Il sole picchia a martello, ma qualche ombra d’albero s’affaccia sulla riva e questo rincuora. Siamo in giro, quelle spiagge segrete, accessibili solo ai locali, dove la fitta vegetazione nasconde le sponde. Intanto ci sorprende un dato di fatto: da alcuni decenni il Grande Fiume non si mostrava così bello, docile ma imponente in luglio, in quella mezza estate di canicola. Siamo ancora sopra al fatidico “zero idrometrico” alla metà di luglio, certamente nei prossimi giorni di meteo implacabile, il livello del Po tenderà a calare drasticamente, ma per ora senza allarmi, di nessun genere. Quest’anno le campagne avranno l’agognata acqua, con falde ricche e colme. Sono due gli aspetti che ci colpiscono e che vanno segnalati: il primo, positivo, è che appunto il fiume è ricco di acque che scorrono tranquille, dopo gli anni del grande “secco”; adesso il livello idrico è perfetto. Il secondo aspetto è negativo: dal letto, in naturale ritiro, emergono ormai i soliti, improbabili oggetti d’ogni sorta, finiti chissà come nell’alveo, e questo non va bene. Camminando lungo l’alveo dove si “spalma” e s’adagia, ecco che appaiono sotto agli occhi i soliti oggetti prodotti dall’uomo, inquinanti, estranei a questi luoghi naturali. Si chiama “antropocene”, il secolo dei grandi rifiuti d’ogni genere e la plastica, come al solito nel nostro Po la fa da padrona. Se le piccole piene, solenni e alterne di questi mesi, hanno modellato il corso del Grande Fiume, formando raschioni di piccola ghiaia, dove un tempo era bianca sabbia, ecco che qua e là appaiono i rifiuti “lanciati” in acqua dall’uomo. Gli pneumatici di auto e motocicli sono proprio tanti, così come varie calzature, giocattoli rotti, lattine e materiale ferroso ormai arrugginito tra cocci di bottiglie. Ci vorranno secoli per “assorbire” le particelle plastiche rilasciate in acqua. Intanto iniziano a comparire bianchi, limpidi sabbioni estivi, dove gruppi di gabbiani e garzette soggiornano con le loro zampe in ammollo sulle rive a caccia di molluschi. È una natura ricca, florida, purtroppo per pochi, forse anche “snobbata”; il Grande Fiume non è più – triste a dirsi – il “mare” dei piacentini, è un dato di fatto. Mentre ci allontaniamo, gettiamo l’ultimo sguardo su queste distese inermi, di sabbie inattese, dove tra natura e cicale purtroppo spuntano oggetti d’uso quotidiano dell’uomo, rifiuti che non dovrebbero trovarsi qui.
[ Ndr: Si riporta l’articolo pubblicato dal quotidiano on line IlPiacenza.it nell’edizione di venerdì 5 luglio ] Solo un italiano su quattro sarebbe favorevole alle centrali nucleari per la produzione di energia elettrica. È quanto emerge dal recente sondaggio commissionato da Legambiente, Kyoto Club, Conou, Editoriale Nuova Ecologia effettuato da Ipsos, la società multinazionale di ricerche di mercato e consulenza con sede a Parigi, che stima che ben il 75% degli italiani è contrario al nucleare. L’anno successivo ai tragici eventi del disastro di Chernobyl del 26 aprile 1986, i cittadini italiani furono chiamati alle urne per esprimersi sul futuro dell’energia nucleare. In quel momento, in Italia erano quattro le centrali nucleari in funzione: a Latina, a Garigliano di Sessa Aurunca (CE), a Trino (VC) e quella di Caorso, costruita negli anni ‘70 sulla riva destra del fiume Po all’interno di una zona golenale di Zerbio di Caorso. Le centrali vennero spente e si portò avanti una lunga opera di smantellamento, che tutt’oggi è ancora in corso. Arriviamo ad oggi, dove i risultati del sondaggio Ipsos, presentati il 3 luglio a Roma, in occasione della prima giornata dell’Ecoforum nazionale, hanno fatto emergere che, allo stato attuale, per il 75% degli italiani (ovvero 4 su 5 con buona pace dell’attuale governo, ndr) il nucleare non è una soluzione attuabile e non rappresenta una valida alternativa alle fonti fossili, perché troppo pericoloso e poco conveniente. Solo il 25% sostiene che sia meglio un ritorno al nucleare. Così, per la gran parte dei cittadini italiani, il BelPaese deve fare di più su rinnovabili, economia circolare e lotta alla crisi climatica. Fonti pulite ed economia circolare secondo gli italiani rappresentano due volani per il Paese permettendo di creare nuovi green jobs: oltre 1 italiano su 2 ritiene che in futuro aumenteranno. Due, poi, le priorità d’azione che emergono in prima battuta dal sondaggio: per il 54% degli intervistati il Governo dovrebbe incentivare la produzione e l’’impiego di energie rinnovabili e per sviluppare l’economia circolare; per il 38% le amministrazioni dovrebbero semplificare il processo autorizzativo degli impianti di energie rinnovabili e per sviluppare l’economia circolare. Per quanto riguarda la crisi climatica che avanza, i cittadini sono sempre più consapevoli delle ricadute economiche e degli impatti su territori e salute delle persone. In particolare, per il 61% degli intervistati l’aumento dei disastri naturali è dovuto proprio alla crisi climatica, per il 45% i cambiamenti climatici hanno effetti sul costo della vita in generale, per il 44% determinano un aumento dei costi dei prodotti alimentari, per il 29% un aumento delle malattie croniche, allergie e tolleranze. L’impegno a contrastare la crisi climatica deve vedere in prima fila per il 72% degli intervistati i Governi nazionali, seguiti da aziende e consorzi (42%), amministrazioni locali (39%), cittadini/consumatori (35%), media (20%). “Per centrare gli obiettivi Ue al 2030, servono politiche e interventi coraggiosi che permettano di accelerare il passo e di contrastare la crisi climatica. Mancano solo sei anni al 2030, ma il Governo Meloni guarda al passato, a partire dalla scelta fatta sul Pniec (contenente un mix energetico basato anche sul nucleare), sul gas e sul Piano Mattei. Una decisione grave, che non tiene conto delle esperienze virtuose in fatto di rinnovabili, sparse nella Penisola, e della leadership italiana sull’economia circolare in Europa“. Lo ha dichiarato Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente, alla prima giornata dell’Ecoforum nazionale a Roma. “Occorre accelerare lo sviluppo e la realizzazione di nuovi impianti a fonti pulite, e lavorare sulle filiere strategiche dell’economia circolare, a partire dal riciclo dei Raee – ha aggiunto Ciafani -. Per far ciò, occorre rimuovere quegli ostacoli burocratici e tecnologici che oggi ne rallentano lo sviluppo, perseguire la strategia “Rifiuti zero, impianti mille” puntare ad un modello di gestione sempre più ottimale, basato su raccolta porta a porta, tariffazione puntuale, impiantistica diffusa e capillare sul territorio e nuove campagne di informazione e sensibilizzazione rivolte ai cittadini“.
Oltre un milione di metri quadrati di spazi per disegnare una nuova città. Italia Nostra mette sul tavolo dubbi e prospettive. La sfida tra rigenerazione e valorizzazione del ruolo storico. La scommessa, quella di sempre, resta il punto d’incontro tra le due visioni.
Piacenza si presenta al futuro con a disposizione 680mila metri quadrati di aree già dismesse e con un potenziale che assomma ad altri 580mila metri quadrati di spazi che nella prospettiva saranno dismessi.Una ricca dote o un problema insormontabile questo milione e duecento mila metri quadrati di aree (paragonabili a 100 campi da calcio) per una città di centomila abitanti? Il confronto con Milano (città di un paio di milioni di abitanti) che di metri quadrati di aree dismesse ne conta 400mila dà il senso della grande opportunità che ha Piacenza ma anche della grande sfida in termini di progettazione, di fondi necessari per il loro recupero e soprattutto interroga nel profondo sulle funzioni che tali spazi cittadini dovranno avere e chi ne potrà fruire visto che gli spazi sono immensi, gli abitanti pochi e tra questi sempre meno i giovani. Sono troppi per una città che si mantiene stabilmente sui 100mila abitanti? Come rigenerali? Quanto costa intervenire su strutture datate con la necessità di adeguarle alle leggi vigenti? Insomma il dilemma dei dilemmi che ciclicamente ricorre. Siamo preparati a tanto impegno? Interrogativi che sono riecheggiati nel sottofondo del confronto organizzato dalla sezione piacentina di Italia Nostra nei giorni scorsi dedicato a questo tema. Al tavolo per fare “Il punto sulle aree dismesse a Piacenza” Pietro Chiappelloni, presidente della sezione di Piacenza di Italia Nostra, l’ingegner Giovanni Monti e l’architetto Anna Lalatta che ha tratto le conclusioni. Spazi cittadini che, partendo dagli insediamenti militari dell’Ottocento, assommano varie stratificazioni che si sono aggiunte nel tempo, dal Consorzio Agrario in attesa di utilizzo, alla zona della Raffalda che potrebbe diventare dismessa, fino all’area del nuovo ospedale che, con la costruzione del nuovo, allunga l’elenco delle zone oggetto di riutilizzo e rigenerazione. Se viste nell’insieme possono essere considerate un problema (non indifferente la mole di denaro necessario per il loro riutilizzo e adeguamento alle norme di sicurezza) possono diventare anche una potenzialità di sviluppo e qualificazione della città. Il punto è che basta intendersi su quale tipo di sviluppo si voglia tracciare. E c’è da chiedersi se questo punto sia sufficientemente chiaro. Infatti serve capire il profilo che si vuole tratteggiare della città di Piacenza nel futuro. La scommessa, quella di sempre, resta il punto d’incontro tra le due visioni. Va aggiunto che è fondamentale, come è stato ricordato, il tema della pianificazione della città non ultimo anche la volontà di affrontare e credere nelle possibilità utilizzando i finanziamenti possibili e che a volte non sono completamente sfruttati. E c’è chi guarda al Piano urbanistico generale oggi in discussione come un’occasione storica per Piacenza. Da non perdere.
La fotografia dell’esistente
L’incontro promosso da Italia Nostra è stato anche l’occasione per avere una preziosa fotografia d’insieme con le indicazioni delle aree dismesse esistenti, quali sono e dove sono e quale impatto spaziale imprimono sulla città. In particolare l’intervento dell’ing. Giovanni Monti ha aiutato a delineare l’estensione delle aree già dismesse e di quelle che in un prossimo futuro saranno destinate ad essere abbandonate. Il segreto per rianimarle? Avere un’idea di città e fare leva sulla cultura e non gettare alle ortiche la storia che questi luoghi hanno alle spalle. È forse così che il tessuto urbano resta proiettato nel domani non trascurando di coltivare le proprie radici. Non facile, ma possibile. Ma attenzione – ha segnalato l’architetto Anna Lalatta – Piacenza non deve diventare un’operazione immobiliare. Una risposta indiretta ad alcune considerazioni emerse durante il dibattito secondo cui il motore della rigenerazione urbana che si è compiuta negli anni scorsi in alcune zone della città è stato il mercato immobiliare. Lo è stato per l’area ex Arbos, lo è stato per l’area ex Massarenti negli anni 80 per l’ex Unicem, interrotta per il crollo del mercato edilizio. Tutto però è stato sostenuto dalla richiesta abitativa. Valutazioni differenti emerse su un tema che ha percorso due filoni di pensiero: da un lato la conservazione dell’uso storico e di ciò che ha rappresentato per la città e, dall’altro, una rivisitazione per nuove funzioni e nuovi utilizzi. Ma attenzione ad evitare – è stato detto – che quelle rigenerazioni non portino a determinare un degrado di quelle stesse zone.
Intanto i numeri: la classifica delle dimensioni
Numeri importanti che mettono al primo posto della classifica l’area della Pertite con 276.552 metri quadrati, segue poi l’ex Consorzio agrario con 150.000 mq, l’ex Caserma Lusignani con 53.450 mq, ex Acna con 55.154 mq, l’ex ospedale militare con 24,578 metri quadrati, area sfasciacarrozze (via del Pontiere) con 11.470 mq, ex campo ostacoli (accanto all’ex Consorzio agrario) con 20.007 mq, ex Caserma Nino Bixio e Laboratorio Pontieri di circa 53milaa mq, diverse altre aree minori (es. ex mercato ortofrutticolo che equivalgono a una superficie che va dai 10mila ai 20mila metri quadrati. In totale queste superfici di aree già dismesse assommano a 650mila metri quadrati. Accanto a queste ci sono poi altre aree di possibile futura dismissione. Tra queste si è elencato l’Arsenale di viale Malta che occupa una superficie di 200mila mq, l’attuale ospedale area di via Taverna e via Anguissola 112mila mq, la Caserma Nicolai di cui è prevista la dismissione nel 2024 per una superficie di 20mila mq tutto questo per un totale di altri 530mila mq disponibili.
