“Sono arrivata da 2 giorni al centro di accoglienza di Lampedusa”. Appunti della dottoressa Carolina Casini

“Sono arrivata da 2 gg al centro di accoglienza di Lampedusa.
Mi bussano di notte, “Dottoressa, un ragazzo sta male”.
Lo accompagnano in ambulatorio, è rigido, sudato e lamenta dolore addominale. Ha 17 anni.
Gli faccio una ecografia e lo tranquillizzo.
La notte seguente i suoi compagni lo accompagnano di nuovo in medicheria: presenta questa volta delle scosse diffuse, gli occhi sbarrati. Sembra una crisi epilettica. Ma le scosse sono lontane tra loro. È freddo.
Gli somministro un sedativo e le scosse si fermano.
Quella notte la passo in bianco a chiedermi cosa avrà e cosa non ho capito.
La mattina seguente chiedo di lui, e vado a trovarlo nel dormitorio.
È a pancia in sotto, non si muove, gli amici lo massaggiano per spronarlo.
Mi dicono che non si vuole muovere; lo faccio accompagnare in ambulatorio, lo visito, è un ragazzo nel fiore degli anni, magro, non ha segni fisici che mi preoccupano se non alcune cicatrici sulla schiena.
È un po’ disidratato perché non mangia e non beve dal giorno precedente.
Parla un ottimo inglese. In Ghana ha frequentato una buona scuola.
Mentre gli posiziono una cannula per iniziare a reidratarlo, inizio a fargli qualche domanda.
Lui fissa il vuoto. Parla pochissimo.
L’ anamnesi medica è muta.
Rimane tutta la mattina con noi in ambulatorio, poi viene riaccompagnato dagli amici a spalla perché dice di non riuscire a camminare.
Per altri due giorni rifiuta di alzarsi. Piange. Non dorme. Gli amici sono preoccupati.
Io vado spesso da lui.
Gli porto una maglietta pulita e gli dico, ti aspetto in ambulatorio, voglio che vieni da solo, so che ci riuscirai perché sei un ragazzo forte e ho fiducia in te.
Nel pomeriggio lo vedo arrivare. Si è fatto la doccia e cambiato la maglietta.
Accenna ad un sorriso.
“Ti va di parlare un po’?” gli dico.
E lui entra, camminando piano.
Io credo che abbia bisogno di raccontare.
“Mi chiamo A., ho 17 anni, vengo dal Ghana.
Ho salutato i miei fratelli e mia madre mentre ancora dormivano.
Per me avevano pagato questo viaggio raccogliendo soldi per anni.
Ho viaggiato per 10 settimane in un camion e ho raggiunto la Libia.
Era una specie di prigione.
Ci picchiavano e frustavano e ad alcuni davano scariche di corrente elettrica o gli spegnevano addosso le sigarette. Mangiavamo e bevevamo pochissimo, non tutti i giorni.
Qualcuno moriva e lo portavano via.
Io ho desiderato morire tante volte.
Una mattina ci hanno fatto salire su un altro camion e portato in una campagna dove siamo stati quasi un mese. Là non mi hanno picchiato ma mangiavamo pochissimo e dormivamo a terra. Da lì con un camion abbiamo attraversato il deserto, non so quanto tempo sia passato, ci tenevamo stretti, ogni tanto svenivo, ricordo i miei amici che mi portavano alla bocca acqua e riso..
In una fredda notte siamo arrivati alla costa.
Molti di noi non avevano mai visto il mare.
Ci hanno fatto salire su un gommone.
L’acqua era nera, il mare era mosso, io avevo paura.
Eravamo tantissimi, forse 200.
Eravamo stretti, le donne e i bambini urlavano, qualcuno pregava, molti si facevano la pipi’ addosso dalla paura.
Dopo due ore il motore si è fermato. Era finito il carburante.
Il mare era mosso, il gommone ha iniziato ad imbarcare acqua.
Siamo stati così, in quella notte che mai dimenticherò, per alcune ore; avevo freddo, eravamo sommersi fino alle gambe.
Ad un tratto una barca a motore e poi un’altra ci hanno raggiunto. Quei fari da lontano erano la salvezza.
Ci urlavano di non muoverci.
Giravano attorno al gommone.
Un uomo che era vicino a me e avevo conosciuto nei giorni prima di imbarcarci si è alzato e ha provato a camminare per raggiungere la barca che ci aveva soccorso, ma è andato giù in acqua.
Annaspava, beveva.
Gli uomini del salvataggio si sono tuffati, gli hanno lanciato salvagente ma lui era andato giù. Era ancora buio. Io mi ricordo le sue urla.
Gli altri si spingevano.
Volevamo essere salvati tutti.
Ci hanno lanciato i giubbotti salvagente. Piano piano ci hanno fatto salire sul gommone che ci ha portato ad una nave. Lì c’erano angeli come voi che ci hanno fatto scaldare curato dato vestiti e acqua e cibo caldo.
Il viaggio è durato alcuni giorni e poi siamo arrivati qua.
Mi manca mia madre e i miei fratelli. Io non sono morto ma ho sempre paura di morire. “
Lo incoraggio e lo rassicuro, a stento trattengo le lacrime che poi versero’ tutte più tardi.
Nei giorni seguenti questo ragazzo viene sempre in ambulatorio.
Parliamo molto , io gli dico che ce la ha fatta, che è stato forte e coraggioso, che la sua mamma è fiera di lui.
Fa la fila e quando viene in ambulatorio mi dice
” Ehi Mamma, hai visto che oggi non ho più male alle gambe?”
” Mamma, mi sono fatto tagliare i capelli”
“Sono riuscito a parlare con la mia famiglia! “
Io gli racconto dei miei figli che hanno la sua età. Facciamo delle videochiamate con loro e lui gli dice :“Grazie per averci mandato la vostra mamma!
Mi racconta che da grande vuole fare il dottore.” Come te”, mi dice.
Sono fiera di lui.
Una mattina, il giorno prima della mia partenza, lo vedo seduto in fila con gli altri 200 che stanno per lasciare il centro. Ha le sue buste di plastica in mano, è felice. Mi avvicino e mi dice:
” Io non ti dimenticherò mai, tu sei la mia mamma da questa parte di mondo. “
Ho scritto questa storia che avevo appuntato su un taccuino, io lo racconterò, mi ero detta. E poi non ho avuto mai il tempo.
Oggi ho riaperto quel taccuino e mi sono rivista là, seduta ad ascoltare quel ragazzo. Sono tornate tutte le emozioni.
Anche io non lo dimenticherò mai”.

Dottoressa Carolina Casini

“Gli ultimi” di Cristiano Guitarrini – olio su tela

Pubblicato da arzyncampo

14 febbraio 1954, bassa pianura emiliana, Fiorenzuola d'Arda, quell'era le debut. Oggi vivo e lavoro a Piacenza. Giornalista pubblicista, il destino ha voluto mi impegnassi in tuttaltro campo, al servizio dei cittadini nella sanità pubblica. Tuttavia scrivere, per me, é vitale, divertente, essenziale, un mezzo per esprimere la mia presenza nel mondo e dir la mia. Così dal giornalismo sono passato, per passione e non per lavoro, alla poesia, alla narrativa, ai resoconti, agli appunti ovunque e su tutto, fino alla scoperta del blog. Basta scrivere, appunto, per dire di aver qualcosa da dire alla gente di questo nostro mondo. Fin quando avrò una penna, ci sarò.

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