diretta del potere è un passo al quale questi strati sociali potranno solo accedere per gradi […] il primo passo attraverso il quale bisogna condurre questi strati sociali è quello che li porti a pronunciarsi sul problema istituzionale e costituzionale. L’inutilità della Monarchia è ormai compresa da tutti i lavoratori […] a questo obiettivo deve improntarsi la tattica del partito senza tema di apparire poco rivoluzionario. Deve fare sua prima degli altri partiti in lotta contro il fascismo la parola d’ordine della Costituente“, tesi che per alcuni lo ponevano esterno al Partito Comunista. Sicuramente da osservare lo sviluppo di un costante confronto e di una grande amicizia con Sandro Pertini, esponente del PSI e detenuto a sua volta nella Casa Penale di Turi e Pertini, nonostante i pensieri politici differenti, anche dopo la scarcerazione, ricordò spesso nei suoi discorsi il compagno di prigionia e le tristi condizioni di salute che lo stroncavano. Dal 1931 Gramsci, oltre al morbo di Pott di cui soffriva fin dall’infanzia, fu colpito da arteriosclerosi e poté così ottenere una cella individuale; cercò di reagire alla detenzione studiando ed elaborando le proprie riflessioni politiche, filosofiche e storiche, tuttavia le condizioni di salute continuarono a peggiorare e in agosto ebbe un’improvvisa e grave emorragia. A marzo 1933 ebbe una seconda grave crisi, con allucinazioni e deliri. Si riprese a fatica, venne trasferito nell’infermeria del carcere di Civitavecchia e il 7 dicembre in clinica a Formia. Il 25 ottobre 1934 Mussolini accolse la richiesta di libertà condizionata ma solo il 14 agosto 1935 poté essere trasferito nella clinica “Quisisana” di Roma, dove giunse in gravi condizioni, poiché oltre al morbo di Pott e all’arteriosclerosi soffriva di ipertensione e di gotta. Il 21 aprile 1937 Gramsci passò dalla libertà condizionata alla piena libertà, ma era ormai in gravissime condizioni: morì all’alba del 27 aprile, a quarantasei anni, di emorragia cerebrale, nella stessa clinica Quisisana. Il giorno seguente la cremazione si svolsero i funerali, cui parteciparono soltanto il fratello Carlo e la cognata Tatiana: le ceneri, inumate nel cimitero del Verano, furono trasferite l’anno seguente nel Cimitero acattolico di Roma, nel Campo Cestio.

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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