Idee per il riutilizzo
Una storia non nuova quella delle aree dismesse, alcune delle quali sono state al centro di confronto e anche di scontro negli anni scorsi, ma ancora non si è arrivati a un progetto concreto condiviso. Tra questi “capitoli aperti” è stata citata l’area del Consorzio agrario, un complesso – è stato rilevato – che per Piacenza ha un significato particolare visto che è qui che è nato il primo consorzio italiano e che inoltre presenta strutture architettonicamente di pregio che potrebbero prestarsi a un utilizzo sportivo (campi da tennis o da pallacanestro) ma anche universitario trattandosi di una posizione baricentrica rispetto alle università presenti in città. In questi spazi inoltre – è stato ricordato – si facevano produzioni chimiche rilevanti e al loro interno sono ancora presenti macchinari che sarebbe necessario salvare. I fabbricati esistenti inoltre presentano specificità interessanti dal punto di vista architettonico e sono uno dei pochi esempi in Italia. Auspicabile – ha ricordato l’ing. Monti – che siano stati posti sotto tutela. E che dire della Pertite? Area verde ai bordi del centro città un polmone verde di cui, vista la qualità dell’aria, Piacenza avrebbe un gran bisogno. Una storia senza fine – si è detto nel corso dell’incontro – che nonostante la mobilitazione di 30mila cittadini con la raccolta di firme per farne un parco pubblico resta sempre senza soluzione. Un inghippo dopo l’altro nonostante che ora sia stata trasferita a Bolzano la pista per i carri armati che sembrava essere il grande problema che impediva la funzione. Ma l’agognato polmone verde fruibile dalla città resta ancora al palo. “La storia della Pertite la dice lunga – ha segnalato l’architetto Anna Lalatta nelle conclusioni dell’incontro – perché rimane nel cassetto ancora dopo 15 anni dalla mobilitazione dei cittadini (sulla Pertite si è svolto anche un referendum)?”
Il punto su alcune aree sotto osservazione
L’ex Acna, per ora, resta l’unica area di cui è stata identificata la destinazione come parcheggio, stesso utilizzo potrebbe essere previsto per l’area dello sfasciacarrozze con una rete di collegamento verso il centro.Critiche emerse riguardo all’abbattimento dell’ex mercato ortofrutticolo “Ora giace all’interno dell’area un cumulo di macerie, ma non è stato definito alcun utilizzo. “Anche quest’area avrebbe potuto essere destinata ad alloggi per studenti (a Piacenza ci sono 6mila studenti) visto che è baricentrica tra le due università”. Ha segnalato l’architetto Giuseppe Baracchi durante il dibattito. “Andammo a visitare l’area con il rettore del Politecnico… ma già nel 2018 si capì che non se ne poteva fare niente: sarà abbattuto, ci dissero in Comune, e lì verrà un parcheggio”. Quello degli alloggi per studenti è stato un tema che è riecheggiato in vari momenti dell’incontro visto che si è evidenziato con prepotenza con l’istituzione della facoltà di medicina in inglese e che è stato quantificato in una mancanza di almeno di 1.500 alloggi. Facoltà di medicina richiama un’altra area abbandonata: l’ex ospedale militare che, è stato detto, è composta da 6.600 metri quadrati di fabbricati per un totale di 17mila mq di superficie. Nell’intero ex ospedale militare avrebbe potuto trovare posto una vera e propria cittadella universitaria con spazi per l’insegnamento ma anche abitativi. Un fatto è certo – è l’avvertimento uscito dall’incontro di Italia Nostra – se lo si abbandona il futuro che si prospetta non sarà che il crollo. E che dire del Torrione Fodesta? Recuperato 15-20 anni fa con un investimento di 4 miliardi di lire ed ora ce lo troviamo devastato, i vetri e serramenti vandalizzati, cavi elettrici rubati. E da questa esperienza esce un avvertimento: attenzione, il recupero e il restauro di un bene storico abbandonato non fa merito a se stesso se manca un progetto di utilizzo in questo caso i soldi spesi sarebbe come gettarli alle ortiche.
Critiche e idee sugli utilizzi
Parlare di aree dismesse porta anche a una valutazione sull’attualità dei progetti in corso e sulle alternative. Dalla discussione avviata da Italia Nostra non sono mancate le critiche verso il parcheggio di piazza Cittadella. Vi è il dubbio “sulla corretta esecuzione dei sondaggi del sottosuolo” e la concreta possibilità d’intercettare la domus romana sotto il mercato coperto. L’alternativa secondo Italia Nostra è a poca distanza “nella Caserma Nino Bixio – hanno segnalato – c’è un cortilone simile per grandezza a piazza Cittadella perché non si decide di trovare un accordo con il Demanio e risolvere qui il problema del parcheggio per questa zona della città?”. Dubbi concreti anche sull’utilizzo delle vecchie scuderie per il nuovo mercato rionale. “Uno spazio, quello delle scuderie, idoneo e naturale per l’ampiamento dei musei farnesiani”. Ma ci sono anche idee e proposte come quella che riguarda l’ex albergo San Marco pensato “per la naturale espansione del Conservatorio Nicolini che ha fame di spazi infatti, a fronte di richieste di 400 allievi provenienti da tutto il mondo, c’è spazio solo per 40. E nella struttura storica potrebbe inoltre trovare spazio anche il museo verdiano”. Le diverse aree dismesse piacentine, per la loro valenza storica e di archeologia industriale potrebbero essere una “palestra di conoscenza” per gli studenti piacentini. Possibilità che per esempio potrebbe avere la centrale Adamello. “Gli studenti delle scuole tecniche studiano sui libri e pensare che nella centrale esistono impianti e macchinari dismessi da studiare dal vivo”.
Lievitazione dei costi per il nuovo ospedale a cui si aggiunge il cambio di prospettiva dei finanziamenti con la novità del project financing. Spazi mancanti che sarebbero reperibili non solo con una nuova costruzione. Accelerazione e ampliamento delle cure territoriali dettate dall’invecchiamento della popolazione con crescita delle cronicità e diventate necessarie dopo l’esperienza della pandemia. Sono alcune frecce all’arco del Comitato piacentino Salviamospedale che vorrebbe riaprire il tavolo della discussione sull’argomento e che da tempo pone al centro dell’attenzione il recupero, la rigenerazione dell’attuale struttura come opzione alternativa alla costruzione di un nuovo ospedale. Temi e argomentazioni che restano “invisibili e inascoltate” come dice Giovanni Ambroggi del Comitato piacentino. Le ragioni che adduce a favore di un recupero dell’esistente sono tante. Non ultima il consumo di suolo agricolo oltre alla nuova frattura che si creerebbe nel tessuto urbano con l’abbandono dell’attuale presidio sanitario composto dal Polichirurgico e dal nucleo antico. Una posizione ideologica quella del Comitato tesa a salvare una scelta che la politica – con un percorso a ostacoli tra polemiche forti e inchieste – ritenne l’unica strada percorribile negli anni Ottanta? Ambroggi respinge con forza questa valutazione. “Alla base dell’argomentare del Comitato non c’è una sorta di attaccamento ideologico al polichirurgico che ha soli 30 anni di vita. Un’ipotesi che proprio non esiste. Il Comitato è formato da persone dall’estrazione politica più diversa. Noi ragioniamo sui dati di fatto concreti. Nulla di nostalgico o ideologico. Qui ci si dice che l’ospedale che abbiamo non va più bene e ci chiediamo perché. Da quelle dichiarazioni abbiamo iniziato a studiare il problema e a chiederci se non si possa mettere mano alla struttura per modernizzarlo e ampiarlo. I risultati ci dicono che sulle criticità sollevate, spazi, parcheggi… è possibile ovviare allargando il polichirurgico e riorganizzandone le funzioni. È questo il terreno su cui ci si vuole confrontare”.
Un nuovo ospedale scelta calata dall’alto
È un fiume in piena nel portare le sue ragioni a sostegno della tesi che il nuovo ospedale per Piacenza di cui si parla ormai da anni: era infatti il 2015 quando l’allora assessore regionale Venturi lo annunciò. La convinzione iniziale, rafforzata poi nel tempo, è che sia stata una scelta calata dall’alto, non discussa col territorio e soprattutto senza tenere conto delle alternative possibili. Quali? “Ad esempio – segnala Ambroggi – il recupero dell’ospedale esistente come andiamo dicendo da tempo. Idea supportata anche da documentazione frutto di uno studio serio e reale compiuto dai tecnici che, in modo volontario, collaborano col nostro comitato. Gli stessi tecnici hanno rilevato il fatto che non sono mai state fatte analisi concrete, reparto per reparto, per capire quale sia il fabbisogno reale. Infatti – prosegue – se gli studi elaborati a sostegno della necessità di un nuovo ospedale partono dal presupposto ‘che l’attuale sito non offre la possibilità di ampliamenti’ è semplice verificare che questo invece è possibile”. Come? Abbiamo realizzato un rendering nel quale si mette in evidenza che intorno all’attuale Polichirurgico è possibile recuperare almeno 43mila metri quadrati di spazi. Se uno dei problemi dell’attuale struttura è questo, sarebbe presto risolto con l’abbattimento dell’attuale villa Speranza – segnala – e aggregando quell’area all’attuale cittadella sanitaria. Alla fine la superficie calpestabile tra Polichirurgico ampliato e utilizzo di alcune parti del vecchio potrebbe diventare di 147mila metri quadrati contro 117mila previsti nella nuova struttura che dovrebbe essere costruita. Come rendere coerente questa soluzione con la necessità di una medicina sempre più integrata e interconnessa? In questa prospettiva – segnala Ambroggi – è chiaro che il progetto di recupero e rifunzionalizzazione dell’ospedale esistente esigerebbe una ridefinizione degli spazi. Ma sarebbe necessario mettersi a tavolino e studiare le soluzioni possibili. Non ci dobbiamo dimenticare poi che il Polichirurgico è stato inaugurato nel 1994, ha 30 anni e non è poi tanto vecchio. Quando si dice che il progetto era datato va ricordato che la struttura che abbiamo oggi è stata adeguata nel corso della sua costruzione attraverso 16 varianti. E che dire della ristrutturazione del pronto soccorso che fa parte del Polichirurgico risale al 2014. Non ci sembrano tempi remoti… e ancora dei cospicui finanziamenti spesi per il recupero della parte storica (almeno 30 milioni)?
I parcheggi? La soluzione c’è
Tra le criticità sollevate c’è anche l’accessibilità gli spazi per i parcheggi. “Ebbene anche in questo caso le soluzioni sono possibili. Nell’area ex Acna ad esempio sono ricavabili 1000 posti auto praticamente a ridosso dell’attuale ospedale, una discussione inoltre potrebbe essere affrontata anche modificando il parcheggio di via XXI Aprile che potrebbe essere assegnato ai dipendenti dell’ospedale e infine va considerata anche l’area di via Anguissola dove si trova la palazzina degli uffici e l’ex centrale del 118. Sono soluzioni – rimarca Ambroggi che potrebbero già essere attuate. Si dice che oggi gli ospedali moderni non sono concepiti come struttura a padiglioni come viene considerato quello di Piacenza. “Che dire di alcuni degli ospedali più importanti in Italia concepiti proprio a padiglioni – si domanda Ambroggi – tra questi il Gaslini, il Fatebenefratelli, il Niguarda… insomma anche questa argomentazione appare del tutto un alibi. Infatti i documenti ufficiali che descrivono l’attuale situazione dicono che il 70% dei posti letto sono oggi situati nel Polichirurgico e i restanti nel nucleo antico. Una proporzione che farebbe cadere la natura di ospedale a padiglioni. L’ospedale di Piacenza dunque è un monoblocco con alcuni padiglioni”.
