Il sessantotto, in realtà, fu un fatto un po’ radical chic, espressione che definisce gli appartenenti alla borghesia che per vari motivi (seguire la moda, esibizionismo o per inconfessati interessi personali) ostentano idee e tendenze politiche affini alla sinistra radicale o comunque opposte al loro vero ceto di appartenenza.
Personalmente sono convinto che un’affermazione di questo tipo sia solo una (quella denigratoria degli esponenti della borghesia conservatrice) delle tante verità che possono definire quella realtà storica molto spesso mitizzata e che comunque appunto necessita di un’analisi complessiva, come un prisma fatto di tante sfaccettature tra loro anche contrastanti.
All’epoca avevo 14 anni con alcune convinzioni radicate per tradizione familiare: il mondo si divideva in due, da una parte Usa e Urss, superpotenze guerrafondaie che si dividevano il mondo e facevano la guerra. In altri termini superpotenze ben poco inclini alla democrazia o comunque non certo dalla parte della democrazia partecipata di chi lavora.
Nell’ambito invece del nostro piccolo orticello italiano (l’Europa non esisteva) da un lato stavano i padroni (con i preti dalla loro parte), dall’altro i lavoratori e il bastone stava nelle mani dei primi per cui bisognava stare attenti a come ci si muoveva (lavorare ‘sotto traccia’) perché a rimetterci eravamo sempre e soltanto “noi”.
Quando, al telegiornale, ho visto immagini di quei ragazzi che a Valle Giulia si scontravano con la polizia, ho fatto fatica a capire: erano tutti in giacca e cravatta, avevano i capelli corti e ben tagliati, erano appunto i figli della borghesia, di avvocati, medici, ingegneri, tutti ragazzi che studiavano all’Università per diventare (come sarebbero diventati) avvocati, giudici, medici, primari, ingegneri, cosa impensabile per “noi” figli di lavoratori per i quali l’accesso a quegli studi era ufficialmente precluso visto che i nostri genitori non potevano permettersi di iscriverci ai licei ipotecando almeno una decina d’anni di mantenimento agli studi.
Era insomma un’epoca di grandi discriminazioni. Ci stavano i palazzi popolari con i balconi a ringhiera e il bagno in comune con i vestiti lavati che riempivano di profumi (di sudore) tutti gli anfratti del caseggiato oltre agli effluvi del minestrone col brodo fatto col dado aromatizzato. Per gli “altri” i grattacieli, le ville con piscina, le visite alla fabbrica in elicottero.
In fabbrica c’erano i guardiani che controllavano quante volte un operaio andava in bagno, vigilando che non fumassero non perché il fumo facesse male e il padrone pensasse alla tua salute ma perché fumare faceva perdere tempo. In Fiat a Torino i Re.Po. compilavano schede a punti: 3 punti per operai Cgil o addirittura Pci, da eliminare. Per l’assunzione serviva oltre all’adeguata raccomandazione, il parere del parroco e il visto dei Carabinieri.
Il mio ’68? Mamma e papà lavoravano e mi hanno mandato a dopo scuola dai Gesuiti per istruirmi meglio, specie in matematica. Uno di loro (non ricordo il nome), proprio l’insegnante di matematica, un giorno mi prese da parte e, indicandomi un ragazzo, mi disse “stai attento, i suoi genitori sono comunisti“. Vade retro, falce e martello!
In via Caccialupo ancora oggi c’è una caserma dei Carabinieri. Un giorno passavo in quella via dove tra l’altro alloggiavano gli ufficiali americani della Nato di stanza all’aereoporto militare di San Damiano. Un milite ai miei occhi un pò avanti con gli anni mi disse “stai attento ai socialisti, sono furbi quelli, stanno al governo con i democristiani ma fanno gli interessi dei rossi“. I rossi equivalevano agli operari e ai lavoratori.
Il mio ’68. Due anni dopo, in seconda superiore, a ragioneria, il mio primo sciopero finiva all’assemblea nel salone della Camera del Lavoro messa a disposizione dal sindacato Cgil, passando di fronte ai questurini abbardati con caschi, scudi e manganelli. Tre anni ancora e il governo a partecipazione socialista avrebbe aperto la possibilità di iscrizione all’università anche per “noi” figli di operai e lavoratori. Contemporaneamente approvava lo ‘Statuto dei lavoratori’ che cambiava la vita nelle grandi fabbriche riconoscendo appunto i diritti dei lavoratori. Eravamo sdoganati.