Una ferita urbanistica per la zona
Ma l’opposizione a un nuovo ospedale svela anche altri interrogativi che il Comitato fa propri. Il primo riguarda il destino di quest’area di città una volta svuotata della funzione sanitaria. “Si creerebbe una nuova ferita urbanistica. Con un nuovo ospedale spostato in un’altra zona quali progetti di utilizzo per questa enorme area che verrebbe abbandonata? A questo si è pensato? Sono in cantiere progetti? Se non è così il rischio forte – segnala – è che un’altra area dismessa si aggiunga al lungo elenco di quelle già esistenti. Ogni volta che da una zona vanno via attività significa che degrada una parte di città e rischia di spegnersi. L’interrogativo che ci poniamo è sempre lo stesso. Anche per l’ospedale vecchio, come per le altre strutture già dismesse o che lo saranno, ci domandiamo: che farci, come le si userà, quali servizi ospiteranno?” A suffragare l’idea che il recupero della struttura esistente avrebbe potuto essere la via migliore ci sono gli esempi che arrivano da altre città. “Se ci fosse stato un progetto di rigenerazione sarebbe stata un’occasione formidabile per Piacenza. Del resto è quello che stanno facendo a Parma, a Pordenone dove si fa una scelta di mantenere un ospedale nella città. Evidentemente una scelta diversa da quella che è stata fatta qui da noi e potrebbe essere un’occasione” segnala Ambroggi che lascia intendere l’impossibilità di avviare un confronto aperto con le istituzioni. Temi – segnala Ambroggi – su cui abbiamo da tempo acceso i riflettori e che restano ignorati dalle istituzioni, Ausl e Regione in primis. Confronto frenato – lascia intendere – anche dalla difficoltà o dalla mancanza di coraggio di tornare sui propri passi constatando che dal momento della scelta le cose sono cambiate. E da quel 2015 in cui avvenne l’annuncio molte cose sono cambiate. A cominciare dal fattore non irrilevante dei denari necessari per realizzarlo. Sottolinea l’esponente del Comitato Salviamospedale.
I finanziamenti, altro terreno di critica
Quello dei finanziamenti è diventato un altro punto complesso che si è complicato ulteriormente dopo che in assemblea regionale nei mesi scorsi è stato approvato il percorso che prevede il consistente finanziamento da parte dei privati (160 milioni) che si affianca ai 135 milioni previsti dal Fondo nazionale. Nel primo annuncio del finanziamento di 220 milioni di euro si è parlato di una cifra “vincolata secondo la legge” alla realizzazione di un nuovo ospedale – segnala Ambroggi. Non è così perché all’articolo 20 di quella legge si autorizzano interventi in materia di ristrutturazione edilizia ma non si parla di nuovi ospedali. Quella di annunciare la costruzione di un nuovo ospedale è stata quindi una decisione politica presa dalla Regione Emilia Romagna e non è la legge che impone di costruire nuovi ospedali. E mi chiedo se è stata una decisione politica, perché non potrebbe essere cambiata? Nel 2016 quando si è cominciato a parlare di questo tema sul tavolo c’erano soldi a disposizione “solo” per un nuovo ospedale che fare? Rifiutarli? È stato forse un modo per indurre a una decisione peconfezionata perché il rovescio della medaglia che si prospettava era: se non lo facciamo perdiamo i finanziamenti? Va precisato a questo proposito che gli anni trascorsi dal primo annuncio sono stati costellati di situazioni difficili tra cui la pandemia, la guerra che ha fatto balzare alle stelle i costi dei carburanti e, non ultimo, il fattore locale che ha visto il cambio dell’area destinata alla costruzione dell’ospedale. Tutto questo considerato le cose sono cambiate, le strade per avere i fondi si sono aperte all’ipotesi di intervento dei privati. Infatti è previsto un apporto di 136 milioni dal pubblico (stato e regione) e 160 milioni dal privato. E poi Ambroggi segnala differenti affermazioni contenute nelle delibere che si sono susseguite nel tempo che descrivono un “balletto di numeri”. “Sarebbe interessante sapere ora perché fino al 2021 nella delibera 1455 si parlava di un finanziamento di 227 milioni (a questi aggiungevano altri 13 milioni per la dotazione tecnologica necessaria), però nel voto in consiglio regionale del 12 febbraio 2024 (delibera di approvazione degli interventi del programma pluriennale di investimenti in sanità ai sensi dell’articolo 20 della legge 1988) quei 227 milioni sono diventati 136. Rispetto alla cifra iniziale mancano all’appello 91 milioni. Perché? Dubbi e domande di cui nessuno si occupa. Se sono stati utilizzati per altre esigenze viene il dubbio sul vincolo esclusivo di cui si parlava in origine che legava questi finanziamenti alla costruzione dell’ospedale. Ma il problema è che dovrebbe essere spiegato per quale ragione il finanziamento del pubblico si è ridotto e si è aperto al privato.”
“Preghiamo per la pace: che il Signore ci dia la pace nella martoriata Ucraina che sta soffrendo tanto sotto i bombardamenti. Anche in Israele e Palestina: che ci sia la pace nella Terra Santa. Che il Signore ci dia la pace a tutti come dono della sua Pasqua“. Parole di Papa Francesco.
Piacenza città universitaria, sarà storia? È la domanda spontanea che arriva leggendo la notizia del protocollo d’intesa che prevede iniziative strutturali per ramificare nel tessuto della città la presenza degli atenei di Cattolica, Politecnico, Università di Parma a cui viene associato il Conservatorio Nicolini riconosciuto così centro di formazione universitaria della musica. Al Conservatorio, tanto sedimentato nella città ma anche tanto aperto al mondo, potrebbe spettare il ruolo di collante tra realtà diverse diventando anche un seme culturale con cui alzare l’attenzione di studenti provenienti da varie parti d’Italia e dall’estero. Cosa se non la musica può avere quel tocco magico capace di unire le diversità? Un progetto ambizioso e che si prospetta impegnativo per chi dovrà tessere questa tela ancora tutta da comporre. Un altro step di curiosità personale spinge a porre alcune domande che riguardano alcuni nodi da sciogliere, indispensabili per delineare un nuovo profilo anche per la città. Sotto ogni aspetto a cominciare da quello urbanistico che pone la necessità di spazi per ospitare i fuorisede. Perché nella modernità tutto si tiene, anche se apparentemente non sembra. E quindi ci si domanda che cosa è necessario avere per sentirsi all’onore del mondo “città universitaria” come tante ce ne sono in Italia e in tutto il mondo? Fermandosi alle piccole dimensioni urbane si va da Macerata, a Camerino (colpite a morte dal terremoto del 2016) fino alle più internazionali, come Urbino ecc… per tacere di quelle più antiche vicine a noi come Parma e Pavia che hanno storie plurisecolari.Quali potrebbero essere i requisiti perché Piacenza possa sentirsi città universitaria (visto il suo recente affacciarsi a questo ruolo) e non già solamente e prosaicamente spazio urbano che ospita edifici adibiti a università? Tra le due opzioni ci sono sensibili differenze qualitative e di prestigio. È un interrogativo di lunga data che ricorre frequentemente. Tante volte si è parlato del fatto che l’Università, a partire dal primo insediamento della Cattolica, non dialoga con il tessuto sociale urbano in cui è inserita. Fino a questo momento possiamo constatare che apparteniamo ancora alla seconda categoria. Piacenza è una città che accoglie sedi universitarie senza che la loro presenza si avverta anche in termini di scambio culturale evidente. Ma si sa, per queste cose ci vuole tempo, molto tempo. Che significato ha per la prospettiva degli stessi atenei e degli studenti che li frequentano oltre che per Piacenza quel protocollo inclusivo siglato nei giorni scorsi dal Comune, Conservatorio Nicolini con le università? A parte le dichiarazioni d’intenti contenute nel documento stilato e sottoscritto a cui era presente anche la ministra Anna Maria Bernini, resta da vedere quali saranno gli atti concreti che saranno attuati per tradurlo concretamente.Talvolta le dichiarazioni d’intenti – e questo è uno dei casi – sono una cornice perfetta e idealmente inducono a pensare che una svolta decisiva e positiva si sia già compiuta. Ma in quanto solo cornice è necessario costruirne il contenuto che la cornice conterrà.Questo impegna innanzitutto persone decise e spinte a dare concretezza e realizzazione alle idee enunciate nel protocollo senza considerare poi le risorse necessarie per fornire i servizi agli studenti. Tra le iniziative previste si parla di creazione di una comunità di studenti per il quale lavoreranno l’amministrazione comunale e i quattro atenei – attraverso: la creazione di un tavolo degli studenti universitari; la disponibilità di luoghi di formazione e aggregazione senza oneri per gli studenti universitari; ladiffusione e la valorizzazione dell’offerta culturale, sportiva e ricreativa e attivazione di programmi ed iniziative congiunte per favorire l’integrazione e la residenzialità degli studenti universitari, anche con riferimento all’accoglienza della popolazione universitaria proveniente da altri Paesi; l’esecuzione di concerti degli studenti del Conservatorio di Musica Giuseppe Nicolini presso le sedi universitarie di Piacenza; l’organizzazione, anche attraverso l’attività e le competenze dell’Ufficio Informagiovani, di attività finalizzate all’orientamento universitario e lavorativo, alla continuità educativa e alla prevenzione della dispersione, anche organizzando eventi a tema; la promozione del civismo attivo e del volontariato universitario con finalità di pubblica utilità e per l’estensione temporale dei pubblici servizi come ad esempio l’apertura serale di biblioteche e aule studio”. Lo scopo di questa iniziativa è doppiamente ambizioso perché oltre agli obiettivi strettamente collegati al protocollo sopra citati se ne intravede un altro forse più difficile da creare perché liquido e impalpabile e che risponde a un’altra domanda: quanto la presenza delle università, quindi di luoghi di formazione e cultura alti, possono incidere e contribuire a migliorare il sistema sociale nel suo complesso della città? Quanto la presenza consolidata esistente delle facoltà e dei corsi già presenti da anni hanno lasciato su questo territorio? Quanta simbiosi si è creata tra il Polo universitario piacentino in attività (Cattolica presente orma da 70 anni con Scienze agrarie e alimentari, Scienza della formazione, Economia e Giurisprudenza; Politecnico con i corsi più recenti di ingegneria e architettura, università di Parma con la Scuola universitaria infermieristica e Medicina in inglese) e il tessuto cittadino? Domanda non da poco visto il tasso di invecchiamento della città e il fatto che i giovani da Piacenza se ne sono spesso andati (e se ne vanno) in cerca di opportunità di lavoro altrove, anche all’estero.Infatti se fino a qualche decennio fa, per gli ex giovani, l’orizzonte più ambito era Milano oggi spazia sul mondo intero. Integrazione con la città significa anche questo: tessere una tela inclusiva dove si possano intravedere occasioni favorevoli non solo di lavoro ma anche di una qualità della vita migliore, che soddisfi le curiosità culturali e appaghi il desiderio di esperienze e di relazione che da sempre i giovani esprimono. E questo si traduce in una città più aperta… anche alla confusione che qualche volta la socialità porta. Su questo fronte c’è molto da fare. Gli amministratori che sono stati i promotori della proposta – insieme alle Università che l’hanno accolta – hanno sul tavolo un’agenda fitta da portare a compimento che impegna a tutto tondo. A cominciare dalle sedi (per i nuovi corsi di studio ancora provvisorie), dagli alloggi per gli studenti (pochi e costosi) ma non ultimo tutti i nodi irrisolti che se affrontati (finalmente) potrebbero davvero aiutare ad elevare il livello della qualità della vita – non solo in termini di denaro posseduto dalle famiglie in cui da decenni Piacenza primeggia – ma anche per servizi a cominciare dai trasporti (molto carenti nelle ore serali), aria buona e un ambiente a misura umana. Un fatto è certo, per essere una città universitaria occorre che tutti noi ne abbiamo consapevolezza e determinazione, anche i cittadini. In riferimento alla citazione delle altre città universitarie minori fatto all’inizio di queste considerazioni, va detto ad esempio che spesso si tocca con mano una “distanza” emotiva tra la città e gli studenti che la abitano temporaneamente tanto che – come nel caso di Macerata – l’intero centro storico appare come una grande aula universitaria che si sviluppa su una collina che degrada verso la valle – dove però poco spazio resta per la quotidianità della vita. Immagine suggestiva anche se riduttiva. Ma quella è un’altra storia. C’è poi anche un altro risvolto che s’innesta sul futuro lavorativo e innovativo che dalla conoscenza può derivare al territorio che però deve essere al passo con quella formazione universitaria checresce e di perfeziona altrimenti l’aggancio e l’innesto potrebbe non funzionare. Discende quindi anche da questo elemento un altro interrogativo che investe il tipo di sviluppo, la qualità del lavoro che si vuole costruire. In questi ultimi vent’anni le scelte on hanno portato alla creazione di lavoro di qualità. Quindi le potenzialità di una visione sistematica – che parta dall’ente pubblico in stretta connessione con le università – può far germinare una prospettiva nuova che elevi questo territorio da una funzione di stoccaggio di materiali in transito a qualcosa di più che metta in campo intelligenze, apprendimenti e alta formazione che le università sicuramente garantiscono. E questo sembra essere uno scopo preciso dell’iniziativa a cui ha lavorato l’assessore Francesco Brianzi. “Essere una città universitaria significa avere nuovi studenti che arrivano e abitano qui e potenzialmente potranno fermarsi a lavorare nel nostro territorio”. Ha sottolineato infatti la sindaca Katia Tarasconi. A questo ha fatto riferimento anche il presidente della Regione Stefano Bonaccini presente alla firma del protocollo che parla di “una grande opportunità”. In Emilia Romagna quasi la metà degli studenti iscritti alle università non sono residenti in regione. Con i problemi demografici di tutto il paese – ha poi aggiunto – conoscenza e formazione saranno elementi che determineranno la capacità competitiva di un territorio. Di questo, a detta di tutti e da tanto tempo, come di forze e cervelli freschi Piacenza avrebbe bisogno come di aria pulita. Perché nella modernità niente è un bozzolo: tutto si tiene.
Parlare di traffico, smog e dei rimedi per affrontarli a Piacenza assume un certo che di stucchevole. Tanto stucchevole da diventare quasi mortificante e da far pensare “ma che lo dico a fare, tanto non si fa niente”. Parole, impegni, ancora parole, ancora impegni poi regolarmente disattesi anzi, al primo bau-bau che si alza da qualunque parte, si accantona tutto. Impuntature e opposizioni tanto più spaventevoli se arrivano da importanti settori sociali o economici (o da entrambe). Una storia che si ripete. Infatti, come ripetutamente si è detto, il copione si ripropone ogni volta. Senza soluzio e. Una sensazione che a dir poco stanca e che porta all’indifferenza, all’apatia o spinge a girare le spalle a questa città in cerca di luoghi meno “contaminati”. Ma dove? L’aria intossicata da polveri fini infatti non si ferma alla città ma arriva addirittura alla prima collina tanto da documentare – lo si può fare con un sistema satellitare di cui sono ormai forniti tutti gli smartphone – che la qualità buona la si trova spesso a partire da Bettola e Bobbio andando il su. Tutto quel che si colloca sotto quella linea si colora costantemente di giallo, rosso quando non al violetto… Al tema stringente partecipa anche una parte di cittadini che ha forse vissuto sulla pelle gli effetti che questo inverno “polveroso” ha prodotto sulla loro salute. Incitano a mettere a dimora alberi che con il loro ciclo naturale assorbono anidride carbonica e rilasciano ossigeno. Anche questo è giusto ed è una strada mai percorsa seriamente. Ma poiché i tempi di crescita degli alberi non sono brevi bisogna accelerare. Lo si fa? Non lo sappiamo con certezza. E se lo si fa quanto sono evidenti i risultati?
Sarebbe necessario avviare un osservatorio verde. Un’idea potrebbe essere un cartellone luminoso alle porte della città che desse conto di quanti alberi sono stati messi a dimora, ma non solo, anche della quantità di ossigeno prodotto e di anidride carbonica assorbita. Forse la presenza di una Facoltà di agraria a Piacenza potrebbe rendere possibile questa idea… La sensibilizzazione collettiva la si fa anche così. Nel concreto. Accanto alla vita degli alberi nel Piacentino sarebbe interessante capire qual è lo stato del suolo. Ricordandoci che siamo in una Regione in cui si è proclamato il consumo di suolo zero. Sarebbe così altrettanto interessante conoscere quando suolo è stato “risparmiato” dopo la legge e quanto ne è stato consumato navigando nelle possibilità date dalle norme della legge stessa… Da un lato si toglie, dall’altro si dà e i conti restano invariati. È così? Sarebbe materia di interesse pubblico che potrebbe trovare spazio nel suddetto tabellone elettronico utilizzato per il conteggio del bilancio ecologico fornito dall’apporto degli alberi. L’una cosa si tiene con l’altra, aiuterebbe a capire e forse accederebbe qualche coscienza ambientale in più.
Scelte non a spot
Tutto questo indica come le scelte da adottare non possano essere piccoli spot circoscritti a una via, a una zona o a quell’altra, ma devono investire l’intero sistema. Dal modo di produrre, di muoversi su-su fino al modello di sviluppo. Ma questo è un altro capitolo della storia i cui tempi di realizzazione non sono certamente brevi. Lo ha detto la stessa sindaca Tarasconi che tra le grosse questioni c’è l’autostrada che lambisce a poca distanza la piazza principale della città o pure della difficoltà a controllare la temperatura nelle case o ancora limitare la circolazione delle auto non idonee… ma poi quante persone coinvolgerebbe? Si chiede la sindaca. Quindi il problema è davvero enorme, ma da qualche parte bisogna cominciare e deve essere affrontato qui e ora. Forse è possibile attraverso vari percorsi. Ma non certo dando per ineluttabile la condizione in cui si sta vivendo in questo primo scorcio di 2024. Tanto più oggi con l’approvazione del Piano regionale per l’aria (PAIR) nel quale la stessa assessora regionale Irene Priolo tra l’altro dichiara: “Nel tempo abbiamo capito che l’unico modo per ottenere dei risultati è promuovere azioni su più settori e a vari livelli. Dobbiamo agire insieme per ridurre le emissioni del traffico, del riscaldamento domestico – in particolare a legna e pellet -, dell’agricoltura e degli allevamenti e dell’industria. Lasciando indietro uno solo di questi settori i nostri obiettivi diventerebbero irraggiungibili. Non possiamo però agire da soli: dobbiamo continuare sul percorso intrapreso e potenziare la collaborazione con le altre regioni del Bacino padano, richiamando anche il Governo nazionale alle proprie responsabilità, perché l’inquinamento non rispetta i confini amministrativi”. Lo si fa? In che misura?
Imperativo rimboccarsi le maniche
Che si viva in un’area quanto meno difficile dal punto di vista meteo lo sappiamo da sempre. L’aria della pianura padana è ferma, non si muove e quindi stazionano a terra le sostanze inquinanti che respiriamo a pieni polmoni. Pescando nella memoria ci si ricorda di quando, nel 1978, in una nota trasmissione televisiva (Portobello guidata da Enzo Tortora) ci fu chi lanciò l’idea di “tagliare la testa al Turchino”, monte ligure individuato come l’ostacolo che blocca le correnti marine che avrebbero potuto, al loro passaggio, spazzare via la nebbia della pianura padana e, al contempo, alleggerire l’aria resa pesante dalle polveri sottili. Già allora l’aria era pesante tanto che all’inizio degli anni Ottanta la denuncia di un cittadino portò al sequestro da parte della pretura di una centrale elettrica funzionante a gasolio. La proposta di abbattere il Turchino (672 metri di altezza da cui l’omonimo passo) naturalmente divenne un episodio di divertito colore. In queste settimane, con le centraline che giorno dopo giorno ci hanno consegnato un’aria pessima a partire dall’inizio dell’anno fino ad oggi, quella boutade è tornata nel racconto sulle pagine dei giornali. Se è una contraddizione pensare di contrastare i problemi di inquinamento odierni causati dall’impatto delle attività umane sull’ambiente con un’altra di pari se non di peggior effetto, resta il problema da affrontare che imporrebbe tempi stretti per tracciare una via nuova e almeno ridurre gli effetti di una situazione che sta peggiorando e provocando, come si diceva e non si deve dimenticare, forti danni alla salute di tutti. I polmoni di tutti in primis, ma non solo come spiegano (spesso inascoltati) i medici. Intanto si discute delle misure da adottare per decongestionare il traffico cittadino che, come è già stato ricordato su questo spazio, sta oltrepassando il livello del caos.
Le proposte in campo
Se ne discute. Lentamente si fanno valutazioni e si programmano le prime sperimentazioni a partire dal 2025. Le proposte che si stanno elaborando – di cui si parla in queste settimane – riguardano i contenuti del Piano urbano del traffico che sarebbe “il braccio” operativo del Piano della mobilità sostenibile (PUMS) licenziato nel lontano dicembre 2020. Quel piano dunque sembra rivitalizzarsi con alcune soluzioni di razionalizzazione del traffico come il senso unico sullo Stradone Farnese (unendo le due ciclabili che diventerebbe una sola per andata e ritorno) creando la corsia preferenziale per i pullman (si accelererebbe così l’andatura lumaca) che sarebbe la prima in tutta la città e infine una sola corsia di marcia per i veicoli. Una modifica (replicata anche in via IV Novembre) che evidentemente comporta un lavoro di progettazione “di fino” per intersecare tutte le strade minori che insistono sulle due arterie senza che le modifiche provochino i “traffic jam” a cui peraltro si assiste quasi di norma nelle ore di punta (succede a tutte le barriere negli orari di entrata e uscita dalla città). Ma questa è un’altra questione.Sono primi passi per iniziare ad affrontare un problema che si è ingigantito oltremodo, spinto – a parte il periodo della costruzione delle rotonde – dalla mancanza di iniziative precedenti per ridurne l’impatto.
La risposta degli ambientalisti
Una timida accoglienza a queste idee espresse dagli assessori competenti in queste settimana è venuta sia dagli ambientalisti (buona la valutazione di Legambiente sulla trasformazione a sensi unici delle strade suddette) sia dall’associazione Amolabici che però non mancano di rilevare il cuore della questione: troppe auto in città.Da un lato Legambiente, attraverso la sua presidente Laura Chiappa segnala la necessità di parcheggi scambiatori. Una proposta non nuova che, lei stessa ricorda, fu avanzata già nel 2004. E se l’interrogativo dell’amministrazione verte sul dove trovare lo spazio “sufficientemente grande” per crearli i parcheggi scambiatori, la risposta che arriva dagli ambientalisti è pronta. “Se ne faccia uno nella zona del cimitero e un’altra nella zona retrostazione”. Ricordando che nel Piano della mobilità sostenibile ne vengono addirittura ipotizzati 8. Due idee che si aggiungono a quella già esternata dalla stessa sindaca Tarasconi che lo individua nella zona di Sant’Antonio per intercettare tutto il traffico che arriva dalla zona della Val Tidone. Per gli ambientalisti l’eventuale intervento sulla fluidificazione del traffico è una risposta debole e non basta. Serve la riduzione dei veicoli circolanti. Da loro arriva anche una sferzata rivolta alla sindaca Tarasconi perché “non si è approfittato del PNRR per finanziare il progetto di metropolitana di superficie da Castel San Giovanni a Fiorenzuola che è previsto e anche puntualmente ignorato dal Piano territoriale provinciale per ridurre i flussi di traffico fra Comuni di provincia e capoluogo”.
Parcheggi scambiatori e trasporto pubblico
Il tema dei parcheggi scambiatori poi, oltre alla zona e allo spazio necessario per realizzarli, intercetta un altro problema: quello del trasporto che raccordi gli stessi parking con le zone centrali. E quindi risorse e investimenti nei bus navetta di collegamento ma anche bici (soprattutto nella bella stagione) e relative piste ciclabili sicure. Due problemi nel problema che investono anche una ridefinizione del trasporto pubblico che, evidentemente, riducendo il passaggio delle auto in alcune zone semicentrali della città, necessitano di un potenziamento. Cosa peraltro già necessaria per incentivarne l’utilizzo. Infatti la diminuzione della circolazione di auto private sulle strade cittadine (sullo Stradone Farnese stimati 3.000 veicoli al giorno) passa per l’uso del trasporto pubblico che, per essere appetibile, deve essere capillare e puntiforme… Molto diverso da quello che è ora.
E’ di questi giorni la pubblicazione dei dati dell’Osservatorio Europeo della Sicurezza, dove si analizza il timore della popolazione autoctona italiana in relazione alla presenza di immigrati da altri paesi sul suolo nazionale. Si tratta del pericolo percepito indipendentemente da episodi reali criminosi, reati e delitti. Malgrado questi registrino una presenza tutto sommato costante, la percezione di cui si diceva è altalenante, legata non solo ad eventi che suscitano particolari reazioni nel sentire comune, come i delitti a scapito delle donne, ma anche all’agire o all’affermarsi di alcune correnti politiche.
Su questo argomento viene da domandarsi quale sia la relazione tra la destra al potere e l’insicurezza percepita dai cittadini, ovvero se questi siano influenzati dal continuo richiamo da parte della politica o al contrario sia vincente quest’ultima perché raccoglie i timori del sentire comune. Sta di fatto che la relazione tra insicurezza percepita e la situazione reale dei delitti è quanto meno aleatoria. In questo caso fa specie la dimensione della frattura tra il reale e il percepito che è dato indispensabile perché anche una Associazione che mira all’inclusione e alla coesione sociale, possa mettere in atto tutte quelle strategie utili per raggiungere i propri obbiettivi.
Il volontariato, e specialmente quello di modeste dimensioni, pur lavorando territorialmente su numeri bassi, trova il proprio spazio di azione proprio nella ricucitura di questa frattura diffondendo la cultura della legalità, della tolleranza, della pace e dell’inclusione. Quel divario, quello spazio vuoto che occupa la frattura è preoccupante perché sfugge alla luce della ragionevolezza.
Tutto questo a significare che il binomio insicurezza-presenza stranieri è spesso immotivato, ma non per questo meno preoccupante. Conoscenza, familiarità, frequentazione, ospitalità, scoperta dell’identità dell’altro, sono gli strumenti per vincere ogni timore, per disinnescare quella pericolosa bomba che, dall’incomprensione conduce all’esclusione e infine ad ogni tipo di razzismo. Questa strada si può percorrere anche con la fede e il cuore, ma soprattutto occorre che sia lastricata di ragione.
Come abbiamo detto più volte, il fenomeno delle migrazioni che è connaturato con la stessa esistenza dell’uomo, è un evento al quale dobbiamo abituarci non considerandolo un fenomeno temporaneo. Le sue ragioni stanno nella disparità della distribuzione delle risorse, nei cambiamenti climatici, guerre e carestie, unite alla progressiva decrescita demografica.
E’ recente una rilevazione che illustra come in oltre la metà del nostro paese il numero degli occupati sia pari a quello della popolazione inattiva che per vivere ha bisogno dei primi. Il termine “sostituzione etnica” è frutto di una falsificazione ideologica, tuttavia sta di fatto che dopo un lungo periodo di quasi immobilità, una discreta quantità di popoli stia mettendosi di nuovo in cammino verso altre latitudini. Questa migrazione a detta di molti genererà quegli incontri e contaminazioni che nella storia dell’umanità, hanno hanno dato luogo a sorprendenti crescite di civiltà.
A fronte di questo inarrestabile processo, il governo della migrazione non può che partire dall’esperienza dell’inclusione che germoglia dal basso, da una forma di accoglienza che non è solo retaggio della nostra tradizione dell’ospitalità o della solidarietà e della “carità” che insegna la religione cristiana, ma vera organizzazione alla quale nessun territorio potrà sottrarsi. Le scioccanti foto del Centro per il Rimpatrio di Milano dicono molto su quello che non si dovrebbe fare; raccontano di una incivile e vergognosa speculazione sulle sventure dei migranti.
Chi opera nelle iniziative per l’accoglienza, sia esso volontario o impegnato nelle strutture, sa bene che molti immigrati sono reduci da eventi terribili, dai quali riportano traumi psicologici difficilmente sanabili. Il viaggio avventuroso, la detenzione in luoghi di segregazione e di terrore, la vicinanza con la morte di compagni di viaggio sono retaggi di sofferenza che si aggiungono alla lontananza dagli affetti famigliari. Molti si sono esposti a pericoli e sacrifici inseguendo da affamati il mito del benessere facile di una società ricca nella quale i supermercati riservano più di una corsia al cibo per gli animali di compagnia. Si può ben immaginare come la delusione unita al pericolo vissuto possa dare luogo a vere patologie. Forse a ragione, alcuni sostengono che questa sia la storia di tutti i migranti, quella sopportata anche dai nostri avi, generosi nel sottoporsi a grandi sacrifici per mantenere i propri figli. Vi è tuttavia una diversità: i nostri nonni, classificabili oggi “immigrati economici”, giungevano in un nuovo mondo nel quale non prevaleva la spasmodica spinta verso i consumi e l’emulazione di modelli di vita da “grande fratello”. La società che li accoglieva non ostentava una ricchezza smodata, ma agiva con maggiore sobrietà, promettendo denari da guadagnare con un onesto lavoro.
Sempre con maggiore frequenza la cronaca propone inquietanti episodi di instabilità mentale, di abuso di alcool, di violenza priva di senso che vedono come protagonisti cittadini immigrati. Considerato che la migrazione comporta costi considerevoli a carico di chi parte sostenute dalle famiglie o da interi villaggi, gli episodi di instabilità mentale fanno sorgere qualche interrogativo. E’ mai possibile che famiglie e comunità dei paesi di origine si facciano carico di sostenere le spese per il viaggio avventuroso di persone già giudicate fragili, oppure è il vissuto traumatico che ha portato la destabilizzazione di individui tutto sommato sani? Non sarebbe quindi il caso che nel pacchetto di accoglienza trovasse spazio pure l’accertamento della integrità mentale di chi viene ad abitare accanto a noi? Forse potremmo evitare che i più fragili, posti in una condizione di emarginazione, finissero col chiudersi nel proprio vissuto in forma parossistica, elaborando processi di radicalizzazione religiosa.
Quanto al governo dei migranti in ingresso, pur trascurando gli aspetti etici, da qualunque parte si affronti il problema, è necessaria concretezza, realismo, rispetto del dettato costituzionale relativamente ai diritti umani, garanzia della sicurezza e difesa della prosperità del paese.
Quella discrepanza sulla insicurezza percepita dai cittadini rispetto ai reali pericoli, si supera nel momento in cui si analizza il problema nella sua globalità, senza pregiudizi, senza un “noi che si contrappone a un loro” corroborato da una forte azione di educazione e promozione della crescita delle persone.
Ciclabili, largo alle due ruote ma a Piacenza servono molto coraggio e tanti finanziamenti. Nel piano per la ciclabilità due obiettivi: manutenzione di tutta la rete esistente (86,5 km) e portare a 230 km la rete entro il 2033
Il piano per le ciclabili è pronto. Si parla di dorsali a raggiera per tutta l’area urbana, di collegamento con le frazioni, ma non solo. Si declinano i collegamenti tra direzioni diverse e con la ciclabile VenTo (che va da Venezia a Torino), si ipotizzano itinerari verdi, paesaggistici e si chiedono a gran voce spazi liberi dal traffico in prossimità delle scuole… Per riassumete tuto questo si suggerisce una piantina sullo schema utilizzato per le Metro
Per chi usa la bicicletta oggi a Piacenza (o per chi ha smesso perché non è un mezzo sicuro) il piano si presenta come una favola a occhi aperti. Si chiama Biciplan, lo hanno proposto al Comune i professionisti (Tito Stefanelli e Sofia Pechin) di TRT – Trasporti e Territorio a cui era stato commissionato. La stessa società ha realizzato anche il Piano per la mobilità sostenibile (PUMS) licenziato alla fine del 2021 dalla precedente amministrazione e rimasto lettera morta. Per ora. Quest’idea di rete ciclabile è ambiziosa. Tanto da risultare molto difficile da realizzare… almeno a una prima impressione.
Per darne il via si devono superare tre ostacoli impegnativi. Il primo è immateriale ma tosto: darsi il coraggio di farlo perché la sua applicazione comporterà la rivoluzione della mobilità cittadina, argomento sempre portatore di conflitti infiniti dagli anni Settanta ad oggi. Basterebbe fare un salto di memoria a un recente passato per rispolverare lo scenario che si presenta ogni volta che si affronta il tema “mobilità” nel centro urbano di Piacenza. Terreno esplosivo.Il secondo presupposto indispensabile è molto concreto e materiale e riguarda i dané, i finanziamenti. Con quali soldi realizzare quel piano? Dove reperirli e in quanto tempo poterli ottenere? Nelle intenzioni c’è l’idea di portare in dieci anni (dal ’23 a ’33) a 230 km le ciclabili cittadine (attualmente si sommano a 86,5 km). Il terzo ostacolo, infine, tocca la sfera culturale e si riferisce all’intento di allargare la platea di chi utilizza la bicicletta negli spostamenti casa-lavoro e lascia l’auto ai percorsi più lunghi.
A Piacenza potrebbe essere un terreno fertile perché sulla bici non si parte da zero visto che il suo utilizzo è già molto diffuso. Ma non basta se si pensa che il 53% dei piacentini preferisce ancora le 4 ruote per percorrere le strade interne alla città solo il 18% usa la bici e il 20% sceglie di andare a piedi. “Eppure la città ha un centro urbano storico – hanno rimarcato il progettista di Biciplan – che a piedi si attraversa in 15 minuti e in bici in 5 minuti”.
Tra le strategie su cui si basa il piano ciclabile viene inserito il tema dell’umanizzazione della strada che deve essere uno spazio di convivenza tra mezzi diversi. Si tratta – è stato ripetuto – di un percorso culturale più lungo da assimilare che però deve essere accompagnato da azioni concrete, pratiche per spingere e favorire gli spostamenti in bicicletta.
Se negli anni Cinquanta gran parte dello spazio stradale era riservato alle automobili e le altre mobilità erano subordinate a questo, la necessità di oggi va in direzione opposta “Le strade appartengono alle persone e non alle automobili” sottolineano i progettisti di Biciplan. Come dire che nella progettazione sarà necessario ripensare le sezioni stradali che permettano nuovi utilizzi.
Sul tema ciclabile c’è poi un altro piano di valutazione: l’efficienza e percorribilità della rete. Si fa presto a dire ciclabili, le parole sono sempre precise, non sempre lo sono i fatti che le concretizzano.
CICLABILI – Cambia il paradigma: la strada è delle persone
Basterebbe una ricognizione sulle attuali piste ciclabili per avere davanti la fotografia che rilancia una rete decisamente da costruire ex novo. Sia per la funzionalità, per la manutenzione (assente da anni) sia perché tante ciclabili si interrompono improvvisamente e si concludono anche su strade di alta percorrenza automobilistica.
Ciclabili sì perché è anche una sfida di salute
L’obiettivo della pianificazione ciclabile delle aree urbane risponde anche un altro tema emergente: quello della salute. Nell’incontro svolto a Palazzo Ducale è intervenuto su questo argomento il dottor Roberto Sacchetti, presidente dei pediatri piacentini, che ha portato le buone ragioni a supporto della ciclabilità della città anche per difendere la salute dei bambini.
Ha rilevato infatti che ormai diversi studi certificano, senza possibilità di dubbio, i riflessi negativi delle polveri sottili producono sui bambini non solo sugli organi respiratori, ma anche sulle capacità cerebrali. “Si tenga conto – ha spiegato il medico – che polmoni e cervello dei bambini sono in fase di crescita e quindi ricevono tanti danni che riguardano vari aspetti come problemi nello sviluppo polmonare ma anche possibili conseguenze sullo sviluppo neuro cognitivo, oltre ad una maggiore esposizione a infiammazioni, a diabete”.
E su questo ha caldeggiato fortemente la necessità che le aree degli istituti scolastici siano lontane dal traffico veicolare per tutta la durata dell’attività scolastica. Innumerevoli i punti toccati e i suggerimenti messi nero su bianco nel piano illustrato.
Prima di tutto viene da chiedersi quale tipo di ciclabile si pensa di inserire in quella cospicua quantità di chilometri prevista da oggi al 2033? Promiscue, in condominio con le auto in sosta e contemporaneamente con l’uso della strada residua da parte delle automobili? Saranno ciclabili identificabili con una loro dignità cartellonistica? Saranno compiute o solo spezzoni sospesi, si inter-scambieranno con altre linee, altri percorsi per altre direzioni? Il Piano illustrato sembra affrontare queste lacune e criticità risolvendole.
CICLABILI – La sfida comunale sulle due ruote
L’assessore all’urbanistica Adriana Fantini, al lavoro per il Piano urbanistico generale (PUG), nel presentare il lavoro dei progettisti del Biciplan ha parlato di una nuova visione che lo strumento urbanistico dovrà avere. Prima di tutto il cambio di orizzonte che passa dalla discussione sui volumi a quella che ripensa ai vuoti, alle strade, alle piazze fino agli elementi di connessione tra le varie parti del tessuto urbano. Il Biciplan – ha aggiunto – si inserisce in questo contesto e rappresenta una sfida a ragionare per strategia e non per zonizzazione.
Attualmente, come si è detto ci sono (formalmente) 86,5 km di ciclabili e solo 3,7 km sono in sede propria 60,5 km si trovano a condividere lo spazio con carreggiate per auto e marciapiedi per pedoni. Il Biciplan illustrato dai progettisti tiene conto dello stato di salute della rete esistente se, in bella evidenza, suggerisce esplicitamente – insieme ai prolungamenti e alle innovazioni – di avviare una manutenzione per l’intera rete attuale che da anni ne necessita.
Potrebbe essere questo il punto di partenza: sistemare quello che già c’è. La creazione di nuove “linee ciclabili” necessita di un tempo molto più lungo, di consistenti finanziamenti da reperire e, soprattutto, sarà un progetto di possibile attuazione solo con una ridefinizione degli altri spazi per la mobilità.
CICLABILI – Diffondere l’uso delle due ruote
Le strategie per diffondere l’uso della bicicletta si basano su alcune innovazioni. Naturalmente si propone la realizzazione di percorsi ciclabili, ma anche misure che intrecciano le automobili con interventi per ridurre la velocità dei veicoli. Prioritaria la necessità di dare continuità ai percorsi e proteggere gli attraversamenti. L’obiettivo dichiarato è quello di ridurre il numero degli incidenti con morti e feriti tra i ciclisti.
Quanto alla sicurezza c’è anche l’aspetto che riguarda i furti e gli atti vandalici sulle biciclette ed è per questo che tra le proposte vi è anche la sostituzione delle rastrelliere che garantiscano l’ancoraggio del telaio della bici, unica strada per evitare che alla rastrelliera resti ancorata, come spesso succede, la sola ruota della bicicletta.
Non mancano poi i servizi a supporto della ciclabilità e strategie per l’utilizzo della bicicletta perfino per la distribuzione delle merci ai negozi. Su questo punto s’è parlato di aree di sosta per i mezzi delle consegne che potrebbero utilizzare per lo spostamento verso i negozi le bici-cargo che già sono diffusissime nei paesi del Nord Europa.
Ciclabili esterne, collegamenti e servizi: cosa dice il Piano
Il progetto prevede 10 “assi radiali” portanti, convergono in piazza Cavalli e assicurano il collegamento tra i comuni limitrofi, le frazioni, i quartieri residenziali ed il centro innestandosi in altri percorsi. Questi sono gli assi: Ponte Po, Emilia Pavese, Ex Ospedale militale – Ponte Paladini, Piazzale Genova – Gossolengo, Saverio Bianchi – Pittolo, Nasolini-Quarto, Piazzale della Libertà – Casoni, Piazzale della Libertà – | Vaccari, Emilia Parmense, Piazzale Milano – Roncaglia
Previsto inoltre 1 “percorso anulare” che segue il vecchio tracciato delle mura; 1 “Dorsale urbana” (Piacenza Ovest – Università), che permette un agevole collegamento tra le ciclovie di ingresso/uscita dal centro e la connessione con i principali attrattori di traffico, come anche la miglior distribuzione delflussi ciclabili, non sempre diretti verso il centro della città.
Infine si suggerisce 1 “Dorsale extraurbana” che permette un agevole collegamento tra le frazioni. Accanto alle direttrici nel piano si elencano i servizi che devono essere integrati con le funzioni urbane e con i nodi della mobilità sia pubblica sia privata.
Tra queste si citano: aree di sosta attrezzate dotate di servizi alla ciclabilità; segnaletica direzionale, una velostazione (localizzata nell’attuale deposito di biciclette, a servizio degli utenti della Stazione e del centro storico); incremento della dotazione di parcheggi pubblici per le biciclette; introduzione nel Regolamento Urbanistico ed Edilizio (RUE) dell’obbligo di prevedere ciclo posteggi nelle nuove costruzioni (esiste già – hanno riferito i progettisti – ma non sempre si concretizza).
Previsto inoltre il potenziamento dei servizi di mobilità ciclabile condivisa che in pratica consiste nel potenziamento delle bike sharing in corrispondenza dei parcheggi in interscambio e dei principali poli attrattori cittadini. Si parla poi dello sviluppo di un’Applicazione Mobile per la community oltre che, come si diceva della diffusione delle e-bike e la micro-mobilità (monopattino).
Il Biciplan propone la definizione di una strategia complessiva per la ciclo-logistica elencando una serie di misure e politiche che prevedono l’uso di “cargo bici” (in tante città sono già utilizzati) per svolgere servizi privati e di pubblica utilità. Strumenti di regolamentazione – è stato sottolineato nell’illustrazione del Biciplan – sono già inseriti nell’ambito del PUMS come il rinnovo del parco mezzi per il trasporto merci e la gestione del trasporto merci nell’ultimo km e nelle ZTL con veicoli a basso impatto.
Quindi si accelera sulla diffusione di pack station pubblici o in concessione ai privati che, per la consegna dei pacchi a domicilio, permetterebbero di evitare due o anche tre passaggi a domicilio in caso di assenza del destinatario. Legato a questo tema la disposizione di parcheggi dedicati sul territorio indicandone anche i luoghi come a velo-stazione e le aree di maggior interesse.
Come si vede un lungo elenco di azioni che dovrà essere suddiviso in priorità. Tra queste la più urgente riguarda la manutenzione dei km esistenti come lo stesso Biciplan, insieme alle suggestive proposte di ampliamento, suggerisce.
Presso la Terrazza del Grande Albergo Roma durante un incontro organizzato dai Rotary piacentini Simone Tansini, baritono, formatore e scrittore, nelle vesti di conferenziere, ha ripercorso il melodramma raccontato attraverso le parole che l’hanno ispirato e reso immortale, in un concatenarsi di eterni sentimenti: le parole del cuore. Riportiamo il resoconto pubblicato dal quotidiano on line PiacenzaSera.it
Simone Tansini, ha ricordato il quotidiano, parallelamente all’attività artistica, lavora come formatore musicale proponendo un metodo di approccio formativo al teatro e alla musica e sviluppando percorsi che utilizza nelle scuole di ogni ordine e grado: proprio questa attività lo ha portato a teorizzare lo stretto legame tra capacità di ascolto del melodramma, in tutte le sue sfaccettature, ed una nuova, possibile educazione sentimentale, una ritrovata capacità empatica da parte dell’essere umano.
L’opera come genere complesso, ha dunque ricordato durante la conferenza al Grande Albergo Roma,, chiama in causa diverse discipline: la lingua e letteratura italiana, le lingue e letterature straniere (basta pensare a Victor Hugo ed al suo dramma “Le roi s’amuse”, fonte letteraria del “Rigoletto“, oppure alla “Dame aux camélias” di Alexandre Dumas figlio che ha ispirato la “Traviata” di Verdi), la storia del teatro, la musicologia, la storia, l’iconografia teatrale, le cui competenze possono certamente integrarsi e rafforzarsi a vicenda, al fine di una comprensione il più possibile allargata ed integrata.
Più di ogni altra espressione artistica, ha proseguito Tansini, il melodramma ha il dono d’imprimere in chi ascolta l’impeto delle passioni, come se le vivesse in quel momento; allo stesso tempo, queste passioni simulate sono organizzate in una forma: il che non solo consente l’opportuno distanziamento ma consente e facilita il ragionamento sulle passioni, la loro verbalizzazione, la presa di coscienza della loro dinamica. Un insegnamento, quello del melodramma, che promuove percorsi di formazione per stimolare la capacità di riflettere sull’affettività, e che fornisce strumenti per sradicare pregiudizi e stereotipi di genere, può essere un primo ed importante passo verso la trasformazione della società stessa; i sentimenti si imparano attraverso modelli, storie, narrazioni. I miti greci, per esempio, descrivevano con Zeus il potere, con Atena l’intelligenza, con Apollo la bellezza, con Afrodite la sensualità, con Ares l’aggressività, con Dioniso la follia.
Erede del teatro in prosa, il melodramma dunque canta eventi, situazioni umane sentite e vissute e proprio grazie alla voce cantata imprime a tali eventi emotività e partecipazione che si delineano in un rivivere le passioni, gli stati d’animo, i conflitti, le dinamiche del cuore umano, l’amore ( “il gran maestro che ci trasforma”), a scapito delle idee, delle teorizzazioni che il teatro “parlato” lasciava più o meno ampiamente dispiegarsi (come accadeva nella tragedia greca o nel teatro di Shakespeare o Calderón de la Barca). Il melodramma educa l’immaginario: proietta una concezione del mondo, fissa personaggi e situazioni-tipo, offre modelli psicologici allo spettatore (come farà il romanzo, il teatro drammatico ed il cinema), educa i sentimenti: crea figure tipiche che trasmettono messaggi forti (Violetta, Rigoletto in Verdi, Il principe Calaf, figlio del re dei Tartari, in “Turandot”), scavando nelle loro anime: personaggi reietti, senza nome messi ai margini della società (il buffone Rigoletto che si rifiuta di rivelare anche a sua figlia Gilda il suo nome ed identità) o che nell’identificazione e rivelazione del nome (Turandot che deve indovinare il nome del Principe) richiamano il fortissimo valore dell’affermazione personale ed individuale.
Concludendo si coglie l’occasione per ricordare, a margine della conferenza, che Simone Tansini risulta promoter della casa editrice 40gb con la quale ha pubblicato diverse opere ispirate ai melodrammi. Così ad esempio “Il patto delle statue” illustrato da Nicola Genzianella, volume reperibile nelle principali librerie e negli store di vendita on line come LaFeltrinelli.it, IBS.it, Mondadoristore.it e anche liberamente consultabile presso l’associazione Fabbrica&Nuvole in via Roma al 163.
Prosegue presso i locali dell’associazione di volontariato Fabbrica&Nuvole in via Roma 163 a Piacenza il ciclo di incontri dei “mercoledì coi grilli per la testa”, rassegna letteraria che vede protagonisti scrittori e poeti piacentini con l’obbiettivo di dare una visione il più ampia possibile di un ambiente (quello letterario a dimensione locale) che spesso viene presentato in modo frammentario privilegiando l’opera di un singolo autore rispetto invece alla complessità del settore nel suo insieme e, per questo motivo, la rassegna proseguirà almeno fino a giugno 2023. Nell’appuntamento di mercoledì 16 novembre Marco Bosonetto, in dialogo con Valeria Laffeni, racconterà del suo ultimo romanzo “Gli alberi del Nord” (Baldini+Castoldi 2022), un giallo ambientato nella nostra città.
Marco, nato a Cuneo nel 1970 ma residente nella nostra città dove insegna e scrive, ha esordito nel 1988 con “Il Sottolineatore Solitario“, per successivamente pubblicare altri romanzi e una raccolta di racconti, uno dei quali è diventato il film “Due vite per caso” di Alessandro Aronadio, presentato al Festival di Berlino nel 2010. cuneese naturalizzato piacentino, in dialogo con Valeria Laffeni, parlerà del suo romanzo Gli alberi del Nord (Baldini+Castoldi, 2022), un giallo che racconta l’indagine del commissario Gastaldi, a un passo dalla pensione, quando vengono scoperte in una mattinata di nebbia tre donne africane impiccate a un ontano in riva al Po vicino alla nostra città.Una delle tre, giovanissima, è ancora viva, aggrappata ai cadaveri delle altre. Le indagini imboccano la pista del regolamento di conti fra bande che sfruttano la prostituzione. Eppure Gastaldi non è convinto. C’è un eccesso di ferocia in quel delitto che oltrepassa la razionalità criminale. “Gli alberi del Nord portano strani frutti“, la versione deformata di una canzone resa celebre da Billie Holiday, sui linciaggi degli afroamericani negli Stati Uniti del Sud, risuona nella mente del commissario. Ora sono gli alberi del NordItalia a essere carichi dei frutti del razzismo. E il commissario Gastaldi ha raccolto uno di quei frutti che ancora respira. Purtroppo la superstite non è in grado di testimoniare, neppure quando riprende conoscenza, perché parla una lingua ignota, che appartiene a un gruppo etnico estinto. Stavolta Gastaldi, che per gran parte della sua carriera è riuscito a tenersi alla larga da inchieste pericolose, non può sottrarsi alla responsabilità di dare giustizia alla ragazza sopravvissuta, intrappolata in una lingua che nessuno capisce. Vorrebbe tanto fare il nonno, dedicarsi a coltivare l’intelligenza precoce del nipote Ettore, ristrutturare la casa di suo padre sulle Alpi e starsene lontano dalla Pianura Padana il più possibile. Invece si trova, come si diceva a un passo dalla pensione, ad affrontare l’indagine più complicata della sua vita professionale. Insomma un romanzo giallo capace di tenerti col fiato sospeso e nello stesso tempo di far riflettere sul problema del razzismo dove protagonisti sono gli uomini ma anche il nostro Grande Placido Fiume, il nostro Po con i segreti e le vicende che si svolgono tra le sue rive e all’ombre lunghe delle boschine.
Via Roma, un tempo principessa oggi, c’è chi dice, sfigurata dal tempo inesorabile che passa. Serrande abbassate, bar abbandonati, si dice troppi stranieri, troppe risse, troppa violenza. Quartiere popolare ormai degradato, dal quale, pensano in tanti, sarà meglio star lontani. Così dicono in tanti: un Bronx in salsa piacentina. Ma non per tutti è così. Anzi, questi finiscono con l’essere luoghi comuni, semplici chiacchiere per sentito dire. Immaginiamo invece di vivere questa porzione di mondo e di città come luogo di inclusione sociale. Certo, vero che in questa strada troviamo molti immigrati ma chi sono, li conosciamo? In genere sono lavoratori. Soprattutto impegnati nella logistica. Certo troppo spesso in modo precario, giusto qualche mese poi tanti saluti fino alla prossima necessità. Pendolari del lavoro. Qualche mese da noi, poi via, da qualche altra parte per qualche altra opportunità. La maggioranza invece ha un lavoro abbastanza consolidato, sono immigrati di seconda generazione, hanno portato moglie e figli, tengono famiglia, vivono la vita in pace. Li vedi, ben vestiti, spesso con abiti colorati che fanno invidia. Certo, hanno le loro abitudini, la loro cultura, probabilmente non leggono Libertà e non ascoltano Radio Sound. Ma niente risse, niente violenza, sono tante le mogli che spingono carrozzelle, sono tanti i bimbi che tornano da scuola con le loro cartelle, con gli zaini, con gli appunti della maestra scritti nel diario proprio come i nostri figli. Insomma. Via Roma? Un angolo di città dove vivere può essere piacevole, “normale”, amicale. Vogliamo provare a crederci? Beh sicuramente ci crede l’associazione Fabbrica&Nuvole.
Come dimostrato sabato 1 ottobre.
Un gruppo di “ragazzi” e “ragazze”, quelle e quelli di via Roma al 163, due vetrine sede della Scuola Azzurra dell’associazione Fabbrica&Nuvole, volontariato per l’inclusione sociale. Bernardo, Marco, Claudio, Simone, Valeria, Silvia, Dalila, Stefano, Renata, Mauro, Francesco, Gianpaolo. Senza dimenticare, scodinzolante, Luna. Tutti d’accompagno, di contrada in contrada, di via in via, di strada in strada, a Riccardo e Paolo. Via Pantalini, via Guastafredda, via Confalonieri, piazza San Paolo, via Scalabrini, via Neve, via Roma, via Tibini, via Alberoni. Suonando i campanelli per dire “c’è una serenata per voi, affacciatevi alla finestra“. Come quei tempi andati, in campagna e nella Piacenza popolaresca. Ricordi di porte sempre aperte, di donne all’uscio in strada a raccontar la giornata, a scambiar ricette, pettegolezzi, confidenze. I bambini e i ragazzini a giocare, “occiu mulassa ch’ariv a caval“, il bottiglione di rosso sempre pronto per il nuovo arrivato, la briscola giocata in strada tanto al più passava il Mario in bicicletta.
Diciamolo. Alle prime scampanellate nessuno s’affaccia. Poi s’arriva a quel portone, si suona, ancora nessun risponde ma lo scatto avverte che potremmo addirittura entrare. Fiducia senza limiti. Ma non era il quartiere delle risse e della violenza? Ma chi l’ha detto? Certo, nessuno s’affaccia, niente risposta al citofono così non si capisce quale sia l’offerta. Tu non apri la finestra ma Paolo suona comunque alla chitarra e Riccardo, nella vita coreografo e ballerino, danza nella strada. E sembra smossa qualche tenda nonostante non s’abbia notizia del minimoalito di vento.Dietro quelle tende qualcuno origlia, curioso ma ancora un poco diffidente.
A seguire poi finalmente s’apre la prima finestra, “ma cosa fate?” chiede una ragazza. Che alla fine applaude, come applaude quell’uomo che s’affaccia in camicia e cravatta e un’altra donna che scende alla porta sperticandosi in “grazie, grazie, grazie“.
Poi una coppia, un ragazzo con l’amica che si fermano, sorridono, ammirano la serenata per loro (che siano innamorati o semplici conoscenti poco importa). Un ragazzo orientale probabilmente studente nella vicina facoltà di architettura, anche lui apre il portone, s’affaccia, ci fotografa, chiede in inglese cosa si sta facendo e Renata “we dance for you” e lui ringrazia, sorride, saluta. La mamma che chiama il figlio e dietro la finestra lo fa salire sulla sedia affinché veda meglio.
Elisabetta con Pietro che per un tratto camminano con noi. Il figlioletto di Gero che rincorre Bernardo per spaventarlo e Bernardo, ragazzino nell’anima, che sta al gioco. La donna che resta dietro la tendina con i fiori ma quando la saluto ricambia con la mano. Quei ragazzi, immigrati, che s’affacciano dal bar sorridendo. L’immancabile bandiera per la pace al balcone. Una giornata di ridente umanità.
Una giornata di timido tiepido sole iniziata, in verità, senza scampanellii ma semplicemente presentandosi agli ospiti del Maruffi raccolti nel cortile, i più in carrozzina felici d’una giornata diversa, felici di non essere dimenticati, di non essere soli, di sentirsi parte di un’unica grande comunità.
Bastano in fondo pochi minuti con Riccardo che danza con il nastro azzurro simbolo dell’iniziativa legato al polso e con quel nastro ‘accarezza‘ tutti e tutte, compresa quella giocosa ospite che quel nastro svolazzare l’afferra e non lo lascia più. Per passarlo nelle mani dell’amica vicina che, le sue mani, non le muove più, non riusciva lei a sfiorare quel nastro che la voleva accarezzare. Lo confesso: mi sono commosso, avrei voluto abbracciarle, le ho salutate abbracciandole, ricambiato, con gli occhi.
Questo il quartiere di via Roma dove i ragazzi e le ragazze di Fabbrica&Nuvole si ritrovano in sede per ideare pomeriggi di serenate, presenza alla festa di quartiere – quella che si tiene ad ogni prima domenica del mese – con tanto di risottate in strada, la biblioteca con i libri a disposizione, mostre d’arte e figurative, incontri con poeti e scrittori piacentini, laboratori e corsi per adulti e ragazzie quant’altro seguirà. Questa è contrada Roma, una via di gente per la gente.
Una società messa a nudo in tutta la sua pochezza e crudeltà. E’ quella che ha permesso la condanna di Aldo Braibanti a nove anni per plagio. Ma non era stato commesso alcun plagio. Braibanti finì alla sbarra e fu condannato.
Una società, quella degli anni Sessanta, che se da un lato lanciava segni culturali e sociali di fermenti e di cui Braibanti era una delle menti fini, dall’altra lo zoccolo duro del conformismo, delle convenzioni retrive mostrava il suo lato più duro e ingiusto.
Probabilmente è anche il desiderio di mettere a nudo una parte del nostro vissuto che ha portato Gianni Amelio a decidere di fare un film su Braibanti, la sua storia e quel mondo da cui è stato rifiutato. Anzi di più, torturato. In nome di un perbenismo che non poteva accettare l’omosessualità e che via via si stava vestendo dei panni nuovi di una borghesia ricca di fuori e sempre più arcaica dentro.
L’accoglienza che gli attori e il regista del film “Il signore delle formiche” hanno avuto giovedì sera nella futura sala cinematografica d’essay che si sta approntando a palazzo XNL (spazio della Fondazione di Piacenza e Vigevano) dà anche il segno di un desiderio forse inconscio della società piacentina di poter riparare a un torto.
Il torto di aver voluto ignorare (forse) rimuovere (forse) la storia umana di Braibanti a cui la stoltezza, la cattiveria, ha impedito un naturale sviluppo sia come poeta sia come scienziato (era il massimo studioso del sistema sociale delle formiche) sia come intellettuale a tutto tondo. Un disinteresse (anche della politica democratica per la quale lui aveva combattuto da partigiano). Privandosi così di una ricchezza immensa.
Ed ha avuto ragione Alberto Esse che durante il confronto con i registi e gli attori ha sottolineato come Piacenza, nei fatti, non abbia mai fatto i conti fino in fondo con la storia terribile che ha visto protagonista Aldo Braibanti e la sua famiglia. Perché una parte di questa città – ha detto Esse – è ancora così. Non c’è mai stata catarsi su questi fatti. Eravamo in pochi a sostenerlo e in pochi per tanti anni. Mi piacerebbe – ha aggiunto – andare a vedere le cronache del tempo per vedere cosa si è detto. Ha sottolineato l’importanza della funzione dell’arte. Spero – ha concluso – che porti a una riflessione che fino ad ora è mancata.
Si vuole pensare che tanta attenzione, tante persone che poi in serata hanno visto la proiezione al cinema Corso che per la pressione di spettatori ha raddoppiato lo spettacolo, sia arrivata non solo per la presenza a Piacenza di un assaggio di starsystem. Di volti noti come Luigi Lo Cascio, Elio Germano, il regista Gianni Amelio, il produttore piacentino Simone Gattoni, il giovane Leonardo Maltese che interpreta Ettore (ha incassato proprio a Piacenza un premio della critica arrivato fresco da Venezia).
Si vuole pensare che tante persone siano arrivate all’iniziativa promossa da Fondazione di Piacenza e Vigevano (in apertura presentata da Mario Magnelli e Paola Pedrazzini) per testimoniare una loro presenza civica a un tema, l’omofobia, più che mai vivo anche nella società di oggi.
I racconti degli attori hanno deliziato un pubblico attento e partecipe fino al racconto di un episodio realmente accaduto con alcuni protagonisti della storia vera di quegli anni, il 1968.
Da bravi e veri attori hanno tolto la seriosità all’incontro raccontando alcuni episodi della fase di realizzazione del film come la cena al ristorante super lussuoso che hanno dovuto ripetere perché quella girata era inservibile. “Ci siamo accorti che i bicchieri sui tavoli erano rimasti tutti capovolti” Scena bocciata da rifare nottetempo… Con il patema dei costi che, come ogni volta che si deve ripetere una scena, possono lievitare paurosamente…
Ma tra le pieghe dello sfondo goliardico consumato nei duetti tra attori, regista e intervistatore sono rimaste scolpite le ragioni forti, profonde del film.
Diventata quasi una necessità collettiva.
Come il fatto che nel racconto cinematografico non si fanno i nomi della famiglia del giovane che accusa il professore di plagio. Se Aldo Braibanti nel film non è un personaggio di fantasia (lo interpreta il bravissimo Luigi Lo Cascio) la famiglia del giovane lo è. Ma non è reticenza. “La storia di Braibanti è conosciuta, non uso i nomi degli accusatori – ha specificato Amelio – perché di quel fatto è colpevole una società intera. Un modo di pensare. Questo avrebbe tolto il vero valore allegorico al film. Sarebbe stato come prendersela con quella famiglia in particolare mentre ancora oggi tante famiglie hanno quel modo di pensare”.
Come dire “non crediate di sentirvi assolti, siete per sempre coinvolti”. E’ il messaggio che vale più che mai.
E poi una lezione da artista che è arrivata dal regista. Sull’interscambio tra il sé che dirige la storia e il personaggio che deve raccontare. Semplice la sua risposta che cita Flaubert. “Madame Bovary c’est moi”. Dice.
Vale a dire? Non puoi fare un film senza identificarti e io sono sempre stato – ha detto Amelio – un carabiniere, una prostituta, un bambino con disabilità… e quindi via via tutti i personaggi che hanno dato forma ai film. Tutti i personaggi che si chiamino Braibanti o Sartori si chiamano anche Gianni Amelio.
E poi il tema dell’omosessualità: Attenzione – ha rimarcato Amelio – questo film non è la storia di un omosessuale. Sarebbe una mancanza di rispetto verso Aldo. Però un legame con l’attualità Amelio lo tratteggia rispondendo alla domanda di un giovane nel pubblico. Oggi non ci sarebbe un processo alla Braibanti, ma la crudeltà si allarga ad altro.
Quella di Braibanti è una storia che diventa esemplare, mette a nudo la violenza che viene dalle leggi, dal costume, da tutto quello che imprigiona la libertà mentale di un individuo. E’ questo il punto principale del racconto. L’affermazione della propria libertà di essere e di non essere annientato. Aldo insomma aveva combattuto fin da giovane contro il fascismo per liberare da quelle convinzioni che sovrastano le possibilità di espressione dell’uomo riducendolo ad essere passivo. Oggi?
Non si manifestano con toni tanto clamorosi ma succedono cose altrettanto brutte.
Pasqua: le famiglie di tutta Italia sono pronte a rendere onore ad una delle festività religiose più importanti dell’anno. Pranzi in famiglia, uova di cioccolato e tanta voglia di condividere un momento di gioia. Ma dopo la Pasqua arriva la altrettanto attesa Pasquetta. Il lunedì dell’Angelo, conosciuto da tutti come Pasquetta, è il giorno che segue la domenica di Pasqua.
COME NASCE PAQUETTA
Il nome è legato ad un episodio evangelico. Il lunedì dell’Angelo ricorda il giorno in cui le donne giunte al sepolcro di Gesù incontrarono gli angeli intenti ad annunciare la resurrezione di Cristo. La festa, però, non ha un carattere puramente religioso. In Italia, Pasquetta viene considerata una festività civile e fu introdotta nel Dopoguerra per allungare il periodo di riposo legato alla Santa Pasqua.
Il Lunedì in Albis o di Pasquetta è il giorno della gita fuoriporta, della scampagnata sia che si viva in città sia al mare che in montagna.
Cosa si fa a Pasquetta?
“Pasqua con i tuoi, Pasquetta con chi vuoi”. Questo famoso detto italiano suggerisce come tradizionalmente viene festeggiata la Pasquetta in Italia. Se Pasqua è una festa sacra, da passare in famiglia o con i propri cari, il lunedì dell’Angelo è solitamente dedicato agli amici e alle gite fuori porta. Ogni anno, milioni di ragazzi e famiglie si danno appuntamento per andare in montagna, in campagna o al mare per fare picnic all’aria aperta. Oltre ad essere un’occasione per stare insieme, è il modo migliore per godersi le prime giornate primaverili, lontano dal caos. Molte città d’Italia sono ricche di parchi pubblici e aree verdi dove poter trascorrere la Pasquetta in compagnia. Tra le usanze di questa giornata vi è la grigliata, un pranzo a base di carne cotta su barbecue o su brace. Tra i cibi, non manca mai la torta pasqualina, tipica torta salata del periodo di Pasqua, perfetta per accompagnare la carne. Ogni regione ha i propri piatti pasquali della tradizione. Per esempio, in Campania abbiamo il famoso “casatiello napoletano”, squisito rustico ripieno di salumi e formaggi. Di solito, gli avanzi della domenica di Pasqua vengono condivisi con gli amici il giorno successivo. Insomma, la Pasquetta è una grande occasione per condividere momenti di gioia con i propri amici e scacciare i pensieri negativi. Ci sono alcuni ingredienti importanti che non devono assolutamente mancare: amici o familiari, divertimento, relax, cibo e vino!
L’Uovo di Cioccolato, protagonista anche della Pasquetta nasce a Torino
La tradizione pasquale più amata dai bambini, ma anche dagli adulti, sono le uova di cioccolato pasquali. Si tratta di una storia antica che passa attraverso la simbologia della vita e l’amore per il lusso. Una delle tradizioni della Pasqua più gradita ai bambini è quella delle uova di cioccolato: fondenti o al latte, sono attese anche per le sorprese che contengono! L’usanza di scambiarsi uova di gallina come regalo risale all’epoca pagana: si celebrava così l’arrivo della primavera, con il ritorno alla natura rigogliosa e il miglioramento del clima. Con il Cristianesimo, l’uovo, sinonimo di vita, diventò simbolo della resurrezione di Cristo e della Pasqua. Nel Medioevo si usava regalare uova sode decorate. Poi si diffuse l’abitudine di ricreare le uova in porcellana e di abbellirle con pietre preziose, oro e argento per donarle alle famiglie nobili. Si dice che fu Luigi XIV a far realizzare le prime uova di cioccolato, ai primi del ‘700: fu lui, del resto, a concedere a David Chaillou, il primo chocolatier francese, il diritto esclusivo di vendere cioccolato a Parigi. Nel 1819 Francois Louis Cailler fondò il primo stabilimento svizzero per la produzione di cioccolato: un particolare macchinario trasformava il cacao in pasta manipolabile. La prima produzione industriale avvenne grazie a John Cadbury, nel 1875. Il massimo della raffinatezza fu raggiunto nel 1887: Peter Carl Fabergè, orafo alla corte russa dei Romanov, ideò le celebri uova con smalti, platino e pietre preziose contenenti un gioiello. Quando arrivò in Italia? Nel 1725 la vedova Giambone, titolare di una bottega nell’attuale via Roma in Turin, ebbe l’idea di riempire i gusci vuoti delle uova di gallina con della cioccolata. Negli anni venti, a Torino nasceva l’uovo di Pasqua italiano, quando la Casa Sartorio di Torino brevettò un sistema per modellare con il cioccolato le forme vuote. La sorpresa venne aggiunta nel 1925 e nel 1927 le uova di Pasqua di cioccolato a Torino divennero famose, e da allora il loro successo non si è più fermato, fino al boom del Secondo Dopoguerra.
E a Piacenza?
A PIACENZA SI PREPARA AL LATT IN PE’ PER FESTEGGIARE L’INVERNO ORMAI FINITO
Al latt in pe’ o latte in piedi è, in un certo senso, un antenato del nostro creme caramel. Veniva preparato per Pasqua e per il Corpus Domini, cioè nelle feste di primavera, quando in campagna c’è abbondanza di uova. In queste occasioni il dolce veniva regalato dai contadini al proprio padrone. Il latte in piedi si trova un po’ in tutta l’Emilia, ma in particolare nella zona di Piacenza dove viene realizzato senza il caramello (tipico del crème caramel), bensì con cacao in polvere e amaretti. La difficoltà per fare questo dolce è media. La soddisfazione? Massima.
Ingredienti 1 l di latte bollito, 100 g di amaretti, 12 uova (otto tuorli e quattro albumi), 14 cucchiai di zucchero, limone grattugiato, 100 g di cioccolato in polvere, quattro fogli di colla di pesce.
Preparazione Per prima cosa bisogna sbattere bene le uova con lo zucchero. Tritare gli amaretti e unirli alle uova. A questo punto aggiungere il cioccolato in polvere, il limone ed i 4 fogli di colla di pesce, diluiti in un po’ di latte caldo e, per ultimo, i 4 albumi d’uovo montato a neve. Prendere lo zucchero e metterlo in uno stampo di rame (o di un altro materiale) sopra il fuoco, in modo che lo zucchero si sciolga e copra bene lo stampo, caramellandolo. Per mezzo di un colino scolare nello stampo tutto il preparato e cuocere a bagnomaria per circa 1 ora e un quarto. Fare particolare attenzione a che, durante la cottura, non entri dell’acqua, altrimenti il dolce sarà rovinato. Alla fine lasciar raffreddare nella sua acqua e poi metterlo in un luogo fresco. Il dolce va servito in un piatto rotondo e fondo e consumato un giorno o due dopo averlo preparato.
Con l’inizio di aprile 2022 parte la raccolta firme per le proposte di leggi regionali di iniziativa popolare, a tutela dell’ambiente, promosse dalla Rete per l’Emergenza Climatica e Ambientale Emilia-Romagna e Legambiente Emilia-Romagna: anche a Piacenza saranno organizzati i banchetti per la raccolta firme i giorni mercoledì e sabato in via XX settembre. Le due realtà ambientaliste si sono date l’obiettivo di raccogliere nei prossimi 6 mesi più delle 5000 firme necessarie perché le leggi di iniziativa popolare approdino all’Assemblea legislativa regionale.
Quattro i temi su cui le due realtà si sono concentrate per elaborare le loro proposte di legge, che si rifanno ad ambiti di intervento fondamentali per la transizione ecologica che il nostro Paese deve affrontare:
“Acqua e rifiuti” in primis, con l’obiettivo di avvicinare i cittadini alle scelte che riguardano il servizio idrico e quello dei rifiuti e proporne la ripubblicizzazione;
l’energia, nell’intento di spingere con forza la produzione da fonti rinnovabili e costruire un modello di distribuzione accessibile e democratico;
i rifiuti, al fine di ridurne la loro produzione, aumentare la quota destinata al riciclo e, allo stesso tempo, uscire dall’incenerimento;
il consumo di suolo, per favorire la riqualificazione e la rigenerazione urbana e contribuire ad arrestarlo attraverso queste pratiche.
Sarà possibile firmare presso i banchetti a Piacenza:
6, 13 e 20 aprile, in via XX Settembre/angolo piazzetta San Francesco
il 23 aprile in via XX Settembre/angolo via Chiapponi.
I contenuti di tutte e quattro le leggi sono liberamente consultabili presso il sito dedicato (a cui è possibile accedere cliccando qui), a cui è possibile accedere anche scansionando il codice QR presente sui volantini e sui manifesti. È inoltre possibile vedere gli incontri online di spiegazione delle due proposte di legge a questo link.
LE NOSTRE RAGIONI
Le ragioni che ci hanno spinto a quest’iniziativa sono sostanzialmente due: la prima è relativa ai contenuti avanzati nelle proposte, che segnano una svolta importante sulle questioni individuate. Esse rappresentano altrettanti punti fondamentali per affrontare la transizione ecologica, la difesa dei beni comuni, il contrasto al cambiamento climatico e alla devastazione ambientale, la tutela della salute dei cittadini, la promozione del lavoro di qualità, e reclamano un cambiamento di fondo del modello sociale e produttivo che è dominante anche nella nostra regione. La seconda è che le scelte che sta compiendo anche l’Amministrazione regionale sui temi suddetti vanno in un’altra direzione rispetto a quanto da noi indicato e vanno quindi modificate. Nonostante i propositi contenuti nel Patto per il lavoro e il clima definito alla fine del 2020, infatti, le politiche regionali sono orientate da una logica per cui l’importante è che ci sia una forte crescita quantitativa del PIL, senza verificare cosa ciò comporti per il benessere dei cittadini e per la salvaguardia delle risorse naturali ed ambientali. Si continua a pensare allo sviluppo fondato sulle grandi opere, a partire da quelle autostradali, riproponendo un modello di mobilità basato sui veicoli privati e ignorando ciò che questa scelta comporta in termini di consumo di suolo. Infine, si prosegue con le privatizzazioni di servizi pubblici, come quello idrico e della gestione dei rifiuti, che garantiscono la gestione di beni comuni fondamentali e si ripropone un’idea di produzione e distribuzione centralizzata e verticistica dell’energia, che ha come conseguenza quella di privilegiare le fonti fossili rispetto a quelle rinnovabili. Per l’insieme di queste ragioni, le nostre 4 proposte di legge intendono proporre una discussione a tutta la società e la politica regionale affinché si arrivi ad un reale cambio di passo: la crisi ecologica, economica e sociale è ormai da tempo sotto gli occhi di tutti. Abbiamo scelto uno strumento, quello delle proposte di legge di iniziativa popolare, che parte dal coinvolgimento delle persone e che costituisce un esercizio importante di democrazia: solo attraverso la partecipazione dei cittadini si possono invertire le tendenze in corso e produrre scelte positive per la società regionale.